05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

01/07/23

"Il Dono Perfetto" - L'intervista di Giovanna Bandini a Fabrizio Falconi per il nuovo romanzo - VIDEO

 Da ieri, 30 giugno, è in libreria Il Dono Perfetto, il nuovo romanzo di Fabrizio Falconi. Qui brevi clip dall'intervista realizzata da Giovanna Bandini con Dario Pettinelli, per Il Momento Perfetto - ItaliaTv

 



   
   
 QUI SOTTO il PODCAST completo dell'intervista: 

   

Il Dono Perfetto è nelle librerie e online in vendita su Amazon e su ogni libreria online. Infine anche in vendita online sul sito della casa editrice (SANTELLI).



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26/06/23

"A proposito di Davis", un grande film dei Fratelli Coen - da recuperare su Amazon Prime Video


Chi vuole può recuperare "A proposito di Davis" ("Inside LLewyn Davis") dei fratelli Coen, uscito nel 2013, adesso disponibile sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

E' per me la miglior prova in assoluto dei geniali fratelli, dai tempi de "L'uomo che non c'era" (2001, il loro ultimo grande capolavoro), cui aggiungerei il favoloso "Macbeth" (2021) che però è firmato dal solo Joel.
"A proposito di Davis", come è stato tradotto in italiano dall'originale americano, che suona assai diverso (è il titolo dello sfortunato LP pubblicato dallo sfortunato Davis, che nessuno compra e nessuno vuole ascoltare), è uno dei più riusciti ritratti di losers che si è visto sullo schermo.
Gli presta il volto (e la voce) l'eccellente Oscar Isaac, uno dei più talentuosi attori oggi in circolazione (protagonista fra l'altro, insieme a Jessica Chastain, della versione 2021 di "Scene da un matrimonio").
Davis è un personaggio immaginario, ma più vero del vero. I Coen lo hanno disegnato sul modello di due veri folksingers newyorchesi, Dave Van Ronk e Ramblin' Jack Elliott, che ebbero l'immane sfortuna di presentarsi da esordienti sulla stessa scena e nello stesso identico periodo in cui Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, muoveva i suoi primi passi, nei fumosi locali di Brooklyn e del Greenwich Village.
Davis è quindi, nella poetica dei Coen, un perfetto contraltare del grande Bob. Mettendo in scena i suoi fallimenti, le sue goffagini, le sue sofferenze esistenziali (chiamiamole anche con il nome più rozzo per quello che sono: "sfighe"), Davis è per i Coen l'eroe della nobile sconfitta: colui che non può farcela (a diventare famoso), colui che è costretto a restare un fallito, un senza casa, un fuori posto, uno che vede la storia scorrergli davanti, da vicino o da vicinissimo, ma la può soltanto sfiorare.
E' oro per il talento dei Coen, che hanno costruito molta della loro fortuna, sul canto (ironico o disperato) degli sconfitti.
La fotografia (pluripremiata) di Bruno Delbonnel, le musiche (T Bone Burnett) e le canzoni tradizionali del folk anglosassone, il cast di grandi attori (tutti accorrono quando i Coen chiamano): Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, F. Murray Abraham, Adam Driver, contribuiscono alla riuscita del film, perfetto e toccante in ogni inquadratura.
Poteva poi essere anche quasi un racconto in prima persona, ma i Coen amano a tal punto le storie e il cinema, che qui inventano un assai tenue, eppure magico macGuffin con le fattezze di un gatto ribelle che riesce a rendere ancora più tortuosa e difficile la vita del povero Davis.
Il film ha ricevuto numerose candidature ai premi più importanti (Oscar e Golden Globe compresi) e ha (stra) meritatamente vinto il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2013.

Fabrizio Falconi - 2023

22/06/23

Ecco "Black Bird", la migliore serie che c'è in giro, oggi


Quasi nessuno parla da noi di "Black Bird"
, la migliore serie che c'è in giro, e una delle migliori degli ultimi anni.

Forse perché è su AppleTv, che non tutti hanno (ma ricordo che si può anche fare una prova gratuita che dura 7 giorni).
Black Bird - in cui sembra di rivivere certe atmosfere da True Detective 1 (vertice mai più raggiunto) - è diretta da Dennis Lehane e coprodotta oltre che da Apple, da Dan e Ryan Friedkin, gli attuali proprietari della AS Roma.
E' tratta da una storia vera, e più specificatamente dalla autobiografia Il Falco di James Keene, pubblicata nel 2010. Keene, di buona e colta famiglia fu arrestato dopo essere entrato in un giro di spaccio di droga e condannato a dieci anni di carcere.
Contattato dall'FBI, fu convinto a entrare sotto copertura, con la promessa di guadagnarsi la libertà, in un carcere di massima sicurezza (nonché manicomio criminale), allo scopo di guadagnarsi la fiducia di Larry Hall, sospettato di essere l'omicida seriale di un certo numero di ragazze sparite nelle campagne dell'Illinois.
Le sei puntate della tiratissima miniserie raccontano dunque la difficilissima discesa di James - o Jimmy - nell'inferno del carcere più duro, cercando di avvicinare Larry, diventarne amico e confidente, per arrivare a ottenere da lui la confessione dei suoi crimini (e in particolare, dei luoghi delle sepolture delle ragazze che ha ucciso).
Il punto di forza della serie è nella coppia di attori protagonisti: il giovane inglese Toran Egerton (nei panni di Jimmy) e Paul Walter Hauser che riesce a incarnare il più convincente e realistico omicida seriale che si sia visto recentemente al cinema o alla Tv.
Entrambi, infatti, hanno fatto incetta di candidature e di premi ovunque, compresi i Golden Globe. Erano tutti e due nella cinquina finale. Il premio per la migliore interpretazione maschile è poi andato - meritatamente - a Paul Walter Hauser.
Il quale virtuosisticamente colora il suo assassino di sottilissime sfumature, smorfie, idiosincrasie, rendendolo naif e terribile insieme.
L'altro versante della storia - l'indagine condotta da un ispettore locale e da una funzionaria dell'FBI - è meno interessante e forse andava tagliato nei tempi.
Nel complesso, però, una grande storia su dannazione e riscatto, sul buio interiore e sull'esercizio di una forza che non si arrende.
Assolutamente da vedere.

Fabrizio Falconi - 2023

19/06/23

"La Famiglia dei Diamanti" - saga familiare Netflix nel quartiere ortodosso di Anversa


La Famiglia dei Diamanti (Rough Diamonds), visibile sulla piattaforma Netflix, serie belga, del 2023, si inserisce sulla scia delle diverse serie che, dalla meravigliosa Shtisel a Unorthodox, si sono addentrate nel mondo della cultura e della vita delle comunità ebree ortodosse.

In questo caso siamo in Belgio, ad Anversa, da sempre "la città dei diamanti", lì dove cioè hanno prosperato da secoli commercianti - non solo ebrei - che si sono specializzati nel mercato delle preziose pietre provenienti dalle miniere dell'Africa.
Il pretesto narrativo è il suicidio - perché coinvolto in debiti di gioco - di un giovane membro della famiglia Wolfson, una delle più blasonate del quartiere dei diamanti.
Al capezzale del morto accorre anche il più classico figliol prodigo: Noah, che venti anni prima ha lasciato la famiglia, lasciando la fede ortodossa. Noah, che è fratello del suicida, vive a Londra e si occupa di affari poco puliti.
La morte del fratello lo spinge però a riconnettersi con la comunità Haredi e con la sua famiglia, che si trova adesso in guai molto seri - ricattata dalla malavita albanese - e che lui si sente in dovere di aiutare.
Coprodotta dagli israeliani Keshet, la serie, solida e ben scritta si segue volentieri fino all'ultima delle 8 puntate.
I punti deboli sono gli attori, in particolare Kevin Janssens, il protagonista, dall'espressione fissa e stolida, modesto come modesti sono anche altri nei ruoli secondari; i personaggi fra l'altro, tranne quello del fratello maggiore, Eli, non "crescono" ; e una inconcludenza generale della vicenda, specie nell'epilogo, irrisolto e tirato via senza convinzione, soltanto per preparare il terreno a una probabilissima seconda stagione.

Fabrizio Falconi - 2023

16/06/23

"Blue Jay" (2016), un gioiello su Netflix, per commuoversi senza sentirsi in colpa


'Blue Jay' (2016)
è uno strano, toccante film indipendente, che dura solo 80 minuti, ora visibile su Netflix.

E' così strano che è anche difficile chiamarlo 'film', somigliando più a una confessione 'in presa diretta' o a una duplice prova d'attore.
Lo ha realizzato in un elegante bianco e nero Alex Lehmann, su un copione scritto da Mark Duplass, che è il protagonista maschile del film.
La storia - se storia si può chiamare - è presto detta: in un supermercato si rincontrano dopo molti anni, Jim e Amanda, che sono stati insieme da giovanissimi: un primo amore intenso, finito male.
Il caso li ha riportati lì nello stesso momento: lui deve chiudere la casa della madre che è morta, lei è venuta in visita alla sorella che è incinta.
Il film descrive le ore di questa giornata e della notte trascorsa insieme, tra allegria - ritrovando molta di quella magia che li aveva fatti innamorare l'uno dell'altro da giovanissimi - e principio di realtà - misurando la distanza tra quel che si era, quel che si voleva diventare e quel che si è diventati.
Un pretesto narrativo che sembrerebbe fin troppo facile.
Eppure il film vince la scommessa, facendosi apprezzare proprio per semplicità, misura, autenticità.
Gran merito è dei due attori, sempre in scena: Mark Duplass (impacciato e simpatico, ironico, irrisolto) e soprattutto Sarah Paulson, incantevole e di bravura davvero mostruosa.
'Blue Jay' ha girato molto nei festival di cinema indipendente, poi è riaffiorato grazie alla piattaforma globale e ha trovato un suo pubblico. Meritatamente. Si ride e ci si commuove, senza facili ricatti.

Fabrizio Falconi - 2023

11/06/23

"Via dalla Pazza Folla" di Thomas Vinterberg, una convincente trasposizione da Thomas Hardy, con una splendida Carey Mulligan

Ancora una volta ho apprezzato la grande qualità e la versatilità del regista di "Festen", "Il sospetto", "Un altro giro" (vincitore lo scorso anno dell'Oscar come miglior film straniero).
Visibile a noleggio su Google Play e Amazon Prime Video a 3.99 euro, "Via dalla Pazza Folla" è un adattamento assai scrupoloso del romanzo di Hardy, e meno ingombrante di quello che fu realizzato da John Schlesinger nel 1967, con protagonisti mostri sacri come Julie Christie, Alan Bates, Terence Stamp, Peter Finch.
L'eterna storia di Bathsheba Everdene, bellissima e intelligente, forte, fragile e desiderosa di indipendenza, prima contadina e poi fittavola in una immaginaria contea inglese, contesa da tre uomini molto diversi - naturalmente lei si concede a quello meno raccomandabile - è uno dei classici studi di Hardy che rappresentano la sua concezione totalmente pessimista del mondo.
Il mondo nel quale la natura sa essere punitiva e ingiusta, ma gli esseri umani fanno di tutto per condannarsi all'infelicità.
Bathsheba è uno splendido ritratto femminile, cui Carey Mulligan concede corpo e anima, ed intensa espressività ad ogni sguardo o gesto (del resto la Mulligan è da tempo una delle migliori attrici sulla scena del cinema internazionale).
Il colosso Matthias Schoenaerts è un perfetto Gabriel Oak, il primo a dichiararsi, respinto, a Bathsheba all'inizio della storia, e colui che le resta fedele fino alla fine.
Michael Sheen è il ricco fittavolo William Boldwood, che incastrato da un poco innocente scherzo di Bathsheba ne finisce completamente soggiogato.
Tom Sturridge è invece il famoso sergente Troy del romanzo, scapestrato e fatuo, irresistibile, dannato.
Per sceneggiare un romanzo così complesso - 600 pagine - Vinterberg si è affidato a David Nicholls che ha operato scelte radicali e coraggiose: le prime 200 pagine del libro vengono infatti risolte nei primi 10 minuti del film, che si concentra, come è giusto, nella seconda metà della storia, dove accadono i fatti più rilevanti.
La bellissima fotografia, che ricostruisce meticolosamente gli esterni e gli interni della campagna inglese dell'Ottocento, è di Charlotte Bruus Christensen (danese come il regista), mentre le musiche sono dell'inglese Craig Armstrong, compositore molto amato anche nei circoli rock e jazz.
"Via dalla Pazza Folla" di Vinterberg è insomma un convincente (e pienamente soddisfacente per lo spettatore) adattamento di un grande classico della letteratura, che indaga con fredda e appassionata lucidità gli anfratti e le ombre delle personalità umane, la loro incompletezza, i loro desideri, la speranza di poter un giorno essere felici, perché finalmente consapevoli.

Fabrizio Falconi - 2023

06/06/23

L'oscura Via del Mandrione, a Roma, amata da Pasolini


Fa una certa impressione immaginare che dalla costruzione dell’ultimo dei grandi maestosi acquedotti romani (i cui resti ancora giganteggiano per l’Italia) trascorsero ben tredici secoli prima che si sentisse la necessità a Roma di realizzarne uno nuovo

L’impresa fu voluta da Papa Sisto V a cui si deve la completa ristrutturazione urbanistica di Roma (con il celebre Piano Sistino), il quale la commissionò nel 1585 all’architetto Matteo Bortolani. 

Tanto per comprendere quale fosse la grandezza dei romani, Bortolani commise degli errori di progettazione del nuovo acquedotto, e il Papa dovette ricorrere a Giovanni Fontana (lo stesso architetto che aveva spostato l’obelisco di Piazza San Pietro) per rimediare e correggere il difettoso deflusso delle acque. 

In onore di Sisto V (che la secolo si chiamava Felice Peretti) il nuovo acquedotto fu chiamato Felice e aveva il compito di utilizzare le antiche sorgenti dell’Aqua Alexandrina, per approvvigionare le zone del Viminale e del Quirinale. 

Il tracciato originale del nuovo acquedotto superava la Via Tuscolana all’altezza della Porta Furba e giungeva fino nel cuore di Roma con il trionfo finale della Mostra della Fontana del Mosè, in Piazza San Bernardo. 

Oggi una gran parte del circuito cittadino dell’Acquedotto Felice è affiancata dalla lunga Via del Mandrione, che dà il nome ad un quartiere, o meglio, ad una porzione del quartiere Tuscolano

In questa Via, una specie di tortuoso serpente che si snodava e in parte si snoda ancora sul confine tra la periferia della città e la campagna, furono trovati i resti di una splendida villa romana e parte di un lastricato. 

Il nome, Mandrione, deriva proprio dal fatto che qui, nella campagna sotto gli archi del vecchio acquedotto, venivano portate le mandrie a pascolare

Era però, già anticamente, una zona di scorribande, adatta agli agguati da parte di briganti e di sabotatori e per questo motivo, lungo questa via transitavano i sorveglianti degli acquedotti, arruolati dalle autorità pontificie. 

I solenni archi divennero però con il passare dei secoli anche un ideale rifugio: dapprima in tempo di guerra quando sotto l’Acquedotto Felice trovarono riparo gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943, che costruirono le prime baracche, e poi, nel dopoguerra comunità di nomadi e prostitute. 

Ben presto dunque la zona del Mandrione divenne malfamata e territorio di studio per le condizioni abitative di disagio in città, che richiamarono nel dopoguerra l’interesse di personalità come Pier Paolo Pasolini, Gian Giacomo Feltrinelli, Elsa Morante, Goffredo Parise. 

Da qui partirono però anche progetti rivoluzionari (come quelli della pedagogista Angelina Linda Zammataro) di integrazione delle comunità nomadi e di recupero della zona archeologica con lo sgombero delle baracche e l’assegnazione di alloggi popolari alle numerose famiglie che vi abitavano

Oggi l’oscura Via del Mandrione ha – come altre parti della periferia romana – cambiato pelle, ospitando locali, botteghe artigiane e vita notturna.


Fabrizio Falconi, tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013 


30/05/23

"Diplomat", la serie Netflix, un prodotto di alta qualità


 Diplomat - disponibile sulla piattaforma Netflix - deve la sua qualità in primis a una magnifica attrice, Keri Russell, che i più hanno conosciuto in "The Americans" , oggi cinquantenne, che qui oltre ad essere protagonista assoluta, è anche produttrice esecutiva.

Scritta brillantemente da Debora Cahn, una delle migliori sceneggiatrici di Hollywood, Diplomat ci porta nel mondo dell'alta diplomazia internazionale, nel pieno di una crisi: una nave inglese è stata attaccata da un (finto) peschereccio nelle acque del Golfo Persico, e i riflettori vengono subito puntati sull'Iran.
Nel pieno di questa crisi, Kate Wyler, esperta funzionaria di casa in paesi difficili come Iraq e Afghanistan, viene nominata ambasciatrice degli USA a Londra. Portandosi dietro l'ingombrante fardello di un marito anch'egli diplomatico ed ex ambasciatore, messo ai margini per il suo carattere indipendente e piuttosto incontrollabile.
Marito e moglie sono in crisi, c'è aria di divorzio da tanto tempo, ma i due sono legati da qualcosa di profondo, una mutua protezione, un attaccamento sensuale e di umana comprensione-accoglienza per le rispettive fragilità, soprattutto quella di Kate, specialmente ora che ha un incarico così importante e delicato.
Hal, il marito, promette di "fare il buono" e di fare "la moglie" dell'ambasciatore, ma ovviamente non va così.
La serie è costruita interamente su dialoghi serratissimi e intrighi diplomatici difficilissimi da decifrare. Se non ci si annoia è proprio per merito della bravura degli interpreti, soprattutto i due principali: oltre a Keri Russell, il perfetto Rufus Sewell. Il matrimonio in crisi e i rispettivi caratteri di Kate e di Hal sono ciò che conferisce alla serie la qualità e l'intelligenza, e che rende piacevole proseguire fino in fondo, fino a un finale a sorpresa che lascia tutto aperto.
Mi è piaciuto molto il franco femminismo della serie: Kate è una donna con le palle; Hal come uomo esperto e abituato ad essere al centro dell'attenzione deve fare esercizio quotidiano (e fa di tutto per farlo), per accettare di essere in secondo piano. Mi è piaciuta l'originalità dell'ambientazione, la grande qualità complessiva della messa in scena.
E' oltretutto illuminante percepire quanto sia precario e inautentico il mondo dell'alta diplomazia internazionale, ormai pesantemente condizionato dall'immagine, dal web, da twitter, dai vuoti rituali, dalle intemperanze caratteriali dei singoli; da come tutto, compresa una grave crisi internazionale che può mettere a rischio migliaia o milioni di persone o tutto il pianeta, può essere potenzialmente motivato da futili o futilissimi motivi (come già il Dr. Strangelove di Kubrick insegnava molti molti anni fa).
Serie consigliabile e prodotto di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

19/05/23

"Slow Horses" si migliora ancora, la seconda stagione della serie, più bella della prima


La seconda stagione di Slow Horses, serie AppleTv è se possibile, ancora migliore della prima, che suscitò entusiasmo della critica e favore del pubblico.

Stavolta i "ronzini" (gli agenti "sfigati") del "Pantano" (il dipartimento sfigato dove vengono mandati gli agenti sfigati, decaduti, del MI5, capitanato dall'espertissimo ma ingestibile Jackson Lamb) sono alle prese con un incarico che viene affidato loro direttamente dai "Cani", cioè dagli agenti di primo livello del MI5: apparecchiare, preparare, bonificare il luogo dove avverrà un incontro segreto tra la scrivania n.2 dei servizi inglesi, la Taverner e un rampante agente russo di nome Pashkin.
Da qui nascono avvenimenti e trama appassionanti e intricati che lungo l'arco di sei puntate, catturano totalmente lo spettatore, regalandogli un divertimento intelligente, impagabile.
Merito del cast, in primis. Con Gary Oldman (per cui scarseggiano ormai gli aggettivi) che non "interpreta" Lamb, ma gli dà vita, lo crea, lo rende più vero del vero, epigono di precedenti illustri, da Marlowe a Colombo, ma decisamente più cool, Lamb con il suo impermeabile fetido, la barba lunga, i capelli sporchi, l'olezzo che si porta dietro, è uno spettacolo ad ogni frase che pronuncia e a ogni espressione che accenna.
Kristin Scott Thomas è perfetta nei panni di Taverner, Jonathan Pryce è il nonno di River Cartwright, ex agente anche lui. Mentre River, interpretato dal bravissimo Jack Lowden è un coprotagonista a tutti gli effetti.
La seconda stagione è stata girata con sontuosi mezzi per le vie di Londra, dove si svolge una grande manifestazione di protesta, aeroporti di piper, stazioni, pub.
Slow Horses ha anche il merito di non precludersi di far morire i personaggi anche più amati. In questa seconda stagione trova molto spazio Rosalind Eleazar, talentuosissima attrice di cui sentiremo molto parlare, che pur con una menomazione congenita alle dita delle mani, regala emozioni assai intense.
Del tutto raccomandabile, quindi, in attesa della terza stagione già in lavorazione. Davvero una serie alla quale è difficile, se non impossibile, trovare difetti.

Fabrizio Falconi - 2023

16/05/23

Torna nelle sale "Toro Scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese, uno dei film capitali della storia del cinema


E' uscito di nuovo nelle sale Raging Bull (Toro Scatenato), 43 anni dopo il suo debutto (1980) e questa non può che essere una bellissima notizia.

Detto questo, non penso che andrò a rivederlo, perché credo forse di non conoscere nessun altro film meglio di questo - praticamente a memoria, scena per scena, ed è tutto lucidamente stampato nella mia mente.
Non è solo un capolavoro. E' un film-testamento. Uno dei film più "umani" che io conosca.
Forse perché Scorsese veniva da una crisi esistenziale profondissima (era depresso e pieno di droghe, dopo la fatica improba di New York, New York e il suo relativo insuccesso).
Quando De Niro andò a trovarlo in ospedale, proponendogli di fare insieme il film, tratto dalla autobiografia di Jake La Motta, che lui aveva appena finito di leggere, forse Scorsese non si rese conto che quel film arrivava - in modo karmico - nel punto "necessario" della sua vita.
Così, vi mise dentro tutta la sua vita, l'infanzia, Little Italy, la miseria e il razzismo contro gli italiani di New York, la mafia, il pugilato, l'ignoranza, il familismo, il maschilismo, la solidarietà, il riscatto, l'incapacità di rapportarsi con le donne.
Non come semplici "spiegazioni freudiane" - "Gli esseri umani non si spiegano solo con i concetti freudiani" dice Scorsese a proposito di questo film, nel suo libro "Conversazioni su di me e tutto il resto", orrendamente editato in Italia da Bompiani - ma come di-mostrazione di tutto ciò che aveva vissuto fino a quel momento, tutto quello che aveva fatto di lui l'uomo che era.
Scorsese all'epoca era al massimo della sua maturità umana e d'artista - aveva 38 anni - e questo è film forse più intimo e religioso che abbia fatto. "Una specie di inizio: un'accettazione di tutto," lo definisce lui nel libro. "Dio non è un torturatore, ma vuole che noi abbiamo pietà di noi stessi e smettiamo di tormentarci."
E' il significato più profondo di questo capolavoro, in cui Scorsese è probabilmente anche arrivato al vertice massimo della sua arte del cinema, della regia, del racconto (un vertice comunque toccato in molti punti della sua strabiliante filmografia), con ogni aspetto - recitazione, regia, interpreti, fotografia, musica, comprimari - che raggiunge il livello di perfezione.
Un film che parla ad ogni essere umano, perché racconta di ogni essere umano. Della fatica, della tristezza, dello sconforto, del ritrovarsi, del credere, del cambiare, dell'accettare.
Per questo Raging Bull è un film immortale, che tutti dovrebbero vedere almeno una volta nella vita.

Fabrizio Falconi - 2023


15/05/23

"Via dalla Pazza Folla", lo straordinario romanzo di Thomas Hardy


Thomas Hardy viene giustamente considerato uno degli scrittori in assoluto più "pessimisti", uno dei più vicini alla visione schopenhaueriana della vita: sorta di condanna che tocca vivere, lottando tenacemente, ma senza speranza, contro una volontà superiore - quella delle forze naturali - che agiscono "nonostante" noi, oltre noi, in una specie di lotta impari e senza senso, nella quale si può soltanto soccombere.
Hardy, dal profondo della campagna in cui quasi per tutta la vita si rinchiuse - la sua biografia è una delle più povere di eventi, nella storia della letteratura - immaginò storie cupe e dolorose, ma anche estremamente vitali, ambientate in una regione immaginaria chiamata Wessex, che ha molte caratteristiche dei luoghi in cui effettivamente viveva.
484 pagine vanno via nello scorrere di capitoli titolati e in genere brevi, lungo i quali si dipana la vicenda di Bathsheba (le donne sono quasi sempre le protagoniste dei suoi romanzi), bella giovane e determinata, che da semplice contadina, si ritrova fittavola e proprietaria di un grande fondo.
Tre sono i corteggiatori di Bathsheba: il leale Gabriel Oak, il primo a farsi avanti, che ne diviene poi il fattore, l'uomo di fiducia; il fittavolo benestante e misantropo Boldwood, che perde la testa completamente per Bathsheba dopo che lei gli ha tirato un crudelissimo scherzo; e il belloccio Troy, sergente dell'esercito britannico, cinico e scapestrato, del quale è innamoratissima - e fidanzata - l'ingenua Fanny.
Naturalmente, tra i 3 candidati possibili, Bathsheba sceglierà quello che di gran lunga è il peggiore, cioè Troy, garantendosi così un'infelicità grandissima, costellata di delusioni, tradimenti, disillusioni ferocissime.
Nella prima parte del romanzo e anche fino a poco oltre, ci si diverte molto. Bathsheba è uno dei personaggi femminili più riusciti della letteratura dell'Ottocento. Hardy ne tratteggia la personalità in modo vivissimo, con tutte le sue irrisolte contraddizioni, inserendo questo carattere tipicamente femminile nell'ambiente naturale selvaggio della campagna, di cui Hardy è maestro di descrizione.
Nella seconda metà del romanzo, la storia si incupisce, diventa crudele con i suoi personaggi, soprattutto con Bathsheba - chiamata ad affrontare la nemesi inevitabile - ma anche con tutti gli altri.
Hardy però risparmia almeno il finale, che una volta tanto non si chiude nel baratro della tragedia ma spalanca proprio nelle ultime pagine un possibile lieto fine.
La caduta di Bathsheba e delle sue ambizioni è in fondo molto moderna. E moderni sono i suoi desideri, le fragilità, i conflitti nascosti dietro l'apparente imperturbabilità di un personaggio "forte".
L'immaginazione e la storia si sposano felicemente - come sempre in Hardy - con l'introspezione e lo studio dei caratteri psicologici.
Una lettura magnifica.

Fabrizio Falconi - 2023

09/05/23

Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" il (bellissimo) romanzo di Frédéric Dévé


Quando un bel libro è scritto anche da un amico, la soddisfazione è doppia. Conosco Frédéric da molti anni e ora che arriva la traduzione italiana del suo romanzo "Le Miroir de Charco Verde", per merito dell'editore Artemide, faccio una notevole scoperta.

Il romanzo, uscito anni fa in Francia, in Italia viene - piuttosto enigmaticamente - intitolato "Le cose che sappiamo", un titolo ingannatore, perché le cose che "si sanno", al termine dell'avventura cui ci conduce il libro, sono provvisorie, ambigue, e tutt'altro che acquisite. Sollevano anzi molti, molti interrogativi.
E credo che questo sia proprio il pregio maggiore di questa storia. Frédéric vi dipana la sua personale esperienza di vita e di lavoro, in America Latina - più in particolare nel Nicaragua subito dopo la rivoluzione sandinista - che lui conosce assai bene, essendosi occupato per decenni dei programmi alimentari dell'Onu.
Qui, il protagonista, francese come l'autore, che si chiama Hector Ruetcel, dopo essere stato ferito nella capitale, Managua, giunge nella meravigliosa isola di Ometepe, una sorta di paradiso terrestre, entro due laghi su cui svettano due vulcani (uno dei quali l'alto e attivo Concépcion), in mezzo a un mondo edenico, popolato di gente povera, legata alla coltivazione della terra e alle leggende arcaiche del luogo.
Si imbatte così nel Charco Verde, uno stagno nelle cui acque la leggenda popolare crede abiti un demone, disposto a fare patti con chi gli vende l'anima.
Comincia dunque un viaggio nel mistero che soggioga lentamente il razionalista Ruetcel, esponendolo alle ambigue lusinghe di un notabile del luogo, don Eugenio, che sembra legato all'origine e allo sviluppo della leggenda del Charco Verde. Leggenda o realtà? Perché gli abitanti sono così spaventati? Perché sono così disposti a vendersi a un demone e ad accettare di essere trasformati in animali? Perché nessuno indaga? Cosa nascondono i registri di Don Eugenio?
Con prosa limpida e avvolgente, Dévé ci conduce per mano dentro il mistero che non si scioglie mai del tutto, fino alle ultime e ultimissime sorprendenti pagine.
Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" è un romanzo di qualità piuttosto rara nel panorama contemporaneo. Che merita di essere letto, e le cui domande non smettono di interrogare, anche dopo l'ultima pagina.

08/05/23

"Il Sol dell'Avvenire" - RECENSIONE - Moretti vive, Nanni non tanto


"Il sol dell'Avvenire" è un ritorno, o meglio un tentativo di ritorno - dopo film piuttosto convenzionali culminati nel brutto "Tre piani" - al Nanni delle origini e della prima maturità (per intenderci, fino ad Aprile compreso).

Moretti celebra il Nanni che fu, con tutti i suoi topos - la coperta patchwork, la fissa sulle scarpe, Battiato, il giro in monopattino (al posto dello scooter), i calci al pallone - ma sarebbe meglio dire che ne celebra le rovine. Perché - come avviene a tutti - anche Moretti è invecchiato, e quel Nanni che fu, non può più essere lui, ma solo una nostalgia di quello.
Detto questo, il film è efficace e ben scritto, ma è opera sostanzialmente di un lavoro a tavolino, con ben tre sceneggiatrici che si sono affiancate a Moretti per scrivere il copione, fin troppo didascalico, dialogato (con dialoghi che appunto sembrano scritti e letti, parola per parola, non naturali), soppesato.
Ciò che manca qui, come mancava molto più drasticamente nei precedenti film a questo - quelli del dopo "Aprile" - è la vera ispirazione, cioè la poesia.
Moretti la tenta, ma non c'è più lo scatto folgorante di Nanni, l'invenzione folle, c'è solo la ripetizione dei già conosciuti cliché, che vanno bene per il suo pubblico, che lo ama da sempre, e che se ne sente consolato e rassicurato (e in fondo anche lui).
Ci sono le strizzate ai francesi, che lo adorano - dal personaggio di Pierre, alla comparsa di Renzo Piano, che ai cugini d'oltralpe ha regalato il Beaubourg. C'è il pieno omaggio a Fellini (vero riferimento di Nanni dai tempi di Ecce Bombo), con un circo dove però nulla è realmente felliniano, ma solo imitazione del felliniano, e con la citazione esplicita del finale di La Dolce Vita e il meraviglioso primo piano finale di Valeria Ciangottini, che è uno dei momenti più felici del Sol dell'Avvenire.
C'è un film nel film - anzi tre - sui fatti d'Ungheria visti dall'Italia, ci sono i soliti Silvio Orlando e Margherita Buy, bravi ma convenzionali (la migliore è di gran lunga Barbora Bobulova). Ci sono i soliti "giovani" che vanno per conto loro, con la figlia improbabilissima innamorata del grande Jerzy Stuhr che fa la parte dell'ambasciatore polacco. Ci sono troppe canzoni che strizzano l'occhio allo spettatore. C'è la sequenza imbarazzante del cast e Moretti che cominciano a roteare per un'ora come i dervisci tourner. C'è l'immancabile crisi matrimoniale di Moretti, uno psicologo da barzelletta, un finale nostalgico girato ai Fori Imperiali (il film non deve essere costato poco) con elefanti veri e corteo dove ricompaiono molte delle figure di attori dei film del vecchio Nanni.
Tutto fatto bene, tutto che scorre (anche se a tratti devo dire purtroppo di essermi anche annoiato), ma senza mai spiccare veramente il volo.
Ci sono almeno un paio di scene molto belle dove per qualche secondo si scorge dietro questo bel vestito compunto, il vero vecchio Nanni: la prima, il piano sequenza al termine della bellissima tirata di Moretti contro la violenza gratuita nei film, ormai dilagante. La macchina da presa lascia sullo sfondo l'orrenda esecuzione con la pistola e Nanni si allontana lentamente sulla musica di Franco Piersanti; la seconda è il monologo "suggerito" da Nanni dal finestrino della macchina a una bravissima giovane attrice - Blu Yoshimi che ho scoperto essere figlia d'arte e sembra un reale talento - che sta lasciando il suo fidanzato.
Insomma, Moretti vive (Nanni no, o poco). Il voto è 6.5. E tutto il bene per Nanni-Moretti resta immutato.

Fabrizio Falconi