16/08/17

45 anni fa venivano ritrovati i Bronzi di Riace - un mistero che continua.

Quarantacinque anni di ipotesi e ricerche. Un mistero che non ha smesso di affascinare studiosi, esperti, visitatori di ogni parte del mondo: sono i Bronzi di Riace, simbolo identitario di Reggio Calabria e del Museo Archeologico Nazionale, diretto da Carmelo Malacrino, scoperti la mattina del 16 agosto 1972.

Fu il sub Stefano Mariottini ad avvistare le due statue a 300 metri dalla costa di Riace e ad 8 di profondita'


Il sub contatto' il soprintendente dell'epoca, Giuseppe Foti, per le operazioni di recupero che avvennero il 21 agosto

Il primo a riemergere fu il "Bronzo B" poi il "Bronzo A", successivamente rinominate "il vecchio" e il "giovane"



Alte rispettivamente 1,98 e 1,97 metri, dagli originari 400 kg, oggi il peso e' ridotto a circa 160 kg, in virtu' della rimozione della terra di fusione operata dagli esperti.

Realizzate attorno alla meta' V secolo a.C., con una differenza di circa un trentennio l'una dall'altra, le due statue, ricorda in una nota il Museo archeologico, presentano stilemi dorici, tipici del Peloponneso o dell'occidente greco


Cio' che resta incerta e' la loro identificazione: divinita' o guerrieri o forse ancora gli sfortunati figli del re Laio, Eteocle e Polinice, del noto ciclo tebano. 

Dal loro ritrovamento e' rimasto il mistero sull'imbarcazione che le trasportava, il cui relitto non e' stato mai trovato. Mistero che resta su altri reperti significativi. Questioni che hanno alimentato ed alimentano tuttora teorie che lasciano aperti molti spazi interpretativi sulla loro storia. 

Dopo un primo intervento conservativo effettuato dalla Soprintendenza di Reggio Calabria, i Bronzi furono trasferiti a Firenze dove, tra il 1975 e il 1980, subirono una lunga operazione di restauro a cura dell'Opificio delle Pietre Dure con due obiettivi: la pulizia e la conservazione delle patine esterne e il tentativo di svuotamento della terra di fusione dall'interno delle statue. 

Gli esami su questo materiale, condotti a Roma all'Istituto centrale del restauro, ne confermarono la provenienza dalla Grecia, piu' precisamente dal Peloponneso. 

Gli interventi continuarono nel laboratorio del Museo di Reggio dal 1992 al 1995. Con la chiusura del Museo per i lavori di ristrutturazione, nel 2008, le statue furono trasferite in un laboratorio appositamente allestito nella sede del Consiglio regionale, dove sono stati ospitati dal 2010 al 2013. 

 La prima esposizione al pubblico fu fatta dal 15 dicembre del 1980 al 24 giugno del 1981 al Museo archeologico di Firenze. Per volere del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, le due statue vennero poi esposte al Quirinale, dal 29 giugno al 12 luglio del 1981

Riportati a Reggio e disposti su un primo sistema di protezione antisismico, dopo i tre anni di sosta a Palazzo Campanella, i Bronzi, con un suggestivo trasferimento notturno, rientrarono al Museo e qui sono collocati su basi di sicurezza targate Enea, protettive anche contro terremoti di forte intensita'. 

 Oggi i Bronzi di Riace sono ospitati, in una sala dedicata,nel livello D dell'esposizione permanente del MArRC, restituito alla citta' nella sua completezza il 30 aprile del 2016. 

fonte: Alessandro Sgherri per ANSA

15/08/17

Ferragosto macabro: 1503, la terribile inumazione di Papa Borgia - Alessandro VI.




In una collezione di personaggi famosi maledetti a Roma – intorno ai quali sono sorti racconti di apparizioni post-mortem – non potevano e non possono mancare i rappresentanti della famiglia Borgia, o meglio Borja come sarebbe più corretto chiamarli visto che Rodrigo de Borja (quarto papa spagnolo della storia) eletto al soglio pontificio col nome di Alessandro VI, apparteneva come lo zio, Callisto III (al secolo Alonso de Borja) ad una potente famiglia originaria di Xàtiva, a 50 chilometri da Valencia. 

Eletto cardinale giovanissimo, a venticinque anni, grazie ai potenti influssi dello zio, Papa Callisto III, Rodrigo fu eletto papa nella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1492 (due mesi esatti prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo) , quando aveva già 61 anni. 

All’epoca della sua elezione, Rodrigo era già un personaggio leggendario, a Roma. Dissoluto e libertino, asservito in ogni modo ai piaceri della carne, il futuro Papa aveva già messo al mondo una schiera di figli, tutti illegittimi, e – cosa ancora più grave per un ecclesiastico, ma certamente non rara all’epoca – si era disinvoltamente prestato alla simonia, cioè alla compravendita di cariche ecclesiastiche e della pratica delle indulgenze e delle assoluzioni. Queste cattive abitudini peggiorarono, anziché migliorare, una volta ottenuta la nomina papale

Ebbe altri due figli illegittimi dall’amante, ed esercitò uno spietato nepotismo per garantire ogni sorta di immunità e di potere per il figlio Cesare, detto Il Valentino, uomo particolarmente avido, violento e senza scrupoli, al quale il padre costruì un regno su misura, permettendogli la conquista di città e signorie in Italia, con l’aiuto perfino del nemico storico del papato, l’imperatore Carlo VIII di Francia. 

In questo modo Rodrigo-Alessandro VI riuscì nell’intento di farsi odiare dal popolo di Roma – arringato dalle piazzate del frate domenicano Girolamo Savonarola, che per la sua pubblica denuncia finì per essere arso vivo a Firenze nel 1498 - e dalla corte dei nobili che non vedevano l’ora di sbarazzarsi di un despota di tali dimensioni, sfacciatamente arrogante nella esibizione del lusso e della corruzione, adottata come lingua ufficiale dello Stato, e usata soprattutto per favorire la parte spagnola della corte papale

 Odio e maldicenza nei confronti del Papa si trasmettevano inevitabilmente anche ai suoi figli, soprattutto a Cesare e a Lucrezia, sul conto della quale – nata a Subiaco nel 1480 dalla relazione clandestina di Rodrigo con Vannozza Cattanei – cominciò a circolare ogni sorta di leggenda nera, compresa quella che la vedeva protagonista di vere e proprie orge incestuose, insieme al padre e al fratello. 

 In realtà molti testi recenti hanno riabilitato la figura di Lucrezia, delineando la figura di una donna più vittima degli eventi che realmente depravata: andata in matrimonio a soli tredici anni a un Conte, e dichiarato il matrimonio nullo, Lucrezia si sposò a diciotto con Alfonso, figlio del re di Napoli. Alfonso fu brutalmente ucciso per ordine di Cesare Borgia, forse geloso della sorella, o forse semplicemente desideroso di utilizzare nuovamente Lucrezia come pedina di scambio per i suoi desideri di conquista: cosa che puntualmente avvenne con un terzo matrimonio, stavolta con Alfonso I d’Este. 

Il terzo matrimonio fu anche l’ultimo: Lucrezia morì a Ferrara, a soli 39 anni di età, per una febbre infettiva. 

 Il grande caos messo in piedi da Alessandro VI, e dalla sua dissoluta famiglia, come si vede, autorizzava pienamente i nemici a tentare di escogitare ogni mezzo possibile per liberarsi del papa-tiranno. 

 Ciò che alimentò per molto tempo, e per i secoli a venire – anche se oggi la circostanza è oggetto di forte discussione tra gli storici - la voce che la fine stessa del Papa fosse dovuta ad un avvelenamento. 

Un avvelenamento che in realtà era stato, secondo il racconto, organizzato dallo stesso Alessandro VI ai danni di un cardinale nemico, durante un convivio, ma che per errore aveva finito per ritorcersi contro lo stesso Papa, e contro il figlio Cesare (miracolosamente sopravvissuto) per un banale scambio di calici

 Avvelenamento che fosse – o semplice malaria come si sospetta oggi – il Papa cadde malato l’11 agosto del 1503

 L’11 doveva essere il suo numero fatale: l’11 agosto, infatti era stato eletto, 11 agosto il giorno della malattia letale, e 11 anni esatti, dunque, la durata del suo Regno pontificio.

La malattia del Papa tiranno, come raccontano le cronache dell’epoca, assunse da subito contorni macabri: vi fu chi affermò recisamente di aver visto distintamente sette dèmoni in guisa di scimmie nere appollaiate di guardia nel soffitto della camera dove Alessandro moriva, mentre nel delirio invocava proprio il Principe delle Tenebre, il Maligno, affinché – in ossequio al patto maledetto contratto all’epoca della sua elezione - gli consentisse di regnare ancora per qualche anno, e di sopravvivere alla terribile congestione

L’appello, a quanto pare non venne ascoltato, non solo: i servitori del Papa, i funzionari di curia, perfino le suore che lo accudivano – secondo il racconto del cronachista Jacopo da Volterra – abbandonarono in fretta e furia il papa agonizzante, nel terrore certo che i dèmoni sarebbero presto giunti a impossessarsi dell’anima del defunto. 

 Il corpo di Alessandro VI andò così in fretta incontro ad una spaventosa putrefazione, al punto tale che i falegnami dovettero incassarlo a calci e martellate per come e quanto si era gonfiato, si trattava insomma del « più orribile e mostruoso corpo di defunto mai visto. Un cadavere talmente deforme che non aveva più figura umana » come annotò il diplomatico veneziano Antonio Giustiniani nel suo resoconto ufficiale

 Ora, se è pur certo che molti di questi particolari furono alimentati necessariamente dall’alone macabro che circondava la figura di Alessandro, resta il fatto che le circostanze della sua inumazione furono particolari, se non altro per il fatto che si svolsero nel caldo torrido di ferragosto: il cadavere del Papa, esposto parzialmente (soltanto i piedi, per l’adorazione dei fedeli) dietro l’inferriata del coro, cominciò ben presto a puzzare orribilmente. 

 Cosa che consigliò l’immediata inumazione che fu celebrata a mezzanotte (!) nella Rotonda degli Spagnoli (l’antica cappella che fiancheggiava la vecchia Basilica di San Pietro, che venne distrutta nei lavori di riedificazione della Cupola). 

 Narrare le peripezie del sepolcro dei Borgia – di quello di Alessandro che poi divenne anche quello di suo figlio, Cesare – sarebbe impresa ardua: basti dire che per quattro secoli queste spoglie non trovarono mai pace, più volte violate, riassemblate in casse comuni, trasportate da un luogo all’altro fino all’ultima destinazione, la chiesa di Santa Maria di Via Monserrato, alle spalle di Via Giulia, dove furono inumate nel 1881 e dove ancora si trovano, nella prima cappella dal lato dell’Epistola. 

 E proprio questo luogo, o meglio questa antica zona di Roma è teatro delle apparizioni del fantasma di Rodrigo de Borja: per molti anni, le spoglie dei Borgia giacquero nella chiesa del tutto dimenticate, ragione per cui non fu facile mettere in relazione quella misteriosa apparizione di un uomo avvolto da una tunica rossa e dal viso deforme più volte segnalata da terrorizzati passanti che ne riferivano l’incontro a notte fonda nei vicoli intorno a Piazza Farnese, in Via Giulia o lungo il Ponte Sisto. 

Quando dei Borja si ricominciò a parlare - anche per via della riabilitazione storica che qualche studioso ne tentò, e per l’interesse suscitato dagli spagnoli che vivevano a Roma, e che erano desiderosi di visitare quelle spoglie di cui nemmeno i diretti discendenti (i conti di Gandìa) avevano voluto occuparsi – fu naturale mettere in relazione la leggenda del terrorizzante fantasma che agitava le notti romane con il Papa dissoluto le cui ossa più volte profanate giacevano nella Chiesa di Santa Maria in Monserrato, denominata degli Spagnoli. 

 La leggenda nera dei Borja o dei Borgia, non poteva poi coinvolgere anche la bella Lucrezia. Anche il fantasma di colei che aveva soggiogato principi e regnanti, e che così infelicemente si era prestata alle oscure trame famigliari, infatti ha trovato il modo di manifestarsi più volte nella storia: in particolare un pianto accorato sembra che sia il segnale che del fantasma di Lucrezia Borgia è possibile ascoltare passando sotto il vecchio Forte di Nepi, una cittadina non lontano da Roma, in provincia di Viterbo. Di Nepi, Lucrezia divenne in vita Signora grazie ad una solenne cerimonia che si svolse nel 1499, e durante le quali le furono affidate le chiavi della città. 

 Per Lucrezia, il padre Rodrigo fece costruire, alla confluenza di due torrenti, quella grandiosa Rocca, negli appartamenti della quale, la ragazza riuscì a vivere però – insieme allo sposo Alfonso – soltanto per un anno, prima che come abbiamo detto i sicari di Cesare non la resero vedova. Ed è nelle sale e nei giardini di questo castello, a quanto pare, che il fantasma di Lucrezia ancora non ha smesso di cercare pace.

14/08/17

Un gruppo di 54 persone in un ambiente chiuso, in disperata fuga dal Vulcano: si svelano i misteri degli scheletri di Oplontis.



Un gruppo di 54 persone, per lo piu' parenti - uomini, donne e bambini - affollati in un unico ambiente perche' in cerca di scampo dalla furia del Vesuvio. 

Sono gli scheletri oggetto di studi antropologici, isotopici e di Dna, condotti - in collaborazione con l'Universita' del Michigan (professor Nicola Terrenato), l'Universita' della West Florida (professoressa Kristina Killgrove) e con l'aiuto della Dr.ssa Andrea Acosta (dottoranda dell'Universita' del South Carolina) - sui resti umani ritrovati negli anni '90 nella Villa di Lucius Crassius Tertius (la cosiddetta Villa B), poco lontano dalla famosa Villa di Poppea a Torre Annunziata, l'antica Oplontis. 

Gli studi - che stanno rivelando interessanti informazioni sullo stile di vita e sulle patologie diffuse all'epoca - sono arrivati a una prima fase e continueranno fino alla meta' del mese di agosto in situ. 

Gli esami, condotti per la prima volta nell'area Pompeiana su un contesto cosi' ampio e complesso (finora studi del genere si erano concentrati nella sola zona di Ercolano) stanno rivelando i segreti di almeno 54 fuggiaschi che portavano con loro una ricca dotazione di monete e gioielli. 

I risultati finora acquisiti raccontano della presenza di almeno due donne incinte, con gravidanza quasi a termine; di un numero significativo di vittime biologicamente correlati, vista la presenza riscontrata di tratti genetici comuni, che le indagini sul DNA su campioni di denti e ossa verificheranno. 

In particolare, molti di loro presentavano denti incisivi di forma caratteristica, che si riscontra raramente in scheletri del I sec. d.C. di altri ambienti romani e che sembrerebbe quindi accomunarli. 

L'analisi del campione scheletrico sembrerebbe, in generale, attestare un buono stato di salute dei fuggitivi. 

A differenza delle indagini svolte in altre aree del mondo romano - condotte su scheletri ritrovati nelle necropoli, pertinenti dunque a individui deceduti per morte naturale o molto probabilmente per malattia, e che recano testimonianza di patologie quali anemia, fratture, infezioni e artriti - gli studi sui resti ritrovati nell'area vesuviana consentono di indagare lo stile di vita di individui di varie eta', soggetti a morte violenta ma nel pieno della loro vita. 

Tale condizione consente di reperire dati importanti sulle abitudini di vita e l'alimentazione. Il fatto che non emerga alcuna indicazione circa patologie quali l'anemia, per esempio, puo' significare che a Oplontis malattie come la malaria non erano presenti e che la popolazione aveva una dieta equilibrata

Attraverso le ulteriori analisi degli isotopi stabili di ciascuno scheletro, sara' possibile addirittura ottenere informazioni sugli alimenti consumati negli ultimi anni di vita. 

Al contrario del buono stato generale di salute, la situazione dentale della popolazione di Oplontis variava parecchio. 

Molti scheletri rinvenuti presentano mascelle mancanti di denti o con denti deteriorati, con numerose carie e/o erosione dentale. In alcuni bambini e adolescenti, l'analisi della dentatura sembrerebbe denunciare un periodo prolungato di malattia o di fame. 

Ulteriori approfondimenti, nei prossimi mesi, saranno possibili attraverso le analisi del DNA degli agenti patogeni e dei parassiti del suolo di appoggio degli scheletri.Le ricerche in corso condotte dalle Universita' americane, assieme alla Direzione del Parco archeologico di Pompei, sono state finanziate dal National Endowment for Humanities, dalla Rust Family Foundation for Archaeological Research e dall'Universita' della West Florida.

 La Villa di Crassius Tertius, cosiddetta B, fu scoperta casualmente nel 1974 duranti lavori per la costruzione della palestra di una scuola, e si trova a circa 300 m di distanza dalla Villa di Poppea (Villa A)

Furono quasi interamente riportate in luce l'edificio principale e parte delle strutture edilizie circostanti. Probabilmente l'attivita' della villa era rivolta alla commercializzazione di prodotti della terra, non alla loro produzione. Sulla base di un sigillo rinvenuto duranti primi anni di scavo il proprietario, gestore della fiorente azienda commerciale fu identificato con Lucius Crassius Tertius. 

Oggi la Villa, accessibile unicamente per indagini e campagne di studi, e' oggetto, insieme con la Villa di Poppea, di ricerche condotte nell'ambito dell'Oplontis Project, in collaborazione con l'Universita' del Texas a Austin (professor John Clarke), in vista di un progetto di restauro globale e di una futura apertura.

06/08/17

La poesia della Domenica: Sonetto n.1 di William Shakespeare.




Alle meraviglie del creato noi chiediam progenie
perché mai si estingua la rosa di bellezza,
e quando ormai sfiorita un dì dovrà cadere,
possa un suo germoglio continuarne la memoria:
ma tu, solo devoto ai tuoi splendenti occhi,
bruci te stesso per nutrir la fiamma di tua luce
creando miseria là dove c’è ricchezza,
tu nemico tuo, troppo crudele verso il tuo dolce io.
Ora che del mondo sei tu il fresco fiore
e l’unico araldo di vibrante primavera,
nel tuo stesso germoglio soffochi il tuo seme
e, giovane spilorcio, nell’egoismo ti distruggi.
Abbi pietà del mondo o diverrai talmente ingordo
da divorar con la tua morte quanto a lui dovuto.


From fairest creatures we desire increase,
That thereby beauty’s rose might never die,
But as the riper should by time decease,
His tender heir might bear his memory;
But thou, contracted to thine own bright eyes,
Feed’st thy light’s flame with self-substantial fuel,
Making a famine where abundance lies,
Thyself thy foe, to thy sweet self too cruel.
Thou, that art now the world’s fresh ornament
And only herald to the gaudy spring,
Within thine own bud buriest thy content
And, tender churl, mak’st waste in niggarding.
Pity the world, or else this glutton be,
To eat the world’s due, by the grave and thee.



William Shakespeare

05/08/17

Ferragosto a Roma: i luoghi della Cultura che resteranno aperti.



Sperando che il clima africano consenta una tregua più vivibile, a Ferragosto a Roma la cultura comunque non va in ferie. 

Il giorno sara' possibile visitare i musei, aperti regolarmente, mentre la sera si potra' partecipare alle iniziative nei Fori di Augusto e di Cesare, alla magia del teatro shakespeariano al Silvano Toti Globe Theatre e alle rassegne estive della Casa del Cinema, ambedue nel verde di Villa Borghese. 

Le attivita' sono promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Organizzazione Ze'tema Progetto Cultura. 

Si potranno dunque visitare le collezioni e le mostre ospitate ai Musei Capitolini, al Museo dell'Ara Pacis, ai Mercati di Traiano, al Museo di Roma, alla Galleria d'Arte moderna e al Macro. 

Per la sera di Ferragosto gli appuntamenti in programma al Globe Theatre, l'arena nel parco di Villa Borghese per i film della Casa del Cinema. 

Miscela di spettacolo e archeologia, infine, I viaggi nell'antica Roma a cura di Piero Angela e Paco Lanciano con due emozionanti tappe al Foro di Augusto e al Foro di Cesare: partendo da pietre, frammenti, colonne e con l'uso di tecnologie all'avanguardia, gli spettatori sono guidati dalla voce di Piero Angela e da filmati e ricostruzioni. 

Una rappresentazione emozionante e allo stesso tempo ricca di informazioni dal grande rigore storico e scientifico. 

04/08/17

L'Euforia della distruzione, l'Umiltà della costruzione.





Sembra la cosa più difficile del mondo, essere - come scrive Ezra Pound nell'ultimo verso dei Cantos - uomini, non distruttori

Gli esseri umani, da sempre, provano una euforia profonda nel distruggere.  

Distruggere esaudisce un desiderio di potenza che l'uomo tenta ad ogni passo di decretare nel breve corso della sua esistenza, schiacciata da grandezze incommensurabili (la Terra, l'Universo, l'Infinito). 

Essere capaci di distruggere è la massima espressione della individualità umana, che appaga la certezza di essere al mondo e quindi di poterne essere arbitro della sua esistenza (del mondo), anche se di una piccolissima porzione di mondo. Si potrebbe dire: distruggo quindi sono.

Oltretutto distruggere è enormemente più facile e breve (e quindi gratificante) che costruire. Grazie a questo, distruggere procura anche una consistente euforia, che è quella ribelle, iconoclasta e soddisfatta di Dioniso:

ci vogliono decenni e secoli interi per costruire il centro di una città - le sue difficili armonie architettoniche, le sue delicate strutture;  ma bastano i pochi secondi del fischio delle bombe sganciate da un B52 per mettere fine a tutto, e fare tabula rasa;

ci vogliono anni, lustri e decenni per costruire relazioni umane - amicizia, amore - fondate sulla fiducia, sulla comprensione, sulla cura; ma bastano due sole parole pronunciate o scritte per distruggerle definitivamente; 

ci vogliono mesi e anni per costruire pazientemente un mandala, l'umiltà di stare chini per ore e ore in piena concentrazione per disporre la sabbia - l'elemento più volatile che esista - in un ordine armonico pieno;  ma bastano 15 secondi per distruggerlo, raccogliere la polvere, metterle in un'urna e gettarla nel mare. 

L'Euforia del distruttore è potenzialmente molto più energetica della pazienza o dell'umiltà del costruttore, e anche riferita al destino complessivo della razza umana - sembra destinato a prevalere, proprio perché fa parte dell'essenza più intima e in-guaribile dell'animale umano.

Fabrizio Falconi





02/08/17

Torna a vivere finalmente il magnifico Teatro Marittimo di Villa Adriana a Tivoli.





L'inizio di un biennio dedicato al grande Imperatore Adriano, in occasione del 1900mo anniversario dalla sua ascesa al trono, e' salutato a Villa Adriana, sitoUnesco di Tivoli, con l'inaugurazione, dopo tre anni di restauro, del complesso monumentale del Teatro Marittimo e della Sala dei Filosofi

L'impegnativa opera di restauro, ha risolto i problemi di sicurezza e restituito piena leggibilita' al piu' celebre complesso monumentale della Villa che, per le sue numerose "citazioni" nell'architettura moderna, ha contribuito in maniera determinante all'iscrizione della residenza tiburtina nel Patrimonio Mondiale dell'UNESCO

 "Il Teatro Marittimo - spiega Andrea Bruciati, Direttore dell'Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d'Este - era uno spazio dedicato al pensiero, alla meditazione, alla riflessione, che riemerge ora da un restauro che ha interessato nell'ultimo triennio un'area fondamentale del complesso residenziale adrianeo. Ambiente simbolo dell'immaginario, parzialmente inaccessibile dal 2010, che ora reintegra la lettura totale del monumento, proiettando una luce nuova sul futuro prossimo della Villa".

"Questa riapertura - sottolinea Bruciati - segna un primo atto estroverso di un processo inclusivo che vedra' varie aree dispiegarsi nuovamente al pubblico in questo biennio dedicato all'Imperatore. Un'azione simbolica e concreta che si innesta dialetticamente su una frequenza preziosa ed antica, che indica in maniera attuativa il nuovo corso dell'Istituto Villa Adriana e Villa d'Este". 

"Con questo importante restauro del teatro Marittimo - dichiara Ilaria Borletti Buitoni, Sottosegretario del Ministero dei beni e delle attivita' culturali e del turismo con delega ai siti Unesco - continua l'attenzione e la cura da parte del Mibact verso Villa Adriana, la cui centralita' nel nostro patrimonio e' ora parte della nostra identita' culturale nazionale". 

"Dopo un lungo periodo di chiusura - spiega il Soprintendente per l'archeologia, le belle arti e il paesaggio per l'Area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l'Etruria meridionale, Alfonsina Russo -, sara' quindi di nuovo percorribile il suggestivo portico anulare del Teatro Marittimo, che consentiva di accedere ai due vicini Palazzi imperiali, e si potra' ammirare la minuscola domus privata accolta sull'"isola" centrale cinta dal canale". 

L'integrazione delle cortine murarie, condotta - com'e' nella tradizione dei restauri in Villa - con rigoroso metodo filologico, rispettoso della poesia delle rovine, e la pulitura delle superfici lapidee enfatizzano la bellezza delle soluzioni spaziali che si inseriscono, prediligendo spazi avvolgenti e coperture a volta, nel piu' innovativo filone della progettazione adrianea. 

Analogamente, nell'attigua Sala dei Filosofi integrazioni e consolidamenti hanno ridato nettezza di linee alle colossali strutture di quella che fu in realta' la biblioteca della Villa, espressione dell'ideale di cultura greca, assurto a vero elemento unificante dell'Impero di Adriano.

01/08/17

Torna in Libreria "Misteri dei Rioni e Quartieri di Roma" di Fabrizio Falconi - L'introduzione.







Introduzione 


 Rione è ormai una parola consolidata, entrata nell’uso comune del linguaggio a Roma, anche se la modernizzazione della città l’ha sostituita negli ultimi anni, impropriamente, con la parola Quartiere. Il termine antico di Rione deriva – come è evidente dalla etimologia – dalla parola regione e rimanda immediatamente alle quattordici celebri regioni in cui era suddivisa Roma all’epoca di Augusto, tredici delle quali erano poste sulla sponda sinistra del Tevere (dove del resto la città era sorta) e una soltanto – Trastevere – sulla sponda destra.

Ma i Rioni che si sono poi consolidati nella storia cittadina hanno poco a che vedere con le regioni originarie di epoca imperiale. Se infatti esiste una certa continuità, fino al VII secolo, dopo la caduta dell’Impero, a partire dal 600 d.C., tutto cambia nella storia e anche nella topografia cittadina: Roma si svuota di popolazione – un crollo verticale – la città si cristianizza definitivamente con la trasformazione di quasi tutti gli edifici dell’età classica in luoghi cristiani, si assiste a un progressivo svuotamento del territorio urbano: le rovine della Roma di un tempo, cadute nell’oblio, vengono letteralmente ingoiate dalla campagna incolta, e dentro l’incredibile recinto murario costruito sotto Aureliano (diciotto chilometri di cinta fortificata per millequattrocento ettari di territorio !) si aprono enormi spazi vuoti, con nuclei abitati divisi tra di loro da considerevoli distanze, che rendono necessarie nuove fortificazioni parcellizzate – visto anche che la cinta muraria originale è ormai fatiscente e passibile di attacchi e invasioni – com’è il caso della cosiddetta Città Leonina, innalzata da Leone IV (847-855 d.C.), che creò una efficace protezione alla zona dell’ager vaticanus e della Basilica di San Pietro.

 Tra l’VIII e il IX si spezza dunque definitivamente quella continuità territoriale con la vecchia Roma imperiale: la Città viene ripensata secondo nuovi criteri, che sono fondamentalmente quelli cristiani, quelli che si ispirano all’uso che della città viene fatto dai molti pellegrini che da ogni parte d’Europa si mobilitano per venire a visitare i celebri Mirabilia Urbis – quel che ne resta – e i sepolcri dove sono conservate le ossa degli Apostoli del Cristianesimo in Occidente, Pietro e Paolo.

A partire dall’anno mille, la popolazione in città ricomincia a crescere, le zone abitate lentamente iniziano nuovamente ad espandersi. Ed è proprio in questo periodo che i romani ritornano ad usare il termine Regio – prodromo di quello di Rione – per indicare le zone abitate della città (ad esempio Regio que vocatur Clivus Argentarii, ovvero la zona sotto il Campidoglio, che oggi è identificabile con il Velabro e il cosiddetto Arco di Giano bifronte).

Regio o Rione iniziano ad essere usati indifferentemente per indicare alcune zone della città, per l’esattezza dodici (anche se nei documenti notarili dell’epoca si arriva a trenta) dei quali ignoriamo l’estensione e i confini precisi, anche se sappiamo che molto probabilmente non avevano nulla a che vedere né con le quattordici regioni augustee, né con le sette regioni ecclesiastiche del III secolo d.C. e nemmeno con le dodici regioni militari di età bizantina. 

All’inizio del milleduecento, in un codice viennese, repertorio dei Mirabilia Urbis, appare una lista di rioni romani, suddivisi in dodici principali e ventisei secondari; è soltanto una lista provvisoria che tenta di fotografare una realtà magmatica, in continuo movimento: il tessuto urbano di Roma, infatti, in questo periodo medievale, sta letteralmente rinascendo e riassestandosi sulle stesse modifiche geologiche intercorse in lunghi anni di abbandono, come ad esempio l’innalzamento del livello del calpestio stradale di diversi metri, in tutte le zone del centro.

Fino alla fine del 1500 il numero dei rioni rimarrà consolidato in tredici (dodici sulla sponda sinistra più Trastevere sulla sponda destra), ma nel Rinascimento, a partire dalla prima metà del Quattrocento, si assiste ad una profonda trasformazione del tessuto urbano di Roma, dovuto sostanzialmente a due fattori: l’incremento demografico, che rende sempre più densamente costruite le zone già abitate e l’interventismo dei pontefici che a partire da Papa Niccolò V (1447-1455) iniziano diversi interventi edilizi e viari, che modificano costantemente la topografia cittadina, ristabiliscono i confini, determinano nuove vie di collegamento e nuove suddivisioni.

La cittadella vaticana diventa la residenza dei papi, vengono restaurati gli antichi ponti (Milvio, Nomentano), risanati i vecchi acquedotti, ristrutturate e ripavimentate le piazze, aperte nuovi assi viari, iniziate nuove costruzioni negli spazi non edificati (ancora molto estesi) tra una contrada e l’altra all’interno del vecchio immenso recinto delle Mura Aureliane, facilitati i collegamenti tra una sponda e l’altra del fiume, si consolida l’esistenza e il nome dei più antichi rioni rivieraschi (Sant’Angelo, Ripa, Campitelli), crescono e si sviluppano i rioni interni, S.Eustachio, Parione, Ponte, Borgo, che diventa – quest’ultimo – non un vero e proprio rione a sé stante, ma un’entità territoriale a parte vista la sua vicinanza al nucleo Vaticano, vengono aperte nuove, fondamentali vie molto lunghe, che attraversano diversi rioni e li mettono in collegamento tra di loro: la Via Alessandrina, Via della Lungara e Via della Lungaretta, Via Giulia.

Questa grandiosa opera verrà poi completata principalmente sotto Sisto V (fautore del più grande e complesso progetto urbanistico della città, passato alla storia come Piano Sistino) e sotto i suoi successori, in secoli in cui – nel Cinquecento, Seicento e Settecento, Roma conoscerà i fasti di una rinascita archeologica, artistica e politica che la rimetteranno per molti versi, al centro del mondo.

Nel frattempo, all’interno dei rioni, che si vanno consolidando, si iniziano a stabilire anche le linee amministrative e gerarchiche: ad ogni rione è proposto infatti un caporione, contrassegnato dalle bandiere e dalle insegne rionali che porta e che per questo motivo è definito spesso anche banderese. Tra di essi, cioè tra i caporioni, comincia ad emergere la figura del Priore, che le normative comunali stabiliscono essere il caporione del rione Monti, il più vasto e popoloso della città.

Un potere – antesignano dei moderni municipi e del moderno ruolo di sindaco – che verrà guardato spesso con sospetto dalle autorità papali e apertamente combattuto per limitarne l’espansione, anche se il ruolo dei caporioni – dapprima eletti a sorte, poi nominati direttamente dal Papa – rimarrà a lungo, fino alla loro definitiva eliminazione da parte di Papa Pio VII (1800-1823).

Al termine di questa lunga cavalcata nei secoli e nella storia, il numero dei Rioni di Roma si stabilizzò, fino alla Unità d’Italia, nel numero di quattordici: il nucleo storico dei Rioni era dunque formato da Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio, Pigna, Campitelli, Sant’Angelo, Ripa, Trastevere e Borgo. Nel 1874, subito dopo la Presa di Roma, a questi si aggiunse l’Esquilino, il quindicesimo Rione, ritagliato da una parte del rione Monti, che per molto tempo era stato considerato un luogo miserando (o maledetto) per il fatto che nell’antichità fu adibito a sepolcreto per gli schiavi, le meretrici e i condannati a morte. Ma alla fine dell’Ottocento conobbe un rapido sviluppo e divenne il rione piemontese di Roma.

 Proseguendo nello sviluppo urbanistico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vi furono altre suddivisioni dei Rioni esistenti. Nacque il sedicesimo rione, Ludovisi, nato dallo smembramento della meravigliosa Villa Ludovisi, che per secoli aveva esteso i suoi rigogliosi giardini dentro il tracciato cittadino in una amplissima zona che lasciò così il posto ad un nuovo rione; il diciassettesimo, ovvero il Sallustiano, scaturito dallo sviluppo edilizio seguito alla breccia di Porta Pia, che riscrisse la topografia della zona; il Castro Pretorio, decretato dal Comune nel 1871 e urbanizzato in larghe zone dove erano esistite vigne e terreni coltivati; il Celio, nato nel 1872 dopo gli intensi interventi nella zona del Colosseo, in pieno centro archeologico, ritagliato nel rione Monti; il Testaccio, costruito tra il 1873 e il 1883 come quartiere operaio, primo industrializzato della Capitale d’Italia; il San Saba, nato nel 1906 e completato nel 1923 sugli sviluppi edilizi della piccola altura tra l’Aventino e Caracalla; e infine il Prati, l’ultimo arrivato dei Rioni, che prese il nome dai Prata Neronis, diventati nel Medioevo Prata Sancta Petri, istituito a partire dal piano regolatore del 1873 che gli attribuì la qualifica di Rione, non senza polemiche, visto che mancavano in questa zona monumenti importanti, Rione che viene impropriamente associato al confinante Della Vittoria, il quale invece è il quindicesimo quartiere di Roma (chiamato già Milvio, dal 1921 al 1935).

 Fin qui, succintamente, la storia dei Rioni di Roma. A partire invece da Novecento, ed in particolare dai primi sessant’anni di questo secolo, nasce la vicenda dei Quartieri e dei Suburbi della Città, che dopo l’unificazione d’Italia e l’industrializzazione, si popola velocemente al pari delle altre capitali europee fino a raggiungere la tentacolare espansione di oggi, con una popolazione ormai stimata tra i tre e i quattro milioni di abitanti (compreso l’hinterland).

La distinzione tra Rioni e Quartieri è più che altro di natura teorica, essendo i Quartieri tendenzialmente legati alle zone più esterne della città rispetto ai Rioni, anche se in gran parte legata – in fatto di storia e tradizione – a quelli, cioè ai Rioni di cui sono confinanti.

 La mappa dei Quartieri è presto saltata per via del rapidissimo processo di speculazione edilizia, che in particolare nel dopoguerra ha cambiato spesso i confini teorici dei quartieri con l’inglobamento di nuovi territori che una volta erano considerati Suburbi, cioè la vera e propria periferia della città.

 Il cemento ha invaso una gran parte della cosiddetta campagna romana, che per gli ultimi due millenni si era mantenuta quasi del tutto incontaminata, occupando l’Agro Romano e anche i cosiddetti Quartieri Marini. I quartieri tradizionali di Roma – Appio, Casilino, Tuscolano, Cassio, Flaminio, Salario, Aurelio, Portuense – prendono il nome dalle vie consolari aperte nell’antichità.

Ad essi se ne sono aggiunti altri, più recenti, come il Della Vittoria e il Trieste, legati ad avvenimenti della Prima Guerra Mondiale o come l’Eur, o Europa, in omaggio all’ideale europeo che diede vita al Mercato Economico nel 1957. Non tutti i Quartieri, che sono secondo un censimento completo, trentadue e non tutti i Suburbi, oltre ovviamente alle cinquantasei zone dell’Agro Romano e dei tre Quartieri Marini hanno trovato posto sulle pagine di questo testo.

L’intento di Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma è infatti principalmente quello di raccontare gli aspetti meno noti, caratteristici – misteriosi appunto – della città, localizzando i luoghi e quindi le storie ad esse collegate, nei diversi rioni e quartieri, esposti secondo l’ordine tradizionale, in base ad un criterio personale che per forza di cose ha dovuto operare una selezione nel vastissimo materiale possibile.

E’ pur vero infatti che Roma è una materia che non si finisce mai di studiare e di imparare. La sua storia, trimillenaria, non ha eguali al mondo. Ogni volta, Roma è rinata dalle sue ceneri e anche nei suoi periodi bui o di oblio ha continuato a produrre incredibili quantità di storie, di vita, di patrimonio culturale che solo in parte sono oggi memoria collettiva e che invece possono essere riscoperti da chi oggi vi abita e da chi ama questa città e vuole visitarla.

 Il lato misterioso e segreto di Roma è preponderante: come è noto, esso ha affascinato nei secoli le menti più illustri d’Europa e spesso – paradossalmente – meno chi vi risiedeva ed era abituato a convivervi, forse proprio per quella caratteristica antropologica che sembra appartenere ai romani da sempre, come notò e raccontò, tra gli altri, nei suoi diari Stendhal, quando arrivò nell’Urbe nel 1810. 

Proprio la forzata convivenza tra il mare di rovine di un’epoca grandiosa e irripetibile, durata un intero millennio e il succedersi di una storia più recente edificata sui dogmi della cristianità e sull’altro potere bi millenario del papato ha creato a Roma molto più che in ogni altra parte del mondo, la fioritura di leggende, di curiosità, di tradizioni, misteri e segreti, codici, intrighi molto ramificati e complessi, affondanti le radici nei primordi fondativi della città e giungenti fino ai giorni nostri, al Novecento e agli anni Duemila, di fronte ai quali la vecchia Roma si presenta con il suo bagaglio carico e forse perfino ingombrante a fare i conti con le sfide della modernità. Eppure conoscere Roma, e conoscere i misteri e i segreti di Roma, ci appare come l’unico e più prezioso viatico possibile, per affrontare queste sfide con la sicurezza di poterle vincere.

Fabrizio Falconi, tratto da: Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editori, Roma, Roma rist.2017. 

31/07/17

Torna in libreria "Giardini" di Robert Pogue Harrison. La prefazione.



Torna in libreria in queste settimane Giardini, il meraviglioso saggio di Robert Pogue Harrison, edito da Fazi nella collana Campo dei Fiori.  Questa la prefazione al libro. 

Gli esseri umani non sono fatti per guardare troppo a lungo la testa di Medusa sfoggiata dalla storia, la sua rabbia, la morte e la sofferenza infinita. Non è per un difetto nostro, al contrario, la riluttanza a farci pietrificare dalla realtà della storia è alla base di molte di quelle cose che rendono la vita umana tollerabile: l’impulso religioso, l’immaginazione poetica e utopica, gli ideali morali, le proiezioni metafisiche, l’arte narrativa, le trasfigurazioni estetiche del reale, la passione per il gioco, l’amore per la natura. 

Albert Camus una volta ha detto: «La miseria mi impedì di creder che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto». Si potrebbe aggiungere che se la storia diventasse tutto sprofonderemmo nella pazzia. Per Camus era il sole, ma spesso nella cultura occidentale è stato il giardino, reale o immaginario, a costituire un rifugio dalla frenesia e dal tumulto della storia

Il lettore scoprirà in questo libro giardini remoti come il giardino degli dèi di Gilgamesh, le Isole dei Beati dei greci, il giardino dell’Eden di Dante in cima al monte del Purgatorio; oppure giardini ai margini della città terrena, come l’Accademia di Platone, il giardino di Epicuro e le ville del Decameron di Boccaccio; o ancora giardini che sbocciano nel bel mezzo della città come il Jardin du Luxembourg a Parigi, Villa Borghese a Roma e i giardini dei senzatetto di New York. 

Ma tutti questi giardini, in un modo o nell’altro, per come sono stati concepiti e per il fatto di essere ambienti creati dalla mano dell’uomo, sono una sorta di rifugio, se non addirittura di paradiso

Eppure, per quanto riparati, i giardini umani hanno sempre un posto nella storia, se non altro come forze che si contrappongono alle spinte deleterie della storia stessa. Nella celebre frase con cui si conclude il Candide di Voltaire, «Il faut cultiver notre jardin» (‘Dobbiamo coltivare il nostro giardino’), il giardino in questione deve essere interpretato sullo sfondo delle guerre, della pestilenza e delle catastrofi naturali raccontate nel romanzo. 

Questo porre l’accento sulla coltivazione è fondamentale: è proprio perché siamo gettati nella storia che dobbiamo coltivare il nostro giardino. In un Eden immortale non c’è bisogno di coltivare, poiché tutto è già dato spontaneamente. I giardini umani possono apparirci come piccole aperture sul paradiso nel cuore di un mondo caduto, ma il nostro dover creare, mantenere e prenderci cura dei giardini tradisce la loro origine postlapsaria. 

La storia senza i giardini è un deserto. 

Un giardino staccato dalla storia è superfluo. I giardini che abbelliscono questo nostro Eden mortale sono la prova inconfutabile della ragion d’essere dell’umanità sulla Terra. Quando la storia scatena le sue forze distruttrici e annichilenti, per non cedere alla pazzia e preservare la nostra umanità dobbiamo agire contro e nonostante quelle forze. Dobbiamo ricercare le forze curative e redentrici, lasciandole crescere dentro di noi. Ecco cosa significa prendersi cura del nostro giardino. L’aggettivo possessivo usato da Voltaire – “notre” – si riferisce al mondo che condividiamo. È il mondo della pluralità che pian piano prende forma grazie al potere dell’agire umano. “Notre jardin” non è mai un giardino di interessi esclusivamente individuali in cui rintanarsi per sfuggire al reale: è quel pezzo di terreno sulla Terra, dentro se stessi o all’interno della collettività, in cui vengono coltivate le virtù culturali, etiche e civili che salvano la realtà dai suoi istinti peggiori.

Quelle virtù sono sempre nostre. Aggirandosi per questo libro il lettore attraverserà diversi tipi di giardino – reali, mitici, storici, letterari –, tutti però facenti parte, chi più chi meno, della storia di questo “notre jardin”. Se la storia è in ultima analisi il conflitto terrificante, costante e infinito tra forze di distruzione e forze di coltivazione, allora il mio libro si schiera dalla parte di queste ultime. E cerca in tal modo di partecipare alla vocazione del giardiniere alla cura.


30/07/17

L'introduzione da "Le rovine e l'ombra", in vendita in libreria.





Introduzione tratta da Le rovine e l'ombra, in tutte le librerie in questi giorni (edizioni Castelvecchi)


Ho letto un giorno tra centinaia di notizie trascurabili, che durante la ferocissima Guerra Civile in Siria è accaduto anche un piccolo miracolo: gli abitanti di Dārayyā, quartiere alla periferia di Damasco, ridotto in poltiglia dopo cinque anni di bombardamenti e l’assedio del regime, hanno salvato 15 mila libri dagli appartamenti e dalle scuole distrutte trasportandoli al sicuro in un grande scantinato sottoterra, trasformato in biblioteca. 

A questo sotterraneo è stato dato anche un nome – Fajr, ovvero ‘alba’ – e gli uomini che lo gestiscono – il loro capo si chiama Ahmad – lo tengono aperto, bombardamenti permettendo, dalle 11 del mattino alle 5 del pomeriggio. 

Così, ogni giorno, venti, venticinque persone si fermano a leggere al riparo dei barili-bomba, prendono un libro in prestito e lo portano al fronte, la prima linea dietro casa, la casa che non c’è più e che ora è soltanto un ammasso di rovine. Fuori dal romanticismo che una notizia del genere può inspirare, mi ha incuriosito l’istinto primitivo che sembra aver mosso questi uomini, pressati da ben altre urgenze. Se hanno sentito il bisogno di preservare qualcosa così gelosamente e di farne una sorta di simbolo di sopravvivenza o di rinascita significa che anche sotto (o dentro) le rovine è possibile trovare vita. 

Che anzi le rovine sono quel luogo dove la vita torna a scorrere. Le rovine infatti sono luoghi deputati a nascondere, a preservare ciò che non è stato completamente distrutto e può tornare a nascere. Le rovine – proprio per la loro attitudine al nascondimento – sono anche i luoghi dell’ombra. È facile, come hanno fatto i ribelli siriani, nascondere il loro sotterraneo-biblioteca sotto cumuli di rovine dove presumibilmente oggi nessuno ha più voglia di spingersi. 

Nel sottosuolo, nell’ombra, come anticamente accadeva nelle arcaiche catacombe romane, la vita – e lo spirito che essa alimenta – ha potuto preservarsi, conservarsi, rinnovarsi. Anche l’ombra, infatti, è propizia alla vita. Come accade in natura, nelle estensioni dei sottoboschi, nel folto delle foreste, nel fondo degli oceani. Mi sembra che rovine e ombra siano due connotati sempre più precisi della contemporaneità. Del futuro non so dire. Molto dipenderà, naturalmente, da come si sapranno affrontare e gestire ombra e rovine. La cosa certa è che nessuno più può fare finta di nulla e fingere che il mondo sia un luogo pulito, sicuro, senza rovine e senza ombra. Ombra e rovine sono, anzi, territori sempre più estesi, e qualsiasi rinascita, personale o collettiva, dipenderà per forza – come per i dannati di Dārayyā  dalla capacità che si avrà di attraversare le rovine, di attraversare l’ombra.


29/07/17

"Breve storia della pioggia." - un tempistico libretto di Alain Corbin.


In giorni come questi, funestati da una siccità preoccupante e dal caldo sahariano, è curioso imbattersi in questo libricino pubblicato dalla bolognese EDB.

Si tratta di un brevissimo saggio - meno di 50 pagine - pubblicato da Alain Corbin, sociologo della Sorbonne e studioso di storia sociale e storia delle rappresentazioni, con il titolo Sous la pluie, in La pluie, le soleil e le vent. Une histoire de la sensibilité au temps qu'il fait uscito in Francia nel 2013. 

Questo testo è dunque da intendersi come la parte - una parte - di un saggio più complesso sulla storia della sensibilità al clima, cioè al tempo che fa, nella storia umana. 

Estratto quindi dal suo contesto originario - si immagina per fini commerciali vista l'attualità dell'argomento - il saggio di Corbin risulta tronco e senza approfondimenti.  Si tratta di un breve e superficiale excursus su come sia cambiata la sensibilità al clima - e in particolare alle precipitazioni, alla pioggia - nel corso della recente storia umana. In particolare - secondo Corbin - è proprio dalla fine XVIII secolo che si intensifica quella sensibilità ai fenomeni meteorologici e quindi anche alla pioggia. 

E se Stendhal detestava completamente la pioggia, per Thoreau e per Witman la pioggia è invece qualcosa da magnificare, anzi, il vero Poema della Terra. Quel che rende tutte le cose lucenti, come all'interno di una distesa infinita e pacifica. 

Corbin poi non si sofferma solo sulle reazioni individuali, ma anche sulle implicazioni politiche della pioggia. Citando l'esempio di Luigi Filippo che il 12 giugno del 1831, passando in rassegna le truppe, rifiuta il mantello passatogli dai servitori per accettare platealmente che la pioggia cada su di lui come sui suoi soldati, inaugurando così - grazie alla pioggia - quel senso di comunità - ai fini di propaganda - che si è protratto fino ai giorni nostri con il presidente Hollande. 

Un breve capitolo è dedicato anche alla pioggia in tempo di guerra, vero flagello per le truppe nei diversi fronti, e infine uno - fin troppo sintetico - è occupato da una riflessione sulle invocazioni religiose, sulla relazione tra pioggia ed eventi atmosferici e credo religiosi, che Corbin analizza soltanto con esempi del recente cattolicesimo della seconda metà dell'Ottocento e della prima del Novecento. 

Corredano il libro tre illustrazioni con il celebre Rue de Paris, temps de pluie di Gustave Caillebotte del 1877, un curioso Van Gogh, copia di un originale di Utagawa Hiroshige, e infine un grande quadro di Charles Thévenin che raffigura proprio lo storico episodio di Luigi Filippo. 




27/07/17

La verità sul Lago di Bracciano - Il rapporto del Cnr: -163 cm. rispetto allo zero idrometrico.






Da tempi remotissimi, Roma ha pescato le sue risorse idriche anche dalla zona del Lago di Bracciano. L'acquedotto dell'Aqua Alsietina, chiamato anche aqua Augusta,  che fu il settimo acquedotto di Roma, venne costruito nel 2 a.C. da Augusto per il servizio della naumachia, il lago artificiale per gli spettacoli di combattimenti navali, che l'imperatore aveva appena fatto realizzare nella zona di Trastevere e quando non veniva utilizzata per la naumachia era impiegata a scopi agricoli e per l'irrigazione dei “giardini di Cesare”, il parco che lo stesso Cesare volle fosse reso pubblico dopo la sua morte. Raccoglieva l'acqua dal lago di Martignano, il "lacus Alsietinus", appunto, un piccolo bacino nei pressi del lago di Bracciano. Fanno quindi piuttosto impressione le condizioni attuali, in questa grande siccità, del Lago "dei romani", che si evidenziano dal dettagliato rapporto del CNR. 


Negli ultimi giorni il livello del Lago di Bracciano si e' abbassato di 10 cm, arrivando a -163 cm rispetto allo zero idrometrico, valore che "espone a significativi rischi il sistema lacustre che necessita' di un'attenta valutazione dello stato di salute, migliorando ulteriormente le conoscenze relative alle debolezze ambientali del lago". 

I dati arrivano dall'Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA) del Cnr che da 15 anni svolge attivita' di monitoraggio volontaria sul Lago di Bracciano acquisendo dati quantitativi e qualitativi sulle acque che possono essere utili per valutare i limiti dell'impiego sostenibile. 

Le evoluzioni registrate nell'ultimo anno, - spiega l'Irsa-Cnr - che trovano puntale riscontro nelle campagne di misure, non lasciano dubbi circa il significativo avanzamento della linea di riva che ha fatto emergere rocce e sabbia. 

La situazione odierna vede un abbassamento del livello del lago pari a -163 cm rispetto allo zero idrometrico. Negli ultimi giorni il livello si e' abbassato di circa 10 cm

La ricostruzione del modello digitale della cuvetta lacustre ha consentito di simulare e valutare gli effetti prodotti dalle oscillazioni del livello del lago. É stata valutata un'escursione massima sostenibile dal sistema di -150cm (pari al 13,4% della superficie di fondale adibita ai processi di depurazione). Questo valore doveva rappresentare il limite minimo di equilibrio che l'ecosistema lacustre di Bracciano potesse sostenere. 

Ad oggi - sottolinea l'Istituto - l'abbassamento di -163 cm espone a significativi rischi il sistema lacustre che necessita' di un'attenta valutazione dello stato di salute, migliorando ulteriormente le conoscenze relative alle debolezze ambientali del lago

Gli scenari che si configurerebbero, se le condizioni meteo climatiche e gli emungimenti dovessero rimanere inalterati portando il livello del lago a -200 cm potrebbero corrispondere ad una perdita di superficie adibita ai processi di autodepurazione pari al 22,5% (in pratica il lago si comporta come un grande ecosistema filtro, con effetto tipico dei lagunaggi e dei sistemi di fitodepurazione a pelo libero, con abbattimento in particolare della sostanza organica e dei nutrienti). 

Gli effetti degli abbassamenti idrici nel lago - fa notare l'Irsa-Cnr - determinano, inoltre, significative ripercussioni anche sulla falda circumlacuale che svolge un'importante funzione di alleggerimento delle criticita' legate al potenziale innesco di processi eutrofici, influendo sulla diluizione dei nutrienti, sulla circolazione e movimentazione idrologica, sulla riduzione termica etc. 

"Il caso Bracciano deve fare scuola a livello nazionale ed internazionale, - conclude la nota - rivalutando l'importante ruolo della pianificazione e della collaborazione interistituzionale che veda il supporto scientifico strutturato di Enti di Ricerca ed Universita', con la consapevolezza che il valore della risorsa acqua con i suoi impieghi antropici ed i numerosi servizi ecosistemi che esprime, deve incoraggiare ad un uso attento e consapevole dell'acqua. In aggiunta, le sfide che i cambiamenti climatici impongono, devono alimentare un sistema diffuso e multiforme di tutela e razionalizzazione dell'acqua in una visione ecologica che la vede parte attiva di ciascuno dei 94 processi ambientali che regolano la vita del nostro Pianeta. L'acqua nelle sue varie forme e nei suoi luoghi, merita rispetto e per questo deve essere vista come valore essenziale, non solo culturale ma civile ed economico, in grado di influenzare la qualita' dell'ambiente, della vita individuale ed il benessere sociale".

26/07/17

Come cambiano i gusti nell'Arte: Bansky, Constable e Vettriano ai primi tre posti in un sondaggio sulle opere d'arte più amate in GB.






Una pittura murale di una bimba che perde un palloncino a forma di cuore del noto e misterioso artista Banksy e' l'opera d'arte preferita dai britannici, secondo un sondaggio pubblicato oggi. 

Il dipinto a stencil "Balloon Girl", comparso sul muro di un negozio dell'est di Londra nel 2002, e' arrivato in cima alla shortlist delle migliori opera d'arte britanniche in un sondaggio su duemila persone. 

L'opera e' stata rimossa nel 2014 e venduta per 500mila sterline, circa 560mila euro


Il paesaggio agreste di John Constable del 1821 "Il carro da fieno" e' arrivato secondo, terzo si e' classificato il dipinto del 1992 di Jack Vettriano "Il maggiordomo cantante". 



"La valorosa Te'me'raire", dipinto ad olio del 1839 di William Turner che raffigura una nave rimorchiata sul Tamigi, e' quarto nel sondaggio promosso da Samsung TV. "L'angelo del Nord" scultura del 1998 di Antony Gormley che incombe su un'arteria stradale nei pressi di Newcastle, e' quinto. 

Nella Top 20 tre copertine di album: quelle di Peter Blake per il disco dei Beatles "Sgt Pepper", la cover di Hipgnosis e George Hardie per "Dark Side of the Moon" dei Pink Flyd e il lavoro di Jamie Reid per "Never Mind the Bollocks" dei Sex Pistols.

fonte: askanews - Afp

25/07/17

Raffaello esoterico. La tomba provvisoriamente scomparsa e poi ritrovata al Pantheon.



L’ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore anche se ufficialmente scomparso, è secondo alcuni ancora vivo, in Occidente anche ai nostri giorni. Quel che è certo è che esso ha origini antichissime. Uno dei suoi presunti padri è il notaio e poeta Francesco da Barberino, nato nel 1264 nella omonima località in Val d’Elsa, autore di un’opera capitale della primissima letteratura italiana, I documenti d’amore, composti tra il 1309 e il 1313.

L’Ordine si ispirava ad una disciplina dell’Arcano e composto da sette diversi gradi iniziatici: le donne cantate dagli adepti di questo ordine segreto traevano origine da un unico modello di donna simbolica, una donna trascendente, una Madonna intelligente nella quale si ritrovavano anche diversi elementi della simbologia orientale.

Questo Ordine così come altri simili, intendeva il Cristianesimo come una via iniziatica (accessibile a pochi), in grado di compiere trasmutazioni personali evolutive delle basi di conoscenze individuali.

Dell’Ordine si riteneva – e si ritiene anche oggi, non senza polemiche – facessero parte molti dei più grandi intellettuali dell’epoca, come Cecco d’Ascoli, poeta e scienziato, condannato al rogo, Guido Cavalcanti, Raffaello Sanzio e perfino Dante Alighieri, oltre a Boccaccio e Petrarca.

Raffaello è stato secondo alcuni, colui che meglio di altri, incarnò con la sua arte l’ideale supremo di bellezza e armonia (estetica ed interiore) che nel Rinascimento trovò sua piena compiutezza e che i Fedeli d’Amore inseguivano come scopo realizzativo.

Una lunga tradizione legava la radice esoterica di questo Ordine all’esoterismo esseno di matrice gnostica, che a sua volta si riteneva proveniente dalla più solida tradizione egizia.

Del fatto che Raffaello fosse un iniziato, ci si ricordò nella prima metà dell’Ottocento, quando si decise di rintracciare la tomba del grande pittore che la tradizione voleva sepolto nel Pantheon.


In effetti dopo la morte avvenuta nel giorno di Venerdì Santo (circostanza quanto mai profetica), il 6 aprile del 1520, a soli trentasette anni di età, che aveva profondamente rattristato l’intera corte papale (il pontefice era Leone X), Raffaello era stato sepolto, secondo le sue espresse volontà, nel Pantheon, il monumento esoterico romano per eccellenza, ponte di collegamento tra la terra e il cielo, gigantesco astrolabio in pietra, di perfezione sublime, massima espressione dell’armonia umana e divina.

L’umanista Pietro Bembo, amico personale di Raffaello, aveva composto il celebre epitaffio: Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci/ rerum magna parens et moriente mori, anch’esso di sapore esplicitamente esoterico: qui giace quel Raffaello, dal quale, lui vivo, la gran madre di tutte le cose, ovvero la Natura temette di essere vinta e quando morì, temette di morire con lui.

All’inizio dell’Ottocento, autorevoli studiosi misero in dubbio che le cose fossero andate veramente così e che la tomba di Raffaello si trovasse davvero al Pantheon. 

Si avanzò cioè il sospetto che si trattasse di una leggenda originata dagli stessi confratelli del divino urbinate, i quali desideravano legare per sempre il suo nome a quello del Pantheon, e che invece le sue spoglie si trovassero conservate nella poco distante Basilica di Santa Maria Sopra Minerva.

Si decise dunque di effettuare degli scavi per ritrovare il prezioso sarcofago, ma i primi saggi di ricerca, compiuti il 9 di settembre del 1833, sotto il pontificato di Gregorio XVI non diedero risultati, rafforzando l’ipotesi del complotto.


Ma quando le pale furono spostate in un’altra direzione, quasi subito si imbatterono nella cassa d’abete dove, senza alcun dubbio, era stato deposto il corpo di Raffaello.

Si procedette allora al recupero delle ossa e ad una nuova inumazione in un’urna di marmo, la quale fu collocate dietro l’altare della Madonna del Sasso, nello stesso luogo dove i resti erano stati ritrovati per tre secoli.


E ancora oggi il sepolcro di Raffaello costituisce un’altra delle attrattive della visita al Pantheon, con il sarcofago conservato dietro una teca di vetro, con il distico di Bembo iscritto sul bordo superiore,  e due colombe in bronzo che sembrano baciarsi in volo, a suggello della perfezione quasi divina che il pittore seppe rappresentare con la sua opera.