12/11/21
Il suicidio di David Foster Wallace nelle parole di sua moglie
03/10/21
Franzen sul nuovo romanzo Crossroads: "I Vangeli sono un documento politico radicale che la sinistra americana ha completamente dimenticato"
Ci sono dei passaggi nella bella intervista a Jonathan Franzen pubblicata sul Corriere della Sera il 25 settembre scorso e realizzata da Cristina Taglietti a proposito del suo nuovo romanzo Crossroads (Einaudi) tra poco disponibile anche in Italia, nei quali ho trovato, espresso con molta chiarezza, uno dei temi (o dei fenomeni) fondamentali della società contemporanea (o post-contemporanea), che molti intellettuali, anche italiani, hanno finora ignorato.
Franzen spiega la genesi del suo lungo romanzo a partire dallo spunto iniziale: All’origine del romanzo - dice - c’è un gruppo giovanile cristiano, mondo che conoscevo bene. Io stesso ho frequentato la chiesa per 12 anni e come Perry, il figlio di mezzo degli Hildebrandt, conoscevo ogni angolo della chiesa, ogni porta segreta, ogni passaggio, tutti i ministri. Per me è importante partire da ciò che conosco bene, da un luogo in cui mi sento a casa.
Aggiunge poi Franzen:
Può sembrare sciocco, ma per me essere un romanziere non significa scrivere ciò che voglio, ma ciò che so scrivere. Non uso mai il materiale che potrei usare, ma quello che possiedo. Sono un grande fan di Dostoevskij, di Flannery O’Connor, amo l’arte religiosa, la scultura gotica italiana, l’architettura delle chiese romaniche. Per me tutto ciò è commovente anche se non sono credente. Anche questo è un mondo in cui mi sento a casa, non mi interessa tanto mettere al centro le grandi domande dell’esistenza. Diciamo che mi sento come un falegname che costruisce mobili e tutto ciò che ha a disposizione sono i pezzi di legno avanzati dal progetto precedente.
A Cristina Taglietti, che lo intervista, Franzen conferma che Crossroads, il nome del gruppo giovanile che dà il titolo al romanzo, ricorda molto Comunità, il gruppo che lo scrittore ha frequentato da ragazzo e di cui parla in «Zona disagio».
Sì, ne sono stato membro attivo per sei anni. A dire il vero ci andavo più per socializzare, come credo la maggior parte dei ragazzi, ma è stata un’esperienza intensa. Molti dei dettagli del romanzo vengono da lì.
Nel passaggio successivo, Franzen spiega cosa lo ha particolarmente interessato della questione, del fenomeno religioso, di come abbia influito assai diversamente, nel passato e nel presente, nella vita politica occidentale. Negli anni '70 infatti, all'epoca in cui Crossroads si riferisce, la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili.
In seguito le cose sono radicalmente cambiate.
Che cosa si è dimenticato nel tempo? chiede l'intervistatrice.
Che allora la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. Uno dei piaceri di scrivere Crossroads è stato tornare alla Bibbia. Sono andato in chiesa per 12 anni, ho frequentato il catechismo, le funzioni religiose e, anche se non la rileggo da quarant’anni, mi sono reso conto di conoscerla bene. Io non credo ai miracoli, alla trascendenza, ma ci sono storie molto potenti dentro la Bibbia. L’intertestualità, per usare un parolone, mi interessa sempre e scrivere un libro nuovo in qualche modo legato a uno così antico mi piaceva. Negli anni Settanta, nella mia chiesa e soprattutto nei gruppi giovanili, c’era molta attenzione a ciò che Gesù aveva detto, ci si chiedeva che cosa avrebbe pensato della guerra in Vietnam, della segregazione razziale. I Vangeli sono un documento politico molto radicale che rivela il paradosso del cristianesimo: per tutta la storia umana si è creduto che bisogna cercare di essere ricchi e potenti, il Vangelo dice che essere poveri e deboli è il modo di trovare Dio. Oggi questa componente si è quasi completamente persa nella sinistra americana (anche in quella italiana o europea, nota mia). Il primo atto è stato la legalizzazione dell’aborto che ha attivato gli elementi religiosi più conservatori: i cristiani evangelici sono diventati una potente forza politica, hanno sostenuto Reagan e ogni presidente conservatore fin dalla metà degli anni Settanta. E oggi sono così aggressivi che la cristianità si identifica con le loro posizioni aberranti: l’omofobia, l’adorazione per la ricchezza, l’ingerenza in ogni decisione personale delle donne. A Santa Cruz, in California, dove vivo, se dici a un liberal che vai in chiesa si ritrae terrorizzato, meglio dire che adori Satana nel seminterrato.
Parole molto chiare e forti, che dovrebbero far molto riflettere, anche dalle nostre parti.
07/09/21
I Quattro Libri che Cesare Pavese regalò a Fernanda Pivano da studentessa e che le cambiarono la vita
31/03/21
Arriva la biografia di Philip Roth ed è subito polemica
11/01/21
Libro del Giorno: "Benedizione" di Kent Haruf
In fondo nella storia della letteratura moderna - quella che per intenderci parte dalla grande cesura tra fine Ottocento e primi del Novecento - è possibile distinguere due grandi filoni stilistici: il primo - che può farsi risalire a Proust e seguentemente a Joyce, Henry James, ecc.. - nel quale è preponderante la descrizione e lo studio della psicologia umana, dei sentimenti umani, dei pensieri umani; il secondo - che può trovare la sua radice in Cechov e seguentemente in una parte rilevante della letteratura americana, da Hemingway a John Fante a Carver - nel quale invece è prevalente la descrizione dei caratteri e delle cose umane, di quello cioè che succede e che viene narrato. Di questa seconda grande categoria sono eredi oggi scrittori dalla narrativa limpida ma estremamente distillata, che quasi mai si dilungano in descrizioni dei sentimenti o delle emozioni, ma che lasciano che questi emergano dal racconto più o meno particolareggiato, dalla osservazione nuda delle cose e di minimi effetti narrativi.
Per far ciò, è chiaro, bisogna essere grandi narratori. E' relativamente più facile dedicare venti o trenta pagine alla descrizione di un sentimento o di una serie di sentimenti dei protagonisti, che far emergere questi, cioè il mondo interiore dei personaggi dal semplice racconto, "nudo e crudo" di quel che succede loro.
Nel caso di Haruf, come scrive bene l'ottimo traduttore Fabio Cremonesi, nella pagina della nota finale, tutto si gioca tra semplicità ed esattezza.
Normalmente si pensa che semplicità ed esattezza vadano difficilmente d'accordo, presumendo che per una descrizione accurata occorrano molte parole, molte frasi, molti pensieri. E che, di converso, una narrazione piana e scarna possa essere evocativa, ma non esatta.
Ad Haruf riesce invece il miracolo di una narrazione scarnificata, ridotta all'essenziale, con parole centellinate e frasi di poche o pochissime parole e dialoghi perfino non virgolettati, e però estremamente esatta.
Cosa che rende ancora più difficile la sfida del traduttore.
Haruf, scomparso nel 2014, è diventato negli ultimi anni uno scrittore di culto, anche in Italia, specialmente con la cosiddetta Trilogia della Pianura, di cui Benedizione è il primo capitolo.
Nella Trilogia, ma anche negli altri romanzi di Haruf, vengono raccontate storie relative a persone qualunque, ambientate in una immaginaria cittadina del Colorado, Holt, ritagliata sul modello della cittadina nella quale lo scrittore ha vissuto a lungo.
In questa profonda provincia americana, tra il nulla e le montagne, accadono le vicende ordinarie di uomini e donne, vecchi e bambini, ordinari: Dad, il vecchio gestore del ferramenta del paese sta morendo di cancro. Sua moglie, Mary, lo accudisce amorevolmente fino alla fine, senza staccarsi da lui. Anche la figlia Lorraine accorre al capezzale e si rende utile. Il figlio Frank invece no: dopo aver scoperto la sua omosessualità si è allontanato dal padre dopo un duro conflitto e non ha mai fatto ritorno a casa. Intorno a loro si muovono le esistenze di altri personaggi: l'anziana Willie con la figlia Aline, il pastore Lyle con la moglie e il figlio, che prende alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e manda su tutte le furie la comunità della cittadina, i vicini di casa, premurosi e dolenti come gli altri attori di questo racconto: ciascuno con la sua croce, con le sue speranze, con la sua voce umile ma viva.
Ed è forse questo il più grande pregio dei libri di Haruf: la capacità di raccontare la vita vera. Senza orpelli, compiacimenti, giochi letterari, con un realismo minimo ma profondamente intenso perché vero. E soprattutto con un tono di speranza che si accende inaspettato dietro il grigiore che sembra pervadere tutto: la capacità di cercare la luce nella tenebra. Questo è quello che fanno gli indimenticabili personaggi di Haruf. Forse è proprio quello che succede anche nelle nostre vite.
23/12/20
Libro del Giorno: "La commedia umana" di William Saroyan
30/08/19
Il giorno in cui Hemingway liberò il bar dell'Hotel Ritz a Parigi.
Dopo essere sopravvissuto alla prima guerra mondiale e alla guerra civile spagnola - dove aveva abbattuto i confini tra reporter e combattente - Hemingway era riuscito a infilarsi tra le truppe statunitensi della 4a divisione che sbarcarono sulle spiagge della Normandia il D-Day.
Come alcuni "gloriosi dilettanti" che si erano offerti volontari per aiutare l'Ufficio dei servizi strategici, un ramo dei servizi di intelligence statunitensi, trascorse un mese a sfrecciare in una jeep tra le prime linee, entrando in contatto con i combattenti della resistenza francese locali tra le forze statunitensi in progresso e i tedeschi in ritirata.
Era esattamente il tipo di situazione ad alto rischio e drammaturgica in cui lo scrittore si crogiolava, anche se imbarazzava sua moglie Martha Gellhorn, che prendeva il suo lavoro come reporter di guerra molto più seriamente. Uno di quei combattenti della Resistenza in seguito ricordò l'ossessione di Hemingway per il lussuoso hotel di Parigi, dicendo che parlava di poco altro ma "essere il primo americano a Parigi e liberare il Ritz".
Hemingway si era innamorato del Ritz come scrittore senza un soldo a Parigi negli anni '20 insieme a F. Scott Fitzgerald, una volta in seguito immortalato in "Una festa mobile". Con l'aiuto dei suoi contatti nella divisione corazzata americana, comandata dal altrettanto appariscente generale George S. Patton, Hemingway combatté insieme al comandante francese Generale Philippe Leclerc, i cui carri armati avevano ricevuto l'onore di liberare Parigi.
La sua umile richiesta: avere abbastanza uomini per liberare il bar del Ritz. Con sorpresa dello scrittore, ricevette un'accoglienza gelida e fu licenziato. Ma Hemingway perseverò e il 25 agosto si presentò all'hotel sulla bellissima Place Vendome di Parigi in una jeep montata con una mitragliatrice alla testa di un gruppo di combattenti della Resistenza.
Fece irruzione nell'hotel e annunciò che era venuto a liberarlo personalmente e il suo bar, che era servito da abbeveratoio per una lunga fila di dignitari nazisti, tra cui Hermann Goering e Joseph Goebbels.
Il direttore dell'albergo, Claude Auzello, gli si avvicinò e Hemingway chiese: "Dove sono i tedeschi? Sono venuto per liberare il Ritz".
"Monsieur", rispose il direttore: "Se ne sono andati molto tempo fa. E non posso lasciarla entrare con un'arma."
Hemingway mise la pistola nella jeep e tornò al bar, dove si dice che avesse corso un conto per 51 martini a secco. "Indossava l'uniforme e impartiva ordini con tale autorità che molti pensavano che fosse un generale", ha ricordato il capo barman del Ritz, Colin Field.
Secondo il fratello di Hemingway, Leicester, lo scrittore perquisì la cantina con i suoi uomini, prendendo due prigionieri e trovando un eccellente stock di brandy. Ispezionando il tetto e i piani superiori, non trovarono altro che le lenzuola che si asciugavano nel vento, che erano piene di fori di proiettili.
Hemingway in seguito scrisse che non poteva sopportare il pensiero che i tedeschi avessero sporcato la stanza che condivideva con la sua amante Mary Welsh, che avrebbe sposato nel 1946.
I due rimasero insieme fino al suicidio di lui nel 1961.
Hemingway scrisse del suo soggiorno in hotel con il suo gruppo di irregolari in un racconto del 1956, "Una stanza sul lato giardino", che è stato recentemente portato alla luce dalla rivista Strand negli Stati Uniti. In esso cita il poeta simbolista francese Charles Baudelaire e descrive come i suoi uomini abbiano bevuto lo champagne del Ritz mentre pulivano le loro armi e si preparavano per la fase successiva nello "sporco commercio della guerra".
Gli studiosi ritengono che potrebbe essere questa, la parte di un lavoro più grande che Hemingway aveva pianificato, per descrivere nel dettaglio le sue esperienze in guerra.
Le scorrerie di Hemingway al Ritz non sfuggirono all'attenzione dei suoi superiori, con minacce di essere deferito alla corteo marziale per aver indossato le armi come corrispondente di guerra.
Le accuse furono tranquillamente lasciate cadere, per evitare imbarazzo per i servizi segreti statunitensi, e dopo la guerra lo scrittore ricevette silenziosamente una medaglia di stella di bronzo per aver lavorato "sotto tiro nelle aree di combattimento per ottenere un quadro accurato delle condizioni belliche e delle posizioni".
Anche il Ritz alla fine lo perdonò, nominando un piccolo bar dopo Hemingway nel 1994.
Fonte LPN - La Presse
12/06/19
Libro del Giorno: "Di là dal fiume e tra gli alberi" di Ernest Hemingway
Successivamente, quando era a Cortina d'Ampezzo a sciare con la moglie, lei si ruppe la caviglia e Hemingway, annoiato, iniziò a scrivere il romanzo. Nella primavera successiva si recò a Venezia, approfondendo la conoscenza dell'adolescente, con la quale intrattenne una fitta corrispondenza nei mesi seguenti e terminando poi la scrittura del romanzo nella villa della Finca Vigia, a Cuba
Fabrizio Falconi
Ernest Hemingway
Di là dal fiume e tra gli alberi
Traduzione e introduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore Milano,1965
pp. 349
Euro 11.05
08/05/19
La Cripta dei Cappuccini a Roma e il "Fauno di Marmo" di Hawthorne - da "I Fantasmi di Roma"
Fabrizio Falconi - tratto da I Fantasmi di Roma - Newton Compton Editore, 2010, 2018
04/05/19
Libro del Giorno: "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald
Fuori dall'uso che ne hanno cinema e teatro, ricreando sul grande schermo o sul palcoscenico le ambientazioni di quella New York anni ’20, divisa tra jazz, feste dell’alta società e profonde contraddizioni sociali, a metà tra la fine della Grande Guerra e il periodo della Grande Depressione, il romanzo di Francis S. Fitzgerald, riletto oggi mostra la grandezza del suo sperimentalismo, ardito per l'epoca, esempio anche per l'oggi di ciò che la letteratura dovrebbe essere.
Un romanzo sospeso e profondo, nel quale i fatti sembrano quasi non succedere, sgranati dentro un tessuto onirico dove il tempo e il sogno si dividono gli spazi e sovrastano l'osservazione realistica.
Ogni frase di Fitzgerald - anche nella sua costruzione, anche nella semplice scelta degli aggettivi e dei toni di contrasto - ha il potere e la capacità di spiazzare il lettore, negandogli ciò che egli si aspetta, e lasciandolo in una sorta di limbo in cui è difficile decidere ciò che è vero da ciò che sembra, da ciò che è immaginato o sognato, o intravisto attraverso la coltre del vissuto.
La trama, in effetti, è riassumibile in poche scarne righe, raccontando le vicende di Jay Gatsby, giovane miliardario dal passato oscuro e dal cuore infranto.
La sua meravigliosa villa fuori New York, a West Egg è popolata come non mai da avventori di ogni tipo che partecipano, vengono invitati ai suoi lussuosi party, eppure nessuno sembra conoscerlo veramente, nessuno ci scambia una parola, nessuno è veramente suo amico, nessuno sa cosa nasconda nel cuore e nel passato, se non quel Nick Carraway che è il narratore - venuto dal West a cercare fortuna a New York - e che sarà l'unico a rimanergli vicino, fino alla fine.
Nick è il cugino di Daisy Fay, che ha sposato il giocatore di golf Tom Buchanan, marito infedele e assente. Gatsby chiede a Nick di combinare un incontro fra lui e Daisy, perché proprio lei è la ragazza di cui il giovane miliardario si era innamorato anni addietro, prima di partire per la Prima guerra mondiale, dove si è fatto onore ed è stato decorato.
I pomeriggi passati insieme dai due amanti di un tempo, incoraggeranno Gatsby a illudersi della possibilità di riconquistare la donna amata.
Ma tutto svanirà, per lui, drammaticamente, durante una gita a New York, cui partecipano anche Nick, l’amica di lei Jordan Baker, e Tom.
Daisy resta muta infatti quando nel confronto con Tom, Gatsby gli chiede di confessare al marito di non averlo mai amato.
Si spezza definitivamente il sogno di Gatsby, fino alla tragedia finale.
Metafora della fine stessa del sogno americano, la vicenda di Gatsby è anche una potente lezione sulla condizione di solitudine dell'essere umano, della impossibilità di vivere con profondità i rapporti umani e i sentimenti, in un mondo convertitosi definitivamente al culto dell'apparenza e della vita superficiale.
Anche Gatsby, l'uomo che ha osato, che è rinato dalle proprie ceneri, che si è sporcato le mani per raggiungere il suo sogno, resta a mani nude, solo.
Con quell'epitaffio definitivo che è la chiusa, l'ultima frase del libro, nella quale Fitzgerald conchiuse, probabilmente, la consapevolezza della sua stessa vicenda esistenziale:
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.
Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
Traduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore, 1950
pp. 215