15/05/19

Tarocchi e I-Ching: Esce un nuovo libro, "I codici del cambiamento", con nuove tesi, presentato venerdì prossimo a Roma.




L’I Ching e i Tarocchi, due tra i più antichi testi di sapienza tradizionale, custodiscono, nella loro matrice codificata, una segreta conoscenza del DNA e dei suoi meccanismi. 

Un numero sempre più elevato di studi scientifici ipotizza che il DNA sia una vera e propria lingua che, svolgendo funzioni di meta-comunicazione simili a quella di un’antenna ricetrasmittente, risponde a diversi tipi di frequenze, tra cui quelle del linguaggio e dell’attitudine umani

Sul piano simbolico, infatti, i 64 esagrammi del Libro dei Mutamenti e i 22 Arcani Maggiori del Tarot sembrano essere, rispettivamente, i corrispettivi delle 64 triplette genetiche e dei 22 aminoacidi che, sul piano biologico, governano la costruzione delle proteine, le molecole base della vita

In particolare, dalla loro interazione emerge l’esistenza di strutture definite Codici del Cambiamento o iCode che, in qualità di centri funzionali della coscienza, serbano le chiavi delle dinamiche interiori che sottendono a ogni essere umano. 

Il rivoluzionario lavoro di Bozzelli, dunque, offre un’audace prospettiva sul contenuto dell’I Ching e del Tarot, contenuto che, paragonabile a una tecnologia innovativa espressa da archetipi che si trasformano in Parole Chiave, cioè vibrazioni, consente di compiere una mirabile trasmutazione evolutiva lungo il personale cammino dell’esistenza. 

CARLO BOZZELLI, dopo gli studi di medicina veterinaria e la specializzazione in microbiologia, ha approfondito l’indagine, iniziata sin da giovane, della secolare Tradizione dei Tarocchi. Attraverso una ricerca scientifica e filologica condotta tramite la comparazione dei mazzi del passato e lo studio del millenario simbolismo sacro, sta riscoprendo l’antichissima saggezza custodita nelle Icone oggi note come Tarocchi. In qualità di mastro cartaio, ha restaurato e integrato l’originale gioco dell’incisore marsigliese Nicolas Conver, da molti esperti considerato il più importante modello di riferimento. È ideatore e docente dell’Accademia dei Tarocchi e fondatore dell’Associazione Tarologi Italiani. Autore dei libri Il codice dei Tarocchi (ed. Anima, 2012) e I Tarocchi: il vangelo segreto (Ed. Mediterranee, 2014), tiene conferenze e seminari in Italia e all’estero, pubblicando articoli e testi su riviste e portali on line. 

FRANCESCO D’AYALA è giornalista professionista. Scrittore. Lavora al Giornale radio della Rai. Da inviato si occupa di moltissimi temi quali la cultura, i libri, l’arte, l’archeologia ed i problemi inerenti al patrimonio culturale. 

Presentazione del Libro alla 
relatore: Carlo Bozzelli introduce: Francesco d'Ayala 

14/05/19

La Meravigliosa Coppa di Licurgo e i suoi segreti



Il meraviglioso calice che vedete nella foto possiede una intrigante caratteristica: quando è illuminato da una fonte diretta, esso appare di color verde-giada, mentre se la fonte di luce è posta dietro l’oggetto, esso apparirà di colore rosso sangue.

 Si tratta di un calice di vetro, conosciuto come ‘La Coppa di Licurgo’, acquistato nel 1950 dal British Museum, l’enigmatica proprietà del calice ha sconcertato gli scienziati per decenni.

Una prima risposta arrivò solo nel 1990, quando un team di ricercatori inglesi, esaminando alcuni frammenti del calice al microscopio, scoprì che gli artigiani romani furono pionieri nell’utilizzo di nanotecnologie.

 La tecnica consisteva nell’impregnare il vetro con una miscela di particelle di argento e oro, fino a farle raggiungere le dimensioni di 50 nanometri di diametro, meno di un millesimo delle dimensioni di un granello di sale.

 La precisione del lavoro e la miscela esatta dei metalli preziosi suggerisce che gli artigiani Romani sapessero esattamente quello che stavano facendo e che non si tratta di un effetto accidentale.

“Si tratta di un’impresa straordinaria”, spiega Ian Freestone, archeologo presso l’ University College di Londra. La vetusta nanotecnologia funziona in questo modo: quando il calice viene colpito con la luce, gli elettroni delle particelle metalliche vibrano in maniera tale da alterarne il colore, a seconda della posizione dell’osservatore. Ma una ricerca, di cui dà notizia lo Smithsonian Magazine, rivela alcune novità davvero sorprendenti.

Logan Gang Liu, ingegnere presso l’Università dell’Illinois, si è dedicato per anni allo studio del manufatto, fino a capire che questa antica tecnologia romana può avere utilizzi nella medicina, favorendo la diagnosi di alcune malattie e l’individuazione di rischi biologici ai controlli di sicurezza. 

“I romani sapevano come fare e come utilizzare le nanoparticelle per creazioni artistiche”, spiega il ricercatore. “Noi abbiamo cercato di capire se fosse possibile utilizzarla per applicazioni scientifiche”.

 Dal momento che non era possibile utilizzare il prezioso manufatto, il team guidato da Liu ha condotto un esperimento nel quale sono stati creati una serie di recipienti in plastica intrisi di nanoparticelle d’oro e d’argento, realizzando degli equivalenti della Coppa di Licurgo.

Una volta riempito ciascun recipiente con i più diversi materiali, come acqua, olio, zucchero e sale, i ricercatori hanno osservato diversi cambiamenti di colore.

Il prototipo è risultato 100 volte più sensibile dei sensori utilizzati per rilevare i livelli salini in soluzione attualmente in commercio.

Secondo i ricercatori, un giorno questa tecnica potrà essere utilizzata per rilevare agenti patogeni in campioni di saliva o di urina, e per contrastare eventuali terroristi intenzionati a trasportare liquidi pericolosi a bordo degli aerei.

Non è la prima volta che la tecnologia romana sorprende i ricercatori moderni, superando il livello attuale di conoscenza.

Un esempio è dato dallo studio sulla composizione del calcestruzzo romano, rimasto sommerso nelle acque del Mediterraneo per 2 mila anni.

I ricercatori hanno scoperto che la sua composizione è decisamente superiore al calcestruzzo moderno, sia in termini di durata che di ecocompatibilità.

Le conoscenze acquisite dai ricercatori vengono oggi utilizzate per migliorare il cemento che oggi utilizziamo. Non è ironico che gli scienziati si rivolgano alle tecniche utilizzate dai nostri antenati ‘primitivi’ per lo sviluppo di nuove tecnologie?

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it

13/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Nella sua piena maturità artistica, e dopo aver già collezionato almeno 5 film fondamentali per la storia del cinema europeo, e non soltanto europeo,  Wim Wenders realizzò Der Himmel über Berlin avvalendosi nuovamente della stretta collaborazione di Peter Handke, il quale scrisse monologhi e dialoghi del film in progress, mentre il film veniva girato (esistono numerosi aneddoti in proposito).

Quel che ne risultò fu una poetica favola metropolitana, dai valori universali.

La storia del film è quella dell'amore di Damiel per un'acrobata circense.  Dalla fine della seconda guerra mondiale, si immagina, Damiel e Cassiel sono gli angeli vigilanti della città di Berlino, sorvegliando e accudendo i pensieri più intimi della gente.

Nelle pause di lavoro, gli angeli s’incontrano alla biblioteca di Stato, dove Omero, il più anziano di tutti, racconta il passato della città e delle sventure che l’hanno afflitta durante la seconda guerra mondiale. 

Gli angeli, con sottile riferimento teologico, possono essere visti soltanto dai bambini, mentre gli adulti non hanno di loro la benché minima percezione. Viceversa, gli angeli vedono il mondo ma senza poterne cogliere gli aspetti più mondani (la loro vista infatti è in bianco e nero). 

Damiel segue, idealmente innamorato, soprattutto Marion, anche lei sorta di angelo, perché lavora come trapezista di un circo che sta per chiudere per mancanza di spettatori. 

Le domande di Marion intercettano le ansie e i dubbi della contemporaneità: il passaggio inesorabile del tempo, l'annullamento dello spazio perpetrato dalla civiltà moderna ha invertito questo rapporto, ed è così che la dimensione del viaggio è stata annullata. Il problema dell'anima e della identità, e quello del male, che grava sempre sull'uomo. 

A Berlino inoltre si girano le riprese di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha come protagonista Peter Falk, il “tenente Colombo” di una serie televisiva di sceneggiati polizieschi di grande successo. 

Anche lui, si scoprirà, un angelo decaduto dalla propria condizione che è diventato un essere mortale.  Il quale, nelle sue vesti "umane"  convincerà Damiel a incarnarsi, per amore di Marion. 

Precipitato nella condizione umana, Damiel si ritrova accanto al muro che divide in due la città e vede improvvisamente i colori del mondo, provando tutte le sensazioni degli esseri mortali: quelle piacevoli e quelle spiacevoli. 

E' proprio in questa commistione tra umano e angelico, tra uomo e oltre-uomo che il film gioca le sue suggestioni filosofico-poetiche, da Dante ad Heidegger. 

Un film insomma, che si respira come una profonda riflessione sulla condizione umana, ma che vola alto sulle ali della poesia, nel meraviglioso bianco e nero di Henri Alekan.

L'opera di Wenders, tra i mille premi in tutto il mondo, conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1987.

IL CIELO SOPRA BERLINO 
(Der Himmel über Berlin) 
Germania, Francia, 1987, 
Regia Wim Wenders 
durata: 128 minuti
con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk, Otto Sander, Curt Bois 

12/05/19

Poesia della Domenica - "Rammarico per le peonie" di Bai Juyi






Rammarico per le peonie


Sono addolorato per le peonie prima dei gradini, così rosse
alla sera ho scoperto che solo due son rimaste
Una volta che i venti della mattina avranno soffiato,
di certo non sopravviveranno,
la notte le guardo alla luce delle lampada,
per custodire quel rosso che sta svanendo.


10/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 19. "Toro scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese (1980)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 19. "Toro scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese (1980)

Come può una vita intera confluire in un film ?  Sicuramente, per molti versi, Toro scatenato (Raging Bull) realizzato da Martin Scorsese nel 1980 non è soltanto uno dei suoi più grandi capolavori, ma anche il film che - basti leggere il libro-intervista scritto a quattro mani da Scorsese stesso con il giornalista Richard Schickel, Considerazioni su di me e tutto il resto rappresenta la summa delle esperienze vissute da Scorsese all'inizio della sua vita, nella gioventù e nella adolescenza, vissute in quella comunità newyorchese di italo-americani che è lo sfondo e il centro focale di questo magnifico film. 

Toro Scatenato è, come si sa, ispirato dall'autobiografia del pugile italoamericano Jake LaMotta, Raging Bull: My Story, adattata dal grande Paul Schrader, che aveva già sceneggiato per Scorsese Taxi Driver e da Mardik Martin e girato nel meraviglioso bianco e nero di Michael Chapman.

Robert De Niro, nella sua forse più grande interpretazione (che gli valse l'Oscar e innumerevoli altri premi in tutto il mondo) interpreta il ruolo del pugile peso medio, idiota (nel senso dostoevskijano) dal carattere brusco e paranoico, che, cresciuto nel Bronx, si allena tenacemente per raggiungere i vertici della boxe, per poi subire una vera caduta verticale in un degrado ed un cupio dissolvi inesorabile. 

De Niro poi, è più che il semplice interprete di questa storia, visto che fu proprio lui a proporre all'amico Scorsese di realizzare un film dal romanzo autobiografico di La Motta che aveva appena finito di leggere e per il quale voleva assolutamente vestire i panni del protagonista.

E' un film divenuto con gli anni, leggenda.  Anche per le vicende produttive che lo caratterizzarono: dalle esitazioni della United Artists e dei produttori esecutivi spaventati dalla eccessiva violenza, verbale e non, contenuta nel film; ai problemi di salute di Scorsese che non attraversava un buon periodo, sia per problemi d'asma, sia per l'uscita (poco prima dell'inizio delle riprese) dal "tunnel" della dipendenza da cocaina, sia per il fallimento, su ogni fronte (pubblico, critica e spese), del musical New York, New York; dal pazzesco trainer intrapreso da Robert De Niro per girare la seconda parte del film, che comportò, sotto la supervisione del campione di culturismo Franco Columbu, un aumento di peso di circa 30 chili (esempio lampante di un metodo di recitazione estremo, mirato alla riproduzione più  fedele possibile della realtà); all'incredibile montaggio di Thelma Schoonmaker (anche lei premiata con l'Oscar) che rivoluzionò il modo di riprendere le scene pugilistiche, e che fu completato nell'appartamento di Scorsese; all'attenzione maniacale che Scorsese, insieme alla montatrice, dedicarono ad ogni singola inquadratura, motivata dal fatto che il regista era seriamente convinto che dopo il flop di New York New York, questo sarebbe stato il suo ultimo lavoro da regista (quindi una sorta di testamento artistico).  

La trama del film, come dicevamo ispirata alla realtà della società degli immigrati di seconda generazione italo-americani di New York che Scorsese conosceva molto bene, si presenta come una sorta di moderno dramma schakespeariano, in cui la violenza è il linguaggio (la violenza del quartiere, la violenza che a Jake viene richiesta per diventare "qualcuno" e guadagnarsi la celebrità) e in cui la parte del leone è affidata agli intrighi e alle dinamiche familiari, soprattutto quelle tra Jake e il suo fratello-agente intepretato dal geniale Joe Pesci, un rapporto di amore-odio, rivalità, passione, gelosia, paranoia. 

La scalata di Jake verso la gloria sportiva è accompagnata da un progressivo inesorabile allontanamento dalla vita, dalle relazioni umane, e fondamentalmente dalla realtà, con la seconda parte del film che mostra la triste trasformazione di La Motta in una specie di fenomeno da baraccone, alle prese con surreali monologhi comici in locali di quinta categoria. 

Da questo punto di vista quindi il film è anche una variante del più classico dramma faustiano, nel quale vengono sacrificati alla gloria, al successo,  al denaro e ai riconoscimenti, l'autenticità del proprio essere, l'ingenuità del proprio essere e con esso tutto ciò che di autentico esiste nella propria vita.

Appena uscito, il film ricevette pareri contrastanti: alcuni critici ne denunciarono la violenza e la "difficoltà" del personaggio di LaMotta, altri invece ne lodarono il sapiente montaggio e la regia. 

La critica però si accorse subito del valore indiscutibile del film, reazioni che - insieme alle 8 candidature agli Oscar - compensarono almeno parzialmente Scorsese del modesto risultato ai botteghini americani, dominati dai successi stellari di Spielberg e di Lucas degli anni '80. 

A partire dalla fine degli '80 Toro scatenato cominciò ad essere considerato per quel che era: un classico. Nel 1990 il film è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al ventiquattresimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è salito addirittura, e giustamente, al quarto posto. 

Un film che si vede e si rivede, ogni volta emozionandosi, empatizzando e piangendo con il povero diavolo Jake, con le sue vicissitudini molto, ma molto umane. 

Fabrizio Falconi

Toro Scatenato
Raging Bull 
di Martin Scorsese
Stati Uniti, 1980
Durata 129 min
Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty, Frank Vincent, Nicholas Colasanto





08/05/19

La Cripta dei Cappuccini a Roma e il "Fauno di Marmo" di Hawthorne - da "I Fantasmi di Roma"



      Un luogo sicuramente affascinante per ogni appassionato del mistero a Roma – e anche sinistro e tetro – è la Chiesa dei Cappuccini che si trova nella centralissima Via Veneto.
      È un posto che i Romani conoscono bene e che ancora meglio conoscono i turisti, specie quelli anglosassoni che ne apprezzano il contorno gotico.  La Chiesa, il cui nome esatto è Santa Maria della Concezione, fu edificata da Antonio Casoni, famoso architetto che lavorò per le più blasonate famiglie dell’epoca, per conto del cardinale Antonio Marcello Barberini.   Costui era un componente della famosa casata, il cui aspetto severo si può ancora oggi ammirare in un ritratto di Antonio Alberti che fa bella mostra di sé nel Coro della Chiesa stessa.
       Antonio Marcello Barberini era nato a Firenze nel 1569 ed era il fratello di Urbano VIII, il 235mo papa della storia della Chiesa, che lo aveva elevato al rango di Cardinale nel 1624.  Ma Antonio Barberini era anche – e prima di tutto – un fervente frate cappuccino, e di questo Ordine fu anche – vista la potenza della famiglia da cui proveniva – un grande benefattore. 
      Una volta divenuto Cardinale ordinò che fosse edificata una Chiesa, che fu riccamente adornata, e destinata ad ospitare le reliquie di S. Felice da Cantalice,  il primo santo dell’Ordine dei Cappuccini. 
       Ma il motivo per cui questa Chiesa è famosa oggi, è  nascosto nelle sue cinque cappelle sotterranee – alle quali si accede da uno stretto passaggio a destra dell’altare maggiore – che ospitano un arredo davvero unico al mondo.
       Tutte le pareti delle cinque cappelle infatti sono fittamente ricoperte da teschi e ossa di circa 4.000 frati cappuccini morti nel corso dei secoli e qui seppelliti fino al 1870.  A conferire un aspetto particolarmente macabro poi, c’è il pavimento di nuda terra. Nuda terra che – come si tramanda – è quella prelevata dai monaci cappuccini ( i francescani sono da secoli Custodi della Terra Santa) nella prossimità del Calvario di Cristo in Palestina.
       In questo luogo oscuro, i frati del convento attiguo scendevano ogni sera a pregare, prima di andare a dormire,  circondati dagli amabili resti dei loro confratelli che venivano periodicamente riesumati a causa della ristrettezza dello spazio a disposizione.
       Con il passare del tempo, furono allestite e completate una dopo l’altra, una di fila all’altra, la Cripta dei Teschi, dove compare anche una clessidra alata, e scheletri di cappuccini in piedi che sembrano quasi camminare; la Cripta dei Bacini, con un baldacchino dal quale cala un pendaglio di vertebre umane;  la Cripta delle Tibie e dei Femori, con un tondo nella volta realizzato soltanto con mandibole e infine la Cripta dei Tre Scheletri, con al centro un piccolo scheletro che raffigura la morte e brandisce un falcetto, e un orologio che indica con eloquente sintesi la finitudine della vita umana e il passaggio all’aldilà.
       Il fascino che esercitò questo singolare luogo – che ancora oggi suscita brividi nel visitatore -  sugli intellettuali e gli artisti di mezza Europa cominciò quando un visitatore illustre, il Marchese De Sade varcò la soglia della cripta nel 1775.  In Italia il Marchese si era rifugiato dopo che un ennesimo scandalo – aveva coinvolto il suo segretario, cinque ragazze e una domestica in scatenate orge che metteva in scena nelle stanze del suo castello e  alle quali partecipava insieme alla moglie – gli aveva attirato le ira dei tribunali.  L’allora trentacinquenne De Sade intentò allora un lungo viaggio in Italia, visitando Torino, Firenze Venezia e infine anche Roma.  E uno dei luoghi descritti nel resoconto che scrisse al ritorno – Viaggio in Italia – fu proprio la Chiesa dei Cappuccini, che descrisse minutamente, definendolo un monumento funebre degno di una testa inglese.
       Non sorprende questo riferimento, perché in effetti questo luogo sembra, con i suoi macabri scheletri ricomposti nelle pose più bizzarre e con le sue tetre cappelle, sembra proprio appartenere al culto gotico tipicamente anglosassone.
       E fu proprio un grande scrittore anglosassone a celebrarne più di altri il mito, e a raccontarne (con uno sforzo inventivo che probabilmente tenne conto di una leggenda reale) il risvolto più terrorizzante con la materializzazione di un fantasma che divenne l’assoluto protagonista di uno dei suoi più celebrati romanzi.
       Stiamo parlando di Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta,  che – nato a Salem nel Massachussets il 4 luglio del 1804 – è considerato uno dei più grandi scrittori americani.  Hawthorne, come è evidente dall’intera sua opera letteraria,  era un cultore dello straordinario e dell’insolito, forse proprio a causa degli stessi geni che si portava dietro, nel suo dna: un suo antenato era stato infatti uno dei giudici dei celebri processi alle streghe di Salem, andati in scena alla fine del 1600 proprio nella città dove lo scrittore era nato: venti persone, uomini donne e bambini furono giustiziati nel più vergognoso processo per stregoneria allestito nelle nuove terre degli Stati Uniti contro persone che in modo diverso avevano avuto l’imprudenza di raccontare contatti ravvicinati con fantasmi.
       La memoria di quegli orribili fatti che pesavano sin dall’infanzia sulla psicologia di Hawthorne trovò la sua catarsi proprio nella Lettera Scarlatta, il romanzo che lo scrittore pubblicò nel 1850 e che lo consacrò ad un’immensa fortuna letteraria.
       È ovvio che per Hawthorne, proveniente dal puritano stato del New England, la cattolica Italia, con la sua storia millenaria di imperi e di persecuzioni, di magia nera e di bellezza rinascimentale, di intrighi e corruzione, di seduzioni e piaceri, dovesse apparire come una specie di Eden e allo stesso tempo come un luogo pericoloso. Furono esattamente le sensazioni che lo scrittore provò quando, il 24 gennaio del 1858, già piuttosto in là con gli anni, mise piede per la prima volta a Roma.
       La città eterna esercitò sullo scrittore americano un fascino sottilmente ambiguo: all' incanto delle rovine, dei paesaggi romantici che scorrono sotto ai suoi occhi, fanno da contraltare notazioni di costume, caratterizzate dal sospetto, dal profilo inquietante che – come sotto l’occhio di una lente allucinata – intravvede anche nel paesaggio, come quando descrivendo i cipressi di Roma li paragona a fiamme scure di enormi ceri funebri.
       A Roma, Hawthorne soggiorna per un periodo abbastanza lungo,  per immaginare e poi scrivere una delle sue storie più sconcertanti, quella che finirà nel romanzo Il Fauno di Marmo, pubblicato tre anni dopo, nel 1860. 



      In questo romanzo Hawthorne racconta la storia di  un gruppo di amici: Kenyon, uno scultore americano che vive e lavora a Roma, il suo ospite Donatello, giovane e ricco rampollo di una nobile casata toscana, e  Miriam, pittrice amica di Kenyon, e della giovane studentessa Hilda, anch’essa un’americana trasferitasi in Italia. Donatello è per la sua bellezza, scherzosamente accostato dagli amici,  al Fauno di marmo di Prassitele, esposto ai Musei Capitolini; ma il clima di apparente giocosità tra i quattro si interrompe bruscamente quando, durante una visita alle catacombe, Miriam si perde e  cercata affannosamente dai tre amici, viene ritrovata in compagnia di un misterioso figuro, un uomo incappucciato. Lo spettrale individuo sostiene di essere ben noto a Miriam, che appare atterrita dallo strano incontro.
        Il persecutore, l’uomo incappucciato, torna a farsi visita con apparizioni frequenti a Miriam, che nel frattempo ha intrecciato una storia d’amore con Donatello, e la suggestione malefica dello strano personaggio alla fine produce i suoi effetti: sorpreso con Miriam dal Persecutore presso il parapetto della rupe Tarpea, sul Campidoglio, Donatello affronta lo sconosciuto e lo getta nel vuoto.
        Anche Hilda ha assistito non vista alla drammatica scena, e scappa via terrorizzata, disertando la visita che la mattina dopo,  i tre amici,  Kenyon, Miriam e Donatello hanno in programma proprio alla Chiesa dei Cappuccini, in Via Veneto.
        Ed è qui che Hawthorne immagina una delle scene più forti del libro, nel quale il fantasma del persecutore, che è stato appena ucciso da Donatello, torna a farsi vivo e presente, in un capitolo intitolato Il cappuccino morto:  nella navata centrale della Chiesa visitata dai tre amici, infatti si sta celebrando il funerale di un frate morto: si trattava del corpo vero e proprio – scrive Hawthorne – o come si sarebbe potuto supporre a prima vista, del volto di cera abilmente modellato e della figura vestita con cura – di un frate morto. Questa immagine di cera – o di fredda creta viva che fosse – giaceva su una bara leggermente sollevata dal suolo, con tre lunghi ceri accesi da ogni lato.
        Ed ecco che accostandosi a quel corpo, deposto nella bara aperta, Miriam – con un brivido di raccapriccio  - ravvisa atterrita nel morto proprio le fattezze del Persecutore ucciso la sera prima, ed ha persino l’impressione chiara di udirne l’odiosa voce accusatrice.  Il cadavere ha un aspetto inquietante: il cappuccio incornicia un volto purpureo, a differenza del classico pallore dei cadaveri,  le palpebre sono solo parzialmente abbassate, e dal di sotto di esse si intravvedono i bulbi oculari.
        Ad un tratto accade qualcosa di incredibile, una «circostanza che parrebbe troppo fantastica a raccontarsi, se non fosse proprio come la scriviamo».  Difatti, mentre i tre amici si trovano intorno alla bara, un rivolo di sangue comincia a scendere dalle narici del frate morto.
        Kenyon prova a dare una spiegazione scientifica: il frate sarà morto di apoplessia. Ma Miriam non l’accetta, spinge via Donatello, non sa spiegarsi come quel cadavere strano e sconosciuto abbia potuto assumere, mentre lo guarda, i tratti di quella faccia così terribile, impressa nel suo ricordo.  E mentre gli altri si accingono a lasciare la lugubre chiesa, torna indietro, rivolge un ultimo sguardo a quel volto, giunge fino a toccare con la punta delle dita una delle mani giunte del frate.
        « È lui, » dice Miriam, « Ecco sul suo sopracciglio c’è la cicatrice che conosco così bene. E non è una visione; posso toccarlo ! Non voglio più dubitare della realtà, l’affronterò meglio che posso ».
        Pur sconvolta, Miriam non sa allontanarsi da quel luogo: convince anzi Donatello a seguire il sacrestano che li conduce nel cimitero sotto la chiesa, con lo spettacolo di scheletri che abbiamo descritto, e che a sua volta Hawthorne descrive minuziosamente nelle pagine seguenti del capitolo.
        Il sacrestano rivela ai due fidanzati il nome del morto – frate Antonio – e indica loro il luogo della sepoltura, « al posto di un frate che morì trent’anni fa e che adesso si è levato per lasciargli il posto ».
        È la legge di quel luogo, che il sacrestano spiega ai suoi ospiti: quella che per nessuno dei confratelli è previsto un luogo definitivo.  Ma un continuo dissotterrare e smembrare, e riassemblare e fare posto ai nuovi.
        Miriam e Donatello vanno via comprensibilmente angosciati, dopo aver lasciato un’offerta per far celebrare una messa in suffragio dell’anima di frate Antonio.
        Tutto finirebbe lì, se non fosse che nei giorni seguenti nessun giornale parla di omicidi o cadaveri rinvenuti, e che il lampione che Donatello credeva di aver distrutto nella colluttazione è ancora intatto, come riscontra il giovane tornando sul luogo del delitto.
        Sarà soltanto l’inizio di una serie di nuove persecuzioni, nelle quali si scoprirà che il fantasma del Persecutore non ha smesso affatto di perseguitare Miriam e i suoi amici, in primis Donatello, che ha avuto la sfrontatezza di affrontarlo, fino alla catarsi finale – che non riveliamo qui per chi desiderasse avventurarsi nella lettura di questo classico del fantastico – che ha per cornice la più classica delle feste del Carnevale romano, che ai tempi di Hawthorne era davvero qualcosa di memorabile.
        A testimoniare il fatto che il fantasma della Chiesa dei Cappuccini continua ad inquietare anche in epoca moderna, bisognerà ricordare al termine di questo capitolo che dal Fauno di Marmo fu liberamente tratta -  ambientandola ai tempi d’oggi - in Italia, nel 1977, una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, con la regia di Silverio Blasi e Marina Malfatti nei panni di Miriam,  serie che ebbe un notevole successo e divenne in breve tempo un piccolo classico del mystery italiano, sulle orme dell’altrettanto celebre Il segno del comando che aveva fatto da apripista del genere, nel 1971, con un’altra storia di fantasmi che metteva insieme i diari di Lord Byron e i vicoli di Roma.


Fabrizio Falconi - tratto da I Fantasmi di Roma - Newton Compton Editore, 2010, 2018

07/05/19

Esce il 21 giugno "Porpora e Nero" il nuovo romanzo di Fabrizio Falconi



Nel giorno del solstizio d'estate (21 giugno) uscirà Porpora e Nero, un libro al quale ho lavorato lungo un arco di più di dieci anni (gli ultimi dieci anni), con varie riprese, interruzioni dovute anche alla necessità di proseguire gli studi e l'approfondimento delle/sulle cose che andavo raccontando (oltre alla necessità di completare altri libri che nascevano).

E' un romanzo giocato sui toni del noir, ma completamente sui generis. In realtà vi sono confluiti tutti i miei studi degli ultimi anni su Roma, sui misteri, angoli sconosciuti, cose epiche e meno epiche, ma comunque affascinanti, della storia e della vita di questa città.

E' ambientato ai giorni nostri.

E prende il via dal furto di un grande e nobile reperto della storia romana che esiste veramente ed è raffigurato in copertina (la Palla Sansonis con la sua mano), conservato nei Musei Capitolini. 

Il misantropo e refrattario Bonnard viene coinvolto suo malgrado nelle indagini, insieme a Laura, la figlia di un suo grande amore del passato, Maddalena.

Si scoprono così - lungo le 540 pagine del libro - trame, misteri, intrichi e intrighi che hanno per scenario Roma e le sue meraviglie. Spero che chi lo leggerà si divertirà, come mi sono divertito io a scriverlo, imparando magari qualcosa di nuovo e di sorprendente.

Intanto grazie all'editore Ponte Sisto che ha manifestato un interesse di passione pura per questo libro e .. un invito a segnare la data del 16 luglio (martedì, ore 18.00) quando lo presenteremo, navigando sulle acque del Tevere a bordo della nave Cornelia.

06/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh 

E' uno straordinario dramma psicologico, quello messo in scena da Mike Leigh nel 1996 che gli è valso innumerevoli premi, tra cui la Palma d'Oro al Festival di Cannes.

Ed è uno di quei film che restano, che sono già classici, perché incarnano il senso più profondo dei sentimenti umani, ad ogni latitudine, con la freddezza formale di una tela di Vermeer e il calor bianco di un racconto di Maupassant. 

La vicenda raccontata è quella di Hortense, trentenne borghese, di colore,  di mestiere ottica, che alla morte dei genitori adottivi decide di scoprire chi sia la sua madre biologica. 

Scopriamo così che alla periferia di Londra vivono due fratelli, Cynthia e Maurice (fotografo, sposato ma  senza figli), che non si vedono da parecchio tempo. 

Cynthia ha con sé la figlia Roxanne e non ha simpatia per Monica, moglie di Maurice. 

Finalmente questi, che fa il fotografo, rompe gli indugi, va a trovare la sorella e la invita a casa sua per festeggiare tutti insieme il ventunesimo compleanno di Roxanne. 

E' in questo frangente che Cynthia viene contattata da Hortense, scoprendo così che è lei la figlia che ha dato in adozione subito dopo averla partorita a quindici anni. 

Le due donne si incontrano e, dopo i primi attimi di smarrimento (grande è la sorpresa di Hortense nel trovarsi di fronte questa donna bianca, sfiorita, sfiancata dalla vita), cominciano ad uscire insieme ed a ricreare le condizioni per costruire un rapporto affettuoso. 

Cynthia, felice per questo affetto ritrovato, chiede al fratello di poter portare una persona alla festa di compleanno, facendola passare per collega di lavoro. 

Arriva il giorno stabilito, e tutti si ritrovano a casa di Maurice e Monica. Dietro l'apparente allegria, si cela il nervosismo: Cynthia rivela che Hortense è sua figlia e, subito dopo, altre rivelazioni seguono tra i parenti presenti intorno al tavolo. 

Finalmente dalle tante bugie si passa alla verità, e Cynthia può tornare a casa propria, circondata da due figlie che cominciano a conoscersi e a stare insieme.  

Un dramma di grande tensione e di perfetto sviluppo che coinvolge totalmente lo spettatore chiedendogli di muoversi tra i rigidi, durissimi muri che molto spesso avvelenano le relazioni umane e i rapporti famigliari generando sofferenze psicologiche insostenibili. 

In realtà, ci dice Leigh, liberarsi di questi muri, esercitare il perdono, la comprensione, la compassione, l'empatia è ciò che di più difficile è richiesto oggi, e sicuramente però, ciò che ci rende davvero umani.

Arricchisce il film una straordinaria performance del cast, con una meravigliosa Brenda Blethyn su tutti (vincitrice di numerosi film), stimolati da Leigh, il quale ricorse all'espediente, durante la lavorazione, di rivelare a poco a poco agli attori, lo sviluppo delle vicende dei personaggi da loro interpretati, enfatizzando così ancor di più, sui loro volti, l'effetto sorpresa, che si dipana pienamente nella grandiosa scena finale. 

Fabrizio Falconi


Segreti e Bugie
Secrets & Lies
Regia Mike Leigh
Regno Unito 1996
Durata 142 min
con Brenda Blethyn, Timothy Spall, Phyllis Logan, Claire Rushbrook, Marianne Jean-Baptiste

                       




05/05/19

Poesia della Domenica - "Non amare il florido ramo" di Jiddu Krishnamurti



Non amare il florido ramo

Non amare il florido ramo,
non mettere nel tuo cuore
la sua immagine sola;
essa avvizzisce.
Ama l'albero intero,
così amerai il florido ramo,
la foglia tenera e la foglia morta,
il timido bocciolo ed il fiore aperto,
il petalo caduto e la cima ondeggiante,
lo splendido riflesso dell'Amore pieno.
Ama la vita nella sua pienezza,
essa non conosce decadimento
.


04/05/19

Lunedì prossimo, 6 maggio, Conferenza di Fabrizio Falconi su "I Fantasmi di Roma".




In bilico tra storia cittadina millenaria, tradizioni, credenze, archeologia e aneddotica, Lunedì prossimo, 6 maggio, alle ore 16.30 a Roma presso L'Incontro, Via Cortina d'Ampezzo 144, la Conferenza di Fabrizio Falconi (con molte foto) sui Fantasmi di Roma, con le storie che fanno parte del volume omonimo ristampato nella nuova edizione e in tutte le librerie.

L'ingresso è libero.



Libro del Giorno: "Il grande Gatsby" di Francis Scott Fitzgerald



Che romanzo meraviglioso e difficile è Il grande Gastby.

Fuori dall'uso che ne hanno cinema e teatro, ricreando sul grande schermo o sul palcoscenico le ambientazioni di quella New York anni ’20, divisa tra jazz, feste dell’alta società e profonde contraddizioni sociali, a metà tra la fine della Grande Guerra e il periodo della Grande Depressione, il romanzo di Francis S. Fitzgerald, riletto oggi mostra la grandezza del suo sperimentalismo, ardito per l'epoca, esempio anche per l'oggi di ciò che la letteratura dovrebbe essere. 

Un romanzo sospeso e profondo, nel quale i fatti sembrano quasi non succedere, sgranati dentro un tessuto onirico dove il tempo e il sogno si dividono gli spazi e sovrastano l'osservazione realistica. 

Ogni frase di Fitzgerald - anche nella sua costruzione, anche nella semplice scelta degli aggettivi e dei toni di contrasto - ha il potere e la capacità di spiazzare il lettore, negandogli ciò che egli si aspetta,  e lasciandolo in una sorta di limbo in cui è difficile decidere ciò che è vero da ciò che sembra, da ciò che è immaginato o sognato, o intravisto attraverso la coltre del vissuto. 

La trama, in effetti, è riassumibile in poche scarne righe, raccontando le vicende di Jay Gatsby, giovane miliardario dal passato oscuro e dal cuore infranto. 

La sua meravigliosa villa fuori New York, a West Egg è popolata come non mai da avventori di ogni tipo che partecipano, vengono invitati ai suoi lussuosi party, eppure nessuno sembra conoscerlo veramente, nessuno ci scambia una parola, nessuno è veramente suo amico, nessuno sa cosa nasconda nel cuore e nel passato, se non quel Nick Carraway che  è il narratore -  venuto dal West a cercare fortuna a New York -  e che sarà l'unico a rimanergli vicino, fino alla fine.

Nick è il cugino di Daisy Fay, che ha sposato il giocatore di golf Tom Buchanan, marito infedele e assente. Gatsby chiede a Nick di combinare un incontro fra lui e Daisy, perché proprio lei è la ragazza di cui il giovane miliardario si era innamorato anni addietro, prima di partire per la Prima guerra mondiale, dove si è fatto onore ed è stato decorato. 

I pomeriggi passati insieme dai due amanti di un tempo, incoraggeranno Gatsby a illudersi della possibilità di riconquistare la donna amata. 

Ma tutto svanirà, per lui, drammaticamente, durante una gita a New York, cui partecipano anche Nick, l’amica di lei Jordan Baker, e Tom.

Daisy resta muta infatti quando nel confronto con Tom, Gatsby gli chiede di confessare al marito di non averlo mai amato.

Si spezza definitivamente il sogno di Gatsby, fino alla tragedia finale.

Metafora della fine stessa del sogno americano, la vicenda di Gatsby è anche una potente lezione sulla condizione di solitudine dell'essere umano, della impossibilità di vivere con profondità i rapporti umani e i sentimenti, in un mondo convertitosi definitivamente al culto dell'apparenza e della vita superficiale. 

Anche Gatsby, l'uomo che ha osato, che è rinato dalle proprie ceneri, che si è sporcato le mani per raggiungere il suo sogno, resta a mani nude, solo.

Con quell'epitaffio definitivo che è la chiusa, l'ultima frase del libro, nella quale Fitzgerald conchiuse, probabilmente, la consapevolezza della sua stessa vicenda esistenziale: 

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. 

Francis Scott Fitzgerald
Il grande Gatsby
Traduzione di Fernanda Pivano
Mondadori Editore, 1950
pp. 215


03/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 17. Nodo alla gola (Rope) di Alfred Hitchcock (1948)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 17. Nodo alla gola (Rope) di Alfred Hitchcock (1948)

Tra i mille gioielli inventati, diretti e realizzati dal grande Alfred Hitchcock spicca questo film sperimentale, considerato a lungo uno dei suoi minori, e poi divenuto - dalla riscoperta di Truffaut e della Nouvelle Vague francese - uno dei più importanti, probabilmente, della storia del cinema.

Hitchcock, infatti, per questo film, sfidò le leggi della narrazione comune e consolidate dell'arte cinematografica, inventando una storia che si consuma in tempo reale, in un unico ambiente,  e con un montaggio di dieci piani-sequenza, la maggior parte dei quali collegati uno all'altro, in modo da apparire come un'unica ripresa.

Per far questo Hitch, che aveva 48 anni scelse la pièce Rope di Patrick Hamilton, ispirato a un avvenimento di cronaca nera, l'assassinio di un bambino commesso nel 1924 da Nathan Freudenthal Leopold Jr. e Richard A. Loeb, una coppia di giovani uniti da un legame omosessuale.

Il delitto aveva sconvolto l'America per la sua assenza di movente (la vittima fu scelta a caso e il crimine aveva il solo scopo di commettere un delitto per il gusto estetico di compierlo). Hitch prese a pretesto questo caso, modificandone tutti i dettagli, insieme a Hume Cronyn e Arthur Laurents con cui lavorò alla sceneggiatura. per preparare la sceneggiatura, adattando il dramma preesistente.

Una volta deciso, al millimetro il copione, le riprese furono preparata con un lavoro minuziosissimo, perché tutto il film avrebbe dovuto essere girato in piano sequenza.  Il pavimento fu così segnato con cerchi numerati, mentre intere pareti dell'appartamento scivolavano via per permettere alla macchina da presa di seguire gli attori. Inoltre, un particolare dispositivo, chiamato cyclorama, consentiva di riprodurre in miniatura 35 miglia del profilo di New York, illuminato da 8000 lampadine a incandescenza, che resta come sfondo di tutte le riprese, attraverso le grandi vetrate dell'attico in cui avviene la vicenda.

Vicenda che è presto raccontata: poco prima di un ricevimento nel loro appartamento a New York, Brandon Shaw e Phillip Morgan, due giovani raffinati presunti omosessuali e conviventi, nel corso di una lite uccidono strangolandolo con una corda l'amico David Kentley, giunto in anticipo all'appuntamento, e ne nascondono il corpo in un baule antico sul quale, per evitare che possa essere aperto, viene preparata la tavola per il party.

Nonostante l'accaduto s'inizia la festa, a cui sono stati invitati anche il padre del ragazzo ucciso, la sua fidanzata Janet Walker e il suo ex migliore amico Kenneth, che in precedenza aveva avuto una relazione con Janet.

Brandon ha inoltre invitato anche il loro ex professore Rupert Cadell (James Stewart, alla sua prima prova con Hitchcock), ammirato per le sue teorie sulla relatività dei concetti di bene e male e sull'omicidio come privilegio riservato a pochi eletti.

Inizia così una drammatica tragica e sottesa partita a scacchi tra il professore e i due ragazzi, che dissimulano l'assenza della vittima dietro una serie di scuse sospette, provocando continuamente il professore sulle teorie che egli ha insegnato e conducendole alle estreme conseguenze, fino al finale nel quale Cadell, avendo intuito cosa è realmente successo, torna in casa con un pretesto dopo la fine della festa, induce Brandon a confessare e poi spara tre colpi di rivoltella fuori dalla finestra. Il film si chiude con i tre che attendono inerti l’arrivo della polizia allertata dai vicini.

Nodo alla Gola, dunque è più che un esperimento di cinema (o di teatro) totale, nel quale la macchina da presa diventa appunto il terzo occhio, quello dello spettatore che sa - sa tutto, dall'antefatto - quello che è realmente successo, sa perfino dove si trova il corpo della vittima, ed è costretto a tifare per l'investigazione del professore.

Il quale, nella versione finale, non è certamente un cattivo maestro, ma che forse durante il racconto e alla fine è costretto a riflettere sugli equivoci e sul letale fraintendimento che i suoi insegnamenti hanno provocato.

Ciò che interessava Hitchcock era una meditazione sui meccanismi dell'omicidio gratuito, quello senza movente, fatto semplicemente per assecondare una perversa base estetica personale superomistica.  Un tema che già in letteratura era stato ampiamente indagato - a partire dalla equivocata teoria dell'Oltreuomo di Nietzsche - da Edgar Allan Poe, da Dostoevskij in Delitto e Castigo o da André Gide ne I Sotterranei del Vaticano.

Il film, che dura solo 77 minuti, si presenta dunque come un incredibile compendio di tecnica del cinema - qui portata a livelli di sperimentazione futuristici per l'epoca di cui si tratta - e della narrazione nel cinema, oltre che una potente meditazione sull'abisso del cuore umano, e sulla banalità del male.

In barba al vigente rigidissimo Codice Hays, che all'epoca censurava ogni riferimento non in linea con quelli che venivano sani costumi sessuali, Hitchcock anche in questo seppe essere trasgressivo: pur non essendo infatti esplicitato il rapporto omosessuale tra Brandon e Philip, esso è nel film fortemente accennato grazie ad allusioni e ed elegantissime caratterizzazioni dei personaggi.

Nodo alla Gola
(Rope)
di Alfred Hitchcock
USA 1948
con John Dall, Farley Granger, James Stewart, Joan Chandler
durata 77 minuti



30/04/19

"La Piccola Londra a Roma" - Un mio video per Idealista.it




Pubblico il video-intervista che ho realizzato - grazie all'invito e alla cortesia di Stefania Giudice - alla cosiddetta Piccola Londra, uno dei quartieri (anche se qui si tratta soltanto di un paio di strade) più curiosi e pieni di fascino di Roma. 



29/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991) 

Scorrono sullo schermo i tetti grigi di Parigi e quelli di Cracovia.  Due meravigliose città fanno da sfondo al capolavoro di Kieślowski, girato 3 anni dopo aver concluso l'opera - pensata per la televisione - del Decalogo, ispirata dai dieci comandamenti, reinterpretati ad una luce del tutto personale e contestualizzati nella vita moderna

La Doppia Vita di Veronica precede inoltre il trittico dei Film Blu, Bianco e Rosso (usciti nel 1993 e 1994 e dedicati ai tre colori della bandiera francese), omaggio al paese che era divenuto quello di adozione per il grande regista polacco, dopo le mille difficoltà avute durante il regime comunista nel suo paese all'epoca di Solidarnosc e della repressione violenta dello sciopero di Danzica. 

Nel mezzo dei due cicli, Kieślowski trova forse il suo gioiello più puro. 

Tratto da un copione scritto dallo stesso Kieślowski insieme all'inseparabile Krzysztof Piesiewicz, il film racconta le vicende di una cantante polacca, Weronika, dotata di una voce sublime.  In trasferta a a Cracovia per far visita alla zia malata, Weronika viene notata dal direttore d'orchestra che le dà una parte nel concerto che si deve svolgere da lì a qualche giorno.  Proprio però durante quel giorno però, durante il concerto, Weronika cade a terra e muore.

Qualcosa di misterioso è accaduto qualche giorno prima della sua morte: una mattina, infatti, per le strade di Cracovia, infatti, Weronika, aveva visto salire su un pullman una turista che ha il suo identico aspetto, una perfetta sosia. 

Dopo la morte di Weronika, la narrazione si trasferisce dunque a Parigi, dove Véronique, la ragazza francese che Weronika ha intravisto quel giorno, si sente tutto d'un tratto strana: ha la sensazione di essere sola al mondo. Così, dopo aver saputo dal proprio medico di avere gravi problemi di cuore,  va dal proprio maestro di musica ed annuncia di voler smettere di cantare.

Divenuta insegnante di canto, Véronique un giorno conosce un marionettista che si esibisce in uno spettacolo nella scuola, Alexandre, con il quale la ragazza inizia una relazione. 

Una notte, in una stanza d'albergo, Alexandre fa notare a Véronique che in una foto del suo viaggio in Polonia c'è una donna uguale a lei; Véronique scoppia in lacrime. 

Alexandre costruisce una marionetta con le sembianze di Véronique, e visto che ne costruisce anche un'altra per sicurezza, comincia ad inventare la storia di due donne identiche nate lo stesso giorno, in città diverse ma unite psicologicamente.

Il poeta con la cinepresa - Kieślowski - costruisce qui un meccanismo perfetto, dai mille simboli e dalle mille interpretazioni.  Il riferimento più esplicito è quello alla vita dello stesso Kieślowski, che per continuare la sua carriera artistica, creativa, ha dovuto "uccidere" la propria parte polacca, e rinascere - preservandosi - nella sua parte francese.  Ma il film è anche una profonda meditazione sulla individualità umana, sulla profondità dell'anima - in collegamento costante con l'anima mundi - sui mondi psicologici - inconscio, emotività/ razionalità, pensiero - che costituiscono il mistero della persona umana.

Il tema del doppio, che la letteratura ha così lungamente indagato, da von Chamisso a Dostoevskij -  trova nel cinema di Kieślowski un altro suggestivo svolgimento, questa volta per immagini, grazie anche al volto di Irène Jacob, attrice icona per il regista polacco (che tornerà a lavorare con lui qualche anno più tardi con Film Rosso, l'ultimo film girato da Kieślowski, stroncato da un infarto a Varsavia a soli 55 anni).

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 1991, La Doppia Vita di Veronica ottenne il riconoscimento per la miglior interpretazione femminile.



26/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 15. Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon) di Sidney Lumet (1975)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 15. Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon) di Sidney Lumet  (1975) 

Da vero artigiano del grande cinema, Sidney Lumet (Philadelphia 1924 - New York 2011) ha realizzato, quasi in sordina, una serie incredibile di capolavori, da La parola ai giurati a Pelle di serpente (1960), da La collina del disonore (1965) a Serpico (1973) a Il verdetto (1982). 

Su tutti, scelgo Quel pomeriggio di un giorno da cani, sceneggiato da Frank Pierson (premiato con l'Oscar, unica statuetta su 6 nominations) e interpretato da uno straordinario Al Pacino (insieme a John Cazale, Chris Sarandon, James Broderick e Charles Durning) 

Come si sa, il film è basato sugli eventi di una vera rapina tentata in una banca di New York (anche se il film si discosta parecchio dagli eventi reali), nel quartiere di Brooklyn, avvenuta il 22 agosto del 1972 ed è incentrato su uno dei due rapinatori, Sonny Wojtowicz, che con il complice Salvatore Naturale tenne in ostaggio i dipendenti dell'istituto. 

Nel film, i tre rapinatori iniziali che entrano in una banca poco prima dell'orario di chiusura e, al momento opportuno, bloccano il personale, diventano subito due, perché il più giovane di loro, impaurito abbandona il colpo. Rimangono Sonny e Sal. 

La rapina va decisamente male: i due scoprono che la cassaforte è vuota (il furgone portavalori è appena passato) e quando stanno per uscire, la polizia è schierata fuori dall'edificio e li tiene sotto controllo. Sonny allora decide di prendere in ostaggio tutti i dipendenti. E cominciano le lunghe, estenuanti trattative con le forze dell'ordine. 

La trattativa è personale: Sonny parla direttamente con una persona sola: Eugene Moretti della polizia municipale. Sonny avverte Moretti che lui e il suo complice hanno degli ostaggi e che li uccideranno se qualcuno proverà a entrare nella banca. Moretti avvia il negoziato per il rilascio degli ostaggi, sotto il controllo dell'agente dell'FBI Sheldon. 

La particolarità del rapimento è, ovviamente - e questo interessa a Lumet - la spettacolarizzazione dello stesso. Con le televisioni che riprendono  e la gente che assiste fuori che dopo poco comincia a fare il tifo per Sonny, percependo che si tratta, in fondo, di un povero diavolo. 

Dopo aver concluso che una semplice fuga è impossibile, Sonny chiede a Moretti un aereo che porti lui e Sal fuori dal paese. 

Intanto i poliziotti scoprono che Sonny ha non soltanto una moglie, Angela, e due figli, ma anche un compagno, Leon, con cui si è "sposato" l'anno prima. 

La polizia lo interroga e scopre che Leon desidera sottoporsi a un intervento di riassegnazione sessuale. 

Lo ha già detto a Sonny, che vorrebbe aiutarlo ma non ha i soldi necessari. Moretti intuisce che questo è il movente della tentata rapina. Cerca di convincere Leon a parlare con Sonny, ma Leon rifiuta. 

Alla fine della estenuante trattativa, complice il caldo atroce, Sheldon sembra cedere e segnala che un autobus arriverà entro dieci minuti per portarli al loro aereo. 

Prima di uscire dalla banca, Sonny detta il suo testamento a un'impiegata. Donerà i soldi della sua assicurazione sulla vita in parte a Leon per l'operazione chirurgica e in parte alla moglie Angela e ai figli. 

Quando l'autobus arriva, Sonny controlla che sull'automezzo non siano state nascoste armi. Sonny siede accanto all'autista, mentre Sal siede dietro. Arrivati all'aeroporto, il tragico epilogo: Sal muore colpito dalla pistola dell'autista, mentre Sonny  è arrestato e gli ostaggi liberati. Sonny piange guardando il corpo di Sal che viene portato via in barella.

La prospettiva tutta dalla parte del carnefice/vittima, Sonny, un magnifico looser, un disperato cui nella vita non è riuscito nessun salto in alto, ma solo un faticosissimo arrembare, rende il film empaticamente irresistibile. 

La sceneggiatura - in tempo reale - è perfetta e non perde un colpo. Pacino aderisce a Sonny in modo totale, sulla base di quel metodo Actor's Studio leggendario. 

A distanza di molti anni, il film non ha perso freschezza ed è il racconto di una parabola umana condivisibile ad ogni latitudine. 

E' anzi, uno di quei classici, che il passare del tempo nobilita. Nel 2006 il magazine Premier fece la sua classifica delle 100 migliori performance di tutti i tempi e l'interpretazione di Sonny da parte di Al Pacino è stata posizionata al 4º posto. Nel 2009 la pellicola è stata scelta per essere conservata nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Fabrizio Falconi