21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

19/04/22

La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943


 

San Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.

 

Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc  inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.  

La pioggia di bombe del 19 luglio smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo, scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.

Oltre ad aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri cristiani. 

E anche se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il 26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano, tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al 36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.

A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme,  assiste anche Paolo, che ancora non si è convertito (dunque prima del  40 d.C.).            .

Pio XII a San Lorenzo il giorno dopo il bombardamento

In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.

Essendo poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in disparati angoli d'Europa.

L'episodio più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono solennemente portate dal vescovo Giovanni II.

Qualche anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide, dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura 

La reliquia della testa di Santo Stefano, invece,  si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del cardinale Scipione Cobelluzi.

Tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton 2013-2017


18/04/22

"The Gilded Age", la nuova serie di quel genio di Julian Fellowes

 


Julian Fellowes è senza dubbio uno scrittore eccezionale. Quando aveva 50 anni il maestro Robert Altman lo contattò per scrivere la sceneggiatura di uno dei suoi ultimi film più riusciti in assoluto: "Gosford Park"

Il film, con un cast tutto di mostri sacri inglesi (Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Alan Bates, Emily Watson, Helen Mirren, Stephen Fry), dopo il successo planetario ricevette ben 7 nominations agli Oscar 2002. 

L'unica statuetta che però il film portò a casa (su 7) fu quella conquistata da Julian Fellowes per la migliore sceneggiatura originale (che aveva firmato da solo). 

Diversi anni più tardi Fellowes, che nella vita ha fatto anche l'attore, il regista, il produttore e naturalmente lo scrittore di romanzi, è diventato universalmente noto per la serie "Downton Abbey" (6 stagioni), una delle più viste di sempre, che ha messo d'accordo tutti, pubblico popolare e platea sofisticata amante delle atmosfere e delle psicologie alla Henry James. 

Ci voleva dunque una buona dose di coraggio per Fellowes, per cimentarsi con una nuova saga originale, intitolata "The Gilded Age", ambientata stavolta nella New York di fine Ottocento, qualche decennio prima dei fatti di Downton Abbey. 

Anche stavolta Fellowes ha messo in piedi un congegno narrativo perfetto (per ora 1 stagione, 9 puntate) basato sullo scontro tra la classe sociale degli immigrati americani di prima generazione legati alla madre patria Inghilterra, e perciò assai snob e la nuova generazione di parvenu americani, fortissimamente intenzionati a prendersi soldi, potere e successo e soprattutto notorietà e riconoscimento da parte della vecchia

La scrittura e i dialoghi sono del solito alto livello, la ricostruzione è fenomenale, senza i soliti trucchi al computer, con centinaia di comparse vere, costumi e ambienti fantastici, nella più consolidata tradizione dei lavori di Fellowes. 

Però sono quasi sicuro che The Gilded Age non avrà lo stesso successo di Downton Abbey (anche se pure qui ci saranno diversi seguiti): i personaggi sono (volutamente) meno empatici, non c'è il tono ironico e leggero (e romantico/sentimentale) del british mood che piace molto in Italia. 

D'altronde Fellowes è troppo serio per non averci pensato: gli USA di fine ottocento, non erano l'Inghilterra. 

Qui il confronto, le ambizioni, la lotta sociale, le dinamiche sono molto più cruente, prive di scrupoli. 

Non mancano personaggi moralmente virtuosi, ovviamente, in primis la protagonista Marion (impersonata da Louisa Jacobson, figlia di Meryl Streep). 

Ma si respira un'aria meno lieta e consolante. La visione The Gilded Age è comunque del tutto raccomandabile: il puro grande piacere dell'intrattenimento anglosassone, sullo spartito di una scrittura sempre brillante, formidabile.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/04/22

Poesia della Domenica di Pasqua: "Fede nella primavera" di Ludwig Uhland

 



Fede nella primavera.

Le dolci brezze si sono risvegliate spirano e sussurrano giorno e notte; si muovono ovunque.
Oh, aria fresca, oh nuovo suono ! Ora, povero cuore, non temere, Ora tutto, tutto deve cambiare.
Il mondo diventa più bello ogni giorno, non si sa cosa diventerà.

La fioritura non accenna a finire fiorisce anche la valle più lontana e profonda.
Ora, povero cuore, dimentica il tuo tormento. Ora tutto, tutto deve cambiare.


Ludwig Uhland, (Tubinga, 1787 – 1862) Fede nella Primavera

16/04/22

Ingeborg Bachmann e Roma, un destino tragico

 


Sto leggendo in questi giorni l'epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, meritoriamente pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui parlerò più avanti, e mi torna alla mente il tragico destino della grande scrittrice austriaca, innamorata del nostro paese e di Roma, in particolare, dove finì i suoi giorni nel modo più tragico. 

Dopo diversi soggiorni, in gioventù e nell'età matura, la Bachmann era tornata nel 1965 a Roma, a trentanove anni. Era una autrice ormai affermata, anche se il suo stile raffinatissimo, le sue poesie rarefatte e i racconti e i romanzi densi e magici, non potevano essere destinati a un grande pubblico. 

In quel periodo poi, la scrittrice soffriva per la dipendenza da pillole e alcol e scriveva assai poco. 

Nel 1967 aveva lasciato il suo editore, la Piper Verlag in segno di protesta per aver incaricato l'ex leader dell'HJ (la gioventù nazista) Hans Baumann di tradurre il Requiem di Anna Achmatowa, sebbene la Bachmann avesse caldamente raccomandato l'amico Paul Celan, passando alla Suhrkamp Verlag. 

Nella sua ultima lettera a Bachmann del 30 luglio 1967, Celan la ringraziava per aver preso parte all'"Affare Achmatowa". 

Quattro anni dopo, nel 1971 la Bachmann pubblicò Malina, il romanzo considerato il primo volume di una prevista trilogia intitolata Tipi di morte

L'ultimo lavoro di Bachmann è oggi considerato un "paradigma della scrittura femminile". 

Ancora due anni dopo, la fine improvvisa di uno spirito geniale e tormentato: nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1973, Ingeborg Bachmann subì gravi ferite nel suo appartamento romano, in Via Giulia, a causa di un incendio appiccato da una sigaretta accesa mentre si stava addormentando. 

Oggi  si sa che la sua dipendenza dalle pillole fu considerata una delle ragioni dell'incendio. 

Alfred Grisel, un amico intimo, riferì di una visita a Bachmann a Roma all'inizio di agosto 1973: “Sono rimasto profondamente scioccato dall'entità della sua dipendenza dalle pillole. Dovevano esserci circa 100 pezzi al giorno, il cestino traboccava di scatole vuote. Aveva un aspetto brutto, era pallida come la cera. E su tutto il corpo coperto di macchie. Mi chiedevo cosa potesse essere. Poi, quando ho visto la Gauloise che stava fumando scivolare dalla sua mano e bruciarsi sul braccio, l'ho capito: ustioni causate dalla caduta delle sigarette. Le tante pillole avevano reso il suo corpo insensibile al dolore.”

Dopo il grave incidente, la Bachmann fu portato all'ospedale Sant'Eugenio. La sua forte dipendenza dai sedativi (barbiturici), di cui i medici curanti inizialmente non erano a conoscenza, innescarono convulsioni simili a crisi epilettiche. 

Il 17 ottobre 1973 morì di sintomi di astinenza fatali all'età di 47 anni. 

Fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. 

Le indagini su un possibile sospetto di omicidio furono chiuse dalle autorità italiane il 15 luglio 1974. 

In un necrologio in Der Spiegel, Heinrich Böll descrisse la scrittrice come una dei pochi "intellettuali brillanti" che "non hanno perso la sensualità né trascurato l'astrazione nella loro poesia". 

Il suo patrimonio di 6.000 pagine si trova nella Biblioteca nazionale austriaca dal 1979 e può essere visualizzato nell'archivio della letteratura . Dal 2018 esiste anche un patrimonio parziale di quasi 1000 pagine con scritti e lettere dei suoi giorni da studente. 

Nel febbraio 2021 è stata decisa la vendita della casa dei genitori di Ingeborg Bachmann in Henselstraße 26 a Klagenfurt, alla fondazione privata carinziana.

I beni privati ​​di Bachmann, che Heinz Bachmann, fratello di Ingeborg Bachmann, riportò qui dall'appartamento romano dopo la sua morte, sono ancora conservati nella casa. 

Si prevede di aprire la casa al pubblico sotto la direzione del Klagenfurt Musil Museum.

Fabrizio Falconi - 2022

15/04/22

Quando "Ultimo Tango a Parigi" di Bertolucci finì al rogo, e come il regista riuscì a salvare dalle fiamme i negativi


Iscritto obtorto collo a Giurisprudenza (mio padre e mia madre erano operai e mio zio, il sapiente della famiglia non vedeva di buon grado la scelta di iscriveri a Lettere "vai a fare il professore a scuola?") sopravvissi 4 anni laureandomi in tempo, ma cercai anche di infilare lì dentro la mia passione per il cinema.

Così per la tesi scelsi come argomento la legittimità costituzionale della censura cinematografica, vexata quaestio in diritto costituzionale. La costituzione italiana non sancisce all'Art.21 la libertà di manifestazione del pensiero? Il comune senso del pudore può limitarla? Dove sta scritto? E in che modo? E chi lo decide?
Studiai per nove mesi ogni udienza del processo penale contro Ultimo Tango a Parigi (1972-1974) dove Bertolucci, Marlon Brando e Maria Schneider sedevano fisicamente sul banco degli imputati; processo terminato con la condanna alla "distruzione fisica" (esattamente al rogo) delle copie in pellicola del film.
Come è noto il film si salvò soltanto perché Bertolucci riuscì - nascondendole nel cofano della macchina - a trafugare 5 pizze - negativi - della pellicola, passando il confine svizzero.
La storia dell'istituto della censura cinematografica è molto interessante perché riassume in modo simbolico la storia del nostro paese nel novecento, dalla retorica fascista del ventennio e dalle censure politiche del Minculpop, al tetro moralismo democristiano, provinciale e bigotto, che considerava i cittadini italiani come bambini da preservare, soprattutto dagli imbarazzi del sesso.
A partire dagli anni '70 la storia dell'istituto divenne grottesca: mentre cominciavano a nascere le sale "a luci rosse", dove si vedevano tranquillamente hard movie, con riprese ravvicinate delle 87 posizioni del Kamasutra, venivano perseguitati i film dei nostri più importanti autori, da Bertolucci a Pasolini, da Fellini a Petri, tagliuzzando i loro film perché potessero ottenere il famoso "visto".
Un'altra bellissima storia si potrebbe costruire sulla composizione di queste famose "commissioni" di Censura cinematografica, formate da eterogenei e strampalati "esperti" che in cambio di gettoni di presenza decidevano per tutti gli italiani cosa poteva essere visto e cosa andava assolutamente proibito.
L'annuncio dato qualche anno fa dal ministro della cultura Franceschini della soppressione dell'istituto della censura è dunque risuonato fuori tempo massimo, anacronistico e piuttosto inutile. Ormai da almeno tre decenni la censura in Italia non contava più nulla, anche se sono restate sempre le famose "commissioni", più che altro per stabilire i divieti ai 14 e ai 18 anni.
Resta invece agli atti la storia ingloriosa di questo istituto che fece parecchi danni e che fece soffrire terribilmente molti autori del nostro cinema, nei suoi anni più felici e creativi.

Fabrizio Falconi - 2022

07/04/22

Le ultime foto di Kurt Cobain, a Roma, un mese prima di morire

 

Cobain all'uscita dall'Hotel Excelsior nel marzo del 1994 un mese prima di morire


Sono le utime, drammatiche immagini scattate a Roma che ritraggono Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, un mese prima della sua morte. 

Furono scattate probabilmente il 3 marzo del 1994 quando Kurt Cobain era a Roma, visto che i Nirvana avevano in programma un tour in Europa, con i concerti già ampiamente pubblicizzati, molti dei quali furono poi annullati, proprio per le condizioni di salute di Cobain. 

Kurt soffriva di una forte depressione e aveva iniziato a stare male già prima del suo arrivo in Italia. Pochi giorni prima del suo soggiorno romano, aveva tenuto il suo ultimo concerto con i Nirvana al Terminal 1 di Monaco, in Germania. 

Ma l'abuso di droghe, la relazione complicata con Courtney Love e i suoi fantasmi personali stavano già portando l’artista sull’orlo del precipizio. 

Lui e Courtney avevano pesantemente litigato e lei se n'era andata in Spagna a lavorare ai suoi progetti. 

Kurt la chiamò al telefono, in lacrime. 

Kurt Cobain nel suo primo viaggio a Roma in visita al Colosseo, nel 1989 

Stava sempre peggio. A Roma era sopraggiunto anche un fortissimo mal di gola, che gli impediva di cantare. 

Courtney Love decise così di raggiungere il marito. Ma nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1994 la situazione cominciò a precipitare: il cantante e la moglie alloggiavano all’Hotel Excelsior, in via Veneto. Con loro c’era anche la figlia, la piccola Frances Bean, di due anni. Nella foto qui sotto si vede Kurt proprio nei pressi dell'albergo, seduto in strada, in difficoltà.



La mattina seguente, quando Courtney si svegliò trovò Kurt sul pavimento privo di sensi e col sangue che gli colava dal naso. Come risultò dai rilievi, Cobain aveva assunto qualcosa come 50 compresse di Rohypnol, un forte farmaco con effetti ipnotici, ansiolitici e sedativi, usato per il trattamento dell’insonnia, in combinazione con alcol – champagne, nello specifico.

La cantante chiamò subito la reception dell’hotel che a sua volta chiamò un’ambulanza: Kurt fu portato di corsa al Policlinico Umberto I dove gli fu fatta una lavanda gastrica, per overdose. In seguito fu trasferito all’American Hospital dove riprese conoscenza qualche ora dopo. Dopo cinque giorni di ricovero Cobain fu dimesso e fece ritorno negli Stati Uniti, annullando il resto della tournée europea. Poco meno di un mese dopo, l’8 aprile 1994, il cadavere di Cobain fu ritrovato dall’elettricista Gary Smith – chiamato per installare un sistema d’allarme - presso la casa che il leader dei Nirvana occupava con la famiglia a Seattle.

Si è molto discusso negli anni se l'episodio romano fu un tentativo di suicidio o un incidente. Courtney Love non ha dubbi, visto che in quella occasione il marito aveva lasciato anche un biglietto con su scritto: 

Ancora Cobain a Roma nel viaggio del 1989 mentre visita San Pietro con i suoi compagni di band

"Il Dottor Baker dice che dovrei scegliere tra la vita e la morte. Io scelgo la morte".  

Incredibilmente comunque, questo campanello d'allarme fu ignorato: si iniziò a valutare questa ipotesi solo dopo che Kurt si suicidò davvero, circa un mese dopo quella overdose, il 5 aprile. 

Di certo l'episodio fu sottovalutato o non affrontato con la giusta determinazione. Quel che è certo è che la morte di Cobain fu l'ennesima tragedia, riservata ad un giovane talento assoluto del rock, una tragedia di sicuro ... preannunciata. 

Fabrizio Falconi -2022 

Kurt Cobain saluta i giornalisti con una Fanta in mano il 3 marzo del 1994 



06/04/22

Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht

 


E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935. 

Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte. 

Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri. 

Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio. 

Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile. 

Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza. 

In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini. 

Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.  

Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori.  Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto. 

Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco. 

Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro. 

Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza. 

Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale. 

Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni  - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino. 

Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria. 


Raoul Precht

Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò

Bottega Errante Edizioni,2022 

pagg. 198, Euro 17


Fabrizio Falconi - aprile 2022


05/04/22

Qual è il ruolo effettivamente avuto da Giuda Iscariota nella Passione e nella Morte di Gesù Cristo?


Da circa duemila anni teologi e filosofi disquisiscono su quale sia stato il ruolo effettivo avuto da Giuda l'apostolo Iscariota, nell'epilogo della Passione e nella morte di Gesù.

Il suo tradimento fu "opera del diavolo" come per secoli fu sostenuto oppure anche Giuda, dotato di libero arbitrio, scelse liberamente? Oppure il tradimento di Giuda fu "voluto" da Dio e Dio scelse Giuda dandogli questo ruolo, come a Maria conferì il ruolo di generare Gesù? Giuda tradì per troppo amore, perché amava troppo Cristo e lo aveva a tal punto idealizzato, aspettandosi che capeggiasse a fil di spada la rivolta contro gli invasori romani e quando non lo fece, decise di abbandonarlo (come sostiene una vulgata assai duratura che arriva fino a Jesus Christ Superstar)? Giuda non fu piuttosto "necessario" alla Passione e quindi non fece altro che "obbedire" a quanto gli fu chiesto da Cristo stesso, come raccontano i Vangeli gnostici (e in particolare Il Vangelo di Giuda)? In questo caso, sarebbe ben immeritato il ruolo riservato al "povero" Giuda da Dante nella Commedia.
Nel 1944 Jorge Luis Borges andò ancora oltre, nel racconto "Tre versioni di Giuda", nel quale espone le tesi di un fantasioso teologo, Nils Runenberg che adddirittura ipotizza una incarnazione di Dio proprio in Giuda (contemporanea a quella di Gesù? Alternativa? Non si comprende bene).
E' ovvio che il mistero di Giuda non verrà mai risolto. Il suo tradimento fu "così necessario?" Gesù Cristo non sarebbe stato comunque, in un modo o nell'altro, catturato e comunque eliminato fisicamente? Resta il suo ruolo sacrificale nell'economia della Passione: anche Giuda infatti muore, si suicida, e la sua morte favorisce (o accelera) in qualche modo quella di Gesù.
Gesù e Giuda sono legati, il bacio nell'Orto di Getsemani è il simbolo di ogni debolezza, di ogni dubbio, di ogni ambiguità umana. E' l'inadeguatezza dell'uomo dentro il piano di prospettiva divina, che solo la morte di un "dio fattosi uomo" può rovesciare.

Fabrizio Falconi - 2022

04/04/22

Perché la Shoah (l'Olocausto) è un "unicum" nella storia umana?


Specialmente in questi anni così confusi, di negazionismi sfrenati, benaltrismi, narcisismi piccoli e grandi che si esaltano nella confutazione spavalda dell'ovvio e del naturale, col pretestuoso e l'inaccettabile, vale la pena riportare qui la risposta forse più chiara ed esaustiva possibile alla domanda che spesso si sente ripetere, ovvero: per quali motivi la Shoah, l'Olocausto degli ebrei da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra mondiale è un "unicum" nella storia umana, e perché è sbagliato concettualmente e materialmente equipararlo ad altri tipi di genocidi terrificanti che sono stati compiuti nella storia. 

La risposta è piuttosto evidente e ciascuno di noi dovrebbe conoscerla, ma Lisa Palmieri-Billig dell'American Jewish Committee l'ha spiegato recentemente con poche parole essenziali che meritano di essere divulgate il più possibile: 

"La Shoah è stata pianificata a sangue freddo secondo precisi concetti di efficienza e tecnologia moderna. Fu eseguita da una civiltà altamente istruita, colta, avanzata, con l'uso di un diabolico, meticoloso piano di omicidio di massa mirato alla totale estinzione di tutti i membri di un certo popolo, una certa religione, una certa tradizione e cultura. Erano condannati per il loro Dna: uomini, donne, bambini, neonati, vecchi e infermi, tutto coloro a quella che era considerata una "razza inferiore". 

Più chiaro di così. 

Fabrizio Falconi - 2022

01/04/22

L'incredibile destino di Dag Drollet, ucciso dal figlio di Marlon Brando

 


Questa foto è davvero un reperto piuttosto terribile. Fu scattata nel 1988 e ritrae, da sinistra a destra Cheyenne Brando (la figlia di Marlon Brando e dalla tahitiana Tarita, terza moglie di Brando), insieme al fidanzato Dag Drollet (che aveva cominciato a frequentare l'anno prima), e alla madre di lui, Lisette. 

Due anni dopo questa foto, Dag Drollet fu ucciso con un colpo di pistola da Christian Brando, anche lui figlio dell'attore, fratellastro di Cheyenne, la quale all'epoca era incinta di Dag all'ottavo mese. 

Fu un evento scioccante per l'opinione pubblica mondiale: Christian Brando se la cavò con 5 anni di galera (Cheyenne non fu ritenuta testimone attendibile perché gravemente instabile psichicamente e dipendente da droghe). E l'evoluzione delle cose fu ancora più tragica: Christian, morì il 26 gennaio 2008, a 50 anni, a causa di una polmonite fulminante. Cheyenne Brando, invece, si impiccò il 16 aprile 1995 a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti, quando aveva soltanto 25 anni.

Ma perché Christian uccise il fidanzato della sorella? 

Christian Brando al momento dell'arresto

Dag Drollet, come si vede dalla foto, era un bellissimo ragazzo. Suo padre, Jacques Drollet, era membro dell'Assemblea della Polinesia francese. Cheyenne lo conobbe nel 1987, quando aveva 17  anni, a una cena perché la famiglia Brando e i Drollets erano amici di lunga data. 

Due anni dopo, Cheyenne rimase incinta. Su richiesta di Marlon Brando, la coppia si trasferì negli Stati Uniti, nella casa di Marlon's Mulholland Drive in attesa della nascita del loro bambino. 

Il 16 maggio 1990, il fatto di cronaca che mise fine alla vita del giovane:  Drollet fu infatti colpito a morte dal fratellastro maggiore di Cheyenne, Christian , proprio nella casa del padre. 

Christian Brando, che era un attore intento a ricavarsi un suo posto oltre il cliché di essere figlio del grande Marlon Brando, fu subito arrestato e accusato di omicidio di primo grado. Nei primi interrogatori sostenne che la sparatoria era stata accidentale. 

Raccontò che all'inizio di quella serata Cheyenne gli aveva confessato che Drollet la stava abusando fisicamente. 

Più tardi quella notte, Christian affrontò Drollet e questi rimase ucciso. Christian affermò che dalla pistola fosse partito un colpo mentre Drollet cercava di portargli via l'arma. 

Il processo iniziò, con grande eco mediatica. I pubblici ministeri del caso tentarono di citare in giudizio Cheyenne come testimone al processo di Christian, poiché ritenevano che il suo resoconto dell'evento della notte fosse cruciale per dimostrare che la sparatoria era premeditata. 

Tuttavia, Cheyenne rifiutò di testimoniare contro il fratellastro e fuggì a Tahiti. 

Sempre più provata psicologicamente, il 26 giugno 1990 diede alla luce un figlio che chiamò Tuki Brando. 
Cheyenne durante il periodo di riabilitazione psichiatrico


Subito dopo la nascita di Tuki, Cheyenne tentò il suicidio per due volte e fu ricoverata in ospedale psichiatrico per disintossicarsi dalla droga di cui faceva uso. 

A dicembre del 1990, Cheyenne fu dichiarata "disabile mentale" da un giudice francese e ritenuta incapace di testimoniare nel processo di suo fratello. 

Senza la testimonianza di Cheyenne, i pubblici ministeri conclusero di non poter più provare che la morte di Drollet fosse premeditata e presentarono a un patteggiamento a Christian Brando, che accettò l'accordo e si dichiarò colpevole dell'accusa minore di omicidio volontario . Fu condannato a dieci anni di reclusione. 

In totale ne scontò cinque e fu posto in libertà vigilata per tre anni. 

In un'intervista rilasciata dopo il suo rilascio, Christian ha dichiarato di dubitare delle accuse di abusi fisici di Cheyenne contro Drollet, a causa della instabilità mentale della sorella. "Mi sento un completo idiota per averle creduto", disse. 

Negli anni successivi alla morte di Drollet e al processo del fratellastro Christian, la salute mentale di Cheyenne continuò a peggiorare. Entrò ripetutamente in cure di riabilitazione dalla droga e ricoveri in ospedali psichiatrici. 

In questo periodo Cheyenne scatenò le sue accuse anche contro il padre, Marlon Brando, accusandolo  di averla molestata e di essere complice della morte di Drollet: Marlon Brando negò entrambe le accuse. 

A Cheyenne fu successivamente formalmente formulata la diagnosi di schizofrenia, fu isolata dai suoi ex amici e perse la custodia di suo figlio, Tuki, che fu affidato a sua madre, che lo ha cresciuto a Tahiti. 

Il 16 aprile 1995 il tristissimo epilogo: Cheyenne si impiccò a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti. 

Né suo padre né il suo fratellastro Christian poterono partecipare al suo funerale. 

Fu sepolta nel cimitero cattolico romano di Uranie a Papeete nella cripta di famiglia della famiglia di Dag Drollet.

Fabrizio Falconi - 2022 

La tomba di Dag Drollet e Cheyenne Brando a Papeete 



31/03/22

La grande amicizia e stima tra Kundera e Fellini: due geni che (però) non si incontrarono mai

 

      

Un lungo viaggio alla scoperta di Milan Kundera, il geniale, timido e riservatissimo scrittore, poeta e drammaturgo ceco. A regalarci un ritratto inedito dell'autore de 'L'insostenibile leggerezza dell'essere' attraverso un'amicizia nata sotto il segno di Federico Fellini e' Stefano Godano in 'Kundera e Fellini. L'arte di non incontrarsi' che è in libreria per Rizzoli, con la prefazione di Vincenzo Mollica. 

Kundera considerava Fellini la vetta dell'arte della seconda meta' del Novecento e Fellini ricambiava definendolo il piu' grande scrittore contemporaneo: si scrivevano e si stimavano ma non si sono mai incontrati, racconta nel libro Godano, giornalista, per molti anni confidente e amico fedele di Fellini, studioso appassionato dei rapporti tra letteratura e cinema. 

Qualche anno dopo la morte di Fellini nel 1993, Godano e la moglie Daniela Barbiani, nipote e assistente del regista, incontrano Milan e Vera Kundera. E' il 2001 e nasce una straordinaria amicizia, fatta di incontri, lettere e lunghe telefonate, di ore e ore a chiacchierare a casa Kundera e nei ristoranti di Saint-Germain, a Parigi. 

Lo scrittore piu' inaccessibile e irraggiungibile si confida con l'autore sull'onda di una forte amicizia esaltata dalla passione per Federico Fellini e dalla ricerca dei punti di contatto creativi e immaginifici con il lavoro del grande regista. 

I romanzi di Kundera, la fuga dalla Cecoslovacchia, l'amore per la Francia e l'insofferenza per la gauche caviar, la passione per Venezia, Capri e Roma e i giudizi su alcuni grandi scrittori contemporanei vengono ripercorsi in un ritratto fedele dello scrittore, arricchito dai suoi disegni e da quelli di Fellini. 

Godano ha lavorato con Daniela Barbiani anche alla realizzazione del 'Dizionario intimo di Federico Fellini' (Piemme 2019), per il quale ha raccolto il testo inedito di Milan Kundera posto all'inizio del libro. 


29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

27/03/22

La Poesia della Domenica: "Variazioni Belliche" di Amelia Rosselli






Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell'incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.

Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.


Amelia Rosselli