30/05/23

"Diplomat", la serie Netflix, un prodotto di alta qualità


 Diplomat - disponibile sulla piattaforma Netflix - deve la sua qualità in primis a una magnifica attrice, Keri Russell, che i più hanno conosciuto in "The Americans" , oggi cinquantenne, che qui oltre ad essere protagonista assoluta, è anche produttrice esecutiva.

Scritta brillantemente da Debora Cahn, una delle migliori sceneggiatrici di Hollywood, Diplomat ci porta nel mondo dell'alta diplomazia internazionale, nel pieno di una crisi: una nave inglese è stata attaccata da un (finto) peschereccio nelle acque del Golfo Persico, e i riflettori vengono subito puntati sull'Iran.
Nel pieno di questa crisi, Kate Wyler, esperta funzionaria di casa in paesi difficili come Iraq e Afghanistan, viene nominata ambasciatrice degli USA a Londra. Portandosi dietro l'ingombrante fardello di un marito anch'egli diplomatico ed ex ambasciatore, messo ai margini per il suo carattere indipendente e piuttosto incontrollabile.
Marito e moglie sono in crisi, c'è aria di divorzio da tanto tempo, ma i due sono legati da qualcosa di profondo, una mutua protezione, un attaccamento sensuale e di umana comprensione-accoglienza per le rispettive fragilità, soprattutto quella di Kate, specialmente ora che ha un incarico così importante e delicato.
Hal, il marito, promette di "fare il buono" e di fare "la moglie" dell'ambasciatore, ma ovviamente non va così.
La serie è costruita interamente su dialoghi serratissimi e intrighi diplomatici difficilissimi da decifrare. Se non ci si annoia è proprio per merito della bravura degli interpreti, soprattutto i due principali: oltre a Keri Russell, il perfetto Rufus Sewell. Il matrimonio in crisi e i rispettivi caratteri di Kate e di Hal sono ciò che conferisce alla serie la qualità e l'intelligenza, e che rende piacevole proseguire fino in fondo, fino a un finale a sorpresa che lascia tutto aperto.
Mi è piaciuto molto il franco femminismo della serie: Kate è una donna con le palle; Hal come uomo esperto e abituato ad essere al centro dell'attenzione deve fare esercizio quotidiano (e fa di tutto per farlo), per accettare di essere in secondo piano. Mi è piaciuta l'originalità dell'ambientazione, la grande qualità complessiva della messa in scena.
E' oltretutto illuminante percepire quanto sia precario e inautentico il mondo dell'alta diplomazia internazionale, ormai pesantemente condizionato dall'immagine, dal web, da twitter, dai vuoti rituali, dalle intemperanze caratteriali dei singoli; da come tutto, compresa una grave crisi internazionale che può mettere a rischio migliaia o milioni di persone o tutto il pianeta, può essere potenzialmente motivato da futili o futilissimi motivi (come già il Dr. Strangelove di Kubrick insegnava molti molti anni fa).
Serie consigliabile e prodotto di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

19/05/23

"Slow Horses" si migliora ancora, la seconda stagione della serie, più bella della prima


La seconda stagione di Slow Horses, serie AppleTv è se possibile, ancora migliore della prima, che suscitò entusiasmo della critica e favore del pubblico.

Stavolta i "ronzini" (gli agenti "sfigati") del "Pantano" (il dipartimento sfigato dove vengono mandati gli agenti sfigati, decaduti, del MI5, capitanato dall'espertissimo ma ingestibile Jackson Lamb) sono alle prese con un incarico che viene affidato loro direttamente dai "Cani", cioè dagli agenti di primo livello del MI5: apparecchiare, preparare, bonificare il luogo dove avverrà un incontro segreto tra la scrivania n.2 dei servizi inglesi, la Taverner e un rampante agente russo di nome Pashkin.
Da qui nascono avvenimenti e trama appassionanti e intricati che lungo l'arco di sei puntate, catturano totalmente lo spettatore, regalandogli un divertimento intelligente, impagabile.
Merito del cast, in primis. Con Gary Oldman (per cui scarseggiano ormai gli aggettivi) che non "interpreta" Lamb, ma gli dà vita, lo crea, lo rende più vero del vero, epigono di precedenti illustri, da Marlowe a Colombo, ma decisamente più cool, Lamb con il suo impermeabile fetido, la barba lunga, i capelli sporchi, l'olezzo che si porta dietro, è uno spettacolo ad ogni frase che pronuncia e a ogni espressione che accenna.
Kristin Scott Thomas è perfetta nei panni di Taverner, Jonathan Pryce è il nonno di River Cartwright, ex agente anche lui. Mentre River, interpretato dal bravissimo Jack Lowden è un coprotagonista a tutti gli effetti.
La seconda stagione è stata girata con sontuosi mezzi per le vie di Londra, dove si svolge una grande manifestazione di protesta, aeroporti di piper, stazioni, pub.
Slow Horses ha anche il merito di non precludersi di far morire i personaggi anche più amati. In questa seconda stagione trova molto spazio Rosalind Eleazar, talentuosissima attrice di cui sentiremo molto parlare, che pur con una menomazione congenita alle dita delle mani, regala emozioni assai intense.
Del tutto raccomandabile, quindi, in attesa della terza stagione già in lavorazione. Davvero una serie alla quale è difficile, se non impossibile, trovare difetti.

Fabrizio Falconi - 2023

16/05/23

Torna nelle sale "Toro Scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese, uno dei film capitali della storia del cinema


E' uscito di nuovo nelle sale Raging Bull (Toro Scatenato), 43 anni dopo il suo debutto (1980) e questa non può che essere una bellissima notizia.

Detto questo, non penso che andrò a rivederlo, perché credo forse di non conoscere nessun altro film meglio di questo - praticamente a memoria, scena per scena, ed è tutto lucidamente stampato nella mia mente.
Non è solo un capolavoro. E' un film-testamento. Uno dei film più "umani" che io conosca.
Forse perché Scorsese veniva da una crisi esistenziale profondissima (era depresso e pieno di droghe, dopo la fatica improba di New York, New York e il suo relativo insuccesso).
Quando De Niro andò a trovarlo in ospedale, proponendogli di fare insieme il film, tratto dalla autobiografia di Jake La Motta, che lui aveva appena finito di leggere, forse Scorsese non si rese conto che quel film arrivava - in modo karmico - nel punto "necessario" della sua vita.
Così, vi mise dentro tutta la sua vita, l'infanzia, Little Italy, la miseria e il razzismo contro gli italiani di New York, la mafia, il pugilato, l'ignoranza, il familismo, il maschilismo, la solidarietà, il riscatto, l'incapacità di rapportarsi con le donne.
Non come semplici "spiegazioni freudiane" - "Gli esseri umani non si spiegano solo con i concetti freudiani" dice Scorsese a proposito di questo film, nel suo libro "Conversazioni su di me e tutto il resto", orrendamente editato in Italia da Bompiani - ma come di-mostrazione di tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento, tutto quello che aveva fatto di lui l'uomo che era.
Scorsese all'epoca era al massimo della sua maturità umana e d'artista - aveva 38 anni - e questo è film forse più intimo e religioso che abbia fatto. "Una specie di inizio: un'accettazione di tutto," lo definisce lui nel libro. "Dio non è un torturatore, ma vuole che noi abbiamo pietà di noi stessi e smettiamo di tormentarci."
E' il significato più profondo di questo capolavoro, in cui Scorsese è probabilmente anche arrivato al vertice massimo della sua arte del cinema, della regia, del racconto (un vertice comunque toccato in molti punti della sua strabiliante filmografia), con ogni aspetto - recitazione, regia, interpreti, fotografia, musica, comprimari - che raggiunge il livello di perfezione.
Un film che parla ad ogni essere umano, perché racconta di ogni essere umano. Della fatica, della tristezza, dello sconforto, del ritrovarsi, del credere, del cambiare, dell'accettare.
Per questo Raging Bull è un film immortale, che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita.

Fabrizio Falconi - 2023


15/05/23

"Via dalla Pazza Folla", lo straordinario romanzo di Thomas Hardy


Thomas Hardy viene giustamente considerato uno degli scrittori in assoluto più "pessimisti", uno dei più vicini alla visione schopenhaueriana della vita: sorta di condanna che tocca vivere, lottando tenacemente, ma senza speranza, contro una volontà superiore - quella delle forze naturali - che agiscono "nonostante" noi, oltre noi, in una specie di lotta impari e senza senso, nella quale si può soltanto soccombere.
Hardy, dal profondo della campagna in cui quasi per tutta la vita si rinchiuse - la sua biografia è una delle più povere di eventi, nella storia della letteratura - immaginò storie cupe e dolorose, ma anche estremamente vitali, ambientate in una regione immaginaria chiamata Wessex, che ha molte caratteristiche dei luoghi in cui effettivamente viveva.
484 pagine vanno via nello scorrere di capitoli titolati e in genere brevi, lungo i quali si dipana la vicenda di Bathsheba (le donne sono quasi sempre le protagoniste dei suoi romanzi), bella giovane e determinata, che da semplice contadina, si ritrova fittavola e proprietaria di un grande fondo.
Tre sono i corteggiatori di Bathsheba: il leale Gabriel Oak, il primo a farsi avanti, che ne diviene poi il fattore, l'uomo di fiducia; il fittavolo benestante e misantropo Boldwood, che perde la testa completamente per Bathsheba dopo che lei gli ha tirato un crudelissimo scherzo; e il belloccio Troy, sergente dell'esercito britannico, cinico e scapestrato, del quale è innamoratissima - e fidanzata - l'ingenua Fanny.
Naturalmente, tra i 3 candidati possibili, Bathsheba sceglierà quello che di gran lunga è il peggiore, cioè Troy, garantendosi così un'infelicità grandissima, costellata di delusioni, tradimenti, disillusioni ferocissime.
Nella prima parte del romanzo e anche fino a poco oltre, ci si diverte molto. Bathsheba è uno dei personaggi femminili più riusciti della letteratura dell'Ottocento. Hardy ne tratteggia la personalità in modo vivissimo, con tutte le sue irrisolte contraddizioni, inserendo questo carattere tipicamente femminile nell'ambiente naturale selvaggio della campagna, di cui Hardy è maestro di descrizione.
Nella seconda metà del romanzo, la storia si incupisce, diventa crudele con i suoi personaggi, soprattutto con Bathsheba - chiamata ad affrontare la nemesi inevitabile - ma anche con tutti gli altri.
Hardy però risparmia almeno il finale, che una volta tanto non si chiude nel baratro della tragedia ma spalanca proprio nelle ultime pagine un possibile lieto fine.
La caduta di Bathsheba e delle sue ambizioni è in fondo molto moderna. E moderni sono i suoi desideri, le fragilità, i conflitti nascosti dietro l'apparente imperturbabilità di un personaggio "forte".
L'immaginazione e la storia si sposano felicemente - come sempre in Hardy - con l'introspezione e lo studio dei caratteri psicologici.
Una lettura magnifica.

Fabrizio Falconi - 2023

09/05/23

Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" il (bellissimo) romanzo di Frédéric Dévé


Quando un bel libro è scritto anche da un amico, la soddisfazione è doppia. Conosco Frédéric da molti anni e ora che arriva la traduzione italiana del suo romanzo "Le Miroir de Charco Verde", per merito dell'editore Artemide, faccio una notevole scoperta.

Il romanzo, uscito anni fa in Francia, in Italia viene - piuttosto enigmaticamente - intitolato "Le cose che sappiamo", un titolo ingannatore, perché le cose che "si sanno", al termine dell'avventura cui ci conduce il libro, sono provvisorie, ambigue, e tutt'altro che acquisite. Sollevano anzi molti, molti interrogativi.
E credo che questo sia proprio il pregio maggiore di questa storia. Frédéric vi dipana la sua personale esperienza di vita e di lavoro, in America Latina - più in particolare nel Nicaragua subito dopo la rivoluzione sandinista - che lui conosce assai bene, essendosi occupato per decenni dei programmi alimentari dell'Onu.
Qui, il protagonista, francese come l'autore, che si chiama Hector Ruetcel, dopo essere stato ferito nella capitale, Managua, giunge nella meravigliosa isola di Ometepe, una sorta di paradiso terrestre, entro due laghi su cui svettano due vulcani (uno dei quali l'alto e attivo Concépcion), in mezzo a un mondo edenico, popolato di gente povera, legata alla coltivazione della terra e alle leggende arcaiche del luogo.
Si imbatte così nel Charco Verde, uno stagno nelle cui acque la leggenda popolare crede abiti un demone, disposto a fare patti con chi gli vende l'anima.
Comincia dunque un viaggio nel mistero che soggioga lentamente il razionalista Ruetcel, esponendolo alle ambigue lusinghe di un notabile del luogo, don Eugenio, che sembra legato all'origine e allo sviluppo della leggenda del Charco Verde. Leggenda o realtà? Perché gli abitanti sono così spaventati? Perché sono così disposti a vendersi a un demone e ad accettare di essere trasformati in animali? Perché nessuno indaga? Cosa nascondono i registri di Don Eugenio?
Con prosa limpida e avvolgente, Dévé ci conduce per mano dentro il mistero che non si scioglie mai del tutto, fino alle ultime e ultimissime sorprendenti pagine.
Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" è un romanzo di qualità piuttosto rara nel panorama contemporaneo. Che merita di essere letto, e le cui domande non smettono di interrogare, anche dopo l'ultima pagina.

08/05/23

"Il Sol dell'Avvenire" - RECENSIONE - Moretti vive, Nanni non tanto


"Il sol dell'Avvenire" è un ritorno, o meglio un tentativo di ritorno - dopo film piuttosto convenzionali culminati nel brutto "Tre piani" - al Nanni delle origini e della prima maturità (per intenderci, fino ad Aprile compreso).

Moretti celebra il Nanni che fu, con tutti i suoi topos - la coperta patchwork, la fissa sulle scarpe, Battiato, il giro in monopattino (al posto dello scooter), i calci al pallone - ma sarebbe meglio dire che ne celebra le rovine. Perché - come avviene a tutti - anche Moretti è invecchiato, e quel Nanni che fu, non può più essere lui, ma solo una nostalgia di quello.
Detto questo, il film è efficace e ben scritto, ma è opera sostanzialmente di un lavoro a tavolino, con ben tre sceneggiatrici che si sono affiancate a Moretti per scrivere il copione, fin troppo didascalico, dialogato (con dialoghi che appunto sembrano scritti e letti, parola per parola, non naturali), soppesato.
Ciò che manca qui, come mancava molto più drasticamente nei precedenti film a questo - quelli del dopo "Aprile" - è la vera ispirazione, cioè la poesia.
Moretti la tenta, ma non c'è più lo scatto folgorante di Nanni, l'invenzione folle, c'è solo la ripetizione dei già conosciuti cliché, che vanno bene per il suo pubblico, che lo ama da sempre, e che se ne sente consolato e rassicurato (e in fondo anche lui).
Ci sono le strizzate ai francesi, che lo adorano - dal personaggio di Pierre, alla comparsa di Renzo Piano, che ai cugini d'oltralpe ha regalato il Beaubourg. C'è il pieno omaggio a Fellini (vero riferimento di Nanni dai tempi di Ecce Bombo), con un circo dove però nulla è realmente felliniano, ma solo imitazione del felliniano, e con la citazione esplicita del finale di La Dolce Vita e il meraviglioso primo piano finale di Valeria Ciangottini, che è uno dei momenti più felici del Sol dell'Avvenire.
C'è un film nel film - anzi tre - sui fatti d'Ungheria visti dall'Italia, ci sono i soliti Silvio Orlando e Margherita Buy, bravi ma convenzionali (la migliore è di gran lunga Barbora Bobulova). Ci sono i soliti "giovani" che vanno per conto loro, con la figlia improbabilissima innamorata del grande Jerzy Stuhr che fa la parte dell'ambasciatore polacco. Ci sono troppe canzoni che strizzano l'occhio allo spettatore. C'è la sequenza imbarazzante del cast e Moretti che cominciano a roteare per un'ora come i dervisci tourner. C'è l'immancabile crisi matrimoniale di Moretti, uno psicologo da barzelletta, un finale nostalgico girato ai Fori Imperiali (il film non deve essere costato poco) con elefanti veri e corteo dove ricompaiono molte delle figure di attori dei film del vecchio Nanni.
Tutto fatto bene, tutto che scorre (anche se a tratti devo dire purtroppo di essermi anche annoiato), ma senza mai spiccare veramente il volo.
Ci sono almeno un paio di scene molto belle dove per qualche secondo si scorge dietro questo bel vestito compunto, il vero vecchio Nanni: la prima, il piano sequenza al termine della bellissima tirata di Moretti contro la violenza gratuita nei film, ormai dilagante. La macchina da presa lascia sullo sfondo l'orrenda esecuzione con la pistola e Nanni si allontana lentamente sulla musica di Franco Piersanti; la seconda è il monologo "suggerito" da Nanni dal finestrino della macchina a una bravissima giovane attrice - Blu Yoshimi che ho scoperto essere figlia d'arte e sembra un reale talento - che sta lasciando il suo fidanzato.
Insomma, Moretti vive (Nanni no, o poco). Il voto è 6.5. E tutto il bene per Nanni-Moretti resta immutato.

Fabrizio Falconi

18/04/23

Come nacque "Il Giorno più bello per Incontrarti"

 



Il giorno più bello per incontrarti (Fazi Editore, 2000), nacque molti anni prima di essere scritto - e pubblicato. La vicenda al centro del romanzo infatti, fu ispirata da un fatto vero, i cui particolari avevo appreso durante un lavoro d'inchiesta, per la RadioRai, nel maggio 1988. 

Da giovane giornalista, membro di una redazione formata da giovani talenti, ero sempre alla ricerca di nuovi fenomeni da indagare. Incappai così in uno studio realizzato dal Viminale che, all'epoca, forniva i dati riguardo al fenomeno degli scomparsi - quelle persone che si allontanano da casa senza apparente motivo e sembrano sparire nel nulla. 

Si trattava - e si tratta - di un fenomeno molto più esteso di quanto pensassi e di quanto pensassero gli autori del programma. Migliaia di persone, in un solo anno. La gran parte, allontanamenti volontari (specie di giovani) che si risolvevano presto in un ritorno a casa.

Una parte considerevole di questi scomparsi però, spesso non tornava. 

E a parte i casi celebri, sui quali costruimmo delle ricostruzioni ad hoc, come quello del Professor Federico Caffè o di Ettore Majorana, v'erano diversi casi di persone assolutamente comuni, scomparse da un giorno all'altro nel nulla, per la disperazione dei familiari e degli amici. Naturalmente eravamo partiti, su questo argomento, molto prima di Chi l'ha visto, o programmi simili che sono seguiti. 

A caccia di casi ignoti ai più, mi imbattei in quello di un ragazzo veneto, la cui storia mi colpì moltissimo. Si chiamava Tiziano Zennaro, e viveva con la famiglia, in condizioni economiche piuttosto disagiate, nell'isola di Pellestrina, all'interno della Laguna Veneta, di fronte a Chioggia. Un giorno Tiziano, giovane difficile, si era allontanato da casa senza fare ritorno. Non era la prima volta, ma stavolta i genitori capirono che era diverso. Iniziarono le ricerche, sull'isola e sulla terraferma, senza esito. 

Un mese dopo, si era d'inverno, le acque della Laguna restituirono il corpo di un ragazzo. I genitori di Tiziano furono subito chiamati. Il cadavere era in condizioni di avanzato deterioramento, ma in sede di rilievi autoptici, si evidenziò che alcuni dati, come ad esempio l'altezza, corrispondevano a quelli di Tiziano. Il riconoscimento fu fatto e il caso chiuso. Il presunto Tiziano fu seppellito a Pellestrina.

Ecco che però, qualche anno dopo, arriva una cartolina a casa Zennaro. Il padre non c'è più, la madre ancora piange il figlio. La cartolina è una sorta di resurrezione di Lazzaro: è infatti firmata proprio da Tiziano, il figlio creduto morto. Scrive da una struttura psichiatrica, a Padova, dove è ricoverato.  La madre, superato lo shock, va a riprendersi Tiziano: scopre che è ricoverato nella struttura dal giorno in cui è stato trovato, in strada, senza documenti e senza che il ragazzo sapesse dire come si chiamasse. Curato per lunghi mesi, finalmente Tiziano a un certo punto ha recuperato la memoria: ha ricordato il suo nome e il nome e l'indirizzo della madre. E ha scritto.

La madre si riporta a casa il figlio, ma comunque non va a finire bene. Tiziano sta male, è insofferente: si lascia praticamente morire d'inedia, nella casa sull'isola e medici e psichiatri non riescono a salvarlo. 

Quando trovai questa storia, così letteraria, che ricordava davvero il Mattia Pascal, presi il primo treno per Venezia, e andai su quei luoghi. L'isola di Pellestrina, anche a maggio, era un luogo desolato. La vecchia madre di Tiziano viveva ora a Venezia, all'Arsenale. La trovai in una piccolissima casa, con il caffé pronto in cucina. Mi raccontò tutta la storia con una sorta di benedetta rassegnazione: Tiziano era sempre stato "un'anima inquieta" e bisognava accettarlo. 

Su quella vicenda e prendendo qualcosa di Tiziano e di quello che avevo scoperto su di lui, costruii la storia e il personaggio di Giovanni, che scompare nell'autunno del 1977 e il cui corpo - presunto - viene ritrovato sulla spiaggia di Sitges, poco dopo la sua sparizione. 

E la vicenda, in questo caso, si fa misteriosa quando la vedova, ben quattordici anni dopo, riceve una enigmatica cartolina da Giovanni, che evidentemente è ancora vivo, da qualche parte. 

La storia di Tiziano Zennaro si è in qualche modo incarnata - mentre scrivevo - in quella di Giovanni e mi piace pensare che abbia fornito una nuova casa, una casa di carta, a lui che era così insofferente ad averne una. Forse tra le pagine di questo romanzo, anche l'anima di Tiziano ha trovato un posto dove stare.

Fabrizio Falconi . 2023



17/04/23

André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin: protagonisti di una bellissima serie Tv su Netflix, "Transatlantic"


André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin, sono loro qui i protagonisti.

Davvero un'altra insperata bellissima sorpresa nel panorama delle serie tv, che ritenevo stesse diventando asfittico, in crisi.
Invece non perdete Transatlantic (titolo fuorviante, completamente sbagliato, NON è una storia ambientata in un Transatlantico e non c'entrano niente i transatlantici), una bellissima serie di produzione tedesco/francese/inglese ora su Netflix.
La storia vera di Varian Fry e Mary Jane Gold che nel 1941 misero in salvo a Marsiglia, circa 2000 persone destinate ai campi di sterminio nazista.
Tra di loro molti intellettuali, artisti, i più prestigiosi dell'epoca, quelli che ho citato, e altri celebri, fedelmente rappresentati qui.
Una serie molto diversa da quelle storiche ambientate in quel periodo. Un tocco meraviglioso della ideatrice Anna Winger e due registe svizzere, a metà e in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, con sfumature che fanno pensare a Wes Anderson, fotografia bellissima, musiche all'altezza, cast freschissimo, che diverte e commuove.
8 puntate che si vedono con grande piacere, un prodotto notevolmente intelligente e di livello inusuale rispetto alle offerte di grande consumo di Netflix.

Fabrizio Falconi - 2023

06/04/23

La chiesa di San Lorenzo in Lucina e la misteriosa tomba di Poussin

 


La chiesa di San Lorenzo in Lucina e la misteriosa tomba di Poussin

 

Uno dei più antichi titoli delle chiese di Roma è quello di Lucinae attribuito alla chiesa che ancora oggi sorge nella piazza omonima nel centro della città e che, sorto in tempi antichissimi, è già ricordato nel 366 sulla residenza di una matrona romana, chiamata appunto Lucina (anche se non mancano altre ipotesi, tra le quali quella che nel luogo sorgesse un boschetto (lucus) da cui l'edificio prese il nome).

Quel che è certo è che sotto papa Sisto III (nell'anno 440 d.C.) avvenne la trasformazione in luogo di culto pubblico. Un rifacimento complessivo fu operato nel secolo XIII da Pasquale II, mentre al Duecento risale l'erezione, sulla sinistra della chiesa, del palazzo Fiano che divenne la residenza dei Peretti. Ma nuovi interventi furono compiuti nel corso dei secoli (anche Gian Lorenzo Bernini vi mise mano per costruirvi la Cappella Fonseca) fino ai successivi rimaneggiamenti sotto Papa Pio IX (1856) e del 1927 (anno in cui si ripristinò il portico murato) che conferiscono alla chiesa l'aspetto odierno.

Essa, oltretutto affonda le sue fondamenta, in parte, sotto il grandioso horologium (centosessanta metri per sessanta), fatto costruire dall'imperatore Augusto nel 10 a.C.,  la celebre Meridiana, i cui resti affiorano in diversi punti nei sotterranei degli edifici del quartiere di Campo Marzio (e anche della Chiesa). 

San Lorenzo in Lucina è una specie di museo, ospitando una serie di famose opere d'arte, come il crocefisso dipinto da Guido Reni al centro dell'altare maggiore.

Ma la Chiesa è famosa anche per la celebre sepoltura del pittore francese Nicolas Poussin (1594 – 1665), sulla quale sono fiorite leggende esoteriche di ogni tipo.

Poussin è uno dei più famosi pittori francesi, noto anche per essere il pittore di corte del re Luigi XIII e per aver supervisionato i lavori per la realizzazione del Louvre, ma a partire dai trent'anni trascorse la sua intera vita a Roma, dove ricevette la prima commissione nel 1626 dai conti Barberini per la realizzazione di un grande dipinto, Il sacco del tempio di Gerusalemme da parte dell'imperatore Tito, creduto per molto tempo perduto e ritrovato recentemente dal critico Denis Mahon.

Fautore dapprima dello stile barocco, Poussin, a partire dal 1630 cominciò ad abbandonare del tutto quel gusto artistico, per una rimeditazione attraverso una ricerca di chiarezza razionale, sul senso dell'esistenza e sul ruolo dell'arte come transito oltremondano.

A Roma Poussin morì, nel 1665, e fu sepolto proprio all'interno della Chiesa a Campo Marzio.

Il suo monumento funebre è tra i più enigmatici. La tomba fu concepita da Francois René de Chateaubriand (attivo a Roma fra il 1802 e il 1804), come si legge nella dedica in epigrafe subito al di sotto del busto del pittore (realizzato dallo scultore Jean-Louis Deprez) : F.A. De Chateaubriand a Nicolas Poussin per la gloria delle arti e l'onore della Francia. 

L'epitaffio invece, scritta da Pietro Bellori, il bibliotecario della regina Cristina di Svezia, recita: Trattieni il sincero pianto. In questa tomba vive Poussin che aveva dato la vita ignorando egli stesso di morire; qui egli giace, ma egli vive e parla nei quadri.

Infine, al di sotto dell'epitaffio, è realizzato in bassorilievo il profilo di un suo celebre capolavoro: Pastori in arcadia, che oggi è conservato al Museo del Louvre di Parigi e che esiste anche in un'altra versione dello stesso pittore, del 1627 e conservata in Inghilterra, a Chatsworth House.

E sotto questa rappresentazione, è inscritto il celebre motto Et in Arcadia ego, intorno al quale sono sorte le leggende più disparate e al quale sono stati dedicati interi libri.

In realtà Poussin non fu il primo ad utilizzare questo motto, che appare per la prima volta in un dipinto del Guercino, realizzato intorno al 1620.

La frase si riferisce alla mitica regione della Grecia, l'Arcadia, dove la leggenda narra che i pastori vivevano una vita idilliaca, lontana dai clamori e dagli affanni del tempo e della guerra e di ogni altra miseria umana.

La frase però, da un punto di vista strettamente letterale, risulta monca e priva di verbo.  Se infatti il significato è chiaramente: “anche io (sono stato o sono) in Arcadia”, è evidente che la frase manca del verbo – sum – che dovrebbe essere posto dopo il soggetto ego.

La citazione è stata subito interpretata come un memento mori come è reso esplicito anche dalle scene rappresentate dal Guercino – due pastori che si imbattono in un grande teschio – e da Poussin – pastori ideali  (c'è anche una donna, che nella versione di Chatsworth esibisce anche delle pose sensuali) che scoprono una tomba austera.

In pratica il significato della frase sembra essere: Anche la persona che riposa in questa tomba una volta viveva in Arcadia. Oppure: Anche io ero un Arcade, prima di incontrare la morte.

Il motto latino e l'associazione alla scena allegorica è stata ricollegata fantasiosamente con la pseudostoria (frutto di manipolazioni di tutti i tipi, in epoche successive) del Priorato di Sion.

Il legame con la morte (nel bassorilievo sulla tomba di Poussin i pastorelli contemplano quella che sembra essere a tutti gli effetti la tomba stessa del pittore) e la stranezza della frase senza verbo hanno fatto ipotizzare che la citazione contenga in realtà un codice anagrammato.

C'è stato chi ha tentato di sciogliere l'enigma, componendo la frase I! Tego arcana Dei, ovvero Vattene ! Io celo i misteri di Dio, alludendo ad un mistero del quale Poussin fosse al corrente, ossia che nella Chiesa fosse presente una sepoltura di una importante figura biblica (o addirittura dello stesso Gesù).

Ipotesi rafforzata da altri autori che, aggiungendo il sum alla frase, hanno ottenuto l'anagramma: Arcam dei tango Iesu, ovvero, Io tocco la tomba di Gesù. In questo caso, però, si è spiegato, la tomba del Maestro non sarebbe nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, come ipotizzato, ma in un luogo misterioso della Francia, che servì da ispirazione a Poussin per il dipinto dei Pastori dell'Arcadia conservato al Louvre, il quale è modello del bassorilievo tombale.

Le tracce alla ricerca di questo luogo hanno portato dapprima in Francia, nella località di Les Pontiles, vicino a Rennes-le-Chateau, e poi in Inghilterra, nello Staffordshire, dove esiste una versione scolpita (non si sa in quale epoca) del dipinto realizzato da Poussin, nel cosiddetto Sheperd's Monument nel giardino della Sugborough house.

Ma ricerche in loco, non hanno dato nessun esito e tutte queste teorie sono state  ripetutamente smentite dai critici d'arte e dagli storici.

Quel che è certo è che Arcadia divenne dopo la morte di Poussin, la più celebre delle Accademie romane, fondata nel 1690 dai frequentatori del circolo di Cristina di Svezia (alla Lungara) che vollero così proseguire l'opera del pittore e le sue ricerche, in ogni campo delle arti e della cultura.


Fabrizio Falconi, tratto da Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015

04/04/23

"Daisy Jones & The Six", una bella serie da non perdere


Daisy Jones & The Six
, è una serie tv che raccomando caldamente per diversi motivi.

In primis, é originale nei contenuti, nel tono e nella scrittura, in un momento non molto felice per le serie tv, che ultimamente sembrano a corto di idee e povere di qualità.
Daisy Jones & The Six - 10 puntate da 40-50 minuti l'una, su Amazon prime video - è stata scritta da Scott Neustadter e Michael H. Weber esperti sceneggiatori, già candidati ai premi Oscar (The Disaster Artist, 2018), tratto da un fortunato romanzo di Taylor Jenkins.
L'idea vincente è quella di scrivere la storia di una band immaginaria (che sembra a tratti più vera del vero), che - come molte in quel periodo - esplode nei primi anni '70 (quel periodo non-ripetibile e non-più-raggiungibile nella qualità della musica pop-rock) negli USA, che realizza un solo album di enorme successo e si scioglie inspiegabilmente alla fine della tournée di lancio, dopo un concerto a Chicago memorabile, davanti a migliaia di spettatori.
La Jenkins e gli sceneggiatori hanno pensato molto, durante la scrittura ai Fleetwood Mac e alle burrascose relazioni dentro quel gruppo, in particolare quella tra la cantante Stevie Nicks e Lindsey Buckingham, chitarrista e frontman.
Quindi la storia della serie è ispirata a quella, ma non esplicitamente, e procede sulla sua linea.
La maggiore qualità di "Daisy Jones" è il tono delicato e il gusto con cui viene narrata questa storia, senza precipitare negli stra-logori luoghi comuni del pernicioso menu sesso droga & rock'n roll.
Qui interessano molto di più i caratteri, le storie personali, le relazioni. Tutto quello che all'epoca rese grande - musicalmente e non - una generazione ancora non fagocitata dalla tecnologia digitale e dalla musica virtuale.
La scelta vincente è il cast: il fascinoso protagonista è l'inglese Sam Claflin. Le due donne che dividono in due il suo cuore sono Riley Keough che, oltre a impersonare Daisy Jones, nella vita è la nipote diretta di Elvis Presley (è la figlia di Lisa Marie Presley, figlia di Elvis) e l'argentina Camilla Morrone (Camilla Dunne), famosa alle cronache per essere la compagna di Leo Di Caprio.
Ma anche tutti i personaggi di contorno funzionano assai bene. Tutti sanno recitare, tutti sono convincenti, tutti lavorano in sottrazione, senza esagerazioni e senza gigionismi.
La serie si vede con vero, grande piacere fino all'ultima puntata che dura 70 minuti, e che ovviamente presenta il redde rationem della intera storia.
Applausi.

Fabrizio Falconi - 2023

20/03/23

Epicuro per la disperazione dei nostri giorni - Uno scritto di Robert P. Harrison da Los Angeles Review of Books


Epicuro per la nostra epoca

di Robert Pogue Harrison

"Il deserto cresce", scriveva Nietzsche più di un secolo fa. "Guai a chi nasconde deserti interni." Da allora, la terra desolata è cresciuta sempre più indiscriminatamente, sia all'interno che all'esterno. Le nostre vite sociali e spirituali appassiscono sugli schermi dei nostri cellulari. Le nostre città, i nostri ambienti e le nostre arene pubbliche soffrono di un degrado le cui cause rimangono oscure, mentre gli effetti sono fin troppo evidenti. Il "piccolo giardino" dello spirito umano cade in rovina.
Il termine "piccolo giardino" allude all'Ho Kepos, ovvero il piccolo giardino privato dove Epicuro diede vita a una delle scuole più belle, influenti e longeve dell'antichità. Egli visse in tempi bui, simili ai nostri, quando la sfera pubblica e politica della democrazia ateniese era in piena decadenza. I filosofi greci che lo avevano preceduto - primo fra tutti Aristotele - credevano che la felicità umana fosse possibile solo all'interno della polis e delle attività della cittadinanza. Epicuro invece credeva che la felicità dovesse essere ricercata lontano dalla follia e dalla faziosità del regno pubblico. Questo è uno dei motivi per cui fondò la sua scuola appena fuori dalle mura di Atene nel 306 a.C.
La nostra epoca ha bisogno di una forte dose di epicureismo creativo e rivitalizzato, perché Epicuro ci offre una filosofia di come le persone possano, di propria iniziativa, creare piccole sorgenti di felicità in mezzo alla terra desolata. Per noi, ciò significa trovare modi silenziosi ma decisivi per resistere al modellamento e all'amministrazione dei desideri privati da parte del capitalismo surrealista; per resistere alla mentalità di branco e alla superficialità intellettuale promossa dai gruppi di pari, dagli opinionisti e dalla cacofonia dei social; per resistere all'autoassorbimento in tutte le sue forme sottili e volgari; e soprattutto per resistere al richiamo delle sirene del successo. Resistere, tuttavia, non è sufficiente, ed è qui che entra in gioco l'epicureismo, come filosofia positiva.
I giardini epicurei fioriscono dove persone affini coltivano varie virtù sociali, psicologiche ed esistenziali che rendono la vita più gradevole, più "dolce" (hedys, la radice greca di "edonismo") e più degna di essere vissuta, e la cui coltivazione equivale a una forma di cura spirituale. Queste virtù includono: l'amicizia, un valore epicureo supremo; la conversazione, l'ingrediente principale di un'amicizia significativa; una vita mentale attiva, che Epicuro intendeva come un vivaio di quelle idee che arricchiscono la conversazione e la rendono piacevole; la soavità, o una certa gradevolezza dei modi e del contegno personale; e la serenità, o la calma interiore e la padronanza di sé.
Queste virtù epicuree scarseggiano al giorno d'oggi. Le concepiamo perfino come abitudini e pratiche da coltivare? La maggior parte di noi crede di dover acquisire e coltivare amicizie, ma quanti di noi credono che si debba innanzitutto imparare l'arte dell'amicizia, proprio curando quelle altre qualità che arricchiscono l'esperienza dell'amicizia? Nel mondo antico, essere un epicureo significava impegnarsi in un programma di auto-miglioramento e "cura di sé" per tutta la vita. Facendo ciò che è necessario per diventare una persona più riflessiva, preparata, competente e attraente, divento più degno dell'amicizia. L'amico è soprattutto una fonte di generosità.
Per quanto queste virtù sociali e personali fossero importanti per la buona vita, come la concepiva Epicuro, ancora più importante era la coltivazione di tre disposizioni esistenziali primarie: speranza, pazienza e gratitudine. Epicuro intendeva questa trinità come modi di rapportarsi alle tre dimensioni del tempo. Esaminiamole a turno, anche se solo brevemente.
Epicuro riteneva che l'ansia per il futuro, soprattutto per il futuro ultimo della morte, fosse il più grande ostacolo alla felicità umana. Il futuro ci preoccupa, ci perseguita e spesso ci tormenta, perché non possiamo sapere esattamente cosa ci riserva: un rovescio di fortuna, la perdita di persone care, una malattia, un disastro. Ci viene incontro alla cieca e il più delle volte la aspettiamo con timore, nonostante il richiamo delle sue terre promesse. Contro questo timore, l'epicureo coltivava un atteggiamento di speranza: la speranza che la prospettiva di felicità seminata nel presente fiorirà a tempo debito. La speranza non insegue una terra promessa. Porta a compimento un potenziale interiore realizzato nel tempo, trasformando la morte in un culmine piuttosto che nell'estinzione di una possibilità.
La pazienza, nella sua lenta coltivazione della possibilità interiore, confida nel futuro per soddisfare le devozioni e gli sforzi del presente. Trasfigura il nostro rapporto con il presente riempiendo i suoi giorni con il frutto invisibile delle cose sperate. Per riprendere la definizione di bellezza di Stendhal, la pazienza è una promessa di felicità.
Quanto alla gratitudine, è la virtù esistenziale principale che cresce nell'humus epicureo. È anche la più rara e la più bisognosa di cure e nutrimenti quotidiani, sia ai tempi di Epicuro che ai nostri. Abbiamo un'inclinazione naturale a ignorare le benedizioni del passato e a rimanere sempre affamati di qualcosa in più. "La vita dello stolto", scriveva Epicuro, "è segnata dall'ingratitudine e dall'apprensione; la deriva del suo pensiero è esclusivamente verso il futuro". Questa ingrata "deriva del pensiero" verso il futuro ha poco a che fare con la speranza epicurea. La sua apprensione non si basa sulla pazienza nel presente, né sulla gratitudine per ciò che è già stato dato, ma su un'ansiosa insoddisfazione i cui fremiti oscurano il futuro, dimenticano il passato e turbano il presente. L'ingrato si relaziona con il tempo come fonte di privazioni piuttosto che di benedizioni, quindi è essenzialmente goloso: "È l'ingratitudine dell'anima che rende la creatura ghiotta di abbellimenti nella dieta". La gratitudine, al contrario, consacra il passato, addolcisce il presente e rasserena il futuro.
La filosofia epicurea non ha quasi nulla in comune con la filosofia edonistica del "mangia, bevi e stai allegro, perché domani moriremo". Per Epicuro il piacere era innanzitutto l'assenza di dolore, ma era anche molto di più. Era un particolare tipo di "dolcezza" che accompagnava uno stato di serenità. La serenità, a sua volta, era il frutto delle virtù promosse dalla Scuola del Giardino. Verso la fine della sua vita Epicuro soffrì di una morte lenta e dolorosa causata da un calcolo vescicale nelle vie urinarie, eppure affrontò allegramente sia il dolore che la morte imminente, grazie alla coltivazione per tutta la vita della suprema virtù della gratitudine. Sul letto di morte, come chiarì nelle sue lettere a vari compagni, trasse uno squisito piacere dalla gratitudine per quei momenti di comunione e di conversazione che aveva consumato in passato con gli amici.
Ogni giardiniere sa che la speranza, la pazienza e la gratitudine sono le disposizioni interiori che sostengono le sue attività. È la speranza che getta i semi, la pazienza che attende il loro sviluppo e la gratitudine che testimonia i cicli di vita del giardino. Dove la terra desolata cresce all'interno, ci relazioniamo al presente con impazienza, al futuro con disperazione e al passato con ingratitudine. Nella terra desolata il piacere equivale al consumo e la felicità all'autocompiacimento. Il consumo e l'autocompiacimento possono forse farci superare la vita, ma solo un'attenta coltivazione ci permetterà di consumarla con l'atteggiamento a cui aspiravano Epicuro e i suoi seguaci, cioè di congedarsi da essa come dopo un banchetto, grati per l'abbondanza e non affamati di altro. Noi, al contrario, viviamo in un'epoca di desiderio. Se Epicuro non è in grado di guarirci completamente dalla nostra cupidigia, la sua filosofia della speranza, della pazienza e della gratitudine, così come l'amicizia, la conversazione e lo scambio di idee, ci mostra un altro modo di possedere la nostra mortalità e di diventare giardinieri della nostra felicità.

Robert P. Harrison
pubblicato su Los Angeles Review of Books, 9 marzo 2023

19/03/23

Mad Men, il classico delle serie che non invecchia

 


Mad Men, uscita 15 anni fa (2007), è una serie che sta invecchiando molto bene.

Dopo aver vinto tutti i premi possibili (scritta in modo magistrale dallo stesso autore di Sopranos, Matthew Weiner), ancora oggi se ne può ammirare la visione concentrazionaria di uomini e donne che si muovono nel mondo di una agenzia pubblicitaria di successo americana dei primi anni '60.

Le dinamiche descritte potrebbero definire meglio di un trattato, la realtà del maschilismo occidentale.

Gli uomini (che sono "pazzi" già dal titolo) che comandano, che decidono, che si spartiscono tutto, che vedono (nel senso proprio di "vedere") le donne come esseri inferiori, buone solo in quanto carne da penetrare.

Molto interessante è anche la descrizione dell'universo parallelo femminile che coabita questi luoghi (nelle vesti di segretarie/amanti ovviamente), nel quale, come sempre in questi luoghi chiusi, di potere, si innescano meccanismi tra gli oppressi (in questo caso "le" oppresse), con le kapò che dispongono delle ultime arrivate e le dirigono nei rispettivi giacigli, e le ultime della scala, che cercano una affannosa salvezza, anche a costo di rinunciare alla dignità.

La serie non invecchia perché la realtà non è poi così tanto cambiata, non so in America, ma sicuramente non qui da noi. 

Fabrizio Falconi - 2023

15/03/23

Leggere "Con gli occhi chiusi" di Federigo Tozzi - Un gioiello della nostra letteratura


Ho riletto Con gli occhi chiusi di Tozzi, che avevo letto molti anni fa.
Federigo Tozzi è morto nell'età aurea dei 37 anni, come Mozart e tanti altri, e la terribile Spagnola, il 21 marzo 1920, se lo portò via prima che gli toccasse di vedere l'avvento del Ventennio Fascista e i disastri della Seconda Guerra.
Nato a Siena e cresciuto tra Siena e Firenze, è a Roma - dove visse nella casa di Via del Gesù - che Tozzi, grazie a Pirandello e a Borgese ricevette considerazione, lavorando al Messaggero della Domenica, e riuscendo a pubblicare due romanzi, Con gli occhi chiusi e Tre croci, nel 1919, l'anno prima di morire (altri 3 romanzi vennero pubblicati postumi).
La morte prematura e la scarsa produzione (anche se i racconti sono più di 120), gli procurarono una notevole sottovalutazione da parte della critica letteraria. Fu scambiato per un semplice realista-verista e solo negli anni '60 si capì la sua grandezza.
Con gli occhi chiusi è un piccolo grande capolavoro, e leggendolo si avverte quanto, rispetto alla maggioranza dei suoi contemporanei, Tozzi fosse avanti:
nella semplice storia dell'amore di Pietro, figlio di un benestante ristoratore senese (proprietario di terreni in campagna) per la contadina Ghìsola, venuta a lavorare per il padre di Pietro, bella, analfabeta, ma desiderosa di emancipazione, Tozzi costruisce una trama puramente psicologica, colma di riferimenti simbolici, disseminati in luoghi densi di storia millenaria: Siena, Piazza del Campo, Firenze, le colline senesi, quelle toscane del Chianti.
Un universo apparentemente quieto, felice, disseminato di ombre. La tara familiare, l'incapacità di Pietro di riconoscere e vivere i suoi sentimenti, il sotterfugio di Ghìsola, la feroce disillusione cui va incontro Pietro, il finale aperto.

Tutto, lungo le centosessanta pagine, ha il tocco felice dell'autenticità, dei dolori della vita interiore, della mancanza e della frustrazione: la natura sontuosa accoglie le inquiete vicende umane, fa da teatro, insieme ai panorami cittadini, delle antiche città, descritte come fossero anch'esse forme viventi, allucinazioni pulsanti, proiezioni di un disagio che non si sa esprimere, e che porta Pietro alla crescita definitiva, alla maturità ormai priva di incantamento. 

Fabrizio Falconi - 2023