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16/02/09

Ancora su Eluana -"Vivere e Morire secondo il Vangelo", un articolo di Enzo Bianchi.


Cari amici, vi trascrivo integralmente l'articolo comparso ieri su La Stampa Vivere e morire secondo il Vangelo, scritto da ENZO BIANCHI

C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohelet, così come «c'è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana - prima ancora che biblica - è parsa dimenticata. Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v'era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l'ora in cui fosse forse possibile - ma non è certo - dire una parola udibile. Attorno all'agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all'umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana.

Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... - senza pensarea Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna neppure io ti condanno: va' e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urlaminacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!»al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristianorecitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con unostile da manifestazione politica o sindacale? Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell'agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un'etica superiore, l'etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile.

L'abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore. È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.

Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall'altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l'ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.

Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L'Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto- tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi - di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurarelo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine.

Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all'altro, a una cultura o a un'altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell'amore: amore per chi resta e accettazione dell'amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso.

Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmentecome candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia»,lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi èsempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, allestrutture e ai macchinari... Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né puòconquistarla con la forza.

Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...». Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell'incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell'eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis,il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell'attesa dell'incontro con colui che hanno tanto cercato...

In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni PaoloII: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto esaputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l'estremo atto di obbedienza nell'amore al loro Signore. Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche achi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull'ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.

La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale,essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza devemostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.

Allora, da una millenaria tradizionedi amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli ineditiinterrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano.

Così le riassumevala lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico diuccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significatuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza chegli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi nonsarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile?

In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e inqualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita». Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividonola loro fede, affinché la società ritrovi un'etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà.

05/02/09

Dov'è la Chiesa che scalda i cuori ?

Cari amici, oggi Beppe Severgnini sul Corriere della Sera scrive un articolo, nelle pagine interne, intitolato "Dov'è la Chiesa che scalda i cuori ? ". E' la meditazione semplice - non sovrastrutturata - che arriva da uno che si definisce "un cattolico incompetente", eppure mi sembra che rispecchi davvero uno sentire comune, che sento molto diffuso in questo periodo da parte di molti cattolici praticanti. La riporto qui di sotto integralmente come motivo di nostra riflessione, e discussione.


Il Papa non era al corrente delle dichiarazioni negazioniste del vescovo Williamson, al momento della remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani? E non aveva pensato che la decisione coincidesse col 50° anniversario dell'annuncio del Concilio Vaticano II?

Ci crediamo. Ma possiamo dire - da osservatori distanti, da cattolici incompetenti - che ciò appare stupefacente? Una svista così possiamo aspettarcela da un governo, per sua natura provvisorio; non dal Vaticano, per definizione definitivo, cauto e informato.

Possiamo aggiungere - con rispetto - una preoccupazione? Questa lezione di teologia continua non rischia di spegnere quello che il sorriso di Giovanni XXIII aveva acceso? I princìpi sono importanti; ma gli uomini, in tempi come questi, hanno bisogno di comprensione e rassicurazione. Qualcuno direbbe: hanno bisogno di amore.

Circondato dall'affetto sospetto degli atei devoti e dall'adulazione interessata degli incoerenti, il Vaticano da tempo istruisce, ammonisce, invita alla perfezione. Ma spesso sembra di vederlo dal lato sbagliato di un cannocchiale: una presenza distante, irraggiungibile. Gli imperfetti guardano, chiamano piano: ma nessuno risponde.

Papa Giovanni XXIII - i cui ritratti ingenui adornano ancora le case degli italiani - aveva capito che bisogna andare incontro agli uomini, non aspettarli. Alberto Melloni, sul "Corriere" del 3 febbraio, ha usato una frase illuminante: "Quella speranza che oggi tutti consegnano a Obama, allora guardò alla Chiesa di Roma (...). Il concilio non fu un'idea, un testo da manovrare ermeneuticamente, ma un evento nel quale la Chiesa ha cercato a mani nude, nelle macerie del Novecento, chiamate di obbedienza più esigenti di quella che era la comoda routine intransigente".

Credo che molte vocazioni, devozioni ed educazioni familiari abbiano le radici in quel periodo. Una voce nuova per un mondo nuovo. Nessuno chiede che la Chiesa sia progressista. Vogliamo molto di più: speriamo sia lungimirante.

I pontefici che hanno scaldato i cuori hanno svegliato i giovani. Papa Roncalli, magnifico bergamasco, non è rimasto solo. Lo ha seguito, nel suo brevissimo pontificato, Giovanni Paolo I, provocando stupore riconoscente. Lo ha rilanciato, lungamente e potentemente, Giovanni Paolo II, che pure non era morbido in materia di dottrina.

Potrebbe farlo - è tempo, è in tempo - Benedetto XVI.

Non è discutendo con i lefebvriani che si riconquistano i ragazzi italiani (e non solo). La Chiesa s'è guadagnata rispetto e attenzione discutendo con noi di sesso nelle ore di religione (grazie don Carlo), e giocandosela a pallone sulla terra degli oratori. Antonio Piloni, si chiamava il curato del Duomo, a Crema, negli anni Sessanta. Se alla domenica la cattedrale è piena, e don Emilio è contento, è anche per merito suo.

Non amo scrivere di questi argomenti: dichiararsi cattolico sui giornali è ormai una furbizia o una dichiarazione di guerra. Ma sento, dentro e fuori di me, un disagio crescente. E lo scrivo, consapevole che non servirà a niente.


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19/01/09

I Migranti che non vogliamo.


Mi capita spesso, quando affronto il tema della immigrazione nel nostro paese, anche con persone molto amiche, di avvertire una sorta di fastidio. E' un argomento che o non si vorrebbe affrontare, oppure di solito suscita delle reazioni molto risolute, di insofferenza, fastidio, condanna, nei confronti di coloro che sono venuti e vengono ad 'invadere' il nostro paese, a stravolgerlo - secondo loro - nelle sue usanze, abitudini, soprattutto nelle sue regole di mercato del lavoro. Vorrei allora sottoporre a tutti i lettori queste parole di Agostino Marchetto, appena rilasciate alle agenzie di stampa attraverso Radio Vaticana.
"C'e' un abbassamento nell'accoglienza, nella legislazione europea in materia; rinasce una xenofobia che e' il contrario del Vangelo". Per questo la Santa Sede auspica che gli Stati dell'Unione Europea vogliano "mantenere gli impegni internazionali assunti e onorarli senza abbassare i livelli di attuazione, riconoscendo cioe' una legislazione internazionale rodata, gia' pluridecennale, che va rispettata anche dalla legislazione nazionale".

Lo afferma l'arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del dicastero per la pastorale dei migranti, ai microfoni della Radio Vaticana. "Assistiamo - lamenta Marchetto - a un abbassamento generale dei livelli di protezione che ci dice tante cose tristi perche' significano calo di umanita', mancanza di umanesimo. E pur considerando la situazione particolare di Malta, bisognosa di essere sostenuta da tutti i Paesi dell'Unione Europea nell'accoglienza, e' avvilente che sia stata questa nazione molto cattolica, l'unica a opporsi a un orientamento comune europeo piu' favorevole ai rifugiati e ai richiedenti asilo o a coloro che sono accolti per motivi umanitari".

"Non invidio - spiega l'arcivescovo - i politici e i governanti. Hanno un compito ben difficile, quello della mediazione, ma nel rispetto dei diritti dell'uomo, anche dei migranti. Penso di non essere buonista perche' chi e' stato 20 anni in Africa e ha girato il mondo per 40 anni, ha acquisito un realismo necessario, ma non puo' mancare di ricordarsi dei principi della generosita' e dell'amore. Tanti che pur si dicono cattolici, non lo sono per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa che fa parte della morale cristiana come ci diceva Giovanni Paolo II. Si', la sollecitudine nei confronti del prossimo e' l'elemento orizzontale della Croce, che fa si' che essa sia quello che e' e rende vera la sua dimensione verticale. Si fa fatica a comprenderlo.

Lo capisco, la Croce non la si intende, la si accoglie, nel mistero pasquale nella sua totalita' '".

27/11/08

La conversione di Gramsci - un "caso" inutile.


Mi colpisce davvero questo presunto "caso" che ritorna a tratti nel dibattito italiano, sulla conversione in punto di morte di Antonio Gramsci, e mi sembra nient'altro che una pedissequa e triste conferma al fatto che questo paese ormai sembra capace solamente di guardare (e di guardarsi) indietro, e totalmente incapace di pensare al (il) futuro.

Adesso, dopo i "rumours" del 1977, le rivelazioni arrivano direttamente dalla chiesa Cattolica e da un vescovo, Luigi De Magistris, il quale ha pensato di rendere di dominio pubblico le confessioni di una suora sarda, Suor Pinna, che sarebbe stata la testimone dell'evento.

Ora, mi chiedo: ma che bisogno c'è di esternare le ragioni o le circostanze di una conversio in puncto mortis di un personaggio storico o pubblico ? A che serve ? A chi giova ?

Il cuore dell'uomo, come dovrebbe essere chiaro soprattutto ad ogni cattolico, è un mistero pressochè inaccessibile. E le circostanze, i desideri, le speranze ultime, la disperazione, la grazia che possono portare un uomo che per tutta la vita è rimasto lontano dalla fede, a implorare il nome di Gesù, resteranno per sempre impenetrabili.

Che ne sappiamo noi di cosa spinge un uomo a convertirsi ? Che ne sappiamo di quel che succede nel suo cuore, ogni giorno, figuriamoci quando vede la morte stagliarsi di fronte a sè ? Davvero serve a qualcuno - serve magari anche alla propagazione di una causa - lo svelare che un uomo politico padre in Italia di una ideologia, non fu insensibile al richiamo di Gesù Cristo ?

Non sarebbe meglio lasciare in pace i morti ? Lasciare che se la cavino da soli, che affrontino quella 'sacra conversazione' come vorranno e se vorranno ?

15/11/08

Benedetto XVI - Più spazio alle Donne nella Chiesa.


Benedetto XVI ha voluto ribadire oggi "quanto la Chiesa riconosca, apprezzi e valorizzi la partecipazione delle donne alla sua missione di servizio alla diffusione del Vangelo. "L'uomo e la donna - ha ricordato nel discorso al Pontificio Consiglio per i laici - uguali in dignita', sono chiamati ad arricchirsi vicendevolmente in comunione e collaborazione, non solo nel matrimonio e nella famiglia, ma anche nella societa' in tutte le sue dimensioni".

In particolare, ha aggiunto, "alle donne cristiane si richiedono consapevolezza e coraggio per affrontare compiti esigenti, per i quali tuttavia non manca loro il sostegno di una spiccata propensione alla santita', di una speciale acutezza nel discernimento delle correnti culturali del nostro tempo, e della particolare passione nella cura dell'umano che le caratterizza".

Il ruolo delle donne nella Chiesa e nella societa' era stato esaltato venti anni fa da Giovanni Paolo II con la lettera apostoolica "Mulieris dignitatem" che Papa Ratzinger ha citato oggi esortando i cardinali, vescovi e sacerdoti ma anche i responsabili delle associazioni e movimenti laicali presenti all'incontro in Vaticano a trarne spunto per la loro azione.

Tra le "questioni di speciale rilevanza" per le quali il Papa apprezza l'impegno del Pontificio consiglio per i laici c'e anche "quella della dignita' e partecipazione delle donne nella vita della Chiesa e della societa"'. E "mai si dira' abbastanza di quanto la Chiesa riconosca, apprezzi e valorizzi la partecipazione delle donne alla sua missione di servizio alla diffusione del Vangelo".

Benedetto XVI lo ha detto nell'udienza concessa ai partecipanti alla assemblea plenaria del Pontificio consiglio per i laici, guidati dal presidente, cardinale Stanislaw Rylko.

05/10/08

L'abiura di Roberta de Monticelli - L'addio a ogni collaborazione con la Chiesa cattolica - La risposta di Mons. Betori.

Mi colpisce molto la dura presa di posizione di Roberta De Monticelli - che reputo una delle migliori menti oggi al servizio della riflessione spirituale, in Italia - la quale ha abiurato, con una clamorosa lettera, pubblicata su Il Foglio, qualsiasi collaborazione con la Chiesa Cattolica, a causa delle posizioni espresse da Mons. Betori - segretario generale della CEI in uscita - sulla fine-vita e le volontà ultime del malato.
Penso che sia un'occasione di riflessione profonda, per tutti quelli che si riconoscono come cristiani - e anche per tutti gli altri - leggere questa lettera, e la risposta che ne ha dato lo stesso Mons. Betori il giorno successivo su 'Avvenire'.

Abiura di una cristiana laica

di Roberta de Monticelli *

Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo.

L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.

La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.

E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.

Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?

Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.

Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?

E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?

C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.

di Roberta de Monticelli

* IL FOGLIO, 02.10.2008


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RISPETTOSA OBIEZIONE ALLA PROFESSORESSA DE MONTICELLI

Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione

di GIUSEPPE BETORI (Avvenire, 03.10.2008)

Sul ’Foglio’ di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo « addio » « a molti cari amici - in quanto cattolici » , « un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica » .

Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, « addio » , percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ’ ad’ che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.

E in effetti visto che l’argomento del contendere è la ’ fine della vita’, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola ’autodeterminazione’, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.

E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole «non spetta alla persona decidere» si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.

Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come « la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale » . Insomma, sarei io - e la Chiesa con me - ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per « il principio di autodeterminazione » . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il « principio di autodeterminazione » : non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.

Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il « principio di autodeterminazione » non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive « ama e fa’ ciò che vuoi » , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.

Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto « principio di autodeterminazione » .

Bisogna cercare di essere « il più buoni possibile » nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul ’ fine vita’. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.

La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre - a volte in condizioni estreme - ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano - direi questo consentire - sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero « nichilismo » come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?

Spero che Roberta de Monticelli - e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita - non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non « per condannare il mondo, ma per salvare il mondo » (Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un ’arrivederci’
profilo di Roberta de Monticelli:

15/04/08

La Chiesa ha rinunciato alla sua anima mistica ?


Che fine hanno fatto i cristiani, in questo paese ?

Guardate questa immagine. Come faceva Bellini a dipingere in questo modo ? Cosa metteva nei suoi quadri per rendere le sue Madonne così sublimi ?

Da vero mistico, Giovanni Bellini sapeva - anche senza averlo studiato sui libri di Teologia - che Maria è l'Umanità e l'interprete della condizione umana.

Ogni volto di donna - in Bellini - si fa volto di Maria e nelle espressioni della nuova Eva ciascuno ritrova la madre, la propria origine umana dal concepimento, al destino finale.

Questo Bellini riusciva a rappresentare, forse anche perchè ai suoi tempi la Chiesa sapeva ancora farsi mistica, essere mistica.

Oggi è come se la Chiesa avesse rinunciato alla sua componente mistica - che è l'essenza.

E i Cristiani, quasi senza volerlo, sono diventati anche loro refrattari alla mistica, cioè alla vera anima del Cristianesimo.

Vanno in Chiesa, si genuflettono (in pochi), pregano stancamente, seguono stancamente la liturgia, ma nelle loro vite, una volta usciti da lì, cambia poco o niente.

Ed è chiaro che cambi poco o niente. Perchè se si partecipa ad un rito senza viverlo profondamente, intensamente, senza capirlo, senza esserne parte, nella propria vita cambia poco o niente.

E quand'è che sentiamo la nostra Chiesa parlare un linguaggio mistico ? Quand'è che sentiamo i nostri sacerdoti, i nostri vescovi, il nostro clero parlare un linguaggio veramente mistico ?

Eppure basterebbe guardare una immagine come questa, guardarla veramente, con attenzione, con emozione, con abbandono, per capire profondamente, che tutto potrebbe cambiare, veramente. E che tutto, ancora una volta e sempre, è solo nelle nostre mani.