30/11/23

"Little Fish" di Rowan Woods, un film che colpisce il cuore

Duro come una pietra, ma colmo di umanità. Vincitore dei più importanti premi nel suo paese, il film di Woods affonda nel dramma di una famiglia imprigionata nel suo passato: la madre, Janelle, ne è l'origine - i suoi sbagli, le sue debolezze.
Abbandonata dal suo uomo, si è legata per un periodo ad un ex stella del rugby (in Australia sport nazionale), Lionel Dawson, precipitato nell'abisso dell'eroina a fine carriera.
Il patrigno, prima di essere buttato fuori di casa, ha trasmesso il suo virus di dipendenza ai due figli di Janelle: Ray (Martin Henderson) e Tracy (Cate Blanchett).
Il film ha inizio quando Ray e Tracy sono venuti fuori dall'incubo, si sono da tempo disintossicati, mentre Lionel è ancora in fondo al tunnel, vicino all'autodistruzione.
E' Tracy a prendersi cura di lui: tra i due c'è un rapporto di bene, di soccorso e riconoscimento reciproco.
Ma è dura: Lionel infatti si è messo nelle mani di un losco trafficante, Brad Thompson (Sam Neill) e del suo violento scherano.
La lotta per l'emersione a una vita accettabile è vissuta dalla parte di Tracy che vorrebbe davvero rinascere, ma trova ostacoli ovunque, porte chiuse ovunque, anche - come è sempre stato - dai membri stessi della sua famiglia.
Il dramma vive attraverso la sua sensibile interpretazione, attraverso i suoi occhi liquidi, che tutto sembrano attraversare, accettare, rifiutare. La fatica di vivere per arrivare a sentirsi degni di essere umani.
Rowan Woods ambienta il film nella periferia anonima - ad alto tasso di asiatici - di Sidney, dove Tracy lavora in un negozio di noleggio e vendita di videogames, filmato con una fotografia "sporca", ambienti scarni, ordinari, depressivi e una città fuori che nemmeno si vede, veramente.
La catarsi di Tracy verrà seguita passo dopo passo: ogni personaggio ha una sua verità realistica, il regno della famiglia non è mai stato così permeabile, così indifeso e fragile.

Un film che merita di essere visto e al quale si pensa a lungo. 


Fabrizio Falconi - 2023 

27/11/23

Venerdì 15 dicembre: Ecco il Terzo Incontro alla Libreria Eli delle Passeggiate Letterarie a Roma di Fabrizio Falconi

Occhio alla data, il 15 dicembre parliamo e mostriamo i luoghi di Roma Imperiale, da Diocleziano e Costantino fino alla dissoluzione dell'Impero d'Occidente - Roma passerà in pochi decenni da un milione e mezzo di abitanti a 40.000 anime.

Una cavalcata "letteraria" piena di immagini splendide per abbracciare il senso della nostra (grande) storia antica.



21/11/23

Violenza di Genere: "Una donna promettente" (Promising Young Woman) - Un film che tutti gli uomini (maschi) dovrebbero vedere


Visto ieri sera, "Promising Young Woman" ("Una donna promettente", in italiano), è un film tosto e femminista, che è soprattutto un prodigio di sceneggiatura (ha vinto infatti nel 2021 tutti i premi per questa categoria, dall'Oscar al Bafta): una specie di bomba a orologeria, che impedisce di interrompere la visione del film finché non l'hai finito.
Opera della geniale Emerald Fennell, 38 anni, attrice, sceneggiatrice e regista britannica considerata una dei più notevoli talenti emergenti sulla scena internazionale.
La Fennel, che firma anche la regia - misurata sui toni della farsa/commedia che degenerano presto in dramma - con colori pastello e spesso inquadrature "sporche", imbastisce una vera e propria lezione antropologica sulla "vendetta".
Carey Mulligan (bravissima, come sempre, soltanto un po' fuori ruolo perché più grande di età del ruolo che le è assegnato) è Cassandra - detta Cassie - Thomas, che a 30 anni vive ancora i genitori e nonostante un passato brillante come studentessa di medicina, ha abbandonato gli studi e si è reclusa a fare la cameriera in una banale caffetteria.
La ex- "giovane donna promettente" - scopriamo, si dedica però di notte, fingendosi ubriaca nelle discoteche, alla umiliazione di maschi frustrati (scelti in modo apparentemente casuale) che sperano di approfittare di lei e della sua condizione di alcolista, per stuprarla.
Ben presto si scoprirà che c'è del metodo (eccome!) in questa follia e anche delle pesantissime motivazioni.
Nulla, nello svolgimento del film resta senza motivo e nulla va fuori posto, perché la Fennell ha le idee molto chiare e non è disposta a fare sconti in nome del box office o del politically correct, con una scena, verso la fine, costituita da un piano sequenza unico in lentissimo zoom, che da sola vale il prezzo del biglietto, e costringe lo spettatore ad assistere alla catastrofe morale che segue la frustrazione e l'incapacità di sentire in modo "umano".
Le produttrici del film sono la stessa Carey Mulligan e Margot Robbie alla quale la Fennell aveva inviato la sceneggiatura, nella speranza di poter essere sostenuta, per realizzarla.
Ne è venuto fuori un film tutto al femminile che vale più dei fiumi di inchiostro di ponderosi saggi e delle centinaia di inutili talk show sullo (scabroso) tema della violenza maschile.


Fabrizio Falconi - 2023

14/11/23

"Belfast": il film perfetto di Kenneth Branagh


Con "Belfast"[2021], Kenneth Branagh ha realizzato il suo film perfetto.

Tornando alle radici della sua infanzia, Branagh - che ha scritto, da solo, la sceneggiatura - canta il dolore di una terra martoriata, la terra nella quale è nato e cresciuto (Belfast, l'Irlanda del Nord) e che, insieme alla sua famiglia, protestante, è stato costretto ad abbandonare.
Pur di culto protestante, infatti, i genitori e i nonni paterni del piccolo Buddy (la sua famiglia, insieme a un fratello di poco più grande), sono del tutto moderati, convivono e vorrebbero continuare a convivere normalmente con le altre famiglie cattoliche del quartiere, non nutrono verso di esse alcuna animosità, e anzi non capiscono nulla dell'odio feroce che altri manifestano, e che richiederebbero anche a loro di dimostrare.
Il padre di Buddy, per lo più, lavora come operaio in Inghilterra. La madre è quasi sempre sola con i due figli, e con gli anziani suoceri.
Tutto qui. Non è nemmeno un vero Bildungsroman, "Belfast", perché l'azione raccontata si svolge in pochi mesi, dall'agosto al natale 1969, il termine entro il quale, mentre la violenza monta ogni giorno, la famiglia deve prendere una decisione: partire o restare.
Il film è pura poesia ma è anche racconto crudo. I caratteri sono appena accennati, quello che basta, quello che serve a capire tutto. La prospettiva della storia è interamente vista dagli occhi del decenne Buddy (un piccolo attore veramente straordinario, di talento recitativo superbo, Jude Hill), che impersona il bambino che fu Branagh, sulla scia di personaggi simili, protagonisti di film che ricordano questo, "La mia vita a quattro zampe" di Lasse Hallstrom, "Kolya", di Zdenek Zverak, "Papà è in viaggio d'affari", il capolavoro con cui Kusturica vinse la Palma d'Oro a Cannes nel 1985.
Il bambino Buddy è anche qui, come i suoi predecessori, davanti all'incomprensibile. Deve, come dice Mallarmé, "abdicare alla sua estasi", per qualcosa che è più grande di lui e che sfuggendo alla logica (anche di adulti come i suoi genitori), rischia di travolgerlo.
Buddy è chiamato a elaborare in fretta un doloroso, lacerante distacco, da un mondo che ama e che non ha alcuna voglia di abbandonare.
Il grande "pregio" di "Belfast" è di dire questo con disarmante semplicità e perfetto equilibrio, senza nessuna concessione, compiacimento, giro in tondo, eccessive lungaggini.
In poco meno di 2 stringate ore, si racconta tutto quel che si deve, accompagnati dalla voce del grande cantore di quella terra, Van Morrison e dal magnifico bianco e nero di Harris Zambarloukos, che restituisce la luce e le ombre della città, circondata dal mare gelido, col suo pulsante cuore industriale.
"Belfast" è il prodigio di un racconto e al tempo stesso, il compendio delle emozioni percepite da un cuore umano messo alla prova dell'abbandono.
Completano il cast Jamie Dornan, Ciaràn Hinds, Caìtriona Balfe (che per questo film ha vinto molti premi), tutti attori di reali origini nordirlandesi, e Judi Dench, per la quale è difficile trovare ormai aggettivi, una gigantesca attrice capace di recitare anche soltanto muovendo impercettibilmente un labbro o lasciando che il velo della malinconia cali con estrema dolcezza sui suoi occhi di vecchia.

Fabrizio Falconi - 2023

11/11/23

La questione ebraica: da cosa dipende il loro eccezionale talento (causa di discriminazione e odio razziale)? Martin Amis, Saul Bellow e Einstein


Martin Amis, nel suo meraviglioso La storia da dentro, che è anche in diversi aspetti, il suo testamento spirituale, riferisce in una nota nel capitolo su Saul Bellow che la percentuale di ebrei che ha vinto il Premio Nobel da quando è stato istituito, nel 1902 è più del 22%. Cioè più del 22% dei vincitori di un Nobel sono ebrei. Questo, se raffrontato alla percentuale della popolazione ebrea su scala mondiale - che dice lui è del 2% - è molto eloquente (e sorprendente).

Di questo chiede ragione a Bellow. Ma è un errore o una svista piuttosto grave e mi sorprende che Amis o uno dei suoi editors, inglesi o italiani, non se ne siano accorti: perché la percentuale della popolazione ebrea su quella mondiale non è del 2%, ma del 2 x 1000 (ovvero lo 0,2%, ovvero 14 milioni su circa 7 miliardi), il che rende il dato ancora più sorprendente.
Comunque, errore a parte, Bellow commenta questo dato citando Einstein, che nel 1938 rispose che questo fatto "non andava spiegato con il fatto che queste doti siano innate, perché così c'è il pericolo di cadere nell'antisemitismo."
E si capisce piuttosto bene perché Einstein, nel 1938, dica questo.
Einstein - e Bellow che lo riferisce - avanzano invece l'ipotesi che questa eccellenza dipenda dal fatto che "tutti i bambini ebrei sanno che per ottenere il plauso degli adulti, devono applicarsi, applicarsi nell'apprendimento e negli studi."
Questa cosa mi ha dato molto da pensare. Del resto questa eccellenza è stata ed è indubbiamente una delle cause scatenanti di un certo orrendo antisemitismo. Ma l'abitudine, la frequentazione, la familiarità con l'apprendimento e la conoscenza; e il desiderio del plauso dei propri genitori non è e non dovrebbe essere una esclusiva o una prerogativa degli ebrei. Insomma, da sola, mi pare che non basti a spiegare. La curiosità di studiare e capire il mondo dovrebbe riguardare tutti, sempre. E farebbe un gran bene a tutti e al mondo stesso.

Fabrizio Falconi - 2023

02/11/23

"Il Regno" di Emmanuel Carrère, l'investigazione (teologica) come forma d'arte


Con un po' di anni di ritardo, dalla sua uscita, ho letto Il Regno, di Emmanuel Carrère, che al pari degli altri suoi libri ebbe una diffusa eco alla sua pubblicazione e traduzione in Italia.

E' un libro importante e confermo che - come forse altri lettori - sono stato messo fuori strada all'inizio dalle recensioni italiane uscite all'epoca (2014), che ne sottolineavano un carattere da "pamphlet", sostanzialmente anticristiano.
Il Regno non è così: è un testo molto serio, documentato, impegnativo (più di 400 pagine), dal quale - anche per chi è cristiano o si professa tale - si imparano moltissime cose.
La seconda cosa che non è vera, è che il protagonista del libro sia Paolo di Tarso. Non è così. Il vero protagonista è Luca, il giovane medico macedone, che fu discepolo di Paolo e che è l'autore del Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, quella "miscellanea" di eventi del dopo-morte di Gesù che racconta i primissimi anni del cristianesimo e che si ferma prima dell'Apocalisse di Giovanni.
In Luca, Carrère, palesemente finisce anche per identificarsi, in questa investigazione a tutto tondo: genere nel quale Carrère non conosce rivali. Luca arriva a scrivere il suo Vangelo, basandosi su quello - precedente - di Marco, ma - secondo Carrère - "romanzando" là dove lui stesso è in grado di riferire cose nuove, che Marco non sapeva o non ha scritto. La stessa "accusa" potrebbe essere rivolta a Carrère, il quale pur documentatissimo, deve fermarsi di fronte alle enormi lacune - e incoerenze, vuoti, piccoli e grandi misteri - di cui il racconto della Vita di Gesù è pieno. E Carrère, travestendosi da Luca, ed essendo (anche) un romanziere, riempie, ipotizza, aggiunge, interpreta, ma con grande sincerità intellettuale. E sempre con un alto grado di plausibilità e di "coerenza" di racconto.
Ne viene fuori il ritratto di Paolo, di cui Luca fu il più vicino collaboratore per molti anni: cittadino romano, prima persecutore poi convertito, uomo severo e ostinato, instancabile e appassionato. Le Lettere di Paolo sono come si sa, i documenti scritti, temporalmente più vicini alla vita di Gesù, risalendo ad appena 15-20 anni dopo la sua morte.
E lo si segue - mediante Luca - lungo i suoi avventurosi viaggi attraverso il Mediterraneo, e poi fino a Roma dove a Paolo - essendo cittadino romano - viene risparmiato il supplizio della croce (riservato ai senza patria cristiani), e comminata la "pietosa" decapitazione eseguita alle Tre Fontane (ad aquas salvias) .
Dopo la morte di Paolo, Il Regno si occupa a lungo delle vicende di Luca e della scrittura del suo Vangelo, l'unico tra i sinottici a gettare luce sulla nascita e infanzia del Maestro.
Carrère, essendo Carrère, intreccia come sempre questo dotto e avventuroso racconto - in cui si incontrano anche molti studiosi moderni del cristianesimo tra cui il grande Paul Veyne - con le sue vicende personali: la sua conversione al cristianesimo, avvenuta parecchi anni prima, e durata solo 3 anni, al termine della quale lo scrittore è tornato convintamente a essere un agnostico (e praticante di discipline orientali come lo Yoga).
E pur scritto da un agnostico, Il Regno si rivela come uno dei migliori, e più acuti, libri scritti negli ultimi anni sul cristianesimo, dal punto di vista storico, come e da quello filosofico. Carrère, pur non potendo oggi dichiararsi cristiano, ha capito meglio di molti altri lo spirito "autentico" del cristianesimo, quello delle origini, quello di Gesù e quello dei discepoli e degli apostoli, e ne ha un profondissimo rispetto.
Il suo punto debole, in un libro quasi impeccabile come questo, è forse credere, come fanno molti, che una storia "inventata a tavolino" (anche se questo non è quello che pensa Carrère) e messa in buona forma da volenterosi "segretari" come Luca (segretario di Paolo) e Marco (segretario di Pietro), possa aver rapidamente conquistato il mondo, e l'intero occidente per duemila anni (l'istituzione della chiesa cattolica cristiana è, come è noto, l'istituzione umana più antica, esistente).
Carrère sa, e lo scrive: che questo racconto pieno di buchi, incongruenze, cose inverosimili, miracoli, contraddizioni, questo racconto che ha per protagonisti un gruppo di analfabeti, umili pescatori e scappati di casa, e un presunto dio ammazzato come un capretto su una croce, delirante e pazzo nelle sue affermazioni contro ogni senso comune; questo racconto aveva ogni probabilità di essere cancellato dalla storia in qualche giorno o settimana, dopo la morte del Profeta, così come era successo a centinaia di altri racconti simili, inghiottiti dall'oblio.
Il vero mistero è, invece, come sia stato possibile che questa collezione di assurdità (Creo quia absurdum, scriveva Tertulliano), di "favola per donne, raccontata da donne" [specie la Resurrezione] quindi quanto di più inattendibile al mondo potesse esistere, di epopea degli ultimi, abbia potuto non soltanto diffondersi in pochissimo tempo capillarmente in ogni angolo di un immenso impero, ma addirittura nel giro di "appena" un paio di centinaia di anni, diventare creduta da milioni di persone, e così per duemila anni e fino ad oggi.
In questo senso Carrère, pensando "pro domo sua" attribuisce troppa importanza agli evangelisti, a quelli cioè che "scrissero" il Vangelo, immaginandoli come fossero scrittori di oggi, con gli stessi loro tic e metodi:
sembra una visione ingenua. Gli studiosi del cristianesimo sanno che i quattro Vangeli furono "messi per iscritto" per motivi pratici molto concreti che sono sostanzialmente due: 1. quando si capì che la fine del mondo non era imminente, come sembravano invece intendere le parole di Gesù (gli apostoli erano convinti che Lui sarebbe tornato con loro ancora in vita) 2. quando si capì che l'attesa - molto più lunga del previsto - metteva a serio rischio il racconto orale (orale perché "scrivere di Gesù" durante le persecuzioni anticristiane non era esattamente una buona idea) e quindi era opportuno scriverle, perché restassero.
Per questi motivi nella scrittura di questi testi non contò così tanto la personalità degli "scrittori" che furono più che altro i "redattori" chiamati a mettere per iscritto, quanto più fedelmente possibile, un racconto orale (di gruppo, di comunità) che si tramandava di bocca in bocca, e da padre a figlio.
Il mistero è dunque un altro.
Un mistero che non si spiega, e in cui anche Carrère, con la sua penna affilata e degna, evita di addentrarsi. Lo Spirito non è e non può essere materia di indagine, e Carrère è il primo a saperlo. A lui interessano i fatti. E siccome la storia, specialmente quella del primo cristianesimo, è fatta di molti, molti fatti lui si dedica con passione a quelli.
Per lo Spirito, bastano e avanzano le ultime cinque pagine de Il Regno: ho finito di leggerle con i brividi sulla schiena e mi sono reso conto che quasi mai, nella mia lunga vita di lettore, un libro mi ha procurato brividi sulla schiena, mentre lo leggevo.

Fabrizio Falconi - 2023

26/10/23

"Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese, un film che mostra da dove nasce il male

 


Mi ha fatto piacere vedere Scorsese allontanarsi - momentaneamente? - dall'epica della violenza mostrata e pura, che è marchio distintivo del suo cinema, ma prima ancora della sua vita (la biografia lo ha segnato, come ha raccontato più volte, crescendo da bambino in mezzo alla violenza, alla minaccia, alla sopraffazione, ai ricatti piccoli e grandi della mafia).
Stavolta, Scorsese la mette da parte: c'è, ma non indugia a mostrarla. Il film si concentra invece, sulle origini di questa violenza. La ferocia, sembra dirci Scorsese, può nascere e nasce dalle parole, che possono avere una forza dirompente. Killers of the Flower Moon è infatti un film di parole: i dialoghi, a volte estenuanti, occupano il 75% del film, ma non è un gioco solipsistico come avviene a volte nella fiction contemporanea americana.
Le parole, in Killers, sono la ragnatela su cui si costruiscono i rapporti, le relazioni, e che danno vita ai fatti. E siccome le parole sono malate, anche le relazioni, anche i rapporti e anche i fatti sono malati.
La parola che redime non c'è. C'è solo il silenzio della donna indiana (Mollie - Lily Gladstone). Che sembra assistere del tutto impotente al manifestarsi del male, accettando ciò che le è stato riservato dagli uomini, senza voler aprire gli occhi fino alla fine. La vittima di un sacrificio che non ha deciso Dio, né il Dio dei bianchi (Cristo) né tantomeno il Dio dei nativi. Ma che hanno deciso gli uomini, che grondano di parole false, malate, come "famiglia" e "soldi", i due passe-partout che giustificano ogni abominio.

Il giovane Ernest Buckhart (Di Caprio) tornato scosso dalla guerra, fondamentalmente non sa nulla di sé: è tabula rasa. Non sa nulla non solo di ciò che vuole dalla vita, ma anche dei suoi sentimenti, delle sue emozioni. Crede di innamorarsi, o si innamora veramente, poco importa. Quel che conta è che il suo essere tabula rasa, lo porta ad essere perfetto strumento nelle mani del mostruoso zio William Hale (De Niro), che lo manipola a suo piacimento, instillandogli in lui ogni sorta di nefandezza, che finirà puntualmente per compiere, obbedendo fino alla fine. William Hale è il prototipo di ogni populista e perciò straordinariamente attuale: nasconde sotto una rassicurante bonomia ogni malvagità: si finge ed è - oggettivamente - "amico di tutti", in primis degli indiani, di cui si proclama garante, gode di rispettabilità, tutti lo ascoltano (anche se qualcuno diffida), tutti credono alle sue spregiudicate bugie con le quali rovescia continuamente il male con l'apparente bene, con l'utilità, il senso pratico, la giustizia.

Scorsese a 80 anni è insomma sempre più lucido, ma il suo spirito si ammorbidisce, i suoi occhi si inumidiscono sul nome della donna indiana, di Mollie, sulla sorte ben triste che le è toccata insieme al suo popolo: di essere depredata di tutto, della terra, degli avi, degli dei, della vita.
Si ammorbidisce ma non fa sconti e il suo cinema è puro piacere dell'intelligenza e degli occhi. E' Coppola che dice: "Scorsese è il più grande regista vivente." Ha ragione (anche se Coppola stesso lo segue dappresso). Non gli riesce di sbagliare un film, nemmeno se ci prova. Qualcuno dirà che va sul sicuro: ma lui dai De Niro e dai Di Caprio tira fuori ogni volta qualcosa di SUO.
Lily Gladstone vincerà l'Oscar come migliore attrice protagonista, anche se la miglior prova tra i tre, non è la sua. E' Di Caprio, sostanzialmente, a portare sulle sue spalle quasi tutto il peso del film, in un'altra prova monumentale.
E' una sorta di miracolo, questo ragazzetto che sembrava uno dei tanti, belloccio e imberbe, e che film dopo film, rivela capacità espressive veramente mostruose.
Si merita ogni complimento.

Fabrizio Falconi - 2023


23/10/23

"Entre sueño y vigilia" (Tra Sonno e Veglia) di Fabrizio Falconi - traduz. spagnola

 





Estoy a un cierto punto del sueñoentre sueño y vigilia
esperándote y puntualmente llegas
para trancar la puerta,
no quieres tenerme y no quieres
dejarme ir, sin decir
y sin callar, como un silbido
de viento detenido por las olas
todo es brillante y espacioso
pero no aparece nada de esperado,
cubro la cabeza con el cojín
empujando el resto de ti
que se queda y me quedo indeciso
si entrar, me quedo en vilo
como un geranio en el balcón
como una vela antes del horizonte,
nadie me advirtió
que habría solamente soñado
habría solamente dormido
habría velado
como solo los insomnes y los muertos
pueden hacer.
*
Sto ad un certo punto del sonnotra sonno e veglia
ad aspettarti e puntualmente arrivi
a sbarrare la porta,
non vuoi tenermi e non vuoi
lasciarmi andare, senza dire
e senza tacere, come un sibilo
di vento trattenuto dalle onde
tutto è lucente e spazioso
ma non appare nulla di atteso,
copro la testa col cuscino
spingendo via il resto di te
che rimane e resto indeciso
se entrare, resto in bilico
come un geranio sul balcone
come una vela prima dell’orizzonte,
nessuno mi ha avvertito
che avrei solamente sognato
avrei solamente dormito
avrei vegliato
come solo gli insonni e i morti
possono fare.

*

Fabrizio Falconi
tratto da Nessun Pensiero Conosce l'AmoreInterno Poesia, 2018Traduzione dall'italiano allo spagnolo Centro Cultural Tina Modotti 



17/10/23

"Il Complotto contro l'America" - perché è una serie da vedere oggi


E' un'opera che tutti, specialmente oggi, dovrebbero vedere.

"Il Complotto contro l'America", miniserie HBO (un marchio di garanzia), in 6 puntate da un'ora ciascuna, disponibile su Sky e NowTv, è tratta dall'omonimo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2004.
In quel romanzo, Roth metteva in scena una ucronia (o storia alternativa o allostoria o fantastoria), collocandola nel 1940, cambiando il corso degli eventi e quindi raccontando non della vittoria di Franklin D. Roosevelt, al suo terzo mandato - come è avvenuto nella realtà - ma di quella del trasvolatore Charles Lindbergh, che per primo aveva attraversato l'oceano Atlantico in solitaria con il suo aereo e che negli anni immediatamente prima della guerra godeva di enorme popolarità negli USA.
Lindbergh fu in effetti, nella sua vita, simpatizzante del regime nazista, accolto anche con mille onori da Adolf Hitler a Berlino.
La vittoria di Lindbergh a quelle elezioni, immaginata da Roth, cambia completamente il destino della storia: il Lindbergh del romanzo - e anche della serie, ovviamente - si è candidato contro Roosevelt proprio rivendicando la necessità e il diritto degli USA di rimanere neutrali nella guerra che si è scatenata in Europa e di non intervenire al fianco degli inglesi, sommersi da un diluvio di bombe naziste.
Il paese resta, così, neutrale. E addirittura il ministro degli esteri nazista Von Ribbentrop, viene ricevuto, con tutti gli onori, alla Casa Bianca.
Nel contempo nel paese, comincia una lenta e capillare discriminazione degli ebrei (americani) che vengono destinati a "programmi di inserimento" che si propongono di "integrare" gli ebrei nel modo di vita, nei costumi e nelle credenze del popolo americano.
Il tutto viene visto dalla prospettiva di una famiglia ebrea della midlle class di Newark, New Jersey, che precipita in un incubo e in un orrore pesantissimo, con il padre che non vuole per nessun motivo essere costretto ad abbandonare il paese che ritiene "il suo" e la madre che spinge per fuggire - finché è possibile - in Canada.
La zia, zitella, finisce invece per diventare l'amante del rabbino (vedovo) Bengelsdorf che in buona fede finisce per diventare il megafono del presidente Lindbergh.
La serie è prodigiosa per realizzazione tecnica (costumi, ricostruzione dell'epoca, ambienti, ecc.), di qualità cinematografica, per scrittura e per bravura degli attori: John Turturro in primis nei panni dell'ambizioso rabbino che fino alla fine non vuol vedere cosa sta succedendo, rendendosi complice; Wynona Rider, eccezionalmente brava nel ruolo della zia ingenua; Zoe Kazan (nipote del grande Elia), nei panni della madre, Morgan Spector nei panni del padre.
Si parla di una storia parallela, ma la serie parla - molto - dell'oggi, di quello che succede oggi intorno a noi, per questo va vista: perché i meccanismi umani sono sempre gli stessi e possono precipitare - come è successo sovente nella storia e come succede anche oggi - nella viltà, nell'ignavia, nell'ambizione irresponsabile, nella cecità, nell'incapacità di misurare il principio di realtà, conducendo i poteri all'orrore e gli innocenti al sacrificio.

Fabrizio Falconi - 2023

12/10/23

"Il Cielo Sopra Berlino" riesce al cinema - Un sorprendente ricordo personale


Adesso che il film sta riuscendo nelle sale - nel bagliore del nuovo restauro - posso raccontare questo fatto davvero surreale, che mi accadde anni fa.

Come molti altri, io avevo amato smisuratamente quel film di Wenders, e Bruno Ganz (che ci ha lasciato qualche anno fa) era per me, come per molti altri, soprattutto il meraviglioso, malinconico angelo de "Il Cielo sopra Berlino" (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno, edizione che fra l'altro avevo seguito come giornalista accreditato.
Bene, parecchi anni dopo quel film (15 per l'esattezza) - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma.
Doveva essere il 2002, Matteo era dunque molto piccolo. La giornata era cupa, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano.
Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dominata dal colossale angelo in bronzo che rinfodera la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.


Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti. Ad un tratto, sembrandomi davvero sulle prime il frutto di una allucinazione, scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare.
Mi avvicinai di qualche passo e aspettai di vederlo meglio.
Con sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi. Per un momento pensai perfino che dovessero esserci le sue ali trasparenti, quelle che di cui era dotato nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino.
Era solo. Lo spiai per un po'. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava. Rimase più di venti minuti, poi scomparve in fretta giù per le scale.
Non ho mai dimenticato quell'incontro, e ancora mi chiedo che cosa ci facesse lì, da solo, vestito proprio da angelo, come nel film.
Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente.
Forse non lo ha detto a nessuno. Forse in realtà non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno. Mistero. Comunque, posso dire, la più bella - e indimenticabile - "apparizione" della mia vita.

Fabrizio Falconi - 2023

03/10/23

Parte alla Libreria Eli il seminario "Storie di Roma" con Fabrizio Falconi, dal 20 ottobre





SEMINARIO DI INCONTRI CON FABRIZIO FALCONI 

LIBRERIA ELI – VIALE SOMALIA 50

 

·    Corso/seminario di incontri STORIE DI ROMA, presso la Libreria con cadenza mensile – ogni terzo venerdì del mese, alle 18.30 -  durante il quale si ripercorrono gli itinerari sul territorio monumentale, antico e moderno di Roma, la città che tutto – con la sua storia e i suoi luoghi – racchiude.

·    Il corso/seminario durerà da ottobre 2023 a maggio 2024 affrontando in percorsi di circa due ore ciascuno, le tappe significative della storia tri-millenaria di Roma mediante la scoperta dei luoghi conosciuti e meno conosciuti e degli aneddoti, curiosità, letture, citazioni, con uso di slides e il coinvolgimento immersivo dei partecipanti. 

Questo il piano degli incontri, che seguiranno un percorso cronologico:

 

22 Ottobre 2023: Le origini della Città – I Luoghi e le leggende della Fondazione, i Re di Roma.

 

17 Novembre 2023: L’età antica – La Roma Repubblicana

 

15 Dicembre 2023: L’età antica – La Roma Imperiale

 

19 Gennaio 2024: Dalla Caduta dell’Impero Romano d’Occidente all’Anno Mille

 

16 Febbraio 2024: La Roma Medievale

 

15 Marzo 2024: Il Rinascimento a Roma

 

19 Aprile 2024: Il Risorgimento a Roma e l’Ottocento

 

17 Maggio 2024: Dai primi del Novecento ai giorni nostri

 

Tutti gli incontri avranno inizio alle ore 18.30


Scrivi alla Libreria Eli per Iscriverti 


"Dalla perfezione spesso non nasce niente - Nina, una donna che lo impara a sue spese" - Intervista VIDEO a Fabrizio Falconi - RealTeamTV

 



da oggi verrà trasmessa sia sulla nostra webtv “REAL TEAM TV” e quindi sul suo sito ufficiale, Canale ufficiale YouTube e tutti i suoi vari account social,  che sempre a rotazione in diverse fasce della giornata anche su “Globus Television” e su “ST Europe Channel” al canale 268 del DTT Nazionale del digitale terrestre.