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12/01/17

"Confessioni di un alfiere decaduto" di Andrei Makine. (Recensione).



Scritto nel 1990 e pubblicato due anni dopo per la prima volta in Francia con il titolo  Confession d'un porte-drapeau déchu da Belfond, questo è il secondo romanzo di Andrei Makine, nato in Siberia a Krasnoyarsk nel 1957 e esiliato con una richiesta di asilo politico in Francia, a Parigi, dal 1987. 

Makine, come è noto, scrive in francese, lingua che conosce e studia dall'età di 4 anni, quando una vecchia signora cominciò a prendersi cura di lui e a impartirgli lezioni private di quella lingua, che poi studiò a Mosca e cominciò ad insegnare a Novgorod, prima di trasferirsi in Francia. 

Durante i suoi primi anni a Parigi, Makine visse la stagione del diseredato, dello sradicato.  In un mondo e in una terra non suoi, agevolato dalla perfetta conoscenza della lingua, cominciò a scrivere furiosamente, soprattutto dei suoi ricordi e del suo mondo russi, cominciando ad essere pubblicato, fino a vincere in pochi anni (1995) il prestigioso Premio Goncourt e ad ottenere la cittadinanza francese l'anno seguente (che fino a quel momento gli era stata negata). Attualmente è anche membro dell'Accademia di Francia (dal 2016). 

Chi conosce Makine, sa quanto può essere sofisticata e ricca la sua lingua.  I suoi romanzi sono sempre prima di tutto un viaggio: un viaggio nella memoria, nelle suggestioni di una lingua, e sostanzialmente nel tempo. 

Anche qui, in Confessioni di un alfiere decaduto, ritorna - in forma di lunga lettera aperta all'amico di infanzia Arkadj, che ormai vive negli Stati Uniti e si è perfettamente occidentalizzato - il mondo perduto della giovinezza, il mondo dei panorami scintillanti, dei cieli di Russia, ma anche delle fanfare e delle bandiere, delle adunate di ragazzi su enormi piazzali in attesa del notabile sovietico di turno.  

Ma è nella descrizione delle cose minute della natura, dei suoi vibratili aspetti che Makine riesce a tessere un ordito di squisita bellezza, raccontando in poco più di 100 pagine la vita di quella piccola corte, formata da tre sole case, in mezzo alla campagna russa, sorta intorno ad una misteriosa Crepa - che si scoprirà essere la cicatrice di antichi e terribili fatti di guerra.   

E' proprio la guerra, protagonista di questa storia. La guerra combattuta per la difesa della Russia contro l'avanzata dei nazisti, la difesa di Leningrado, l'abiezione che ne seguì, nei ricordi e nei racconti dei genitori del protagonista e di quelli di Arkadj.  I padri dei due bambini hanno combattuto insieme. Uno è rimasto paralitico. L'altro - Jasà, il padre di Arkadj . ne è divenuto il custode, il compagno di infinite partite a domino nel cortile della corte. 

Anche le madri nascondono segreti, come ogni abitante di quel luogo desolato.  Anche i nuovi uomini, plasmati dalla retorica sovietica - sedotti da essa, e respinti - sono chiamati alla guerra, una guerra che stavolta si è spostata sui confini dell'Afghanistan. 

Quel tempo perduto, che ha legato i due bambini, non esiste più. La loro formazione li ha portati su sponde lontane, e forse nemmeno si incontreranno più. 

Ma quel cortile, quelle facce, quei sospiri, quelle vigliaccherie e attese, quelle forme di vita così pulsanti e vere, quei sogni sbocciati troppo presto e morti troppo tardi, porteranno segni indelebili nelle vite di uomini - come suggerisce il titolo - definitivamente decaduti (disarcionati da un sogno o da una illusione che, come una guerra persa, li ha respinti lontani). 







30/08/16

"Una storia comune" di Ivan Gončarov - (Recensione).



Pubblicato originariamente da Fazi nel 1999, torna in libreria ristampato, questo piccolo grande capolavoro di Gončarov, molto ammirato da Lev Tolstoj. 

Una storia comune racconta le vicende di un giovane romantico e sognatore, Aleksandr Aduev, figlio unico, che si trasferisce dalla provincia, dove la madre lo ha sempre adorato e vezzeggiato, a San Pietroburgo, ospite in casa dello zio Pjotr, un pragmatico capitalista sposato con Lizaveta Aleksandrovna, una bellissima donna molto più giovane. 

Aleksandr che crede convintamente nell’amore eterno, nell’amicizia indissolubile e soprattutto si reputa un grande poeta, si scontra immediatamente con la dura filosofia cinica dello zio, uno dei caratteri più indimenticabili della letteratura russa, che cerca di orientarlo verso una visione spietatamente realistica della vita

Il romanzo è dunque una vicenda travolgente, che provoca il lettore con toni apparentemente leggeri, su ciò che di più essenziale riguarda la vita: ovvero il senso stesso dell'esistenza, in un continuo confronto-scontro tra gli ideali primari di Aleksandr, nutriti da un cuore puro e quelli del navigato zio, che sembrano prevalere sempre e comunque:  la vita, sostiene, è sostanzialmente prosa e ha da essere vissuta prosaicamente. 

Con spirito implacabile Gončarov sembra voler smontare pezzo a pezzo il convincimento secondo cui la vita deve continuare a nutrirci con qualcosa di intangibile e superiore. 

Vinto dalle amarissime disillusioni amorose e letterarie, ad Aleksandr non giova nemmeno il ritorno nella casa avita, nel cuore della natura che lo ha generato. 

Spinto dalla smania fa ritorno a San Pietroburgo e in un ultimo confronto con lo zio, tutto sembra nuovamente in bilico, perché anche a Pjotr la vita sembra aver presentato un conto definitivo, in forma di nemesi. 

Ma il finale del geniale romanzo è completamente aperto, e a Goncarov non interessano le facili consolazioni. 

Scritto in prosa e versi e pubblicato nel 1847, è il primo libro di una trilogia (a cui seguono il celebre Oblomov e Il burrone). Dimenticato per oltre un secolo a causa della sua mancanza di impegno politico e sociale, il libro viene oggi riscoperto come un grande capolavoro della letteratura russa dell’Ottocento, che conserva una brillante e amarissima modernità. 

Fabrizio Falconi



23/05/16

Il libro del giorno: "Il sosia" di Fëdor M. Dostoevskij.




Scritto da Dostoevskij a 25 anni, "Il sosia" è il racconto di un incubo: il burocrate Goljadkin, al centro di uno 'scandalo sentimentale', si imbatte nel proprio sosia - perlopiù un omonimo - che a poco a poco gli ruba il posto sul lavoro, lo umilia in società fino a farlo internare in manicomio. 

Un durissimo, agghiacciante plot, che Dostoevskij ogni tanto alleggerisce con tocchi feroci di umorismo, senza peraltro nulla togliere all'intrigo psicologico che si presta ad infinite possibilità di lettura (anche psicanalitica) del testo. 

08/02/16

"Guerra e Pace", la serie BBC: un prodotto di grande livello.




C'erano una volta gli italiani che sapevano fare meglio di tutti le riduzioni televisive dai grandi capolavori della letteratura. 

Fu una stagione d'oro, che passò dai cosiddetti sceneggiati - a cui lavorarono alcune tra le migliori menti e penne di quel periodo - e che oggi è morta e sepolta. 

Oggi le serie di qualità vengono dall'estero, e soprattutto dall'Inghilterra. 

La BBC, in particolare, ha deciso, dopo più di quarant’anni dall’ultimo adattamento (in quello uno dei protagonisti era Anthony Hopkins) di rimettere le mani sull'epico Guerra e Pace di Lev Tolstoj. 

La BBC ha coprodotto la serie insieme alla Weinstein Company, trovando l'accordo per la messa in onda con Lifetime, A&E Network e History

La sfida nella sfida è stata quella di una miniserie di sole 5 puntate.  Un'opera davvero improba, per ridurre il fluviale romanzo Tolstojano alla quale si è dedicato lo scrittore Andrew Davies.

Con risultati davvero sorprendenti. 

Le vicende delle cinque famiglie russe durante il periodo di guerra napoleonico sono raccontate con piena padronanza del materiale storico-narrativo e nello stesso tempo con una inevitabile brillantezza sintetica, che non umilia il romanzo. 

Splendido il cast con Lily James nei panni di Natasha, James Norton in quelli Andrei e il bravissimo Paul Dano nei panni di Pierre, oltre a Gillian Anderson, Jim Broadbent e Greta Scacchi. 

La serie è stata girata nei luoghi originari, tra la Russia e la Lituania.  La prova delle scene di Guerra, anch'essa superata con un ampio utilizzo di mezzi e di masse umane. 

Insomma, uno spettacolo per gli occhi sia per coloro che conoscono tutto e che amano questi personaggi da sempre, per essersene innamorati nella loro vita leggendoli nel capolavoro di Tolstoj, sia per il grande pubblico che non ha letto l'originale e che potrà ugualmente apprezzare.

Fabrizio Falconi

16/09/15

Viaggio in Russia sulle orme dei grandi scrittori russi.



Un viaggio nella Russia centrale sulle orme dei grandi protagonisti della letteratura e delle arti russe. 

E' l'iniziativa dell'Associazione Conoscere Eurasia di Verona che fino al 20 settembre guiderà nove giovani scrittori italiani alla scoperta di Lev Tolstoj, Fedor Tjutcev, Anton Cechov, Alexander Blok, ma anche del pittore Vasilij Polenov e di Petr Cajkovskij. I

Il tour, organizzato in collaborazione con l'Agenzia Federale per la stampa e le comunicazioni, l'Istituto delle traduzioni Ad Verbum con il sostegno di Banca Intesa Russia, farà tappa in 7 citta': Mosca, Melikhovo, Polenovo, Tarusa, Ja'snaja Polia'na, Spasskoe-Lutovinovo, Klin e Shakhmatovo. 

"Italia e Russia hanno relazioni culturale dal X secolo - ha spiegato Antonio Fallico, presidente di Conoscere Eurasia e di Banca Intesa Russia -. Nel corso della storia i protagonisti della letteratura, dell'arte e della musica di entrambi i Paesi hanno approfondito e arricchito la reciproca conoscenza". 

"Le contaminazioni che ne sono scaturite - ha aggiunto - confluiscono nel grande patrimonio culturale che, come un fil rouge, lega questi due popoli tradizionalmente amici". 

 Tra le mete del viaggio dei nove giovani talenti italiani, quest'anno scelti tra i finalisti e i vincitori delle scorse edizioni del Premio letterario italo russo 'Raduga' (sempre organizzato dall'Associazione Conoscere Eurasia), la casa museo Muranovo, patria di Tjutcev, uno dei piu' grandi poeti russi, il museo Polenovo con le opere del pittore Polenov, il museo di Tolstoj e di Blok, oltre alla visita al Gran Palazzo del Cremlino.

"Il viaggio degli scrittori italiani in Russia - ha concluso Fallico - e' una delle tante iniziative culturali dell'Associazione Conoscere Eurasia che, dal 2009, promuove in entrambi i Paesi attivita' volte alla conoscenza e al dialogo tra le due culture; presupposto necessario per lo sviluppo anche economico dei popoli". 

08/03/14

"Il giunco mormorante" - di Nina Berberova. Un racconto-capolavoro.






Due amanti si lasciano a Parigi prima della guerra, promettendo di rincontrarsi presto. Lui parte per Stoccolma, lei resta per occuparsi di un vecchio zio che non ha più nessuno al mondo. 

Passeranno sette anni e lui - Enjar - si è intanto fatto una nuova vita, sposando Emma, una giovane svedese. 

Lei lo va a trovare, scopre la sua nuova esistenza, cerca un chiarimento impossibile, che arriverà soltanto molto tempo dopo, durante una visita a Venezia, e in modo molto parziale. 

Il giunco mormorante è un capolavoro di stile. In sole 80 pagine la Berberova raggiunge il culmine della tensione narrativa con l'inespresso che diventa essenza (e viceversa). Vibrante, bellissimo, pieno di verità sull'amore, il mistero dell'amare, l'impossibilità, l'abbandono, la sofferenza. 



“C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ognuno di noi ha la propria “no man’s land” in cui è totale padrone di se stesso. [...] Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale; l’una sia lecita l’altra illecita. Semplicemente l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero…”

Nina Berberova, Il giunco mormorante, Traduzione di Donatella Sant'Elia, Adelphi, 1988.

25/09/12

Dostoevskij - il primo shock emotivo/culturale della mia (giovane) vita.




Voglio raccontarvi la prima vera illuminazione della mia vita. Avevo 15 anni, ero un ragazzo qualsiasi, proveniente da una famiglia operaia, frequentavo il secondo Liceo scientifico.  

Una professoressa particolarmente illuminata, o forse solo il caso - non ricordo bene i dettagli - decise di portare una scolaresca di immaturi foruncolosi a teatro. 

Fu scelto il Teatro Centrale, a Roma, vicino Piazza del Gesù.  Giorgio Albertazzi metteva in scena 'Uomo del sottosuolo', tratto da Ricordi dal sottosuolo romanzo scritto da Fedor Dostoevskij nel 1864.

Non era la prima volta che vedevo un nudo femminile integrale a teatro. L'anno prima, nella palestra del Liceo Castelnuovo, che frequentavo all'epoca, si erano esibiti, durante la settimana autogestita degli studenti, i ballerini del Living Theatre.

Poco o nulla accadde su quella scena, abitata semplicemente da un grande letto matrimoniale disfatto, dal protagonista avvolto in un camicione bianco e da Liza, la prostituta sedotta - con la illusione di cambiarle la vita - dal protagonista, che successivamente la umilierà nel peggiore dei modi.

Non so ricostruire il perché e il come, ma l'assistere a quello spettacolo fu per me - che ne parlo a tanti anni di distanza - una iniziazione, l'entrare cioè in un mondo sconosciuto: che era appunto me stesso.

Tornato a casa, provai una sensazione di malessere fisico. Una crisi profonda che mi impedì anche solo di parlare per tre giorni.  L'unica cosa che mi riuscì di fare fu di riempire un vecchio diario di pensieri sconnessi, quelli che sentivo emergere da una profondità remota e forse preesistente che mi abitava e della quale non ero mai stato cosciente.

Visto a ritroso, posso dire oggi che quello fu ufficialmente il mio ingresso nell'età adulta: un ingresso doloroso, fatto di consapevolezza e di dolore (soprattutto di dolore fisico, in ogni angolo del mio corpo), di raggiungimento di nuovi strati sconosciuti interiori che mi attraevano e mi spaventavano.

Fu l'ispirazione per prendere in mano Delitto e Castigo. E poi, uno dopo l'altro, tutti i grandi romanzi di D. che nella lettura e rilettura hanno segnato i momenti significativi della mia vita e della mia crescita.

Dostoevskij mi insegnò la brutalità e la sublime bellezza della profondità umana, di ogni profondità umana, anche della più apparentemente meschina. Mi insegnò che in ogni uomo vi è un abisso, popolato di tetri fantasmi che neanche lui conosce e che spesso decidono della sua vita, e mi insegnò che la bellezza salva, o può salvare, se si è capaci di affrontare con pienezza la vita, attraversandone l'ombra e non lasciandosene travolgere e sopraffare per sempre.

E' quello che ho cercato di fare, faticosamente,  nel mio percorso di vita, fin qua.



foto originale di Uomo del Sottosuolo di e con Giorgio Albertazzi - foto l'Unità.

31/07/12

Morto a mosca Evgenij Pasternak, il figlio di Boris, maggiore studioso delle opere del padre.



E' morto a Mosca Evgenij Borisovich Pasternak, all'eta' di 89 anni.

Era il figlio maggiore dell'autore del Dottor Zivago, nato dal matrimonio con l'artista Evgenia Lourie. 

Ne da' notizia l'editore italiano, Feltrinelli, che pubblico' per primo nel mondo il capolavoro dello scrittore russo. 

Letterato e ricercatore, Evgeni Pasternak e' stato uno dei piu' grandi studiosi dell'opera del padre, di cui ha scritto la prima biografia e curato la raccolta delle opere. 

Il 26 novembre 2007 Evgenij Borisovich, prosegue una nota dell'editore, Pasternak ha presenziato alla mostra "Il dottor Zivago, la seconda nascita" che ricostruiva attraverso documenti e fotografie provenienti dall'archivio della famiglia Pasternak, dagli archivi della Fondazione, della casa editrice Feltrinelli e dagli archivi De Michelis, Garzonio e Ripellino, la vicenda della pubblicazione del capolavoro di Pasternak a cinquant'anni dalla sua pubblicazione.

02/12/11

Dostoevskij: l'Idiota, una scommessa contro ogni ragionevolezza. Così è il bene.




Non si finirà mai di riscoprire la grandezza di Dostoevskij e dei suoi eterni romanzi.  Nell'Idiota c'è la scommessa vinta - e difficilmente ripetuta in termini moderni - di descrivere il bene. La purezza di spirito.

Oggi che conosciamo ogni geografia del male - vissuto, vivisezionato, e parossisticamente dilatato - nella letteratura e nell'arte contemporanea (dove il bene è bandito come se fosse di cattivo gusto), sorge il sospetto che scrivere del bene sia troppo difficile (come lo fu per Dostoevskij, evidentemente) e molti preferiscono rinunciare, essendo ogni male troppo a buon mercato per potervi rinunciare.

Eppure, rileggendo questo libro, ogni pagina sussurra profondità difficili da immaginare.

Potete star certi che Colombo non era felice nel momento in cui scoperse l'America, bensì quando era in viaggio per scoprirla [...] L'importante non era quel Nuovo Mondo, che magari poteva anche inabissarsi. [...] L'importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo della sua scoperta, in questo processo continuo ed ininterrotto, e non nella scoperta stessa! [...] Del resto, voglio aggiungere che ogni idea nuova o geniale concepita da un uomo, o anche, semplicemente, ogni idea seria gemmata nella mente di qualcuno, resta sempre qualcosa che è impossibile trasmettere agli altri uomini, anche se si scrivessero interi volumi e si impiegassero anche trentacinque anni nell'intento di interpretarli; rimarrà sempre qualcosa che si rifiuterà in ogni modo di uscire dalla vostra testa e resterà sempre chiuso in voi...

Il principe Myskin è prigioniero del suo bene. Non si placa e non si rassegna, anche se ogni volta l'onda del suo spirito nobile, primitivo, incontaminato, si infrange sulla scogliera dei mille mali, delle mille crudeli chiusure che gli uomini hanno escogitato, da sempre, per negare la forza e la verità di un sentimento (umano).

Vi sono uomini che non hanno mai ucciso, eppure sono mille volte più cattivi di chi ha assassinato sei persone.


Myskin soccombe senza lasciare apparentemente traccia. Come una nave che sprofonda in mare con tutte le  luci accese.  Eppure, la grande onda di quella nave affondata, ancora lambisce così da vicino i nostri passi.


20/01/11

Dostoevskij: il tempo che viviamo.




Il nostro è un tempo che ha un bisogno disperato di profeti. La limitazione degli orizzonti, sempre più stretti, sempre più personali, sempre più irrilevanti, ha fatto sì che ormai sfugga del tutto il quadro di insieme e con esso il senso di quello che viviamo. Eppure, anche di fronte all'incredibile e disperante dissoluzione dei costumi e delle istituzioni al quale stiamo assistendo in questi giorni in Italia, sembriamo come incapaci di riferire quel che accade a un processo, a un passato, a una storia che passa e che sembra - specie a noi italiani - non aver mai insegnato nulla.

E' così utile rileggere il pensiero dei profeti dimenticati. Uno di questi è Fedor Dostoevskij, che nei Demoni, preconizzò e profetizzò l'onda nichilista impadronitasi del mondo nel Novecento, e ancora oggi ci sommerge. Proviamo a rileggere queste parole - è il momento del romanzo il cui Piotr Verchovjenski illustra a Nikolaj Stavroghin il programma dell'Uguaglianza:

"noi faremo morire il desiderio: spargeremo sbornie, pettegolezzi, denunzie; spargeremo una corruzione inaudita; spegneremo ogni genio già in fasce...
Per prima cosa si abbassa il livello dell'istruzione, delle scienze, degli ingegni. L'alto livello delle scienze é accessibile solo alle doti superiori. A Cicerone si taglia la lingua, a Copernico si cavano gli occhi, Shakespeare viene lapidato."

A leggere queste parole, sembrerebbe davvero che il programma è attuato pienamente, e che non ci sarà scampo, ormai.

Ma forse è il caso di aggiungere che Dostoevskij - così lucidamente "sul presente" - fu quello stesso profeta capace di elaborare quel celebre 'credo' personale, nella famosa lettera inviata nel 1854 a N.D.Fonvizina, quando era appena uscito dal lungo confino in Siberia:

Di me Le dirò che io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio (ditja veka, ditja neverija i somnenia) , e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba.

Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! 

Cionostante Iddio mi manda talora degl'istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl'istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl'istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. 

Questo Credo è molto semplice, e suona così: credete che non c'è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c'è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. 

Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità.