08/11/21
Chi era Giorgio, il padre di Francesco De Gregori omaggiato da "Tutto più chiaro che qui" ?
07/11/21
Quali sono stati i 5 film più visti di sempre al cinema, per numero di spettatori, in Italia? Molte sorprese.
Siamo da sempre abituati alle classifiche del box-office, per ciò che concerne il cinema, sempre aggiornate però sulla stagione in corso, oppure sull'unico parametro degli incassi, sulla base dei quali è ben difficile fare confronti con il passato: costo del biglietto, numero delle sale, diverso valore della moneta, delle lire prima e dell'euro poi, rendono impossibile stilare classifiche che abbiano un qualche senso.
L'unico criterio valido resta allora quello del numero di biglietti staccati: cioè del numero di spettatori che effettivamente si è recato in una sala cinematografica per vedere quel certo film.
Anche qui non mancano i problemi nel paragonare gli anni d'oggi con quelli del passato: troppo diverso il sistema di fruizione del cinema, ieri e oggi. Come sappiamo oggi l'offerta del cinema è variatissima e i mezzi per usufruire della visione di un film sono infiniti, dal web agli smartphone, dalla smart tv allo streaming: la sala è rimasta un mercato praticamente di nicchia.
La classifica del maggior numero di spettatori GLOBALE dei film proiettati in Italia nella storia del cinema e della distribuzione riserva tuttavia interessanti sorprese.
Il film più visto nella storia del cinema in Italia è infatti Dottor Zivago: il capolavoro di David Lean, uscito nel 1966, risulta essere stato visto nel nostro paese da una cifra incredibile di spettatori: 22 milioni e 900.000. Considerando che all'epoca la popolazione italiana era di circa 51.000.000 di abitanti, significa che quel film fu visto da quasi un italiano su due, al cinema.
Al secondo posto si piazza Il Padrino di Francis Ford Coppola, che nel 1972 portò al cinema qualcosa come 21.800.000 spettatori.
In terza posizione il colosso biblico I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, che nel 1953 (quando gli italiani erano 47 milioni) realizzò 16.800.000 spettatori.
Quarto è il più grande successo italiano della saga dell'agente 007: Missione Goldfinger, uscito nel 1964, ottenne 15.800.000 spettatori.
Quinto, un altro kolossal: Guerra e Pace, tratto da Tolstoj con la regia di King Vidor, anche se di completa produzione italiana, nel 1956. Al botteghino realizzò 15.623.000 spettatori (dato certificato dalla SIAE che lo conferma film di produzione italiana più visto di tutti i tempi nel nostro paese).
A sorpresa, il sesto posto è occupato dal controverso Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci. Il film con Marlon Brando e Maria Schneider, pur essendo stato sequestrato poche settimane dopo la sua uscita, e tornato nelle sale nel 1973, fu visto da ben 15.623.000 milioni di spettatori.
Sono numeri da capogiro, oggi del tutto irripetibili. Basti pensare che La vita è bella di Roberto Benigni (1997) o il recente Quo vado di e con Checco Zalone, non hanno raggiunto la soglia dei 10 milioni di spettatori.
Fabrizio Falconi (Fonte dati: http://boxofficebenful.blogspot.com/)
06/11/21
Il figlio segreto di Maria Callas: l'ombra della "Divina".
Una vita straordinaria, colma di successi straordinari, ma colma anche di un dolore profondissimo e sordo, di una inquietudine insopprimibile, di una fragilità congenita unita ad una determinazione straordinaria nella sua carriera mirabolante. Maria Callas, nel corso della sua vita custodì anche un segreto poco noto, che in un articolo tempo fa, fu così ricostruito:
Milano, 5 settembre 1977 Luigi era nervoso. Erano le undici e cinque e «La Signora» non era ancora arrivata. Quella scena si ripeteva ogni primo lunedì del mese. Da diciassette anni. Era il suo piccolo, grande segreto. Una vita onesta la sua: da quarant'anni per tutti lui era solo «il Ginetto», il vecchio custode del cimitero di Bruzzano, alla periferia nord di Milano.
Se la ricordava ancora come fosse ieri quella mattina di diciassette anni prima. Era un lunedì. Il primo lunedì di maggio. Faceva ancora freddo, il cielo non prometteva niente di buono. E lui se ne stava attaccato alla piccola stufetta della sua guardiola a leggere il giornale. Come ogni lunedì mattina, non c'era niente da fare: il cimitero era chiuso al pubblico.
All'improvviso il rumore di una macchina, di quelle potenti. Ginetto non credeva ai suoi occhi. Davanti al cancello c'era una berlina, di quelle che si vedevano giusto alle feste dei morti al Monumentale, il cimitero dei ricchi: blu, con le tendine grigie, per proteggere la privacy dei «signori», tirata a lucido come nuova.
Non aveva mai visto niente di simile in tutta la sua vita. «È lei il custode?» Un uomo alto, magro, in un elegante completo grigio, interruppe d'un tratto i suoi pensieri. «Guardi che qua è tutto chiuso. Dovete tornare più tardi, nel pomeriggio» rispose Ginetto, seccato per quell'intrusione che spezzava la monotonia del suo inizio settimana. «Lo sappiamo. Ma "La Signora" deve assolutamente far visita al cimitero. Questo è per il suo disturbo» disse l'autista senza scomporsi, mettendogli frettolosamente una busta in mano e guardandosi in giro con aria circospetta, per paura che qualche occhio indiscreto potesse assistere a quella scena.
Ginetto aprì in fretta la busta: c'erano cinquecentomila lire in contanti. Un'enormità. Non aveva mai visto tanti soldi tutti insieme. Con le mance, qualche cresta sui lumini e lo stipendio del Comune riusciva a stento a raggranellare centottantamila lire alla fine di ogni mese. Quell'uomo gli stava offrendo lo stipendio di tre mesi. E non ci doveva pagare nemmeno le tasse. Era lì a contare, ancora incredulo per tutto quel ben di Dio, quando l'anonimo autista lo interruppe ancora una volta. «Allora? Ci fa entrare? Se saprà conservare questo segreto ci vedrà arrivare alle undici del mattino di ogni primo lunedì del mese. Le garantiamo questa rendita in cambio del più assoluto riserbo. Niente chiacchiere. Con nessuno. Accetta?»
Ginetto fece due calcoli: quella sarebbe stata la svolta della sua vita. Il tredici al Totocalcio che aveva sempre sognato. Non era onesto? Be', in fondo lui non rubava niente a nessuno. Faceva solo un piacere a una sconosciuta «Signora». Senza pensarci due volte, aprì il pesante cancello del cimitero. «Vi accompagno. Dove dovete andare? Qui dentro è casa mia» propose. «Non si preoccupi. "La Signora" sa dove andare.»
Avrebbe voluto ringraziarla, «La Signora». Ma una tendina grigia la nascondeva al resto del mondo. Andava avanti così da diciassette anni. Tutti i mesi. Puntuale come un orologio svizzero, la berlina blu arrivava alle undici. «Son quasi le undici e mezzo. Che le sarà successo?» Ginetto ora incominciava a preoccuparsi sul serio. Non era mai successo in tanti anni che «La Signora» mancasse al suo appuntamento.
Poi, all'improvviso, il rumore della berlina. Ginetto tirò un sospiro di sollievo. Anche per quel mese la sua rendita era assicurata. Maria piangeva, come ogni volta. Lasciava che le lacrime scorressero lungo le sue guance scavate dalla solitudine. Dietro quella piccola foto di un neonato morto, dietro quel nome, Omero, inciso nel marmo a lettere d'oro, si nascondeva un pezzo della sua vita. Un segreto. Suo figlio. Sì, quel figlio che era stata costretta a nascondere agli occhi del mondo; quel figlio che aveva fatto seppellire di nascosto in un angolo remoto di Milano, come se se ne dovesse vergognare.
Quel figlio che non aveva potuto abbracciare neppure una volta per la crudeltà di suo padre, Aristotele Onassis.
fonte Il Giornale, 8 settembre 2007
02/11/21
"Meddle" compie 50 anni. I segreti del mitologico album dei Pink Floyd
01/11/21
L'uomo è una creatura assurda - Dostoevskij
29/10/21
Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?
Quando
fu costruito il primo teatro a Roma?
Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana.
Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C.
Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio.
Il
teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri
– e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo
Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della
città di Roma.
Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020
27/10/21
Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte
Il Palazzo del Monte di Pietà e
l’orologio dalle ore matte
E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che
affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu
costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce.
E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che
divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita,
Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.
Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni,
istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga
dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce,
affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco
Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a
conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in
difficoltà economica andavano a piazzare
al Monte.
Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel
Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi
di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.
A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua
installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che
quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.
Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora,
spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era
dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma
ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino
la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio
del Monte sempre matte. E cioè, in
pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che
l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine
in tempi relativamente recenti.
Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana
questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che
l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo
che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.
26/10/21
La storia della celebre Statua a Giordano Bruno, in Piazza Campo de' Fiori
25/10/21
La meraviglia della Galleria Prospettica del Borromini a Palazzo Spada
La magica prospettiva di Borromini e il piano nobile di Palazzo Spada.
24/10/21
Cagliostro a Roma: Una incredibile avventura
L’eretico
Conte Cagliostro e il rogo di libri maledetti a Santa Maria Sopra Minerva
Uno dei personaggi più controversi del Settecento fu sicuramente quel Giuseppe Balsamo, palermitano, passato alla storia con il ben più famoso appellativo di Conte di Cagliostro.
La storia di Cagliostro a Roma nasce quando
Giuseppe – alias Alessandro, come scelse di chiamarsi in seguito il sedicente
Conte – sposò Lorenza, la figlia analfabeta e a quanto pare bellissima di un
orafo. Il matrimonio si consumò nel giorno dell’anniversario della fondazione
di Roma – il 21 aprile del 1768 - in una
storica chiesa del rione Regola: San Salvatore in Campo.
Cagliostro all’epoca aveva venticinque anni, ma si era già lasciato alle spalle un passato turbinoso fatto di fughe,
ribellioni, piccole truffe che dalla sua Sicilia lo avevano poi portato, dopo viaggi
avventurosi, a Roma. Qui l’intraprendente giovane aveva aperto una
fiorente bottega di falsario (i documenti erano la sua specializzazione) al
Vicolo delle Grotte, sempre in quel quartiere della Regola, a due passi da Via
dei Giubbonari.
A Roma, il
futuro Conte di Cagliostro non si fece certo passare inosservato: venne arrestato
per una rissa scoppiata in una taberna al Pantheon, e dopo qualche giorno venne rilasciato
soltanto grazie all’interessamento di un amico che svolgeva le mansioni di
maggiordomo in una delle case più importanti di Roma, quella abitata dal
Cardinale Orsini
Lorenza e Giuseppe, sposandosi, stipularono una
specie di patto di sangue che li portò nel giro di un trentennio a sconquassare le nobili corti di mezza
Europa: lui imbastendo improbabili traffici, stregonerie, guarigioni
miracolose, pseudo artifici alchemici,
riti esoterici, che gli guadagnarono la fama del più grande furfante del
secolo, lei mettendo a disposizione le sue arti amatorie per sedurre e
ammorbidire mecenati, conti (veri) e marchesi, ricchi gentiluomini, e farli
diventare strumenti in mano all’ingegnoso e mai domo marito. E ciò ovunque: nel
nord Italia – a Bergamo vengono arrestati e poi rilasciati – in Francia, Spagna, a Lisbona, Londra, e ancora in Francia,
Belgio, Germania, Malta, Olanda, Lettonia, San Pietroburgo. Non c’è angolo della
vecchia Europa che non li veda protagonisti di qualche intrigo, di qualche
teatrale messinscena, di qualche fuga rocambolesca, magari seguita ad un
arresto, di qualche scandalo sessuale.
Giuseppe,
chimico e ipnotizzatore, inventore e alchimista, trasforma anche la sua
identità: comincia a farsi chiamare Alessandro e si inventa il titolo di Conte
di Cagliostro. Conosce le grandi personalità del secolo, da Casanova ai sovrani
di Francia e di Russia, si mette in testa anche l’idea di fondare un nuovo rito
massonico egizio che pretende addirittura sia riconosciuto dal papa, organizza
la clamorosa truffa della collana ai danni della Regina Maria Antonietta,
finisce nuovamente in carcere, alla Bastiglia, quattro anni prima della
Rivoluzione Francese, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento dei
migliori avvocati del Paese che perorano la sua causa presso il Parlamento.
Ma anche dalla Bastiglia, Cagliostro riesce a
fuggire. Ripara a Londra, e per la prima volta Lorenza comincia a prendere le
distanze da quell’uomo impossibile, fosco e tiranno.
Qualche anno più tardi, quando Giuseppe si presenta
di nuovo a Roma con un prezioso salvacondotto predisposto per lui dal potente
principe di Trento, Pietro Virgilio Thun, il vero scopo di Cagliostro è quello
di ottenere udienza dal papa e di riuscire nell’intento folle di ottenere il
suo riconoscimento dell’ordine egizio da lui fondato.
A Roma comunque Cagliostro ricevette la massima attenzione
dai circoli massonici dell’epoca (frequentati in gran parte da diplomatici
stranieri) e in particolare dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme che
avevano la loro sede a Villa Malta, nell’odierno quartiere pinciano.
A Villa Malta Cagliostro diede spettacolo:
organizzando sedute massoniche, dando prova delle sue doti di medium e di
veggente, convertendo nuovi adepti al neo ordine da lui fondato.
Questi movimenti però non passarono inosservati agli
emissari della Inquisizione, nei cui ambienti si sospettava fortemente che
Cagliostro fosse un agente segreto (o un commissario mandato dagli Illuminati
di Weishaupt) inviato nella capitale per sobillare le migliaia di massoni che,
nascosti, attendevano un segnale per ribellarsi al potere papale.
Non contento, nello studio del pittore francese
Augustin Belle, Cagliostro allestì una specie di tempio della sua nuova
religione: una stanza completamente ricoperta di drappi neri, e ornata di
colonne e simboli massonici, nella quale venivano compiuti i riti di
iniziazione.
Ed è a questo punto della vicenda, nel settembre del
1789, quando il conte si sente ormai spiato e seguito ovunque, che Lorenza
rompe gli indugi e lo denuncia ad un chierico, parroco della chiesa di Santa
Caterina della Rota, a due passi dalla sua casa avita.
La denuncia viene immediatamente spedita al temibile
Sant’Uffizio. Lorenza, in un estremo empito di pentimento si rifiuta di
firmarla, ma ormai è troppo tardi; le autorità pontificie hanno già deciso la
sorte del Conte: bisogna mettere fine alla sua pericolosa intraprendenza, alle
sue scandalose e oscure trame.
Il 27 dicembre di quell’anno il Papa (Pio VI) firmò l’istanza
speciale per l’arresto di Cagliostro e un manipolo di soldati pontifici fece
irruzione negli alloggi del pittore Belle e prese il Conte in flagranza di
reato, incatenandolo e portandolo a Castel Sant’Angelo.
Le accuse contenute dalla denuncia della moglie e
quelle derivate dagli stessi scritti del Conte, sequestrati, oltre che le
delazioni dei molti nemici, causarono al Conte l’imputazione per reati
gravissimi che andavano dall’eresia alla pratica di magia nera, al falso contro
la Chiesa.
Per scongiurare il pericolo di una nuova fuga, venne
raddoppiata la guardia alle segrete di Castel Sant’Angelo, dove Cagliostro era
detenuto in totale isolamento.
Nel processo di fronte al Sant’Uffizio l’imputato
viene anche coinvolto in dispute teologiche delle quali egli non poteva minimamente
disquisire.
Cagliostro fu interrogato, nel corso di un anno, per
ben quarantatre volte e torturato a fuoco dagli inquisitori.
La sua rovina era ormai completa, e il Conte cercò di
difendersi in ogni modo riversando ogni
colpa sulla moglie, e sui suoi costumi licenziosi, e giunse fino al punto di scrivere
direttamente al Papa, negando ogni accusa di massoneria e chiedendo la
grazia.
Ma la sentenza, pronunciata il 21 marzo 1791 fu di
colpevolezza, con la pena prescritta per eretici, eresiarchi e maestri di magia
nera, ovvero il rogo.
Pio VI però, per evitare di trasformare il truffatore
in un martire, decise di trasformare la sentenza di morte in ergastolo. Il frate cappuccino Fra’ Giuseppe di San
Maurizio, ritenuto corresponsabile (si era fatto convincere ad aderire alla
società massonica dal Conte) viene condannato a dieci anni, mentre una
assoluzione piena viene dispensata a Lorenza, la cui testimonianza è stata
decisiva per l’arresto e la condanna del furfante.
I documenti del processo però sono rimasti segreti per
secoli e gli archivi del Vaticano non hanno mai messo a disposizione i
documenti: quel che sembra certo è che il Conte arrivò anche a confessare un
incontro segreto con gli Illuminati di Weishaupt allo scopo di convertire la
massoneria francese alla nuova causa.
Per umiliare in pubblico Cagliostro, fu deciso di
costringere il condannato a camminare scalzo e con abiti laceri, tenendo una
candela tra le mani, tra due file di monaci, lungo le vie di Roma, da Castel
Sant’Angelo e fino a Santa Maria sopra Minerva, la chiesa sorta sui resti del
tempio romano dedicato ad Iside. Giunto
nel sacro edificio, Cagliostro fu obbligato ad inginocchiarsi di fronte
all’altare e a rendere pubblica abiura delle sue eresie.
Poi, in piazza, proprio di fronte all’Obelisco – il
cosiddetto Pulcino della Minerva – fu
dato alle fiamme il manoscritto di Cagliostro, nel quale enunciava i principi
del suo nuovo Ordine, gli altri testi (andati perduti) e tutti gli emblemi
massonici sequestrati nel Tempio del
pittore Belle.
Questo rito fu particolarmente simbolico: l’Ordine di
Cagliostro, tutto fondato sui crismi della sapienza massonica egizia, veniva
eloquentemente distrutto proprio nel luogo di Roma che ricordava più da vicino
i contenuti del paganesimo orientale-egizio.
Dopo l’umiliazione pubblica, il Conte venne
trasferito a piedi (e al buio, temendo che la presenza del noto prigioniero
fosse notata da qualcuno), nella fortezza di San Leo, in cima alle montagne di
Montefeltro, la prigione più malfamata d’Italia, dove i detenuti si diceva
impazzissero: la cella a lui destinata fu il terribile Pozzetto, un cilindro di
pietra sprovvisto di porta (il detenuto venne calato da una fessura in alto),
con una sola misera feritoia e un nudo letto di paglia.
Qui, in questa oscura e spaventosa prigionia,
Cagliostro trascorse gli ultimi cinque anni di vita, in un alternarsi di crisi
mistiche ed estatiche (durante le quali finirà perfino nel credersi un santo,
mandato sulla Terra per convertire gli infedeli), deliri disperati, e una
febbrile attività di pittura delle pareti della sua stessa cella, con immagini
sacre, e autoritratti.
Nel giugno del 1795 riuscì a diffondere il suo ultimo
annuncio profetico: “Sarò l’ultima vittima dell’Inquisizione, perché quando
raggiungerò l’aldilà pregherò talmente tanto che su questa terra ci sarà un
nuovo Ordine.”
Morì il 26 agosto del
Quel che la leggenda tramanda è che nel dicembre del
1797 la fortezza di San Leo fu occupata dai soldati della legione polacca della
repubblica cisalpina di Napoleone. Liberati tutti i prigionieri, i soldati si
misero alla ricerca della sepoltura di Cagliostro, la cui fama continuava a
propagarsi in tutta Europa, anche post-mortem,
e trovato il suo teschio, lo usarono
come coppa per bere il vino.
Qualche tempo dopo, quando le truppe francesi del
generale Massena fecero irruzione a Roma, a Castel Sant’Angelo scoprirono un
misterioso manoscritto sequestrato a Cagliostro il giorno del suo arresto: un
prezioso testo, decifrato nel XX secolo che conteneva e descriveva un rituale
autentico della Confraternita dei Rosacroce, opera si disse, del Conte di
Saint-Germain, pieno di riferimenti alchimistici e cabalistici.
Circostanza che alimentò a lungo la fama oscura del Conte e la leggenda del suo fantasma: di Cagliostro si continuerà a sostenere per decenni che il Pozzetto di San Leo non fu affatto la sua ultima dimora terrena, e che egli invece, riuscito a fuggire travestendosi con il saio del frate, venuto per confessarlo e ucciso a mani nude, continuò ad imperversare a lungo, sotto mentite spoglie, nelle corti nobili di Roma. Ma di questo, ovviamente non v’è alcuna prova documentale.
Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015
23/10/21
I VENTI Capolavori di Woody Allen - Una collezione da guardare e riguardare
E' davvero incredibile la quantità di film d'alto livello prodotta dal geniale Woody Allen nel corso della sua cinquantennale attività di regista. Qui ho stilato la lista dei 20 capolavori imperdibili, all'interno di una filmografia estremamente feconda.
20 film straordinaria da vedere e rivedere.
1. BROADWAY DANNY ROSE, 1984
Una sceneggiatura meravigliosa, senza pause e in crescendo, un centinaio tra battute e gags travolgenti, la storia dell'agente teatrale ed ex comico Danny Rose, talmente fallito che i suoi unici clienti rimasti sono uno xilofonista cieco, un ballerino di tip tap con una gamba sola e un'anziana coppia di strozzapalloni.
La fotografia è del meraviglioso Gordon Willis.
E una fantastica Mia Farrow è Tina Vitale, l'amante dell'italoamericano Lou Canova, ex crooner di un certo successo.
Girato a New York in piena estate.
Rutilante e divertentissimo.
Un cast di attori strepitoso che va dalla Farrow a John Malkovich, da Donald Pleasence a Lily Tomlin, da Jodie Foster a Cathy Bates, da Joh Cusak (nella foto) fino addirittura a Madonna Ciccone.
3. AMORE E GUERRA, 1975
Si toglie dai protagonisti, limitando a girare un film assai rigoroso, quasi teatrale e a tratti gelido, privo di colonna sonora.
La critica lo snobba giudicandolo quasi un plagiatore.
Il pubblico diserta le sale.
Ma i membri dell'Academy lo candidano a ben 5 statuette (non ne vincerà nessuna).
Il dramma è interamente famigliare e quasi claustrofobico con una famiglia che va in pezzi dopo che il padre decide di lasciare la madre e si sposa, davanti alle tre figlie con una donna più giovane e apparentemente assai più volgare.
Rivisto oggi, il film è un Bergman rivisitato con rispetto e personalità da Allen in un bellissimo copione. Splendida la fotografia di Gordon Willis e le scene di Mel Bourne.
Un cast prestigiosissimo con Geraldine Page, Maureen Stapleton, E.G. Marshall, e naturalmente la giovane Diane Keaton.
7. MANHATTAN, 1979
8. ZELIG, 1983
11. MATCH POINT, 2005. L'ultimo capolavoro di Woody Allen, che risale ormai a 16 anni fa.
Girato a causa delle difficoltà economiche di quel periodo di Allen non a New York, come avrebbe voluto, ma a Londra e con cast interamente inglese (a parte Scarlet Johansson).
Un film tirato e crudele, che racconta la vicenda di Chris, giovane irlandese, bello e sicuro di sé, insegnante di tennis, che ha la possibilità di dare lezioni ai membri della famiglia Hewitt, nobili e ricchi, che sin da subito lo accolgono nel loro giro di amici.
Ne nascono intrighi e delitti che sottopongono allo spettatore questioni morali importanti.
Chris infatti riuscirà a restare impunito per i suoi misfatti grazie a un banale colpo di fortuna, come quello di una pallina da tennis lanciata sulla rete che può cadere da una parte all'altra del campo.
Sceneggiatura perfetta che mette in luce ancora una volta il pessimismo fondamentalista di Allen, che non recita ma resta dietro la macchina da presa.
Il botteghino arrise al film, che fu premiato da grandi incassi in tutto il mondo, fungendo da definitivo trampolino di lancio per la Johansson.
La splendida fotografia è di Remi Adefarasin, anche lui inglese di origini nigeriane.