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09/07/18

"Lo Scopone Scientifico" di Comencini, una grande metafora del gioco della vita. Una pagina de "Le Rovine e l'Ombra" .




LuigiComencini era considerato un autore popolare. Forse perfino troppo per la critica militante: non gli si perdonavano i film d’esordio con Totò e la Pampanini, ma il successo clamoroso del Pinocchio televisivo gli aveva guadagnato consensi unanimi

Del resto la sua formazione era impeccabile: l’infanzia parigina, i trascorsi al Politecnico di Milano e alla Cineteca Italiana (come curatore) ne avevano fatto uno dei più solidi registi italiani.  Nel 1972, fresco del successo televisivo collodiano, Comencini aveva deciso di tentare il successo definitivo all’estero, mettendo insieme un super cast nel quale si fronteggiavano le due coppie: Alberto Sordi - Silvana Mangano e Joseph Cotten – Bette Davis.

Rodolfo Sonego aveva scritto un copione formidabile sulla follia del gioco e quando si trattò di pensare all’interprete della vecchia miliardaria americana, grande e cinica giocatrice di carte, Comencini tentò l’azzardo di rivolgersi alla diva americana. Bette Davis si trovava in vacanza in quel periodo alle terme di Carlsbad nel sud della California

Quando ricevette il copione, si entusiasmò.  Impulsivamente, com’era il suo carattere, prese il primo aereo per l’Italia e firmò il contratto, accorgendosi soltanto in un secondo momento – con notevole disdoro - che il film era girato in italiano.

Troppo tardi. La villa dove fu girato il film – la residenza romana della vecchia miliardaria – era la splendida VillaMiani, a Monte Mario. La miserabile borgata dove vivono invece Sordi e la Mangano, con i loro quattro figli e i loro stracci  era quella di Via Anzio, alla periferia sud di Roma, all’Arco di Travertino.

Comencini, sul copione di Sonego, allestì una crudelissima fiaba sul gioco, sul valore dei soldi, sulla povertà e la ricchezza: lo stracciarolo Peppino, e sua moglie Antonia aspettano come ogni anno l’arrivo della vecchia miliardaria americana che gira il mondo insieme al fedele autista George.  Morbosamente appassionata di giochi di carte, la vecchia ogni volta sfida i due poveracci (che si sono allenati per un anno intero) allo scopone scientifico, un gioco che – come spiega il Professore (Mario Carotenuto) della borgata ai suoi due allievi – presenta miliardi di varianti possibili e che «su miliardi e miliardi di partite, non mette mai in mano le stesse carte».

Anche stavolta i due sperano una buona volta di sbancare il patrimonio della vecchia e dare una svolta alle loro vite e a quelle di tutti quelli che vivono con loro nella borgata. Ma l’arpia ne sa una più del diavolo. E dopo aver perso la cifra di duecento milioni, nell’ultima partita che si disputa su quello che sembra essere il suo letto di morte, la miliardaria rivince tutto, gettando i due sul lastrico.
   

Peppino ha sbagliato proprio nella mano fatidica, a scartare la carta giusta.  La rovina si abbatte su di lui, non solo quella economica: Antonia, delusa definitivamente dal marito, consapevole della sua  inadeguatezza, lo tradisce con Righetto (Domenico Modugno), giocatore professionista e baro smaliziato.
   
A Peppino tocca l’infamia di essere considerato impotente al gioco e impotente nel ruolo di marito. Ma anche a Righetto non va meglio.  Quando sembra che stavolta il fato giri dalla parte dei borgatari, la vecchia nell’ultima partita, sbaraglia nuovamente gli avversari. Righetto perde i suoi ultimi guadagni investiti, Antonia perfino la baracca che si è ipotecata.
   
Nel finale da melodramma, Righetto tenta il suicidio, mentre Antonia e Peppino finiscono col riconciliarsi davanti a tutti i compagni di borgata con la dichiarazione: «che m’emporta de la ricchezza.. basta che c’è l’amore!»

Ma il sottofinale amarissimo del film di Comencini è affidato alla saggia figlia quindicenne Cleopatra, la quale ha già visto tutto, sa già quello che succederà il nuovo anno, quando l’americana tornerà un’altra volta a sconvolgere le loro vite e di nuovo il destino – che non è caso e non è caos – si ripeterà immutabile. Per spezzare finalmente la catena, Cleopatra, senza dir niente a nessuno mette il veleno per topi nel dolce che è stata incaricata di preparare per la vecchia in partenza per l’America. 


È l’unico modo per rivoltarsi definitivamente contro i potenti, l’unico modo per liberarsi dalla schiavitù (del gioco e del potere dei ricchi): quello di ricorrere alla eliminazione fisica dell’avversario.  E se questo sicuramente piacque poco al pubblico americano (che lesse il film come un apologo sulla lotta di classe), oggi dice molto sull’ombra personale (sotto forma del gioco), che se non può essere evitata e se ritorna sempre a perturbare e sopraffare, va estirpata.
   

Durante la proiezione di quel giorno, al cinema Augustus, il mio amico John a tratti se la rise di gusto, mentre durante alcune scene – soprattutto le lunghe sequenze delle partite a scopone – rimase con gli occhi ipnotizzati da quel che succedeva sullo schermo.

«Ha ragione Freud,”mi disse alla fine quando si riaccesero le luci in sala, mentre scorrevano i titoli di coda».
In che senso, chiesi.
«Loro non volevano veramente vincere. Peppino e Antonia».
«Come non volevano ?»
« Ma sì, non ti sei accorto ? Loro in fondo amano la vecchia. Amano lei e l’autista, i loro carnefici. Per questo non possono mai vincere. La amano perché lei rappresenta quello che loro non hanno e che non potranno mai avere».
Aveva ragione, ripensando alle immagini iniziali del film, quando il nuovo arrivo della miliardaria è salutato quasi come un trionfo dal popolo dei borgatari, con i cioccolatini e i dolci dispensati da lei ai ragazzini e alle famiglie povere.
Ma che c’entrava questo col gioco ?
«Antonio è contento di perdere, perché in questo modo può mettere alla prova l’amore di Antonia per lui. Non vuole vincere veramente».
«E Cleopatra allora ?»
«Cleopatra no. La ragazzina forse è l’unica che vorrebbe vincere veramente. Per riscattare la sua vita contro l’ingiustizia di quei ricchi.  Ma sa che i suoi genitori non potranno mai vincere, e perciò preferisce ammazzare la vecchia».
«Quindi lo scopone scientifico è la metafora del potere ?»
«No, non credo.  Lo scopone scientifico è un gioco difficile che sembra facile», disse John, «io l’ho imparato da mia nonna, una vecchia che potrebbe reggere il confronto con Bette Davis.  Lei mi ha spiegato che il segreto dello scopone è solo quello di non stare sotto giro: non devi essere tu il primo a scartare, nel giro. Ma devi essere sempre il primo a prendere. È un problema di sottomissione».
Gli risposi che conoscevo il gioco anch’io e che non è per niente facile non stare sotto giro.
«Dipende dalle carte che hai in mano», dissi.
 John sorrise:
«Ma come ha detto il Professore nel film, le combinazioni delle carte sono infinite, sono miliardi di miliardi, e tu non avrai mai due volte le stesse carte. Il tuo compito è quello di uscire dall’ombra. Con le carte che hai ogni volta, non devi farti rinchiudere nell’angolo, cioè dover scartare ogni volta, cominciando il giro. Con il rischio di non avere più carte buone, sicure in mano».
 Facile a dirsi, molto difficile a farsi.
 «Neanche i vincenti sono felici. Bette Davis non era felice di vincere», aggiunse.
 «Davvero ? Sembrava felicissima invece».
 «No. Lei vorrebbe perdere per essere umana, ma è costretta a vincere per assecondare il suo demone».
Queste considerazioni filosofiche, per due ragazzi che erano alle prese con la scoperta di Freud, aprivano scenari interessanti.
«E qual è il tuo demone ?» chiesi, mentre tornavamo a piedi attraversando il Ponte Sant’Angelo che era già notte.
«Il mio ? È quello di tutti: la paura di perdere …»
«Che intendi ?»
« I giocatori professionisti sanno che si perde tutto quando hai paura di perdere …»
«Non si direbbe», puntualizzai, «anche Righetto, che è un professionista, fa la fine degli altri due..»
«Perché anche lui ha paura di perdere. Ha paura di perdere la sua reputazione e soprattutto l’ammirazione incondizionata di Antonia che glielo ha fatto preferire al marito».
 «E la vecchia ? Non ha forse paura ?»
 «Sì anche lei ha paura, ma meno degli altri. È vecchia, può morire da un momento all’altro. Ha meno da perdere».
Più tardi, tornati a casa, John tirò fuori dal cassetto un mazzo di piacentine.   «Questa è la Polla»,rise indicando l’Asso di denari: la grande aquila con le ali aperte e il bollo d’imposta sul ventre, «dicono che quando arriva questa, vinci di sicuro. Ma non bisogna mai fidarsi delle carte.. ricordati di Antonia e Peppino. Ci hanno creduto … »
«Insomma, l’unico modo per vincere è perdere … »
«Proprio così. Quando perdi o quando ti perdi, si imparano molte cose».
Sembravano parole incongruenti dette da lui, che era sempre avanti a tutti, lui con i vestiti sempre appena usciti dal guardaroba, il taglio di capelli impeccabile, la grossa moto con le marmitte tirate a lucido, la collezione di dischi in ordine alfabetico, i panni rossi sulle tastiere, la pila di libri da leggere, le giuste idee in testa, le contestazioni alla vecchia insegnante, la sottile strafottenza di chi aveva visto di più e aveva vissuto molto, molto più di noi.
L’immagine vivente del perfect guy.
Eppure anche questa bella immagine, si incrinò. John, con il suo cognome italiano, e con il suo brillante futuro, fu come ingoiato dalla spirale del tempo. Di lui si persero definitivamente le tracce.
Le nostre strade si separarono, ma la sua non so dove l’ha portato.  Nell’epoca della totale rintracciabilità, di lui non esistono nemmeno segnali digitali; ed è ben strano, considerato quanto fosse interessato alla tecnologia.
Da lui ricevetti soltanto un biglietto, diversi anni dopo il nostro ultimo incontro.
Aveva appena rivisto in televisione California Poker, di Robert Altman, e doveva essergli tornata in mente la nostra conversazione dei tempi delle medie.
«Avevo ragione», c’era scritto, «i vincitori non sono mai felici».
Si riferiva al finale del film, quando una immane tristezza si dipinge sul volto del giornalista Bill Denny (George Segal) dopo che insieme al suo sodale, lo spiantato  Charlie Waters (Elliott Gould), ha sbancato il casinò di Reno, in Nevada, vincendo 82 mila dollari.
Mi era chiara la rovina dei perdenti. Su quella dei vincenti, invece, avrei voluto chiedere ancora molte cose al mio amico.

19/01/18

L'amore infelice di Cesare Pavese per Constance Dowling. Un brano da "Le rovine e l'ombra".



Questo sentimento della rovina amorosa che conduce e introduce alla morte fu incarnato nella forma perfetta di una morte scandalosa e poetica (non fate pettegolezzi... le ultime parole sul biglietto lasciato prima del suicidio) da Cesare Pavese.
   Nel capodanno del 1950,  a casa degli amici Giovanni Rubini e Alda Grimaldi, a Roma, Pavese aveva conosciuto l'attrice Constance Dowling. Giunta con la sorella Doris in Italia, a trent'anni non ancora compiuti, Constance aveva collezionato qualche apparizione in film minori e il fallimento di una relazione decennale con Elia Kazan. Umiliata da lui (aveva sperato a lungo e inutilmente che il regista si separasse dalla moglie, ma era stata liquidata anche in modo sprezzante) e alla ricerca di un improbabile riscatto, Constance si portava dietro il fascino del glamour hollywoodiano e la frustrazione del successo negato.  Pavese la rincontrò qualche mese più tardi a Cervinia e se ne innamorò perdutamente.  Le scrisse lettere piene di disperazione e dedizione, preparò soggetti nella illusione di spalancare per lei (e per la sorella) le porte per una carriera italiana.  Ma i progetti naufragarono e Constance decise di prendere un volo per l’America, con la promessa vana di tornare nel giro di due mesi.  Il 20 aprile salì sul volo per New York. Nelle settimane precedenti era diventata l'amante di Andrea Checchi, un attore conosciuto sul set dell'ultimo film (sfortunato come gli altri) girato in Italia, La strada finisce sul fiume.
   «Ho sperimentato con te «orrore e meraviglia», le scrisse Pavese in una delle lettere spedite in America,  disse di perdonarla e di perdonare «tutta questa pena che mi rode il cuore».
   Pavese percepì che questo inciampo della sua vita era quello definitivo.  Nulla lo consolava, nemmeno il premio Strega ricevuto per La bella estate la sera del 24 giugno.
   Appena due mesi più tardi, il 27 agosto il suicidio con i barbiturici nella stanza dell'Hotel Roma, in via Carlo Felice a Torino.
   Poco prima, in un solo mese, dall'11 marzo all'11 aprile, Pavese aveva scritto, proprio a Torino, le 10 poesie che compongono l'ultima raccolta dei suoi versi. Alla morte dello scrittore furono ritrovate in una cartella nella scrivania del suo ufficio alla casa editrice Einaudi.  Scritte a macchina, le poesie – otto in italiano e due in inglese – portavano titoli e date di pugno dell'autore, insieme al frontespizio e furono pubblicate in un volume postumo, nel 1951 con il titolo scelto da Pavese.

   Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa notte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.

….

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
  
   Sono i celebri versi scritti il 22 marzo del 1950. Constance è forse in quello stesso momento tra le braccia di Checchi. Ma soprattutto Pavese ha raggiunto quella dolorosa consapevolezza che gli è impossibile abitare il territorio della rovina amorosa.  Quel territorio, per lui che si sente da tempo inadatto al vizio pericoloso di vivere («La felicità è qualcosa che si chiama Jo, Harry o John, non Cesare» scrive amaramente in una delle lettere destinate a Constance) è fatale, lo svuota anche del desiderio creativo, che lo ha tenuto in vita fino a quel momento.
«Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te».
   È un territorio infido, quello delle rovine.  Che non è sempre illuminato dal sole, che è pieno di ombre e di abissi e che qualche volta fa perdere del tutto.
   Non so se Marcel si sia perduto. Non so se Pavese abbia trovato una Constance angelicata ad attenderlo, come in un film, non so se Jeanne abbia mai potuto realizzare un riscatto personale o interiore prima di lasciare la vita immaginata da Maupassant.   Quel che è certo è che da queste traiettorie di vita si apprende quanto le rovine abitino il cuore e l'interiorità, oltre che il nostro mondo, e quanto sia importante apprendere la lezione severa e illuminante che ci tramandano.


30/07/17

L'introduzione da "Le rovine e l'ombra", in vendita in libreria.





Introduzione tratta da Le rovine e l'ombra, in tutte le librerie in questi giorni (edizioni Castelvecchi)


Ho letto un giorno tra centinaia di notizie trascurabili, che durante la ferocissima Guerra Civile in Siria è accaduto anche un piccolo miracolo: gli abitanti di Dārayyā, quartiere alla periferia di Damasco, ridotto in poltiglia dopo cinque anni di bombardamenti e l’assedio del regime, hanno salvato 15 mila libri dagli appartamenti e dalle scuole distrutte trasportandoli al sicuro in un grande scantinato sottoterra, trasformato in biblioteca. 

A questo sotterraneo è stato dato anche un nome – Fajr, ovvero ‘alba’ – e gli uomini che lo gestiscono – il loro capo si chiama Ahmad – lo tengono aperto, bombardamenti permettendo, dalle 11 del mattino alle 5 del pomeriggio. 

Così, ogni giorno, venti, venticinque persone si fermano a leggere al riparo dei barili-bomba, prendono un libro in prestito e lo portano al fronte, la prima linea dietro casa, la casa che non c’è più e che ora è soltanto un ammasso di rovine. Fuori dal romanticismo che una notizia del genere può inspirare, mi ha incuriosito l’istinto primitivo che sembra aver mosso questi uomini, pressati da ben altre urgenze. Se hanno sentito il bisogno di preservare qualcosa così gelosamente e di farne una sorta di simbolo di sopravvivenza o di rinascita significa che anche sotto (o dentro) le rovine è possibile trovare vita. 

Che anzi le rovine sono quel luogo dove la vita torna a scorrere. Le rovine infatti sono luoghi deputati a nascondere, a preservare ciò che non è stato completamente distrutto e può tornare a nascere. Le rovine – proprio per la loro attitudine al nascondimento – sono anche i luoghi dell’ombra. È facile, come hanno fatto i ribelli siriani, nascondere il loro sotterraneo-biblioteca sotto cumuli di rovine dove presumibilmente oggi nessuno ha più voglia di spingersi. 

Nel sottosuolo, nell’ombra, come anticamente accadeva nelle arcaiche catacombe romane, la vita – e lo spirito che essa alimenta – ha potuto preservarsi, conservarsi, rinnovarsi. Anche l’ombra, infatti, è propizia alla vita. Come accade in natura, nelle estensioni dei sottoboschi, nel folto delle foreste, nel fondo degli oceani. Mi sembra che rovine e ombra siano due connotati sempre più precisi della contemporaneità. Del futuro non so dire. Molto dipenderà, naturalmente, da come si sapranno affrontare e gestire ombra e rovine. La cosa certa è che nessuno più può fare finta di nulla e fingere che il mondo sia un luogo pulito, sicuro, senza rovine e senza ombra. Ombra e rovine sono, anzi, territori sempre più estesi, e qualsiasi rinascita, personale o collettiva, dipenderà per forza – come per i dannati di Dārayyā  dalla capacità che si avrà di attraversare le rovine, di attraversare l’ombra.