Visualizzazione post con etichetta letteratura americana. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta letteratura americana. Mostra tutti i post

12/11/21

Il suicidio di David Foster Wallace nelle parole di sua moglie



Karen Green è una donna eccezionale. 

E oltre ad essere una donna eccezionale è anche una artista vera. 

E oltre ad essere una donna eccezionale e anche una artista vera è stata anche la moglie di un genio, David Foster Wallace, considerato uno degli scrittori più importanti degli ultimi 50 anni e suicidatosi il 12 settembre del 2008, a soli 46 anni, impiccandosi ad una trave della sua abitazione. 

In tutti questi anni, dopo la morte del marito, la Green ha compiuto ogni sforzo per comprendere la morte di David, ma in una intervista a The Guardian, ha ribadito la volontà di negare l'idea che il suicidio sia in qualche modo un atto significativo, ancor meno comprensibile in termini artistici – il mito del depressivo romantico – come invece molti commentatori della morte di Wallace, mettendolo insieme ad altri suicidi celebri come Kurt Cobain, hanno voluto vederlo. 

"È stato un giorno nella sua vita", dice la Green "ed è stato un giorno nella mia. Il problema per me è che c'è uno stress post-traumatico che deriva dal trovare qualcuno che ami in quel modo, come ho fatto io. È un cosa reale. Un vero cambiamento al tuo cervello, a livello cellulare, a quanto pare. La gente mi dice che avrei dovuto essere preparata, a causa della storia di David con la depressione. Ma ovviamente non ero affatto preparata. Non me ne sarei andata, lasciando lui solo in casa, mai, se avessi sospettato che sarebbe potuto succedere. Sento ancora che è stato commesso un errore". 

Confessa di evitare ancora dopo tanto tempo Google: "Cosa fai quando il referto dell'autopsia di tuo marito è su Internet ed è considerato un argomento degno di una fottuta critica letteraria?" 

Sono rarissime le volte in cui la Green ha parlato del suicidio del marito. "L'ho fatto solo quando sapevo che l'articolo non avrebbe incluso le parole "impiccato" o "corpo scoperto", dice. 

"Ma mi sono sbagliata e l'hanno fatto lo stesso. Sono un'idiota, ovviamente. So che il giornalismo è giornalismo e forse la gente vuole leggere che ho scoperto il corpo più e più volte, ma questo non definisce David o il suo lavoro. Tutto questo lo trasforma in uno scrittore di celebrità, il che penso lo avrebbe fatto molto arrabbiare, o almeno avrebbe fatto arrabbiare la parte buona di lui. Ma adesso ha definito anche me, e sto davvero lottando con questo". 

Se ha deciso di parlarne è stato perché si è sentita in dovere di pubblicare The Pale King , l'ultima opera di David, uscita postuma, e in parte perché ha la sensazione che parlare della sua esperienza possa essere di aiuto ad altre persone che sono state lasciato indietro a convivere con l'ossessione o l'incubo del suicidio. 

Non è sicura di molte cose riguardo alla morte di suo marito ma è certa di una cosa: che Wallace voleva che il Re Pallido fosse pubblicato, anche nel suo stato incompiuto. "Gli appunti che ha preso per il libro e i capitoli che erano completi, sono stati lasciati in una pila ordinata sulla sua scrivania nel garage dove lavorava. E le sue lampade erano accese sopra. Quindi non ho dubbi nella mia mente questo è quello che voleva. Era in uno stato organizzato molto insolito per David. " 

"Forse l'ottusità è associata al dolore psichico", ha scritto Wallace in una delle pagine del Re Pallido, uscito con enorme successo dopo la sua morte, "perché qualcosa di opaco o opaco non riesce a fornire abbastanza stimoli per distrarre le persone da qualche altro tipo di dolore più profondo che è sempre presente, anche se solo ad un livello inferiore, e da cui la maggior parte di noi spende quasi tutto il proprio tempo e le proprie energie cercando di distrarsi."

Una delle molte pagine profetiche dell'opera di un grande scrittore.

03/10/21

Franzen sul nuovo romanzo Crossroads: "I Vangeli sono un documento politico radicale che la sinistra americana ha completamente dimenticato"


Ci sono dei passaggi nella bella intervista a Jonathan Franzen pubblicata sul Corriere della Sera il 25 settembre scorso e realizzata da Cristina Taglietti a proposito del suo nuovo romanzo Crossroads (Einaudi) tra poco disponibile anche in Italia, nei quali ho trovato, espresso con molta chiarezza, uno dei temi (o dei fenomeni) fondamentali della società contemporanea (o post-contemporanea), che molti intellettuali, anche italiani, hanno finora ignorato. 

Franzen spiega la genesi del suo lungo romanzo a partire dallo spunto iniziale: All’origine del romanzo - dice - c’è un gruppo giovanile cristiano, mondo che conoscevo bene. Io stesso ho frequentato la chiesa per 12 anni e come Perry, il figlio di mezzo degli Hildebrandt, conoscevo ogni angolo della chiesa, ogni porta segreta, ogni passaggio, tutti i ministri. Per me è importante partire da ciò che conosco bene, da un luogo in cui mi sento a casa.

Aggiunge poi Franzen: 

Può sembrare sciocco, ma per me essere un romanziere non significa scrivere ciò che voglio, ma ciò che so scrivere. Non uso mai il materiale che potrei usare, ma quello che possiedo. Sono un grande fan di Dostoevskij, di Flannery O’Connor, amo l’arte religiosa, la scultura gotica italiana, l’architettura delle chiese romaniche. Per me tutto ciò è commovente anche se non sono credente. Anche questo è un mondo in cui mi sento a casa, non mi interessa tanto mettere al centro le grandi domande dell’esistenza. Diciamo che mi sento come un falegname che costruisce mobili e tutto ciò che ha a disposizione sono i pezzi di legno avanzati dal progetto precedente.

A Cristina Taglietti, che lo intervista, Franzen conferma che Crossroads, il nome del gruppo giovanile che dà il titolo al romanzo, ricorda molto Comunità, il gruppo che lo scrittore ha frequentato da ragazzo e di cui parla in «Zona disagio». 

Sì, ne sono stato membro attivo per sei anni. A dire il vero ci andavo più per socializzare, come credo la maggior parte dei ragazzi, ma è stata un’esperienza intensa. Molti dei dettagli del romanzo vengono da lì.

Nel passaggio successivo, Franzen spiega cosa lo ha particolarmente interessato della questione, del fenomeno religioso, di come abbia influito assai diversamente, nel passato e nel presente, nella vita politica occidentale. Negli anni '70 infatti, all'epoca in cui Crossroads si riferisce, la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. 

In seguito le cose sono radicalmente cambiate.

Che cosa si è dimenticato nel tempo? chiede l'intervistatrice.

Che allora la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. Uno dei piaceri di scrivere Crossroads è stato tornare alla Bibbia. Sono andato in chiesa per 12 anni, ho frequentato il catechismo, le funzioni religiose e, anche se non la rileggo da quarant’anni, mi sono reso conto di conoscerla bene. Io non credo ai miracoli, alla trascendenza, ma ci sono storie molto potenti dentro la Bibbia. L’intertestualità, per usare un parolone, mi interessa sempre e scrivere un libro nuovo in qualche modo legato a uno così antico mi piaceva. Negli anni Settanta, nella mia chiesa e soprattutto nei gruppi giovanili, c’era molta attenzione a ciò che Gesù aveva detto, ci si chiedeva che cosa avrebbe pensato della guerra in Vietnam, della segregazione razziale. I Vangeli sono un documento politico molto radicale che rivela il paradosso del cristianesimo: per tutta la storia umana si è creduto che bisogna cercare di essere ricchi e potenti, il Vangelo dice che essere poveri e deboli è il modo di trovare Dio. Oggi questa componente si è quasi completamente persa nella sinistra americana (anche in quella italiana o europea, nota mia). Il primo atto è stato la legalizzazione dell’aborto che ha attivato gli elementi religiosi più conservatori: i cristiani evangelici sono diventati una potente forza politica, hanno sostenuto Reagan e ogni presidente conservatore fin dalla metà degli anni Settanta. E oggi sono così aggressivi che la cristianità si identifica con le loro posizioni aberranti: l’omofobia, l’adorazione per la ricchezza, l’ingerenza in ogni decisione personale delle donne. A Santa Cruz, in California, dove vivo, se dici a un liberal che vai in chiesa si ritrae terrorizzato, meglio dire che adori Satana nel seminterrato.

Parole molto chiare e forti, che dovrebbero far molto riflettere, anche dalle nostre parti.

QUI l'intervista integrale a Jonathan Franzen del Corriere della Sera realizzata da Cristina Taglietti

07/09/21

I Quattro Libri che Cesare Pavese regalò a Fernanda Pivano da studentessa e che le cambiarono la vita


Fernanda Pivano a vent'anni

Sono reduce dalla lettura di Olivia, l'unico romanzo scritto da Dorothy Strachey (1865-1960) completamente focalizzato sulla importanza deflagrante dell'imprinting educativo che scaturisce dalla lettura della grande poesia e della grande letteratura, in ambito scolastico-adolescenziale. 

Un esempio di questa folgorazione, destinata molto spesso a determinare le scelte e la vita successiva di un giovane che si affaccia alla vita è sicuramente data dalla vicenda di Fernanda Pivano, che nacque a Genova il 18 luglio 1917 da una famiglia alto borghese che lei stessa soleva definire vittoriana (come quella di Dorothy Strachey) secondogenita di Riccardo Newton Pivano (1881-1963), direttore dell'Istituto di Credito Marittimo, d'origini in parte scozzesi, e di Mary Smallwood (1891-1978) nata dal matrimonio tra Elisa Boggia e Francis Smallwood uno dei fondatori della Berlitz School italiana. 

Anche se genovese di nascita, la formazione della Pivano avvenne a Torino, dove si trasferì dodicenne  al seguito della famiglia, nel 1929. 

A Torino la Pivano fu iscritta al liceo classico Massimo d'Azeglio dove ebbe la fortuna di avere come compagno di classe in quarta e quinta ginnasio Primo Levi e come supplente di italiano Cesare Pavese, allora ventinovenne. 

La Pivano e Levi, dimostrandosi già mentalmente avanti, non vennero ammessi agli orali dell'esame di maturità nella scuola superiore già completamente fascistizzata, perché i loro temi per lo scritto furono  giudicati "non idonei".

Ma nel 1938 Pavese regalò alla giovane allieva quattro libri in inglese che segnarono il suo destino di scrittrice e traduttrice, facendo esplodere in  lei la passione per la Letteratura american: 

I quattro libri erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway – che la giovane Fernanda tradusse clandestinamente in lingua italiana –, Foglie d'erba di Walt Whitman, Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e l'autobiografia di Sherwood Anderson.

Sono in effetti quattro libri - soprattutto i primi tre - fondamentali per la Letteratura Americana del Novecento: libri sui quali si formarono le generazione future, anche nel dopoguerra, grazie anche all'opera di divulgazione e di traduzione di Fernanda Pivano.

Pavese avrebbe potuto sceglierne anche altri ovviamente.

Ma quelli li scopri da soli, Fernanda, se si pensa che qualche anno più tardi, il 17 giugno 1941, si laureò in Lettere, proprio con una tesi su Moby Dick di Herman Melville.

31/03/21

Arriva la biografia di Philip Roth ed è subito polemica

 


"Philip Roth" di Blake Bailey, un volume che Roth aveva immaginato in qualche forma per più di 20 anni, esce il 7 aprile. 

Sempre disposto a provocare o amplificare una discussione, l'autore di "American Pastoral", "Sabbath's Theatre" e altri romanzi aveva pensato a una biografia sin da quando la sua ex moglie, l'attrice Claire Bloom, lo aveva descritto come infedele, crudele e irrazionale nel suo libro di memorie del 1996 "Leaving a Doll's House"

Roth era determinato a far emergere la sua verità, ma voleva che qualcun altro lo facesse

Ha reclutato per primo Andrew Miller, un professore di inglese e nipote del drammaturgo Arthur Miller, ma è diventato così insoddisfatto di quello che credeva fosse l'ambito ristretto di Miller che i due hanno avuto un pesante diverbio

Così, nel 2012, Roth ha puntato su Bailey, concedendogli pieno accesso ai suoi documenti, ai suoi amici e, l'ostacolo più alto, all'autore stesso. Bailey inoltre avrebbe avuto l'ultima parola.

"Philip ha capito qual era l'accordo", ha detto Bailey all'Associated Press, "e per lo più lo ha rispettato".

Nei sei anni successivi, fino alla morte di Roth nel 2018, lui e Bailey sono stati collaboratori, amici e talvolta combattenti. 

Come scrive Bailey nei ringraziamenti del libro, il loro tempo insieme è stato anche "complicato, ma raramente infelice e mai noioso". 

A un certo momento, Roth poteva scherzare o sfogliare allegramente un album di foto di vecchie amiche - ce n'erano molte - e il momento dopo poteva ribollire per i presunti crimini di Bloom. 

L'autore britannico Edmund Gosse una volta definì una biografia come "il ritratto fedele di un'anima nelle sue avventure attraverso la vita"

Il libro di Bailey è più di 800 pagine e avrebbe potuto durare centinaia di più.

Roth ha completato più di 40 libri e ha vissuto molte vite in 85 anni

Bailey assume i ruoli di critico, confessore, psicologo e persino consulente matrimoniale. 

Traccia la vita di Roth dalla sua infanzia stabile ma inibitoria della classe media a Newark, nel New Jersey, agli anni adulti di disciplina letteraria e libertà personali, e ai suoi ultimi anni di pensionamento autoimposto. 

Il "vero" Philip Roth è stato una ricerca per innumerevoli critici - e lo stesso autore - sin dal suo bestseller "Portnoy's Complaint" del 1969 ha lasciato molti lettori a credere che Roth e il suo appassionato narratore fossero la stessa cosa. 

Così era e non era. 

"Mi aspettavo battute insipide, oscenità e così via", dice Bailey del tempo passato con Roth. "Ciò che mi ha sorpreso è stata l'essenziale benevolenza dell'uomo.

Poche biografie letterarie sono state così attese. Il libro di Bailey è un punto d'incontro tra uno degli autori più tempestosi e dibattuti del mondo e uno dei suoi biografi più celebri, le cui opere su John Cheever e Richard Yates sono state presentate come modelli di prosa elegante, critica incisiva, ricerca approfondita e un disponibilità ad affrontare il peggio nei suoi sudditi senza condannarli. 

"Pensavo che Blake avesse fatto un lavoro brillante, incredibilmente completo, intelligente e amorevole con mio padre", ha detto in una recente e-mail all'Associated Press Susan Cheever, la figlia di John Cheever. "La biografia è una strada difficile, tutti gli adattamenti del contesto e del personaggio, ma ho pensato che avesse bilanciato tutto perfettamente e penso che sia un segno del genio di Philip che abbia scelto anche Blake."

La maggior parte delle prime recensioni, da Kirkus a The Atlantic, sono state positive. Claire Bowden, scrivendo su The Sunday Times, ha elogiato Bailey per aver documentato la lotta di Roth "per essere visto come un romanziere serio e non un demone del sesso, che combatte le sue ex mogli, i critici e il suo corpo fallimentare". 

David Remnick del New Yorker, che ha conosciuto Roth, ha elogiato Bailey come "industrioso, rigoroso e senza scrupoli". 

Altri erano più critici. 

Parul Seghal del New York Times ha trovato Bailey più interessato al pettegolezzo che alla letteratura e ha definito il libro "un'apologia tentacolare per il modo in cui Roth ha trattato le donne, dentro e fuori dalla pagina". 

Anche Laura Marsh di The New Republic ha trovato Bailey troppo indulgente nei confronti dei vizi di Roth, dai suoi rapporti con le donne al suo risentimento contro i critici, e ha concluso che il risultato "non è una vittoria finale della discussione, come Roth avrebbe potuto sperare". 

Bailey dice che il suo scopo era quello di seguire il motto di Roth come autore - di "far entrare il repellente" e riconoscerlo come un "essere umano complicato e disordinato". 

È probabile che il biografo saluti "Pastorale americana" quanto biasimare opere minori come "Il grande romanzo americano" e "L'umiltà". 

Nel libro di memorie di Roth "The Facts", il suo alter ego immaginario Nathan Zuckerman lo ha rimproverato definendolo "il meno completamente interpretato di tutti i tuoi protagonisti". 

Bailey non è mai stato meno che affascinato, anche quando è atterrito. Roth "non aveva un solo osso monogamo nel suo corpo", disse, poteva serbare rancore come se fossero cimeli di famiglia ed era spesso fatalmente fuorviante nel suo giudizio sulle persone.

Ma c'era un lato di Philip che era del tutto ammirevole. Aveva una vena gigante di pietà filiale verso (Saul) Bellow e (Alfred) Kazin e vari scrittori che ammirava", ha aggiunto Bailey. "Se un amico di Philip fosse stato in difficoltà, lui si sarebbe messo al telefono e avrebbe iniziato a organizzare il supporto, assicurandosi che il suo amico potesse pagare le spese mediche".

"Era un uomo adorabile in molti modi." 

I bambini raramente crescono sognando di diventare un biografo letterario, e Bailey, nativo di Oklahoma City e laureato alla Tulane University, sperava per la prima volta di scrivere narrativa.

Ha completato una manciata di romanzi, tra cui uno intitolato "Bourbon In the Bathtub", ma alla fine si è reso conto che era più a suo agio nello scrivere saggistica e nel lasciarsi fuori dalla storia. Le sue ispirazioni includono il biografo britannico Lytton Strachey, che secondo Bailey considera l'umanità "ridicola, ma anche commovente". 

Le biografie di soggetti viventi _ almeno viventi all'inizio del progetto _ hanno una storia lunga e travagliata. 

Possono andare dalle valutazioni non autorizzate di Kitty Kelly di Frank Sinatra e Nancy Reagan a innumerevoli agiografie in cui il soggetto ha l'ultima parola sul manoscritto. 

Bailey ha contattato Roth su suggerimento di James Atlas, il cui libro su Bellow è spesso citato come un avvertimento che i biografi potrebbero arrivare a non amare i loro soggetti. 

 Alla domanda se la morte di Roth lo facesse sentire più libero di scrivere a suo piacimento, Bailey ha risposto che Roth "sapeva che il peggio (su di lui) stava arrivando" nel libro, citando le feroci molestie di Roth nei confronti di un amico della figlia di Bloom e la sua relazione extraconiugale con una donna identificato come "Inga"

Bailey ha ricordato un incontro con Roth pochi mesi prima della sua morte, nell'appartamento dell'autore a Manhattan. Roth era esausto, riusciva a malapena a stare in piedi, ed era arrabbiato. 

"Continuavo a fargli domande a cui non voleva rispondere." Non è nel mio interesse rispondere a queste domande, quindi devi cambiare argomento "," Bailey ricorda di aver detto Roth. "E nel bel mezzo di questo, ha detto, 'Sai, questo è il meglio che ho sentito da settimane, tu (imprecazione)'! E scoppiò a ridere."

11/01/21

Libro del Giorno: "Benedizione" di Kent Haruf

 


In fondo nella storia della letteratura moderna - quella che per intenderci parte dalla grande cesura tra fine Ottocento e primi del Novecento - è possibile distinguere due grandi filoni stilistici: il primo - che può farsi risalire a Proust e seguentemente a Joyce, Henry James, ecc.. -  nel quale è preponderante la descrizione e lo studio della psicologia umana, dei sentimenti umani, dei pensieri umani; il secondo - che può trovare la sua radice in Cechov e seguentemente in una parte rilevante della letteratura americana, da Hemingway a John Fante a Carver - nel quale invece è prevalente la descrizione dei caratteri e delle cose umane, di quello cioè che succede e che viene narrato.  Di questa seconda grande categoria sono eredi oggi scrittori dalla narrativa limpida ma estremamente distillata, che quasi mai si dilungano in descrizioni dei sentimenti o delle emozioni, ma che lasciano che questi emergano dal racconto più o meno particolareggiato, dalla osservazione nuda delle cose e di minimi effetti narrativi.  

Per far ciò, è chiaro, bisogna essere grandi narratori.  E' relativamente più facile dedicare venti o trenta pagine alla descrizione di un sentimento o di una serie di sentimenti dei protagonisti, che far emergere questi, cioè il mondo interiore dei personaggi dal semplice racconto, "nudo e crudo" di quel che succede loro. 

Nel caso di Haruf, come scrive bene l'ottimo traduttore Fabio Cremonesi, nella pagina della nota finale, tutto si gioca tra semplicità ed esattezza.

Normalmente si pensa che semplicità ed esattezza vadano difficilmente d'accordo, presumendo che per una descrizione accurata occorrano molte parole, molte frasi, molti pensieri. E che, di converso, una narrazione piana e scarna possa essere evocativa, ma non esatta. 

Ad Haruf riesce invece il miracolo di una narrazione scarnificata, ridotta all'essenziale, con parole centellinate e frasi di poche o pochissime parole e dialoghi perfino non virgolettati, e però estremamente esatta. 

Cosa che rende ancora più difficile la sfida del traduttore. 

Haruf, scomparso nel 2014, è diventato negli ultimi anni uno scrittore di culto, anche in Italia, specialmente con la cosiddetta Trilogia della Pianura, di cui Benedizione è il primo capitolo. 

Nella Trilogia, ma anche negli altri romanzi di Haruf, vengono raccontate storie relative a persone qualunque, ambientate in una immaginaria cittadina del Colorado, Holt, ritagliata sul modello della cittadina nella quale lo scrittore ha vissuto a lungo. 

In questa profonda provincia americana, tra il nulla e le montagne, accadono le vicende ordinarie di uomini e donne, vecchi e bambini, ordinari:  Dad, il vecchio gestore del ferramenta del paese sta morendo di cancro. Sua moglie, Mary, lo accudisce amorevolmente fino alla fine, senza staccarsi da lui.  Anche la figlia Lorraine accorre al capezzale e si rende utile. Il figlio Frank invece no: dopo aver scoperto la sua omosessualità si è allontanato dal padre dopo un duro conflitto e non ha mai fatto ritorno a casa.   Intorno a loro si muovono le esistenze di altri personaggi: l'anziana Willie con la figlia Aline, il pastore Lyle con la moglie e il figlio, che prende alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e manda su tutte le furie la comunità della cittadina, i vicini di casa, premurosi e dolenti come gli altri attori di questo racconto: ciascuno con la sua croce, con le sue speranze, con la sua voce umile ma viva. 

Ed è forse questo il più grande pregio dei libri di Haruf: la capacità di raccontare la vita vera. Senza orpelli, compiacimenti, giochi letterari, con un realismo minimo ma profondamente intenso perché vero. E soprattutto con un tono di speranza che si accende inaspettato dietro il grigiore che sembra pervadere tutto: la capacità di cercare la luce nella tenebra. Questo è quello che fanno gli indimenticabili personaggi di Haruf. Forse è proprio quello che succede anche nelle nostre vite.

Kent Haruf

Benedizione 

Traduzione di Fabio Cremonesi

NNE Edizioni

pp.275 Euro 17,00 

23/12/20

Libro del Giorno: "La commedia umana" di William Saroyan



Raramente capita di leggere un libro così colmo di grazia.

E' relativamente facile incontrare romanzi travolgenti o stravolgenti, pieni di avventure o disavventure o semplicemente alla ricerca di un tortuoso percorso interiore. 

Molto raramente invece si incontrano romanzi come questi, che sono una perfetta forma compiuta, la descrizione di un mondo piccolo e provinciale nel quale ogni essere umano si può ritrovare come se fosse il proprio, dove non c'è nemmeno una parola fuori posto, dove tutto si chiama come si deve chiamare, ogni sentimento umano, ogni cosa - accadimento, gioia e dolore - che cade sul capo di un essere umano, semplicemente perché egli è vivo e vive e fa parte di quella che nel titolo stesso è evocata - con un richiamo balzachiano - come La Commedia Umana, che fu scritto da William Saroyan in piena guerra, nel 1943, mentre Hollywood produceva il film con lo stesso titolo e la stessa storia, ma con il semplice fatto che la sceneggiatura originale di Saroyan - troppo letteraria - era stata rifiutata e affidata a un navigato sceneggiatore, Howard Estabrook. 

Seccato e colmo di disappunto per il rifiuto, Saroyan decise di trasformare la sceneggiatura in un romanzo, ricevendo comunque l'Oscar di quell'anno per il miglior soggetto originale del film diretto da Clarence Brown con Mickey Rooney protagonista. 

Tre anni prima, Saroyan aveva già vinto il premio Pulitzer. 

Era nato il 31 agosto 1908 a Fresno, in California , da Armenak e Takuhi Saroyan, immigrati armeni da Bitlis , nell'impero ottomano. 

Suo padre era arrivato a New York nel 1905, iniziando a predicare nelle chiese apostoliche armene.  All'età di tre anni, dopo la morte del padre, Saroyan, insieme a suo fratello e sua sorella, fu ricoverato in un orfanotrofio a Oakland, in California 

Di questa infanzia difficile e dolorosa, cominciò a scrivere dopo che la madre gli mostrò alcuni scritti del padre. La sua prima raccolta di racconti, My name is Aram, uscita nel 1940, divenne un best-seller internazionale e venne subito tradotto in molte lingue. 

La Commedia Umana fu il suo primo romanzo di grande successo seguito da molti altri, fino alla morte avvenuta nel 1981.  E mentre secondo la critica (Stephen Fry), quella di Saroyan è "una delle figure letterarie più importanti della metà del XX secolo", allo stesso tempo egli è  "uno degli scrittori più sottovalutati del secolo", nonostante lo stesso Fry suggerisca che Saroyan possa essere messo sullo stesso piano di "accanto a Hemingway , Steinbeck e Faulkner ". 

Anche in Italia Saroyan è attualmente poco conosciuto e poco letto.

Ed è un peccato. 

Chi vuole accostarsi alla sua limpida letteratura può cominciare da questo romanzo, che ha per protagonista Homer, un ragazzino di quattordici anni pieno di entusiasmo. 

La famiglia Macauley, da cui proviene, è modesta, le difficoltà non sono poche: il babbo è morto e il fratello maggiore è partito per la Seconda guerra mondiale; eppure tutti si dedicano con energia a quel che va fatto: la mamma alle galline come all’arpa, la sorella agli studi e al pianoforte, e Ulysses è il fratellino più curioso del mondo. 

Homer, che ha assunto il ruolo di capofamiglia, di giorno frequenta il liceo, la sera si tuffa in bicicletta alla volta dell’ufficio del telegrafo, dove lavora come portalettere. 

Pochi giorni, e già si rivela come messaggero più veloce della West Coast. Entra così – leggero e deciso, quasi volando – nel mondo degli adulti: il suo segreto è prendere sul serio le cose e i sogni per diventare qualcuno, anzi, capire di esserlo già. 

Sullo sfondo, la natura rigogliosa e i colori della California, una banda di ragazzini vispissimi, negozianti armeni, giganti buoni, primedonne giramondo… 

Delicato e ironico, questo libro è il ritratto formidabile di uno stile di vita scomparso, è una parabola sull’adolescenza e sul mondo degli immigrati d’America degli anni Quaranta, ma anche una declinazione dei sentimenti e dei destini umani.  Un piccolo classico in trentanove episodi. 

Come scrive Emanuele Trevi La commedia umana è un miracolo dell’equilibrio formale, nel quale l’innocenza è ancora un modo acuto e preciso di conoscere il mondo, una ricchezza dello sguardo”.



30/08/19

Il giorno in cui Hemingway liberò il bar dell'Hotel Ritz a Parigi.


Ufficialmente l'autore del premio Nobel di "Addio alle Armi" e "Il sole sorge ancora" doveva essere un corrispondente di guerra per la rivista americana Collier quando entrò nella capitale francese il 25 agosto 1944. 

In realtà, il romanziere  che si allontanò da una Jeep comandata con tutta la spavalderia di un generale per impadronirsi dell'hotel più lussuoso della città, stava conducendo la sua spietata guerra privata contro il Terzo Reich.

Dopo essere sopravvissuto alla prima guerra mondiale e alla guerra civile spagnola - dove aveva abbattuto i confini tra reporter e combattente - Hemingway era riuscito a infilarsi tra le truppe statunitensi della 4a divisione che sbarcarono sulle spiagge della Normandia il D-Day.

Come alcuni "gloriosi dilettanti" che si erano offerti volontari per aiutare l'Ufficio dei servizi strategici, un ramo dei servizi di intelligence statunitensi, trascorse un mese a sfrecciare in una jeep tra le prime linee, entrando in contatto con i combattenti della resistenza francese locali tra le forze statunitensi in progresso e i tedeschi in ritirata.

Era esattamente il tipo di situazione ad alto rischio e drammaturgica in cui lo scrittore si crogiolava, anche se imbarazzava sua moglie Martha Gellhorn, che prendeva il suo lavoro come reporter di guerra molto più seriamente. Uno di quei combattenti della Resistenza in seguito ricordò l'ossessione di Hemingway per il lussuoso hotel di Parigi, dicendo che parlava di poco altro ma "essere il primo americano a Parigi e liberare il Ritz".

Hemingway si era innamorato del Ritz come scrittore senza un soldo a Parigi negli anni '20 insieme a F. Scott Fitzgerald, una volta in seguito immortalato in "Una festa mobile". Con l'aiuto dei suoi contatti nella divisione corazzata americana, comandata dal altrettanto appariscente generale George S. Patton, Hemingway combatté insieme al comandante francese Generale Philippe Leclerc, i cui carri armati avevano ricevuto l'onore di liberare Parigi.

La sua umile richiesta: avere abbastanza uomini per liberare il bar del Ritz. Con sorpresa dello scrittore, ricevette un'accoglienza gelida e fu licenziato. Ma Hemingway perseverò e il 25 agosto si presentò all'hotel sulla bellissima Place Vendome di Parigi in una jeep montata con una mitragliatrice alla testa di un gruppo di combattenti della Resistenza.

Fece irruzione nell'hotel e annunciò che era venuto a liberarlo personalmente e il suo bar, che era servito da abbeveratoio per una lunga fila di dignitari nazisti, tra cui Hermann Goering e Joseph Goebbels.

Il direttore dell'albergo, Claude Auzello, gli si avvicinò e Hemingway chiese: "Dove sono i tedeschi? Sono venuto per liberare il Ritz".

"Monsieur", rispose il direttore: "Se ne sono andati molto tempo fa. E non posso lasciarla entrare con un'arma."

Hemingway mise la pistola nella jeep e tornò al bar, dove si dice che avesse corso un conto per 51 martini a secco. "Indossava l'uniforme e impartiva ordini con tale autorità che molti pensavano che fosse un generale", ha ricordato il capo barman del Ritz, Colin Field.

Secondo il fratello di Hemingway, Leicester, lo scrittore perquisì la cantina con i suoi uomini, prendendo due prigionieri e trovando un eccellente stock di brandy. Ispezionando il tetto e i piani superiori, non trovarono altro che le lenzuola che si asciugavano nel vento, che erano piene di fori di proiettili.

Hemingway in seguito scrisse che non poteva sopportare il pensiero che i tedeschi avessero sporcato la stanza che condivideva con la sua amante Mary Welsh, che avrebbe sposato nel 1946. 

I due rimasero insieme fino al suicidio di lui nel 1961.

Hemingway scrisse del suo soggiorno in hotel con il suo gruppo di irregolari in un racconto del 1956, "Una stanza sul lato giardino", che è stato recentemente portato alla luce dalla rivista Strand negli Stati Uniti. In esso cita il poeta simbolista francese Charles Baudelaire e descrive come i suoi uomini abbiano bevuto lo champagne del Ritz mentre pulivano le loro armi e si preparavano per la fase successiva nello "sporco commercio della guerra". 

Gli studiosi ritengono che potrebbe essere questa, la parte di un lavoro più grande che Hemingway aveva pianificato, per descrivere nel dettaglio le sue esperienze in guerra.

Le scorrerie di Hemingway al Ritz non sfuggirono all'attenzione dei suoi superiori, con minacce di essere deferito alla corteo marziale per aver indossato le armi come corrispondente di guerra.

Le accuse furono tranquillamente lasciate cadere, per evitare imbarazzo per i servizi segreti statunitensi, e dopo la guerra lo scrittore ricevette silenziosamente una medaglia di stella di bronzo per aver lavorato "sotto tiro nelle aree di combattimento per ottenere un quadro accurato delle condizioni belliche e delle posizioni". 

Anche il Ritz alla fine lo perdonò, nominando un piccolo bar dopo Hemingway nel 1994.

Fonte LPN - La Presse

12/06/19

Libro del Giorno: "Di là dal fiume e tra gli alberi" di Ernest Hemingway




Pubblicato nel 1950, questo romanzo fa seguito al silenzio di Hemingway, durato 10 anni e seguito alla pubblicazione di Per chi suona la campana, nel 1939, uno dei più grandi successi. 

Il contrario di quello che accadde a Di là dal fiume e tra gli alberi, che fu ferocemente stroncato dalla critica, che aspettava al varco il ritorno di Hemingway dopo tanta inattività da scrittore, visto che in quei 10 lunghi anni era stato impegnato su ogni fronte: da quello bellico, in Europa durante la seconda guerra mondiale, a quello giornalistico, con le corrispondenze dalla Cina, da quello privato, con nuovi amori e nuove mogli, a quello itinerante, con i suoi viaggi avventurosi che lo condussero ovunque. 

Di là dal fiume e tra gli alberi è un romanzo singolarissimo,  quasi un non-romanzo che su 350 pagine si compone di quasi 200 pagine di ininterrotto dialogo tra i due protagonisti, un colonnello di fanteria USA, Cantwell, cinquantenne, alter-ego dello scrittore, e una diciannovenne contessina veneziana, sullo sfondo della Venezia più amata da Hemingway, quella invernale e notturna dell'Hotel Gritti, del caffè Florian e delle continue bevute al mitico Harry's Bar di Cipriani, che deve proprio allo scrittore americano la sua fama ormai universale. 

Nulla o quasi succede nel romanzo, che respira un'aria stagnante - paludosa - di morte.  Cantwell è un reduce di mille battaglie, è stato gravemente ferito, è ossessionato dalle vicende che hanno visto, durante l'avanzata verso Parigi, sterminato il reggimento di cui era a capo, e sente la morte vicina, per il suo cuore ormai fragile. 

L'amore impossibile per la ragazza - "l'ultimo e vero amore" ripete incessantemente Cantwell tra sé e sé e a lei - è il coronamento di una vita vissuta - come quella del vero Hemingway - con la presenza continua e ossessiva del rischio e della morte. 

I dialoghi e le visioni allucinate dall'alcool - memorabile almeno una scena, quella del giro notturno in gondola dei due amanti, tra le onde scure e il freddo gelido della laguna - sono la cornice; il sottotesto è un drammatico congedo dal mondo, di un distacco dalle amate e sofferte cose terrene, che non si possono possedere e che si possono soltanto perdere. 

Il vecchio leone - negli anni seguenti Hemingway vincerà il Premio Nobel e si congederà con quello che fu considerato il suo capolavoro, Il vecchio e il mare - preconizza la sua stessa morte, che avverrà realmente nelle modalità estreme del celebre suicidio con l'arma da caccia. 

Il romanzo fu tradotto in Italia da Fernanda Pivano, che nella bella introduzione racconta le sue mille vicende con il romanziere, i viaggi, gli inciampi, le sue debolezze, il suo fascino irresistibile, il bel mondo degli anni '60; ma in ritardo: per volontà stessa di Hemingway infatti, il romanzo fu tradotto in Italia soltanto dopo la sua morte, certamente per tutelare l'identità della giovane contessina su cui comunque i giornali scandalistici americani all'epoca si scatenarono comunque. 

Ricostruendo così la genesi del libro: nell'autunno del 1948, infatti, Hemingway, impegnato in una battuta di caccia alle anatre in compagnia di un amico aristocratico, incontrò a Venezia la giovane Adriana Ivancich, nobile di una familia di origine dalmata, nata a Venezia nel 1930 (e morta suicida nel 1983). 

Successivamente, quando era a Cortina d'Ampezzo a sciare con la moglie, lei si ruppe la caviglia e  Hemingway, annoiato, iniziò a scrivere il romanzo. Nella primavera successiva si recò a Venezia, approfondendo la conoscenza dell'adolescente, con la quale intrattenne una fitta corrispondenza nei mesi seguenti e terminando poi la scrittura del romanzo nella villa della Finca Vigia, a Cuba

Fabrizio Falconi 

Ernest Hemingway
Di là dal fiume e tra gli alberi
Traduzione e introduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore Milano,1965
pp. 349
Euro 11.05

08/05/19

La Cripta dei Cappuccini a Roma e il "Fauno di Marmo" di Hawthorne - da "I Fantasmi di Roma"



      Un luogo sicuramente affascinante per ogni appassionato del mistero a Roma – e anche sinistro e tetro – è la Chiesa dei Cappuccini che si trova nella centralissima Via Veneto.
      È un posto che i Romani conoscono bene e che ancora meglio conoscono i turisti, specie quelli anglosassoni che ne apprezzano il contorno gotico.  La Chiesa, il cui nome esatto è Santa Maria della Concezione, fu edificata da Antonio Casoni, famoso architetto che lavorò per le più blasonate famiglie dell’epoca, per conto del cardinale Antonio Marcello Barberini.   Costui era un componente della famosa casata, il cui aspetto severo si può ancora oggi ammirare in un ritratto di Antonio Alberti che fa bella mostra di sé nel Coro della Chiesa stessa.
       Antonio Marcello Barberini era nato a Firenze nel 1569 ed era il fratello di Urbano VIII, il 235mo papa della storia della Chiesa, che lo aveva elevato al rango di Cardinale nel 1624.  Ma Antonio Barberini era anche – e prima di tutto – un fervente frate cappuccino, e di questo Ordine fu anche – vista la potenza della famiglia da cui proveniva – un grande benefattore. 
      Una volta divenuto Cardinale ordinò che fosse edificata una Chiesa, che fu riccamente adornata, e destinata ad ospitare le reliquie di S. Felice da Cantalice,  il primo santo dell’Ordine dei Cappuccini. 
       Ma il motivo per cui questa Chiesa è famosa oggi, è  nascosto nelle sue cinque cappelle sotterranee – alle quali si accede da uno stretto passaggio a destra dell’altare maggiore – che ospitano un arredo davvero unico al mondo.
       Tutte le pareti delle cinque cappelle infatti sono fittamente ricoperte da teschi e ossa di circa 4.000 frati cappuccini morti nel corso dei secoli e qui seppelliti fino al 1870.  A conferire un aspetto particolarmente macabro poi, c’è il pavimento di nuda terra. Nuda terra che – come si tramanda – è quella prelevata dai monaci cappuccini ( i francescani sono da secoli Custodi della Terra Santa) nella prossimità del Calvario di Cristo in Palestina.
       In questo luogo oscuro, i frati del convento attiguo scendevano ogni sera a pregare, prima di andare a dormire,  circondati dagli amabili resti dei loro confratelli che venivano periodicamente riesumati a causa della ristrettezza dello spazio a disposizione.
       Con il passare del tempo, furono allestite e completate una dopo l’altra, una di fila all’altra, la Cripta dei Teschi, dove compare anche una clessidra alata, e scheletri di cappuccini in piedi che sembrano quasi camminare; la Cripta dei Bacini, con un baldacchino dal quale cala un pendaglio di vertebre umane;  la Cripta delle Tibie e dei Femori, con un tondo nella volta realizzato soltanto con mandibole e infine la Cripta dei Tre Scheletri, con al centro un piccolo scheletro che raffigura la morte e brandisce un falcetto, e un orologio che indica con eloquente sintesi la finitudine della vita umana e il passaggio all’aldilà.
       Il fascino che esercitò questo singolare luogo – che ancora oggi suscita brividi nel visitatore -  sugli intellettuali e gli artisti di mezza Europa cominciò quando un visitatore illustre, il Marchese De Sade varcò la soglia della cripta nel 1775.  In Italia il Marchese si era rifugiato dopo che un ennesimo scandalo – aveva coinvolto il suo segretario, cinque ragazze e una domestica in scatenate orge che metteva in scena nelle stanze del suo castello e  alle quali partecipava insieme alla moglie – gli aveva attirato le ira dei tribunali.  L’allora trentacinquenne De Sade intentò allora un lungo viaggio in Italia, visitando Torino, Firenze Venezia e infine anche Roma.  E uno dei luoghi descritti nel resoconto che scrisse al ritorno – Viaggio in Italia – fu proprio la Chiesa dei Cappuccini, che descrisse minutamente, definendolo un monumento funebre degno di una testa inglese.
       Non sorprende questo riferimento, perché in effetti questo luogo sembra, con i suoi macabri scheletri ricomposti nelle pose più bizzarre e con le sue tetre cappelle, sembra proprio appartenere al culto gotico tipicamente anglosassone.
       E fu proprio un grande scrittore anglosassone a celebrarne più di altri il mito, e a raccontarne (con uno sforzo inventivo che probabilmente tenne conto di una leggenda reale) il risvolto più terrorizzante con la materializzazione di un fantasma che divenne l’assoluto protagonista di uno dei suoi più celebrati romanzi.
       Stiamo parlando di Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta,  che – nato a Salem nel Massachussets il 4 luglio del 1804 – è considerato uno dei più grandi scrittori americani.  Hawthorne, come è evidente dall’intera sua opera letteraria,  era un cultore dello straordinario e dell’insolito, forse proprio a causa degli stessi geni che si portava dietro, nel suo dna: un suo antenato era stato infatti uno dei giudici dei celebri processi alle streghe di Salem, andati in scena alla fine del 1600 proprio nella città dove lo scrittore era nato: venti persone, uomini donne e bambini furono giustiziati nel più vergognoso processo per stregoneria allestito nelle nuove terre degli Stati Uniti contro persone che in modo diverso avevano avuto l’imprudenza di raccontare contatti ravvicinati con fantasmi.
       La memoria di quegli orribili fatti che pesavano sin dall’infanzia sulla psicologia di Hawthorne trovò la sua catarsi proprio nella Lettera Scarlatta, il romanzo che lo scrittore pubblicò nel 1850 e che lo consacrò ad un’immensa fortuna letteraria.
       È ovvio che per Hawthorne, proveniente dal puritano stato del New England, la cattolica Italia, con la sua storia millenaria di imperi e di persecuzioni, di magia nera e di bellezza rinascimentale, di intrighi e corruzione, di seduzioni e piaceri, dovesse apparire come una specie di Eden e allo stesso tempo come un luogo pericoloso. Furono esattamente le sensazioni che lo scrittore provò quando, il 24 gennaio del 1858, già piuttosto in là con gli anni, mise piede per la prima volta a Roma.
       La città eterna esercitò sullo scrittore americano un fascino sottilmente ambiguo: all' incanto delle rovine, dei paesaggi romantici che scorrono sotto ai suoi occhi, fanno da contraltare notazioni di costume, caratterizzate dal sospetto, dal profilo inquietante che – come sotto l’occhio di una lente allucinata – intravvede anche nel paesaggio, come quando descrivendo i cipressi di Roma li paragona a fiamme scure di enormi ceri funebri.
       A Roma, Hawthorne soggiorna per un periodo abbastanza lungo,  per immaginare e poi scrivere una delle sue storie più sconcertanti, quella che finirà nel romanzo Il Fauno di Marmo, pubblicato tre anni dopo, nel 1860. 



      In questo romanzo Hawthorne racconta la storia di  un gruppo di amici: Kenyon, uno scultore americano che vive e lavora a Roma, il suo ospite Donatello, giovane e ricco rampollo di una nobile casata toscana, e  Miriam, pittrice amica di Kenyon, e della giovane studentessa Hilda, anch’essa un’americana trasferitasi in Italia. Donatello è per la sua bellezza, scherzosamente accostato dagli amici,  al Fauno di marmo di Prassitele, esposto ai Musei Capitolini; ma il clima di apparente giocosità tra i quattro si interrompe bruscamente quando, durante una visita alle catacombe, Miriam si perde e  cercata affannosamente dai tre amici, viene ritrovata in compagnia di un misterioso figuro, un uomo incappucciato. Lo spettrale individuo sostiene di essere ben noto a Miriam, che appare atterrita dallo strano incontro.
        Il persecutore, l’uomo incappucciato, torna a farsi visita con apparizioni frequenti a Miriam, che nel frattempo ha intrecciato una storia d’amore con Donatello, e la suggestione malefica dello strano personaggio alla fine produce i suoi effetti: sorpreso con Miriam dal Persecutore presso il parapetto della rupe Tarpea, sul Campidoglio, Donatello affronta lo sconosciuto e lo getta nel vuoto.
        Anche Hilda ha assistito non vista alla drammatica scena, e scappa via terrorizzata, disertando la visita che la mattina dopo,  i tre amici,  Kenyon, Miriam e Donatello hanno in programma proprio alla Chiesa dei Cappuccini, in Via Veneto.
        Ed è qui che Hawthorne immagina una delle scene più forti del libro, nel quale il fantasma del persecutore, che è stato appena ucciso da Donatello, torna a farsi vivo e presente, in un capitolo intitolato Il cappuccino morto:  nella navata centrale della Chiesa visitata dai tre amici, infatti si sta celebrando il funerale di un frate morto: si trattava del corpo vero e proprio – scrive Hawthorne – o come si sarebbe potuto supporre a prima vista, del volto di cera abilmente modellato e della figura vestita con cura – di un frate morto. Questa immagine di cera – o di fredda creta viva che fosse – giaceva su una bara leggermente sollevata dal suolo, con tre lunghi ceri accesi da ogni lato.
        Ed ecco che accostandosi a quel corpo, deposto nella bara aperta, Miriam – con un brivido di raccapriccio  - ravvisa atterrita nel morto proprio le fattezze del Persecutore ucciso la sera prima, ed ha persino l’impressione chiara di udirne l’odiosa voce accusatrice.  Il cadavere ha un aspetto inquietante: il cappuccio incornicia un volto purpureo, a differenza del classico pallore dei cadaveri,  le palpebre sono solo parzialmente abbassate, e dal di sotto di esse si intravvedono i bulbi oculari.
        Ad un tratto accade qualcosa di incredibile, una «circostanza che parrebbe troppo fantastica a raccontarsi, se non fosse proprio come la scriviamo».  Difatti, mentre i tre amici si trovano intorno alla bara, un rivolo di sangue comincia a scendere dalle narici del frate morto.
        Kenyon prova a dare una spiegazione scientifica: il frate sarà morto di apoplessia. Ma Miriam non l’accetta, spinge via Donatello, non sa spiegarsi come quel cadavere strano e sconosciuto abbia potuto assumere, mentre lo guarda, i tratti di quella faccia così terribile, impressa nel suo ricordo.  E mentre gli altri si accingono a lasciare la lugubre chiesa, torna indietro, rivolge un ultimo sguardo a quel volto, giunge fino a toccare con la punta delle dita una delle mani giunte del frate.
        « È lui, » dice Miriam, « Ecco sul suo sopracciglio c’è la cicatrice che conosco così bene. E non è una visione; posso toccarlo ! Non voglio più dubitare della realtà, l’affronterò meglio che posso ».
        Pur sconvolta, Miriam non sa allontanarsi da quel luogo: convince anzi Donatello a seguire il sacrestano che li conduce nel cimitero sotto la chiesa, con lo spettacolo di scheletri che abbiamo descritto, e che a sua volta Hawthorne descrive minuziosamente nelle pagine seguenti del capitolo.
        Il sacrestano rivela ai due fidanzati il nome del morto – frate Antonio – e indica loro il luogo della sepoltura, « al posto di un frate che morì trent’anni fa e che adesso si è levato per lasciargli il posto ».
        È la legge di quel luogo, che il sacrestano spiega ai suoi ospiti: quella che per nessuno dei confratelli è previsto un luogo definitivo.  Ma un continuo dissotterrare e smembrare, e riassemblare e fare posto ai nuovi.
        Miriam e Donatello vanno via comprensibilmente angosciati, dopo aver lasciato un’offerta per far celebrare una messa in suffragio dell’anima di frate Antonio.
        Tutto finirebbe lì, se non fosse che nei giorni seguenti nessun giornale parla di omicidi o cadaveri rinvenuti, e che il lampione che Donatello credeva di aver distrutto nella colluttazione è ancora intatto, come riscontra il giovane tornando sul luogo del delitto.
        Sarà soltanto l’inizio di una serie di nuove persecuzioni, nelle quali si scoprirà che il fantasma del Persecutore non ha smesso affatto di perseguitare Miriam e i suoi amici, in primis Donatello, che ha avuto la sfrontatezza di affrontarlo, fino alla catarsi finale – che non riveliamo qui per chi desiderasse avventurarsi nella lettura di questo classico del fantastico – che ha per cornice la più classica delle feste del Carnevale romano, che ai tempi di Hawthorne era davvero qualcosa di memorabile.
        A testimoniare il fatto che il fantasma della Chiesa dei Cappuccini continua ad inquietare anche in epoca moderna, bisognerà ricordare al termine di questo capitolo che dal Fauno di Marmo fu liberamente tratta -  ambientandola ai tempi d’oggi - in Italia, nel 1977, una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, con la regia di Silverio Blasi e Marina Malfatti nei panni di Miriam,  serie che ebbe un notevole successo e divenne in breve tempo un piccolo classico del mystery italiano, sulle orme dell’altrettanto celebre Il segno del comando che aveva fatto da apripista del genere, nel 1971, con un’altra storia di fantasmi che metteva insieme i diari di Lord Byron e i vicoli di Roma.


Fabrizio Falconi - tratto da I Fantasmi di Roma - Newton Compton Editore, 2010, 2018

04/05/19

Libro del Giorno: "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald



Che romanzo meraviglioso e difficile è Il grande Gastby.

Fuori dall'uso che ne hanno cinema e teatro, ricreando sul grande schermo o sul palcoscenico le ambientazioni di quella New York anni ’20, divisa tra jazz, feste dell’alta società e profonde contraddizioni sociali, a metà tra la fine della Grande Guerra e il periodo della Grande Depressione, il romanzo di Francis S. Fitzgerald, riletto oggi mostra la grandezza del suo sperimentalismo, ardito per l'epoca, esempio anche per l'oggi di ciò che la letteratura dovrebbe essere. 

Un romanzo sospeso e profondo, nel quale i fatti sembrano quasi non succedere, sgranati dentro un tessuto onirico dove il tempo e il sogno si dividono gli spazi e sovrastano l'osservazione realistica. 

Ogni frase di Fitzgerald - anche nella sua costruzione, anche nella semplice scelta degli aggettivi e dei toni di contrasto - ha il potere e la capacità di spiazzare il lettore, negandogli ciò che egli si aspetta,  e lasciandolo in una sorta di limbo in cui è difficile decidere ciò che è vero da ciò che sembra, da ciò che è immaginato o sognato, o intravisto attraverso la coltre del vissuto. 

La trama, in effetti, è riassumibile in poche scarne righe, raccontando le vicende di Jay Gatsby, giovane miliardario dal passato oscuro e dal cuore infranto. 

La sua meravigliosa villa fuori New York, a West Egg è popolata come non mai da avventori di ogni tipo che partecipano, vengono invitati ai suoi lussuosi party, eppure nessuno sembra conoscerlo veramente, nessuno ci scambia una parola, nessuno è veramente suo amico, nessuno sa cosa nasconda nel cuore e nel passato, se non quel Nick Carraway che  è il narratore -  venuto dal West a cercare fortuna a New York -  e che sarà l'unico a rimanergli vicino, fino alla fine.

Nick è il cugino di Daisy Fay, che ha sposato il giocatore di golf Tom Buchanan, marito infedele e assente. Gatsby chiede a Nick di combinare un incontro fra lui e Daisy, perché proprio lei è la ragazza di cui il giovane miliardario si era innamorato anni addietro, prima di partire per la Prima guerra mondiale, dove si è fatto onore ed è stato decorato. 

I pomeriggi passati insieme dai due amanti di un tempo, incoraggeranno Gatsby a illudersi della possibilità di riconquistare la donna amata. 

Ma tutto svanirà, per lui, drammaticamente, durante una gita a New York, cui partecipano anche Nick, l’amica di lei Jordan Baker, e Tom.

Daisy resta muta infatti quando nel confronto con Tom, Gatsby gli chiede di confessare al marito di non averlo mai amato.

Si spezza definitivamente il sogno di Gatsby, fino alla tragedia finale.

Metafora della fine stessa del sogno americano, la vicenda di Gatsby è anche una potente lezione sulla condizione di solitudine dell'essere umano, della impossibilità di vivere con profondità i rapporti umani e i sentimenti, in un mondo convertitosi definitivamente al culto dell'apparenza e della vita superficiale. 

Anche Gatsby, l'uomo che ha osato, che è rinato dalle proprie ceneri, che si è sporcato le mani per raggiungere il suo sogno, resta a mani nude, solo.

Con quell'epitaffio definitivo che è la chiusa, l'ultima frase del libro, nella quale Fitzgerald conchiuse, probabilmente, la consapevolezza della sua stessa vicenda esistenziale: 

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. 

Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
Traduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore, 1950
pp. 215


08/03/19

Libro del Giorno: "Lamento di Portnoy" di Philip Roth.



Con questo romanzo, scritto nel lontano 1969, Philip Roth, che all'epoca aveva 36 anni, trovò la sua definitiva consacrazione, dopo due romanzi (Lasciar andare, 1962 e Quando lei era buona, 1967 -unico romanzo dell'intera bibliografia di Roth con una protagonista femminile) che avevano ricevuto l'attenzione della critica, ma non del grande pubblico.

Anno cruciale, il 1969.  E forse Lamento di Portnoy, proprio per questo oggi si rilegge con una certa dose di tenerezza.

Anche se, come è ovvio, quando uscì, nell'America perbenista di quegli anni, appena contaminata dalla contestazione giovanile, dal femminismo, dai grandi raduni rock, dalla protesta contro la guerra nel Vietnam, dalle rivolte nei ghetti dei neri, il romanzo incendiò le polemiche per i suoi contenuti trasgressivi e soprattutto per la spietata messa alla berlina della tradizione ebraica, con tutte le sue componenti più ossessive e conservatrici. 

Per Roth era il modo per venire allo scoperto, per demolire la costruzione socio-teologica nella quale anche lui e la sua famiglia erano cresciuti, seppure trapiantati come molti altri, nella cultura americana.

Il romanzo, costruito come un unico flusso di coscienza una cascata ininterrotta di confessioni e invettive riferita sul lettino di uno psicanalista, chiamato Spielvogel (che si può tradurre dal tedesco come: uccello del gioco), che non parla mai e non entra mai sulla scena del racconto. 

Passano così davanti agli occhi del lettore l'infanzia e l'adolescenza di Alexander Portnoy, la sua famiglia ebraica (dominata dalla figura della madre Sophia, il padre e la sorella Hannah), i primi lavori, ma soprattutto tutto il catalogo delle esperienze erotiche, dai solipsismi masturbatori, fino alle acrobazie a tre, con la fidanzata - chiamata Scimmia - e una puttana rimorchiata per le strade di Roma, fino all'ultimo capitolo - Esilio, il più bello del romanzo - in cui Alexander descrive, il suo viaggio-ritorno in Israele. 

Una scrittura meravigliosamente pirotecnica, in un romanzo che fa ridere - fino alle lacrime - e pensare, sempre.  Alexander - primo alter ego di Roth, molto prima di Nathan Zuckerman - racconta con un diluvio di trovate e di paradossi (si scoprono anche battute alle quali ha attinto anche il primo Woody Allen), il dilemma in cui si dibatte, quello di liberarsi della sua oppressiva tradizione sostanzialmente attraverso la sessualità e la pornografia; ricadendo però ad ogni passo verso l'apparente e agognata liberazione, nei divoranti sensi di colpa/lamentazioni/empasses, come dentro una ragnatela inestricabile. 

Politicamente scorretto, sgradevolmente esibizionista, misogino, "razzista" (soprattutto verso la sua stessa "razza"),  anticlericale, furiosamente anticattolico, ateo e comunista: questo Roth (al contrario di Bellow) mette in piazza tutto, e dopo tanti anni, suscita perfino nostalgia - per quell'esubero di passioni sbagliate - in una epoca, la nostra, di passioni fredde, glaciali, anestetizzate. 

Un grande romanzo.

Fabrizio Falconi






02/01/19

Libro del Giorno: "Tutto quel che è la vita" di James Salter.




Raramente - quasi mai - capita di trovare un romanzo così perfetto come questo di James Salter (1925-2015), per me la più bella sorpresa dell'anno appena trascorso. 

Considerato il suo capolavoro, il capolavoro di uno scrittore che dopo la morte sta conquistando un sempre maggiore interesse (e successo) in America e in Europa, Tutto quel che è la vita racconta l'esistenza di Philip Bowman, un ordinary man (come cantavano i Pink Floyd di Us and Them), un uomo che attraversa la vita e la storia con passo discreto, con gli sbagli e la poesia quotidiana, gli amori, le passioni, i piccoli e grandi naufragi. 

Proprio da un naufragio, quello di una nave da guerra sulla quale il ventenne Bowman sta combattendo il suo conflitto, nell'estate del '44, prende il via il romanzo con un primo capitolo di eccezionale nitore che subito conquista la piena fiducia del lettore. 

Bowman - come fu lo stesso Salter - è un giovane ufficiale arruolato in Marina. Tornato a casa riesce a farsi mandare ad Harvard a studiare (performance notevole per uno come lui che viene da una normale famiglia di provincia) e in seguito viene assunto come editor di una piccola casa editrice che però diventa con gli anni importante. 

Gli anni del dopoguerra, i colleghi di lavoro, la frequentazione con gli scrittori, un matrimonio sbagliato, i viaggi in Europa, gli amori, le famiglie che si sfasciano, i genitori che muoiono: tutto quello che  - banalmente -  è la vita, appunto. 

Ma, proprio come avveniva in Stoner di John E. Williams, la forza di questo libro è nel far diventare la quotidianità, la banalità, epopea. 

Avviene per merito di una scrittura incredibilmente esatta, dove mai un aggettivo o una parola sono fuori posto, dove ogni compiacimento letterario, ogni abuso è bandito (che differenza con la quasi totalità della narrativa contemporanea!): e non è nemmeno un puro lavoro di sottrazione. Salter non si riserva il ruolo di autore della sordina. Le pagine sono piene di forza e di vita (raramente si sono letti brani erotici scritti con mano così felice, dove le cose sono chiamate con i loro nomi e per quello che sono), senza scivolare mai nel tono minore dell'umore dolente, vittimista o facilmente nichilista. 

Tutto quel che è la vita riluce così di un significato autentico, la letteratura si fa vita e viceversa. Senza orpelli e senza teorizzazioni o manipolazioni del lettore.  

Bowman non è Stoner. Il suo grado di innocenza è probabilmente minore rispetto a quello dell'eroe di Williams.  I suoi sbagli sono più evidenti e meno in buona fede (come esplicita tutta la parte della relazione con Anet, la giovane figlia di Christine, la donna con cui Bowman vive una relazione finita per il tradimento di lei). Ciò nonostante Bowman ha il passo del giusto e stoicamente sopravvive, affrontandoli, gli incerti della vita e soprattutto la sua solitudine. 

Sullo sfondo del romanzo, l'epoca felice in cui gli scrittori non erano macchine per far soldi o per vendere oggetti, e gli editors vivevano la suggestione dei luoghi e delle storie per rendere il loro lavoro pieno di senso. 

Un libro davvero bellissimo, che non si dimentica.

Fabrizio Falconi - 2019.