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06/10/13

Il Museo Hendrik Christian Andersen a Roma, un piccolo gioiello sconosciuto.




A Roma, anche in una città come Roma, esistono gioielli sconociuti. 

Uno di questi è il il Museo Hendrik Christian Andersen, in Via Pasquale Stanislao Mancini, al numero 20, a pochi metri da Piazza del Popolo. Che oltretutto è - incomprensibilmente - gratuito. 

Una bellissima palazzina Liberty conserva le opere dello scultore e pittore Hendrik Christian Andersen. 

Nato a Bergen in Norvegia nel 1872 da povera famiglia e naturalizzato americano essendo emigrato ancora bambino negli Stati Uniti, a Newport (Rhode Island), il giovane Andersen intraprese il viaggio di formazione in Europa nel 1894 e, dopo Parigi, si stabilì definitivamente a Roma dove visse per oltre quarant'anni. 

Alla sua morte, il 19 dicembre 1940, lasciò in eredità allo Stato italiano il suo studio-abitazione di via Mancini e quanto in essa contenuto: opere, arredi, carte d'archivio, materiale fotografico, libri. 

Ma solo dopo la morte nel 1978 di Lucia Andersen (adottata nel 1919 dalla madre dell'artista e quindi usufruttuaria del lascito), alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna è stata affidata la tutela delle raccolte e dell'edificio. 

La collezione delle opere (oltre duecento sculture di grandi, medie e piccole dimensioni in gesso e bronzo; oltre duecento dipinti; oltre trecento opere grafiche) si segnala per la sua eccezionalità essendo quasi interamente incentrata attorno all'idea utopistica, che ossessionò per tutta la vita Andersen, di una grande "Città mondiale", destinata ad essere la sede internazionale di un perenne laboratorio di idee nel campo delle arti, delle scienze, della filosofia, della religione, della cultura fisica. 

A tale progetto e alla sua diffusione Andersen aveva dedicato nel 1913 insieme all'architetto francese Ernest Hébrard un ponderoso volume (Creation of a World Centre of Communication; consultabile presso il Museo) che, partendo dalle concezioni urbanistiche delle antiche civiltà, doveva indicare l'approdo alla nuova e moderna "Città".

I due grandi atelier al piano terra- la Galleria, sala di rappresentanza ove l’artista mostrava ai visitatori le opere finite, e lo Studio, vero e proprio atelier per l’ideazione delle opere e la modellazione delle forme- accolgono le monumentali statue, i busti-ritratto e i disegni-progetto per il “Centro mondiale di comunicazione”. 

L’appartamento al primo piano, un tempo abitazione dell’artista, costituisce oggi uno spazio espositivo sia per le raccolte permanenti - dipinti, disegni, sculture di piccola dimensione- sia per mostre temporanee dedicate ai rapporti tra l’Italia e gli artisti stranieri dell’Ottocento e del Novecento. 

L’edificio chiamato Villa Helene (dal nome della mamma) viene lasciato in eredità da Hendrik Christian Andersen allo Stato italiano nel 1940, anno della sua morte. 

Corredano il museo splendide foto d'epoca, che ritraggono Andersen con personalità influenti dell'epoca come Tagore e Umberto Nobile.  

Tra le amicizie v'era poi quella, durata molti anni (consistente molto probabilmente in una vera e propria relazione). 

Penso a te nella dorata aria romana, scrive Henry James a Andersen il 2 gennaio del 1912, sto sospeso con te sopra la tua indicibile terrazza sul Tevere- siedo con te in quelle nobili sale.

E un'altra lettera del 2 febbraio del 1902, scritta all'indomani della morte del fratello di Hendrik, rende bene il contenuto del sentimento che James provava per l'amico, molto più giovane di lui:

Il fatto che non posso aiutarti, vederti, parlarti, toccarti, tenerti stretto a lungo o fare nulla per tranquillizzarti e farti sentire la mia profonda partecipazione - questo mi tormenta, carissimo ragazzo, mi fa dolere per te e per me stesso; mi fa stridere i denti e gemere contro l'amarezza di queste cose [...] Un solo pensiero che mi solleva un poco - mi auguro che tu possa pensare all'idea o anche solo alla possibilità. Sono in città per qualche settimana, ma tornerò a Rye il 1 aprile, e prima o poi ti vorrei vedere là, e stringerti e lasciarti posare su di me come fratello e amante, sostenerti, lentamente confortarti o almeno toglierti l'amarezza del dolore - questo io cerco di immaginare, come fosse pensabile, fattibile, non totalmente fuori questione. 



16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.