19/03/18

Ritrovata la Triumph di "Marcello" ne "La dolce vita": era a Rimini.


Chi non ricorda la meravigliosa Triumph nera guidata da Marcello, ne "La Dolce Vita", con la quale Mastroianni scarrozza di notte la meravigliosa Anita in giro per Roma ? 

Ebbene, è stata ritrovata da un appassionato di auto d'epoca, Filippo Berselli, avvocato ed ex parlamentare. 

L'auto - considerata al terzo posto in una classifica americana delle 10 più celebri della storia del cinema - è stata ritrovata per caso. Berselli era da tempo a caccia di una Triumph T3 - lo stesso modello di quella de La Dolce Vita e su internet si è imbattuto proprio nella vendita di un esemplare di questa auto, subito incuriosito dal fatto che fosse stata immatricolata sin dall'origine in Italia. 

Contattato il venditore e dopo una breve trattativa la acquista.  Salvo scoprire poco dopo, dall'esame cronologico del Pra che la targa di prima immatricolazione era stata Roma 324229 e risaliva al 15 luglio 1958.  

Da un esame più approfondito della carta di circolazione, Berselli scopriva poi che dopo un paio di passaggi proprietari, l'auto era stata rivenduta nel maggio 1959 alla società di produzione film Riama: proprio la società di Rizzoli e Amato che aveva prodotto La Dolce Vita. 

Ricostruendo la vicenda per intero, Berselli ha appurato che il primo proprietario fu Armando Berni, nipote del re delle fettuccine Alfredo dell'omonimo, celebre ristorante di Piazza Augusto Imperatore, che all'epoca era frequentato dal jet-set internazionale.  


Nei mesi successivi Berni  intestò poi l'automobile a Maurizio Conti che all'epoca era un attore alle prime armi, con qualche particina in pellicole del genere Peplum e anche nel Bell'Antonio a fianco di Mastroianni e anche ne La Dolce Vita.

Anche Conti frequentava il ristorante Alfredo ed era amico di Armando Berni. Rintracciato da Berselli, Maurizio Conti - ancora vivo e in forma, ha raccontato di non aver mai guidato la vettura, ma di aver fatto soltanto da prestanome al Berni, che forse aveva già troppe auto intestate. 

A un certo punto, Armando evidentemente decise di riappropriarsi della macchina: aveva avuto un'offerta da Fellini stesso, o dai produttori, che frequentavano il ristorante della Dolce Vita. E così la Triumph passò nelle mani della Riama cinematografica. 

Oggi l'auto, dopo essere stata esposta nel 2016 nella rassegna Effetto Notte - e dopo un accurato restauro in una carrozzeria di Rimini (per incredibile coincidenza era andata a finire proprio nella città del Regista....) - fa bella mostra di sé in importanti rassegne d'auto d'epoca internazionali.

Fabrizio Falconi

fonte: Emilia Costantini, Quella spider che segnò la Dolce Vita, il Corriere della Sera, 18 giugno 2016.



16/03/18

Ecco i Sette Nuovi Musei da visitare nel 2018 !

Il Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi

I sette musei da visitare nel 2018

Dal Louvre di Abu Dhabi alla Casa Lego danese, dall’Urban Nation di Berlino alla Zeitz Mocaa di Città del Capo; ecco i nuovissimi luoghi della cultura che meritano un viaggio.


Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi
Inaugurato lo scorso novembre, il faraonico museo Louvre Abu Dhabifirmato dall’architetto Jean-Nouvel, è una meraviglia architettonica tutta da scoprire. Sorge sull’isola Saadiyat, non lontano dal cuore finanziario della capitale degli Emirati, ed è formato da 55 edifici bianchi ispirati a una Medina orientale, coperti da una cupola in acciaio di 180 metri di diametro. Il museo ospita opere di tutte le epoche e civiltà; tra i pezzi esposti più prestigiosi ci sono un Corano del VI secolo, una Bibbia gotica e una Torah dello Yemen come simbolo di fratellanza e di scambio di culture. Il museo offre dunque uno sguardo sull’arte universale - dalla Preistoria fino ai giorni nostri, passando per l’Antico Egitto, la Grecia e la Roma imperiale - con più di 300 opere provenienti da 13 musei francesi e varie sezioni dedicate alle mostre temporanee; solo una piccola parte, con 23 gallerie permanenti, è invece destinato all’arte moderna e contemporanea. Info:www.louvreabudhabi.ae
Curiosità: la cupola che ricopre il museo è pesante quasi quanto la Torre Eiffel ed è formata da 7.850 stelle metalliche, che creano un gioco di luci e ombre ispirato ai suk orientali. Il Paese ha pagato quasi un miliardo di euro al governo francese per poter usare per 30 anni il nome del suo museo più famoso, il Louvre.

Lego House, Danimarca
E’ nato lo scorso settembre a Billund, la città natale della Lego in Danimarca, il museo dedicato ai mattoncini colorati più famosi al mondo. La casa della Lego è un luogo dove grandi e piccoli possono divertirsi giocando e creando, secondo la filosofia della celebre azienda danese. Sorge su 12mila metri quadrati nel cuore della città di Billund e ospita 21 blocchi con attrazioni a pagamento e spazi all’aperto, come la Lego Square, una grande piazza al centro del museo dove gli ospiti possono giocare liberamente o concedersi un’esperienza gourmet in uno dei 3 ristoranti presenti. Cuore della Lego House sono le “experience zones”, che si sviluppano in 4 aree di gioco colorate, dove ogni colore rappresenta un aspetto dell’apprendimento dei bambini: rosso è creativo, blu cognitivo, verde sociale e giallo emozionale. Completano l’esperienza una magnifica galleria “Masterpiece” dove i visitatori possono esporre le proprie creazioni e la “History Collection”, uno spazio dedicato al racconto e alla storia dell’azienda.
Curiosità: i 21 blocchi del museo sono sovrapposti in modo sfalsato, proprio come i mattoncini Lego; la facciata è ricoperta da tegole in cotto che danno l’impressione di essere un mattonicino, così come il tetto, coronato da un gigantesco Lego in scala gigante. Non lontano dal museo sorge il parco dei divertimenti Legoland dove il mondo in miniatura è fatto di mattoncini colorati.

Urban Nation, Germania
Nel quartiere Schöneberg di Berlino è nato da pochi mesi il primo museo dedicato all’esposizione, allo studio e alla promozione della street art, l’arte contemporanea urbana, che vanta anche una biblioteca tematica con oggetti e più di 5mila libri, donati da Martha Cooper, la reporter americana che negli anni Settanta documentò la nascita del fenomeno artistico a New York. Il museo rappresenta un punto di riferimento importante per artisti, appassionati d’arte, berlinesi e turisti e offre un laboratorio didattico agli studenti. La facciata del museo, disposto su due piani con muri alti sette metri, è ricoperta di grandi pannelli modulari sui quali gli artisti realizzano graffiti e murales; i pannelli con le opere d’arte sono rimovibili per poter essere trasportati in altre parti della città o conservati all’interno del museo. Info: urban-nation.com
Curiosità: un corridoio/passerella all’interno del museo tra murales e graffiti crea un effetto “distanza”, come se le opere fossero sulla strada o sulle pareti di muri o edifici in giro per la città. “Il museo”, ha spiegato l’architetto progettista Thomas Willemeit “deve riflettere l’aspetto dinamico e non convenzionale della street art”.

Musée YSL Marrakech, Marocco
Inaugurato lo scorso ottobre in un palazzo color ocra con una cornice in pizzo di mattoni, il nuovo museo dedicato a Yves Saint Laurent è un omaggio alla moda e alla creatività dello stilista francese, scomparso dieci anni fa, e allo speciale rapporto d’amore che aveva con Marrakech, luogo ispiratore delle sue collezioni. Dal primo viaggio nella città marocchina nel 1966, infatti, lo stilista francese non smise di tornarci fino al 1980 quando la scelse come seconda casa, vivendo nella villa ai Jardin Majorelle con il compagno Pierre Bergé, uno dei luoghi che ogni visitatore ammira arrivando a Marrakech, tra le piante di cactus del giardino botanico e il blu cobalto delle pareti della villa. Il museo dedicato a Yves Saint Laurent, voluto della Fondation Pierre Bergé–Yves Saint Laurent e costruito vicino ai giardini Majorelle, è stato concepito come un grande centro culturale che comprende uno spazio espositivo permanente, una galleria temporanea di mostre, una biblioteca di ricerca, un auditorium, una libreria e una caffetteria con terrazza. La facciata è un raffinato incastro di volumi quadrati e circolari, alti e bassi, pieni e vuoti, che ricorda le sculture cubiste; i materiali usati sono tipicamente maghrebini: terracotta, pietra, ceramica e marmo. Se l’esterno è opaco, l’interno è volutamente luminoso, liscio e vellutato proprio come il rivestimento di una giacca sartoriale. Info: www.museeyslmarrakech.com
Curiositàal piano interrato c’è il dipartimento di conservazione: è una “camera di Tutankhamon”, un luogo speciale supportato da sofisticati sistemi hi-tech che oltre a conservare a temperature ottimali, è in grado di anticipare, prevenire e ostacolare il deterioramento naturale dei pezzi esposti, cioè di scarpe, cappelli, gioielli, vestiti a trapezio, cappotti di lamé, cappe di taffetà con buganvillee ricamate e altri capi d’alta moda.

Wien Museum Beethoven Museum, Austria
Da fine novembre Vienna ha un nuovo museo dedicato al grande compositore Ludwig van Beethoven, che nella capitale viennese visse molto a lungo, prima per prendere lezioni da Mozart e poi come allievo di Joseph Haydn. Il nuovo museo, che si trova al 6 di Probusgasse nel distretto termale di Heiligenstadt, fuori dal centro della capitale, è il risultato dell’ampliamento di uno degli appartamenti dove visse il compositore tedesco, che qui cercò di curare i disturbi all’udito di cui soffriva. L’allestimento museale, moderrno e interattivo, permette di conoscere la storia della cultura viennese tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento e di approfondire la figura di uno dei massimi compositori di tutti i tempi. All’interno 14 stanze raccontano attraverso gli oggetti e le testimonianze alcune tematiche legate alla vita e alle opere di Beethoven: la storia della casa, il trasferimento da Bonn a Vienna, il soggiorno a Heiligenstadt, le composizioni e le rappresentazione teatrali dell’epoca. In questa casa-museo a 32 anni Beethoven, in preda a un profondo sconforto, scrisse il “Testamento di Heiligenstadt”, una lettera ai fratelli, che non fu mai spedita, dopo aver appreso di essere destinato alla sordità. Sempre in questo appartamento si dedicò alla stesura di alcune opere, tra cui le tre sonate per pianoforte che compongono l’Op. 31, l’oratorio “Christus am Ölberge” e la “Sinfonia eroica”. Info: www.wienmuseum.at/de/standorte/beethoven-museum.html
Curiosità: nel museo sono esposti tubi acustici, una buca del suggeritore che Beethoven metteva sul pianoforte per amplificare il suono, e alcune uova, che simboleggiano il carattere irascibile del compositore. Nelle “stazioni” sonore, inoltre, si può avere una percezione simulata dell’affievolirsi dell’udito del compositore tedesco.

Zeitz Mocaa, Sudafrica
Il Museum of Contemporary Art Africa, inaugurato lo scorso settembre a Città del Capo, è il punto di riferimento per l’arte contemporanea nel continente africano, un Paese dalle molte potenzialità e in continua attesa di rilancio. Il museo Zeitz Mocaa potrebbe finalmente rappresentare questa possibilità grazie anche all’intervento di un ente no profit che sostiene gli artisti africani. Gran parte delle opere sono di proprietà del collezionista tedesco Jochen Zeitz, ma presto arriveranno nuove risorse e nuovi curatori, che punteranno sugli artisti africani e su elementi quali la multimedialità e le piattaforme digitali. L’enorme museo, dall’architettura spettacolare, è stato progettato dal britannico Thomas Heatherwick ed è di proprietà di V&A Waterfront, la società che possiede l’area del porto della capitale sudafricana. All’interno si trovano 80 gallerie, una collezione permanente, mostre temporanee e un centro per la fotografia, oltre a ristoranti e a un centro commerciale. Info: zeitzmocaa.museum
Curiosità: i 9.500 metri quadrati della struttura sono distribuiti su 9 piani, ai quali si accede da un imponente atrio che il progettista ha realizzato a forma di chicco di mais dei silos di cemento, dove un tempo si immagazzinava il grano.

Thomas Dane Gallery, Italia
Il gallerista inglese Thomas Dane ha inaugurato a fine gennaio un nuovo spazio espositivo al primo piano di Casa Ruffo, splendido palazzo ottocentesco nel cuore di via Chiaia, a Napoli. Un’elegante atmosfera neoclassica domina le 5 sale espositive, gli uffici e il grande salone centrale della galleria di Casa Ruffo, raffinato e sobrio, con una veranda che collega le opere dell’interno con la città campana; una splendida terrazza si affaccia su Capri e regala uno scenario mozzafiato. La galleria, che ogni mese ospita nuove esposizioni, è stata affidata alla direzione di Federica Sheehan, che formatasi tra New York e Milano, vive stabilmente a Napoli da sette anni. Info: www.thomasdanegallery.com
Curiosità: per Thomas Dane quella di Napoli è la prima sede esterna, la prima esperienza di galleria fuori da Londra; “Siamo rimasti molto colpiti“, racconta il gallerista, “dal grande riscontro ricevuto. Sono venute tantissime persone provenienti da tutta Europa, sicuramente per il grande interesse che questa città generaVolevamo essere presenti”, ha continuato Thomas Dane in una città ricca di storia e di opportunità per i nostri artisti. È una città unica, con la sua grande cultura e le sue peculiarità”.

15/03/18

La celebre foto di Benigni e Berlinguer: un ricordo personale.


Avevo 24 anni e quel giorno era un magnifico pomeriggio di giugno, quando Roma ancora non si era trasformata in una città dal clima sub-tropicale, con temperature a 40 gradi e siccità terribile. 

Sulla terrazza del Pincio soffiava il ponentino, e noi ragazzi - che frequentavamo Villa Borghese come il nostro magnifico jardin d'été - fummo attratti dai suoni amplificati di una band che provava un concerto sul palco allestito proprio dirimpetto alla balaustra del Valadier. 

Era per l'esattezza venerdì 17 giugno del 1983 e il Partito Comunista aveva organizzato diverse manifestazioni in giro per Roma, di cui questa al Pincio. 

Di lì a qualche giorno, il 26 giugno si sarebbe votato per le elezioni politiche, quelle che avrebbero visto un deciso calo della Democrazia Cristiana e il PCI quasi al 30 per cento (dopo quelle elezioni il presidente del Consiglio sarebbe diventato, per la prima volta, il socialista Bettino Craxi). 

Al contrario di come si è immaginato dopo quella celebre foto, c'era pochissima gente di fronte al palco in quel pomeriggio - non più di un centinaio di persone, perlopiù curiosi come noi che erano venuti ad assistere alle prove del concerto, in programma qualche ora più tardi. 

Sul palco c'era già però Roberto Benigni, che era già molto amato e che qualche anno prima, nel 1977, aveva interpretato il film diretto da Giuseppe Bertolucci, Berlinguer ti voglio bene

Benigni, come era suo stile, accorgendosi che già un po' di pubblico s'era radunato, mise in scena un ironico comizio di una decina di minuti, facendo sbellicare i presenti. Ma la vera sorpresa accade qualche minuto dopo. 

Successe infatti che sul palco si materializzò all'improvviso nientemeno che il segretario del PCI  Enrico Berlinguer, il quale in quei giorni di campagna elettorale girava per Roma visitando i diversi palchi allestiti in città.

Forse aveva promesso a Benigni - e al giovanissimo Walter Veltroni che aveva organizzato la manifestazione del Pincio e che si intravvede infatti chiaramente in piedi sullo sfondo nella fotografia - di fare una apparizione. 

Non appena Benigni lo scorse, di lato al palco, lo chiamò, lo fece venire al microfono di fianco a sé e disse, dopo avergli stretto la mano: “io vorrei prenderlo in collo ma lui non si farà prendere, sarebbe il mio sogno prendere in collo Enrico Berlinguer”. 


Così avvenne: sotto i nostri occhi stupefatti, subito dopo lo prese effettivamente in braccio per pochi secondi. Berlinguer non si sottrasse al gesto e sorrise di gusto allo scherzo del toscanaccio. 


La scena fu la fortuna di un paio di paparazzi, che si trovavano lì per l'occasione e che realizzarono una foto divenuta poi incredibilmente famosa, anche all'estero.

Enrico Berlinguer, protagonista della svolta "eurocomunista"" – aveva da poco portato il PCI, il maggior partito comunista nell’Europa occidentale, al miglior risultato mai raggiunto, il 34,4 per cento alle elezioni politiche del 1976. 

Era poi seguito, appena due anni più tardi il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e il suo assassinio, che inaugurarono una stagione difficilissima per l'Italia e anche e soprattutto per la sinistra italiana. 

Berlinguer morì appena un anno dopo questa foto: l’11 giugno 1984, a Padova, dopo l'ictus che lo aveva colpito quattro giorni prima, mentre stava tenendo un comizio in piazza della Frutta. 

Si concludeva così, drammaticamente, una intera stagione politica. 

A noi, giovani di allora, aver assistito al bagliore - questo sì, assai romantico - di questo fecondo tramonto. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata.


++ Scoperto autoritratto di Michelangelo in un disegno ! ++




Michelangelo potrebbe aver nascosto una sua caricatura nel ritratto dell'amica e poetessa Vittoria Colonna, eseguito nel 1525 e oggi conservato al British Museumdi Londra: e' la piccola sagoma di un uomo intento a dipingere, quella che emerge osservando attentamente i tratti di penna che definiscono le pieghe dell'abito della nobildonna, all'altezza dell'addome. 

A indicarlo e' lo studio pubblicato sulla rivista Clinical Anatomy da Deivis de Campos, dell'Universita' federale di Scienze della salute di Porto Alegre, in Brasile. 

fonte ANSA

"I due più importanti incontri della mia vita: con Krishnamurti e con Albert Einstein". Una bellissima intervista a proposito del grande fisico David Bohm.

David Bohm con Krishnamurti

Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Simeon Alev allo scrittore e fisico David F. Peat - che oggi vive in Italia, in Toscana - per la rivista digitale Innernet.

David Peat è stato per molti anni amico intimo e biografo di uno dei più grandi fisici del Novecento, David Bohm. 

In questa bellissima e lunga intervista, Peat racconta l'amicizia di Bohm con Krishnamurti, la loro lunga proficua collaborazione, i loro dialoghi, e l'altra con Albert Einstein. Si parla di fisica, del senso della nostra vita biologica nell'Universo, della Teoria dei Quanti, della meccanica quantistica, delle teorie unificanti e di molto altro.  Buona lettura. 

La vita di molti scienziati fu influenzata dal grande insegnante spirituale J. Krishnamurti, ma nessuno di loro ebbe un rapporto intimo e duraturo con lui come lo ebbe David Bohm.
Bohm e Krishnamurti si incontrarono la prima volta nel 1961 e la loro amicizia si protrasse fino alla morte di Krishnamurti, nel 1986 (anche se nel 1984 entrò in crisi).
Bohm iniziò la carriera come pupillo di J. Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project, il progetto finalizzato alla realizzazione della bomba atomica, durante la seconda guerra mondiale. All’epoca del suo primo incontro con Krishnamurti, Bohm si era già guadagnato una grande e discussa fama come uno dei più brillanti fisici teoretici della nostra era. Egli aveva sviluppato la teoria del plasma – il quarto stato conosciuto della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso – e la sua analisi del comportamento plasmatico degli elettroni nei metalli aveva posto le fondamenta per gran parte della fisica degli stati solidi.
Bohm, inoltre, esercitò un ruolo centrale nel dibattito sulla teoria dei quanti (ancora in corso ai giorni nostri), e fu l’autore di molte, provocatorie “interpretazioni” del quanto. Durante gli anni del suo insegnamento a Princeton, divenne amico di Albert Einstein, il quale, dopo aver trascorso vari anni cercando, senza successo, un’alternativa alla versione generalmente accettata della meccanica quantica, sembra aver indicato in Bohm il suo “successore intellettuale”, affermando: «Se qualcuno potrà riuscirci, questi è Bohm».

Il giovane Bohm con Albert Einstein
Ma David Bohm forse è più conosciuto, specialmente tra chi non è scienziato, per una teoria che è allo stesso tempo il frutto di una ricerca spirituale lunga una vita e il risultato di una profonda intuizione scientifica. Si tratta della teoria dell’ordine sottinteso, fondata su una visione globale, totale, nella quale la materia e la coscienza sono unite.
Bohm sembra essere stato ossessionato, sin da piccolo, dall’idea secondo cui viviamo in un universo nel quale la materia e il significato sono inseparabili; si dice che la parola “totalità”, da egli impiegata nel primo incontro con Krishnamurti per descrivere il suo lavoro scientifico, fece balzare quest’ultimo dalla sedia per dare un abbraccio a Bohm.
Leggendo Wholeness and the Implicate Order di David Bohm (in italiano Universo, mente, materia, RED edizioni), ho avuto spesso dei sentimenti simili. L’ampiezza e l’integrità della sua visione è efficacemente riflessa nella sua esposizione, che è allo stesso tempo lucida, ampia, precisa e profondamente, misteriosamente toccante. Leggendo Bohm, si rimane molto spesso sbalorditi dalla sua abilità nel connettere fenomeni di ordine radicalmente diverso, oltre che dalla sua passione per scoprire l’interrelazione e la coesione dinamica di un mondo generalmente considerato una forma di caos meccanizzato nel quale gli esseri umani sono destinati a svolgere una piccola parte.
Una volta abbandonata la vantaggiosa posizione di isolamento e distacco, l’essere umano si scopre profondamente inserito in un universo indivisibile che è allo stesso tempo reale ed eternamente misterioso; un unico evento multidimensionale senza inizio o fine.
Per molti colleghi di Bohm, comunque, la sua insistenza sul fatto che l’universo fosse da un lato intrinsecamente ordinato, dall’altro impossibile da comprendere appieno, era irritante piuttosto che fonte di ispirazione. Rievocando una frustrante intervista con Bohm nel libro The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age (La fine della scienza: a tu per tu con i limiti della conoscenza nel crepuscolo dell’Era Scientifica), lo scrittore di scienza John Horgan scrive: “Bohm anelava a conoscere, a scoprire il segreto di ogni cosa, sia attraverso la fisica… sia attraverso la conoscenza mistica. Tuttavia, insisteva sul fatto che la realtà era inconoscibile, perché, credo, provava repulsione verso l’idea della finalità”.
La premessa da cui parte Horgan, non insolita al giorno d’oggi, è che nel giro di venti anni la scienza avrà risposto a tutte le domande più importanti dell’uomo. Ma quello che Bohm riesce a comunicare in modo piuttosto chiaro durante quella intervista, è la sua concezione secondo cui le risposte finali non sono poi così importanti quanto il cercare di conoscere il mondo nel quale viviamo senza idee o conclusioni fisse. Fu caratteristico di Bohm insistere sul fatto che le idee fisse che sottintendono le ipotesi scientifiche non sono di aiuto, ma di ostacolo, e che una metodologia che unisca il rigore all’apertura mentale è la migliore per restare al passo della verità, man mano che essa si rivela nel corso dell’indagine scientifica.
Ma Bohm trovava ugualmente inadeguata la flessibilità senza il rigore, così comune nella vita spirituale. In un’intervista rilasciata per la rivista ReVision nel 1981, egli disse: “Dal momento in cui il mistico sceglie di parlare della sua esperienza… deve seguire le regole che governano il mondo ordinario, il che significa che deve essere ragionevole, logico e chiaro”.
E questo Bohm non lo chiedeva solo ai mistici, ma soprattutto ai fisici quantici contemporanei, molti dei quali, alla luce delle paradossali scoperte sul regno subatomico, si erano sentiti dispensati dalla necessità di offrire spiegazioni concrete o avevano sviluppato teorie e persino cosmologie più mistificanti delle visioni di uomini religiosi o spirituali. Ironicamente, fu proprio la richiesta di Bohm di spiegazioni puramente fisiche dei fenomeni quantici che lo portò a essere evitato da molti suoi colleghi.
Tuttavia, coloro che approvavano questo invito nutrivano per Bohm una grande fedeltà. Uno di questi è lo scrittore e fisico F. David Peat, che da giovane ascoltò catturato le spiegazioni di Bohm sulla meccanica quantica alla radio “BBS”, senza sapere che diversi anni più tardi avrebbe incontrato il suo eroe, apparentemente per caso, che sarebbero diventati amici e colleghi, che avrebbero scritto un libro insieme (Science, Order and Creativity), e che lui stesso avrebbe scritto alla fine la biografia di Bohm, Infinite Potential: The Life and Times of David Bohm.
Autore di molti libri, Peat è un uomo dai molteplici interessi, che l’hanno portato a girare tutto il mondo: tra questi la fisica moderna, le arti visive, la psicologia junghiana e la spiritualità dei nativi americani. La nostra intervista è stata condotta telefonicamente da Pari, il paese vicino a Siena dove egli vive attualmente. E’ stato un piacere parlare di David Bohm con qualcuno che lo conobbe intimamente e i cui ricordi sono ancora vivi nella sua memoria. Come si intuisce dalla nostra conversazione, il pensiero di Peat è stato influenzato, sotto molti aspetti, da Bohm.
Infinite Potential è un ritratto completo e imparziale. La maggior parte del lavoro di Bohm è una straordinaria fonte di ispirazione, frutto di una grande integrità, ma Peat ha ben presenti anche i difetti del suo amico. “Bohm visse per il trascendente”, scrive Peat, “sognava una luce universale… Ma la sua vita fu caratterizzata da una grande sofferenza e da periodi di grave depressione. Durante la sua vita, non raggiunse mai la completezza; tutto ciò che conquistò, e di cui ancora avvertiamo i benefici, fu raggiunto solo al prezzo di grandi sacrifici”.
Simeon Alev: Perché pensa che fosse importante scrivere una biografia di David Bohm, in questo momento?
David Peat: Penso che sia un libro utile perché aiuta a mettere la vita di Dave in prospettiva e perché riunisce tutta la sua opera, cosa che non è mai stata fatta prima. Dave aveva fatto cenno al proposito di scrivere un’autobiografia – da solo o con l’aiuto di qualcuno – e dopo la sua morte, nel 1992, ne parlai con le persone che gli erano state più vicini. Tutti eravamo preoccupati dal fatto che un’altra persona avrebbe potuto improvvisare una biografia, per cui decidemmo che forse avremmo dovuto farne una noi, e subito.
Vede, sembra che il lavoro di Dave abbia molti aspetti diversi: in esso troviamo, per esempio, le ricerche giovanili sul plasma, la teoria delle variabili nascoste, l’ordine sottinteso e la ricerca di nuovi ordini nella fisica; inoltre, la collaborazione con Krishnamurti e le ricerche sulla coscienza e sul significato del soma. Ma quando si considera la sua vita come un tutto, ci si accorge che questi sono aspetti dello stesso modo di vedere l’universo, e quindi non sono diversi. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa che la gente sapesse ciò, particolarmente coloro che, nel mondo della fisica, hanno cominciato a selezionare le idee di Dave, scegliendone alcune piuttosto di altre. Ho pensato che sarebbe stato utile presentarle tutte insieme, in modo che le persone possano rendersi conto del loro livello di integrazione, cosa che non comprendono del tutto nemmeno coloro che conobbero abbastanza bene Bohm.
Simeon Alev: La sua vita e il suo lavoro furono un tutt’uno coerente.
David Peat: Sì, mi sembra che ogni cosa sia legata al resto; semplicemente, non puoi estrarne una parte.
Simeon Alev: Dunque, sembra che la vita e il lavoro di Bohm contengano un messaggio globale per l’umanità?
David Peat: Beh, in un certo senso il messaggio è questa stessa visione dell’interezza… Che naturalmente non è nuova; è contenuta in molte altre filosofie e se ne parla da tempo. Ma credo che ogni volta che qualcuno ne parla, la rinnova o la reinventa, riportandola in vita per il tempo presente. E io penso che David lo abbia fatto per la nostra epoca. Egli, inoltre, evidenziò il fatto che la scienza si era scissa sia all’interno di se stessa sia dalle tematiche spirituali e dalla riflessione sulla coscienza e il sé. E nella biografia è possibile vedere come queste idee si esprimessero attraverso la sua lotta. La sua vita fu allo stesso tempo l’intuizione di qualcosa di trascendente e una lotta per raggiungere questa condizione di integrità. E oggi il suo lavoro appare sempre più rilevante.

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




12/03/18

Il trionfo degli incompetenti e il rischio per la democrazia: un importante studio di Tom Nichols, in un nuovo libro.


The Death of Expertise di Tom Nichols – tradotto in italiano da Chiara Veltri con il titolo La conoscenza e i suoi nemici  è uno di quei libri che bisognerebbe far leggere a tutti per la rilevanza dei temi che tratta e per la loro assoluta attualità. 

Come non è difficile comprendere dal titolo originale, il libro parla della crisi dell’expertise e del trionfo dell’incompetenza che la accompagna

È senza dubbio qualcosa cui assistiamo spesso di questi tempi, e –come sostiene con buona vigoria retorica l’autore- è qualcosa che dovrebbe preoccuparci se teniamo alla democrazia e ai suoi valori.   Sempre più di frequente il parere di esperti e professionisti viene messo alla berlina e non solo rifiutato ma guardato con rabbia inusitata. Non si tratta così di indifferenza ma di vera e propria ostilità rispetto a chiunque esibisca competenza.

Al pregiudizio in favore della propria opinione o bias di conferma, che ci fa preferire le tesi che la rinforzano indipendentemente dalle prove che si hanno a sostegno, si aggiunge sovente un bias egualitario che forse è il più pericoloso di tutti. Questa forma di pregiudizio basato sull’eguaglianza ci sussurra all’orecchio «io valgo quanto te!». 

Ma se è vero che, in democrazia, siamo eguali nei diritti fondamentali, non è affatto vero che siamo eguali al cospetto di opinioni che richiedono un expertise. Per metterla giù chiaramente, se parliamo di relatività generale la mia opinione non è eguale a quella di un fisico teorico e se parliamo di vaccini o di ogm l’opinione di un ignorante in materia non vale tanto quanto quella di uno specialista.

Ora, come l’autore sottolinea correttamente, non è che gli esperti non sbaglino mai. Tutt’altro. Ma bisogna riconoscere che sul tema di cui sono esperti è probabile che sbaglino meno degli altri. Come mai allora una verità tanto evidente non è colta da tutti? In parte lo si deve alle nuove tecnologie a cominciare da Internet. Il web moltiplica a tal punto la quantità di informazione che diventa difficile un controllo serio, e i social media non fanno altro che peggiorare il caos.

I rimedi dovrebbero essere costituiti da giornalismo e sistema dell’istruzione, ma le cose si complicano quando l’informazione si confonde sempre più con l’intrattenimento e quando scuole e università trattano gli studenti come «clienti». 

Il tutto è assai rischioso per la democrazia, come ci disse tra i primi Platone, perché le decisioni pubbliche sono troppo spesso dettate da ignoranza e disinformazione. 

D’altra parte ciò è stato evidente a tutti nella campagna di che preceduto Brexit e in quella che ha visto l’elezione di Trump.

La campagna di Trump in particolare rappresenta quasi un modello per chi – come il nostro Nichols – guarda con preoccupazione alla fine della competenza. Trump infatti in pochi giorni –durante la campagna in questione è riuscito: a ammettere che gran parte della sua informazione in politica estera derivava dai programmi televisivi del mattino; a insinuare che il giudice di destra della Corte Suprema Antonino Scalia non fosse morto di cause naturali ma assassinato; a suggerire che Barak Obama non fosse americano e che addirittura dovesse dare prove esplicita di avere la cittadinanza US; a elogiare il potere distruttivo delle armi nucleari; a fare dichiarazioni sui rapporti tra i generi sessuali che in America non sono assolutamente ammissibili; a accusare uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana (Ted Cruz) di avere un padre implicato nel “complotto” che condusse all’omicidio di John Kennedy; a schierarsi con i no-vax.

Ora, siamo tutti consapevoli che i comizi elettorali costituiscono un terreno sdrucciolevole, ma qui si tratta non di semplici passi falsi ma di errori clamorosi

Eppure Trump ce l’ha fatta: ha vinto prima la competizione per la nomination repubblicana ed è diventato poi Presidente degli Stati Uniti. Non è chiaro se gli elettori americani si siano accorti degli errori di Trump, e neppure è lecito sapere se –una volta consapevoli- lo abbiano poi perdonato in nome della sua personalità “forte”.

La cosa importante è che, consapevoli o no, alla fine della fiera lo hanno votato assai più del previsto. Difficile non pensare a questo punto che Trump sia stato premiato per avere impersonato quella diffusa ostilità verso gli esperti di cui parla Nichols nel libro.

Come si è detto, favorire l’incompetenza non è solo un problema epistemologico, è anche politicamente rischioso. Dovessi dire perché, sosterrei che la causa principale del pericolo in questione consiste nella sostanziale mancanza di fiducia nelle élites che così si rivela. Ma la fiducia è un carburante indispensabile per far lavorare bene una democrazia, così come lo è l’equilibrio tra expertise e popolo. Questo prezioso saggio ci mostra una frattura pericolosa all’interno di questo equilibrio. E ci fa riflettere sulla necessità di correre ai ripari per cercare di salvare la democrazia dalla tirannia dell’incompetenza.


11/03/18

Poesia della Domenica: "Ciò che resta" di Mark Strand.


Ciò che resta
Mi svuoto del nome degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.
A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la caccio.
I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze delle nuvole. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e resto lo stesso.
Mi svuoto della mia vita e rimane la mia vita.

The Remains
from “Darker”
I empty myself of the names of others. I empty my pockets.
I empty my shoes and leave them beside the road.
At night I turn back the clocks;
I open the family album and look at myself as a boy.
What good does it do? The hours have done their job.
I say my own name. I say goodbye.
The words follow each other downwind.
I love my wife but send her away.
My parents rise out of their thrones
into the milky rooms of clouds. How can I sing?
Time tells me what I am. I change and I am the same.
I empty myself of my life and my life remains.

da Mark Strand L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Poesie 1964-2006) Oscar Mondadori, 2007, pp. 392 € 15 – traduzione di Damiano Abeni

10/03/18

Byung-Chul Han: "Lo smartphone ci promette la libertà, ma è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza".



Byung-Chul Han è uno dei più brillanti pensatori contemporanei:  insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura, di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han ha costruito un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, indagando i (dis)funzionamenti e le conseguenze antropologiche e sociali dei processi di globalizzazione, ricorrendo a categorie tratte dalla letteratura (come la stanchezza, ripresa dall’opera di Handke) e dalla filosofia sociale (come la trasparenza, cfr. La società della trasparenza, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2014), per decostruire le strutture dell’odierno neoliberalismo mercatista. Personalità dal profilo eclettico e sfuggente, Han rifiuta generalmente di rilasciare interviste ed evita di divulgare dettagli riguardanti la sua biografia.
Questo brano è tratto dalla bellissima intervista rilasciata a Federica Buongiorno per Doppiozero:


Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. 

L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. 

Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà

Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

Prima di tutto, c’è lo smartphone: ho sostenuto che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro.

Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni.

I servi, infatti, devono accettare ogni lavoro: non sono liberi. Il neoliberalismo produce l’obbligo ad accettare ogni lavoro, perché non conosce il concetto della dignità umana. L’ha interamente sostituito con il prezzo

09/03/18

A Roma una bella mostra celebra il fascino e la bravura di Monica Vitti.


Otto grandi veli fotografici in bianco e nero da attraversare, con la Divina Monica in primissimo piano, tra scena e fuori scena, mentre la sua voce cosi' unica racconta perche' sia diventata attrice ("Adoro la sincerita', la realta', rappresentarmi mi dava la possibilita' di vivere piu' vite").

E' l'entrata immersiva de La dolce Vitti, la mostra multimediale dedicata a una delle interpreti simbolo del nostro cinema, a Roma dall'8 marzo al 10 giugno al Teatro dei Dioscuri al Quirinale.

La grande attrice, 86 anni, ammalata da tempo, si e' ritirata dalle scene dall'inizio degli anni '90 ed e' apparsa in pubblico per l'ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana di Notre-Dame de Paris a Roma.

Curata da Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa, ideata e organizzata da Istituto Luce Cinecitta', l'esposizione esplora la personalita' e l'universo artistico di Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, in diversi capitoli: dall'Accademia, dove un suo grande maestro, Sergio Tofano, scopre il suo talento comico, al teatro, insieme fra gli altri ad Albertazzi diretta da Zeffirelli e anni dopo con Rossella Falk; dal doppiaggio (con tanto di postazione di video-ascolto) anche per Fellini e Pasolini all'incontro fondamentale, sentimentale e artistico con Michelangelo Antonioni, che la dirige in capolavori come L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso e la ritrova nello sperimentale Il mistero di Oberwald.

"Per me e' stato un padre, un fratello, un amico. Era tutta la mia vita, perche' mi sentivo estremamente sicura vicino a lui, poi mi guardava con degli occhi che erano talmente pieni di attenzione.... - ha detto Monica Vitti -. Le storie sono nate dalla nostra vita, da lui e da me. Tutto comincio' insieme".

Si prosegue con la svolta della commedia che ha come simbolo La ragazza con la pistola di Mario Monicelli (uscito 50 anni fa) e viene portata avanti con registi come Scola, Risi, Steno, Salce, per 40 film tra anni '60 e '70. "Monica Vitti ha interpretato donne di tutte le estrazioni sociali, borghesi e popolari, spesso alla ricerca di autonomia e indipendenza" spiega Stefano Stefanutto Rosa.

Senza dimenticare le prove da autrice e regista con gli altri due grandi amori della sua vita, Carlo Di Palma, e il marito, sempre accanto a lei anche in questi ultimi anni segnati dalla malattia, Roberto Russo, da cui vengono anche alcune immagini della mostra (accompagnata anche dall'uscita di un omonimo volume) che ha visitato ieri nell'abituale riserbo.

Un ritratto della donna e dell'icona che prende forma grazie a oltre 70 foto (molte rare, provenienti oltre che dall'Archivio Luce, da quelli, fra gli altri, dell'Accademia Silvio D'Amico, del centro Sperimentale, di Elisabetta Catalano, Umberto Pizzi e Enrico Appetito); libri 'espansi' in digitale da sfoglia; documenti inediti, locandine, copioni, sue copertine famose in Italia e all'estero; interviste video e apparizioni televisive da Milleluci a Domenica in; interventi di amici e colleghi, di chi l'ha amata e conosciuta (fra gli altri, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Dacia Maraini).

Fino a tanti filmati d'archivio e alcuni dei film piu' importanti della sua carriera (L'avventura, La ragazza con la pistola, Dramma della gelosia, Teresa la ladra, Flirt) che e' possibile scoprire o rivedere nella sala cinema del Teatro. 

Fonte: Francesca Pierleoni per ANSA

Qui sotto il video di una delle ultime - e più toccanti - apparizioni in video di Monica Vitti.