26/01/21
David Bowie, Sukita e la storia della iconica foto di copertina dell'album "Heroes"
25/01/21
E' morto Alberto Grimaldi, uno dei più grandi produttori del Cinema Italiano
Fondatore della PEA, Grimaldi si affermò negli anni Sessanta con gli Spaghetti Western, realizzando quelli che ormai sono classici del genere come Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima.
Dalla fine degli anni Sessanta Grimaldi divenne uno dei principali produttori del cinema d’autore. Dal 1968, a partire dall’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, iniziò a lavorare con Federico Fellini, un sodalizio che proseguì con Fellini Satyricon (1969), Il Casanova di Federico Fellini (1976) e Ginger e Fred (1986). Fondamentale la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, di cui Grimaldi produsse tutti i film da Il Decameron (1970) all’ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).
Un capitolo a parte merita l’avventura con Bernardo Bertolucci. Con la United Artists, Grimaldi realizzò Ultimo tango a Parigi (1972) e fu coinvolto, insieme a Bertolucci, nella lunga e tormentata vicenda legale, dal sequestro della pellicola alla condanna fino al rocambolesco salvataggio di una copia. Nonostante lo scandalo internazionale, il film riuscì a incassare 36 milioni sul mercato americano e oltre 90 in tutto il mondo, ottenendo due nomination all’Oscar. Nel 1976 fu la volta del kolossal Novecento.
Grimaldi produsse anche Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri (1969), Storie scellerate di Sergio Citti (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli (1979). L’ultimo suo grande progetto è Gangs of New York di Martin Scorsese (2002).
fonte: il cinematografo.it
22/01/21
Platone esoterico: le incredibili proprietà del numero 5040
Nei Dialoghi di Platone, diversi sono i brani in cui affiora una concezione pitagorica del numero. Il più celebre è quello del Timeo, che, in accordo con l’astronomia pitagorica, vede nella struttura del cosmo un’armonia retta da proporzioni matematiche.
21/01/21
L'incredibile foto di James Dean davanti alla tomba del bisnonno - Un macabro scherzo del caso
19/01/21
C'è ancora qualcuno che dice "Non so" ? Eppure è questa la saggezza
Viviamo tempi nei quali, obnubilati dalle proprie convinzioni su tutto, che difendiamo a ogni costo e sempre anche quando esse poggiano sul nulla, nessuno sembra essere più capace di dire "Non so". Eppure ammettere la propria ignoranza o indecisione su questioni non semplici è una vera e propria fonte di saggezza come insegna questo antichissimo Detto dei Padri del Deserto.
Una volta giunsero dall'abate Antonio dei vecchi e con loro c'era l'abate Giuseppe. Volendo l'anziano metterli alla prova, propose loro un passo delle Scritture e cominciò a chiedere, dal più giovane, di quale luogo si trattasse. Ognuno rispondeva come poteva. Il vecchio replicava: "Non ci siamo." Alla fine chiese all'abate Giuseppe: "Che ne pensi ?" . Egli rispose "Non so".
Allora l'abate Antonio disse: "Sicuramente l'abate Giuseppe ha trovato la via, perchè ha detto 'Non so' ".
Detti dei padri del deserto, Antonio, 17 (scritto verso 290 d.C.)
18/01/21
Che cos'è la coscienza umana? Perché l'uomo ha coscienza di se stesso? Dove ha sede la coscienza? Un grande mistero
17/01/21
La poesia della domenica: "Tutto si perde" di Angelo Maria Ripellino
15/01/21
Ma cos'era esattamente - e come era fatta - l'Arca dell'Alleanza?
13/01/21
Recensione di "Nessun pensiero conosce l'amore" di Fabrizio Falconi (di Vernalda Di Tanna)
12/01/21
Libro del Giorno: "La società della stanchezza" di Byung-Chul Han
Uno dei saggi più conosciuti di Byung-Chul Han, nato a Seul, e considerato uno dei piú interessanti filosofi contemporanei, docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, che ha pubblicato con Nottetempo amche Eros in agonia (2013, 2019), La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015), Psicopolitica (2016), L’espulsione dell’Altro (2017), Filosofia del buddhismo zen (2018), La salvezza del bello (2019) e Che cos’è il potere? (2019).
In questo suo testo, di grande lucidità, Byung-Chul Han analizza il disagio dell’individuo tardo-moderno nelle odierne società della prestazione e della competizione.
Rivisitando alcune categorie classiche del pensiero novecentesco, l’autore osserva come l’ossessione dell’iperattività e del multitasking produca disturbi di natura depressiva e nevrotica, e interpreta questo malessere come un’incapacità a gestire la negatività dell’esperienza, in un mondo caratterizzato dall’eccesso produttivo e dalla disponibilità universale di merci e persone.
Una denuncia dell’odierna “società della stanchezza”, in cui ogni reazione al modello sociale dominante rischia di essere inibita da un senso d’impotenza.
Riporto qui di seguito, l'affascinante incipit del testo (che risulta anche quanto mai attuale. Han ha scritto nel 2013, quando era ancora difficile immaginare lo sviluppo di una pandemia come quella attuale):
La violenza neuronale
Ogni epoca ha le sue malattie. Cosí, c’è stata un’epoca batterica, finita poi con l’invenzione degli antibiotici. Nonostante l’immensa paura di una pandemia influenzale, oggi non viviamo in un’epoca virale. L’abbiamo superata grazie alla tecnica immunologica. Sul piano delle possibili patologie, il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)2, il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo.
11/01/21
Libro del Giorno: "Benedizione" di Kent Haruf
In fondo nella storia della letteratura moderna - quella che per intenderci parte dalla grande cesura tra fine Ottocento e primi del Novecento - è possibile distinguere due grandi filoni stilistici: il primo - che può farsi risalire a Proust e seguentemente a Joyce, Henry James, ecc.. - nel quale è preponderante la descrizione e lo studio della psicologia umana, dei sentimenti umani, dei pensieri umani; il secondo - che può trovare la sua radice in Cechov e seguentemente in una parte rilevante della letteratura americana, da Hemingway a John Fante a Carver - nel quale invece è prevalente la descrizione dei caratteri e delle cose umane, di quello cioè che succede e che viene narrato. Di questa seconda grande categoria sono eredi oggi scrittori dalla narrativa limpida ma estremamente distillata, che quasi mai si dilungano in descrizioni dei sentimenti o delle emozioni, ma che lasciano che questi emergano dal racconto più o meno particolareggiato, dalla osservazione nuda delle cose e di minimi effetti narrativi.
Per far ciò, è chiaro, bisogna essere grandi narratori. E' relativamente più facile dedicare venti o trenta pagine alla descrizione di un sentimento o di una serie di sentimenti dei protagonisti, che far emergere questi, cioè il mondo interiore dei personaggi dal semplice racconto, "nudo e crudo" di quel che succede loro.
Nel caso di Haruf, come scrive bene l'ottimo traduttore Fabio Cremonesi, nella pagina della nota finale, tutto si gioca tra semplicità ed esattezza.
Normalmente si pensa che semplicità ed esattezza vadano difficilmente d'accordo, presumendo che per una descrizione accurata occorrano molte parole, molte frasi, molti pensieri. E che, di converso, una narrazione piana e scarna possa essere evocativa, ma non esatta.
Ad Haruf riesce invece il miracolo di una narrazione scarnificata, ridotta all'essenziale, con parole centellinate e frasi di poche o pochissime parole e dialoghi perfino non virgolettati, e però estremamente esatta.
Cosa che rende ancora più difficile la sfida del traduttore.
Haruf, scomparso nel 2014, è diventato negli ultimi anni uno scrittore di culto, anche in Italia, specialmente con la cosiddetta Trilogia della Pianura, di cui Benedizione è il primo capitolo.
Nella Trilogia, ma anche negli altri romanzi di Haruf, vengono raccontate storie relative a persone qualunque, ambientate in una immaginaria cittadina del Colorado, Holt, ritagliata sul modello della cittadina nella quale lo scrittore ha vissuto a lungo.
In questa profonda provincia americana, tra il nulla e le montagne, accadono le vicende ordinarie di uomini e donne, vecchi e bambini, ordinari: Dad, il vecchio gestore del ferramenta del paese sta morendo di cancro. Sua moglie, Mary, lo accudisce amorevolmente fino alla fine, senza staccarsi da lui. Anche la figlia Lorraine accorre al capezzale e si rende utile. Il figlio Frank invece no: dopo aver scoperto la sua omosessualità si è allontanato dal padre dopo un duro conflitto e non ha mai fatto ritorno a casa. Intorno a loro si muovono le esistenze di altri personaggi: l'anziana Willie con la figlia Aline, il pastore Lyle con la moglie e il figlio, che prende alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e manda su tutte le furie la comunità della cittadina, i vicini di casa, premurosi e dolenti come gli altri attori di questo racconto: ciascuno con la sua croce, con le sue speranze, con la sua voce umile ma viva.
Ed è forse questo il più grande pregio dei libri di Haruf: la capacità di raccontare la vita vera. Senza orpelli, compiacimenti, giochi letterari, con un realismo minimo ma profondamente intenso perché vero. E soprattutto con un tono di speranza che si accende inaspettato dietro il grigiore che sembra pervadere tutto: la capacità di cercare la luce nella tenebra. Questo è quello che fanno gli indimenticabili personaggi di Haruf. Forse è proprio quello che succede anche nelle nostre vite.
08/01/21
Il DNA degli antichi romani ricostruito: si è modificato nel tempo seguendo le fasi storiche di ROMA
Il DNA dei romani si è modificato nel tempo seguendo l’evoluzione delle fasi storiche che hanno segnato la vita e la crescita della città che al suo culmine ha raggiunto per prima al mondo la popolazione di un milione di abitanti come capitale di un Impero che univa tra loro tre continenti.
07/01/21
L'incredibile assalto al Congresso Americano: la profezia di Gore Vidal
06/01/21
La statua di Lord Byron a Villa Borghese e una decapitazione a Piazza del Popolo
7. La statua di Lord Byron a Villa Borghese e i fantasmi
Figlio di un padre che non
conobbe mai e di una madre che lo asfissiò, ossessionandolo sia fisicamente che
psicologicamente, George Gordon Noel Byron, più conosciuto come Lord Byron,
nato a Londra nel 1788, divenne come è noto il più celebre poeta dei suoi
tempi. Non solo: la sua vita faticò molto a dividersi dalla sua arte: Byron
anzi fu in un certo senso il vero, perfetto dandy. Chiacchieratissimo da vivo per i suoi
scandali e per le continue eccentricità (come quando si fece rinchiudere nella
Cella del Tasso, a Ferrara o come quando attraversò a nuoto lo stretto dei
Dardanelli), Byron morì nel 1825 in Grecia, a Missolungi, in seguito a una
febbre reumatica contratta a Cefalonia, che degenerò in meningite delirante. E
proprio come accade per le rockstars
di oggi, la sua morte divenne un evento, lasciando inconsolabili fans a lamentarne la dipartita.
Poco tempo dopo la morte,
alcuni amici si misero insieme raccogliendo la somma di mille sterline per
commissionare una statua dello scrittore. Tra i vari scultori pretendenti fu
scelto il danese Bertel Thorvaldsen, il quale si trovava in quel periodo in
Italia.
La scelta non fu casuale: lo
scultore aveva già ritratto Byron vivo nel brevissimo e intenso soggiorno
romano del poeta a Roma, nel suo studio di piazza Barberini, per incarico di
John Cam Hobhouse, che del poeta era compagno di viaggio e studio. Con tanto di
lodi sull’artista da parte dello stesso Byron, il quale l’aveva definito nei
suoi diari «Il migliore dopo Canova, al quale anzi alcuni lo preferiscono».
Il busto, dopo varie
peregrinazioni, era finito a Londra nella sede della casa editrice di John
Murray, e fu dunque utilizzato come modello per la nuova e più grande opera.
La statua fu iniziata dallo
scultore nel 1829 ma Thorvaldsen impiegò molto tempo per completarla poiché,
proprio a causa della fama scandalosa che avvolgeva ancora la figura di Byron, fu
rifiutata da tutte le istituzioni che avrebbero dovuto ospitarla: il British
Museum, la Cattedrale di Saint Paul, l’Abbazia di Westminster e la National
Gallery, trovando finalmente la sua collocazione nel 1834 nella biblioteca del Trinity
College di Cambridge. Thorvaldsen contraddisse, non si sa quanto consciamente,
la volontà di Byron, che in vita, proprio avendo a cuore la promozione della
sua immagine, aveva chiesto agli artisti che lo effigiavano (erano
numerosissimi: il merchandising intorno a Byron aveva prodotto ritratti,
bassorilievi su medaglioni di marmo e perfino anelli con la sua immagine) di
ritrarlo non come un poeta, e cioè con il libro e la penna in mano, ma come un
“uomo d’azione”. Thorvaldsen, invece, raffigurò Byron proprio nella posa
classica dei poeti, seduto su di uno scranno di marmo, con un libro aperto
nella mano sinistra, la penna nella destra, poggiata sul mento.
La statua comunque, dopo le
difficoltà iniziali, ebbe grande successo e vi fu una produzione numerosa di
copie, nel corso degli anni, una in ogni città dove Byron aveva soggiornato:
una fu realizzata anche a Roma, inaugurata nel 1959, e si può ammirare nel cuore
di Villa Borghese, in via della Pineta.
Sul piedistallo della copia
romana, sono incisi brani tratti dal poema di Byron, Childe Harold Pilgrimage,
dedicati all’Italia:
of the world, the home
Of
all Art yields, and Nature can decree,
Even in
thy Fair Italy!
Thou
art the garden desert, what is like to thee?
Thy
very weeds are beautiful, thy waste
More
rich than other climes’ fertility;
Thy
wreck a glory, and thy ruin graced
With an immaculate charm which cannot be defac’d.
Sullo scranno di marmo poi,
dalla parte sinistra sono raffigurati alcuni simboli esoterici: un teschio, un
gufo e due lettere greche, l’alfa e l’omega.
Il perché di questa
simbologia si spiega con l’enorme fascinazione di Byron per il mistero, che a
Roma, in quei ventidue giorni trascorsi nella capitale, aveva trovato terreno
assai fertile.
A Roma Byron arrivò nella
primavera del 1817, interrompendo un gaio soggiorno veneziano, proprio per
realizzare il sogno di vedere da vicino quella città che lo aveva sempre – da
lontano – ammaliato. Un medico infatti prescrisse al poeta di allontanarsi dall’umidità
veneziana, per guarire da un “mal di petto”. Byron non se lo fece ripetere e colse l’occasione
per realizzare il suo sogno, attraversando l’Italia con il suo corteo al
seguito, una carrozza con i sedili reclinabili e una quantità enorme di
bagagli.
Giunto nella capitale, andò
abitare nella centralissima piazza di Spagna, al numero 66. E non aspettò
nemmeno un minuto per cominciare a esplorare la città in sella al suo cavallo.
L’impressione che ne ricavò fu immediata e stordente: «Sono incantato da Roma
come lo sarei da una cappelliera di pizzi», scrisse al suo editore John Murray,
«e di Roma non vi dirò nulla: è indescrivibile. La guida qui vale più di ogni
altro libro. Ho passato tutta la giornata a cavallo…» (3).
Le sue peregrinazioni lo
portarono al Colosseo, al Pantheon, a San Pietro, sul Palatino e perfino fuori
Roma, a Frascati, Albano e Ariccia.
Byron sentì le rovine e i
monumenti come muti testimoni di una tragedia immane, popolati di presenze
ancora vive. Nel Pellegrinaggio di Aroldo
rievoca – come in una visione – l’episodio del gladiatore agonizzante nell’arena:
Stavo tra le mura del Colosseo,
In mezzo ai grandi resti della potente Roma.
Gli alberi che crescevano lungo gli archi spezzati
Oscillavano oscuramente nell’azzurro cupo della notte,
E le stelle splendevano tra gli squarci delle rovine;
Un cane da guardia latrava oltre il Tevere;
E più vicino, dal palazzo dei Cesari, veniva
Il lungo lamento del gufo e, a tratti,
Il canto inquieto di lontane sentinelle
Sorgeva e si smorzava sul vento leggero[U2] .
Un brano talmente straziante
che Stendhal, anche lui in quei giorni di passaggio a Roma, riprende nelle sue Passeggiate Romane, animandolo in una
notte di suggestiva luce lunare. (4)
E nell’arco di quei ventidue
intensissimi giorni, il dandy pallido e fascinoso ebbe modo anche di scoprire
il lato tragico contemporaneo di Roma. In un’altra lettera del 30 maggio di
quell’anno, sempre indirizzata a Murray, Byron descrive minuziosamente l’esecuzione
capitale cui gli accadde di assistere: riguardava tre ladri (erano, come risulta
dal puntiglioso diario di Mastro Titta, il boia: Giovan Francesco Trani, Felice
Rocchi e Felice De Simoni) decapitati nella piazza del Popolo con l’accusa di “omicidi
e grassazioni”. Byron racconta il
macabro spettacolo: i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i
criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe,
la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere della lama, lo
schizzare del sangue e l’apparizione spettrale delle teste esposte. Tutto
questo, scrive Byron, «è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e
sudicio new drop e dell’agonia da cani inflitta alle vittime delle sentenze». (5)
Forse fu proprio l’aver
assistito a questo spettacolo cruento uno dei motivi che spinsero Byron ad
interrompere presto il suo soggiorno a Roma: dopo ventidue giorni e notti di ruderi
e cavalcate, di frequentazioni dell’alta società romana e di soste al Caffè
Greco, il poeta decise di far ritorno al Nord, portandosi dietro i fantasmi di
Roma che ritornarono a farsi vivi nei suoi poemi.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015
1. Il primo a parlare di una corrispondenza tra il profilo della
Villa Strohl Fern e l’Isola dei morti di Boecklin fu Gianni Rodari in Quel
pasticciaccio di Villa Strohl-Fern. La bistrattata isola di verde sopra
Piazzale Flaminio, «Paese Sera», 23 settembre 1975.
2. A. Trombadori, Villa
Strohl Fern, «Strenna dei Romanisti», 21 aprile 1982.
3. Vedi G. Scaraffia, Quella Roma di Lord Byron, «Il
Messaggero», 27 luglio 2015.
4. Vedi C. Rendina, Le notti di luna di Byron sospeso sui
misteri di Roma, «la Repubblica», 24 luglio 2007.
5. Vedi C. Rendina, ibidem.