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17/06/22

* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*

 

Paul McCartney fotografato dalla moglie Linda

Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista. 

Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo. 

Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni. 

Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.

Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".

John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.

Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo. 

Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività. 


Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.

La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.

In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.

Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo: 

 "Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale. 

La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead".  Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.

Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia".   Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.

Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori.  Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare. 

Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".

fonti: Wikipedia - LaRepubblica

18/04/22

"The Gilded Age", la nuova serie di quel genio di Julian Fellowes

 


Julian Fellowes è senza dubbio uno scrittore eccezionale. Quando aveva 50 anni il maestro Robert Altman lo contattò per scrivere la sceneggiatura di uno dei suoi ultimi film più riusciti in assoluto: "Gosford Park"

Il film, con un cast tutto di mostri sacri inglesi (Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Alan Bates, Emily Watson, Helen Mirren, Stephen Fry), dopo il successo planetario ricevette ben 7 nominations agli Oscar 2002. 

L'unica statuetta che però il film portò a casa (su 7) fu quella conquistata da Julian Fellowes per la migliore sceneggiatura originale (che aveva firmato da solo). 

Diversi anni più tardi Fellowes, che nella vita ha fatto anche l'attore, il regista, il produttore e naturalmente lo scrittore di romanzi, è diventato universalmente noto per la serie "Downton Abbey" (6 stagioni), una delle più viste di sempre, che ha messo d'accordo tutti, pubblico popolare e platea sofisticata amante delle atmosfere e delle psicologie alla Henry James. 

Ci voleva dunque una buona dose di coraggio per Fellowes, per cimentarsi con una nuova saga originale, intitolata "The Gilded Age", ambientata stavolta nella New York di fine Ottocento, qualche decennio prima dei fatti di Downton Abbey. 

Anche stavolta Fellowes ha messo in piedi un congegno narrativo perfetto (per ora 1 stagione, 9 puntate) basato sullo scontro tra la classe sociale degli immigrati americani di prima generazione legati alla madre patria Inghilterra, e perciò assai snob e la nuova generazione di parvenu americani, fortissimamente intenzionati a prendersi soldi, potere e successo e soprattutto notorietà e riconoscimento da parte della vecchia

La scrittura e i dialoghi sono del solito alto livello, la ricostruzione è fenomenale, senza i soliti trucchi al computer, con centinaia di comparse vere, costumi e ambienti fantastici, nella più consolidata tradizione dei lavori di Fellowes. 

Però sono quasi sicuro che The Gilded Age non avrà lo stesso successo di Downton Abbey (anche se pure qui ci saranno diversi seguiti): i personaggi sono (volutamente) meno empatici, non c'è il tono ironico e leggero (e romantico/sentimentale) del british mood che piace molto in Italia. 

D'altronde Fellowes è troppo serio per non averci pensato: gli USA di fine ottocento, non erano l'Inghilterra. 

Qui il confronto, le ambizioni, la lotta sociale, le dinamiche sono molto più cruente, prive di scrupoli. 

Non mancano personaggi moralmente virtuosi, ovviamente, in primis la protagonista Marion (impersonata da Louisa Jacobson, figlia di Meryl Streep). 

Ma si respira un'aria meno lieta e consolante. La visione The Gilded Age è comunque del tutto raccomandabile: il puro grande piacere dell'intrattenimento anglosassone, sullo spartito di una scrittura sempre brillante, formidabile.

Fabrizio Falconi - 2022 

28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022




16/01/22

Chi era il vero poeta che si nascondeva dietro il nome di Humboldt nel romanzo che valse a Saul Bellow il Premio Nobel per la Letteratura?

Delmore Schwartz in una foto giovanile 

Il Dono di Humboldt è il grande romanzo che, uscito nel 1975, valse a Saul Bellow il premio Pulitzer nel 1976 e contribuì non poco anche al conferimento del Premio Nobel per la Letteratura, assegnato a Bellow in quello stesso anno. 

Un romanzo fiume, che aveva al centro la figura di un poeta vero, cui la fama non aveva arriso, che viveva una vita piuttosto oscura, sempre in bilico sul disagio psichico, ma il cui enorme talento incuteva nei confronti di Charles Citrine, il protagonista del romanzo (costruito da Bellow con toni autobiografici, sul modello di se stesso), soggezione e enormi sensi di colpa.

Ma chi era nella realtà il vero Humboldt? 

Le recensioni dell'epoca sottolinearono che il personaggio di Humboldt era basato sulla vita del poeta Delmore Schwartz (1913-1966). 

Come Humboldt, Schwartz aveva fantasie paranoiche che lo coinvolgevano in situazioni farsesche e umilianti

La carriera di Schwartz era iniziata brillantemente; ma alla fine non sapeva più scrivere; beveva molto e litigava con i suoi amici. La fine arrivò in uno squallido hotel nel centro di Manhattan, un infarto nel cuore della notte mentre portava fuori la spazzatura. Per giorni il corpo del poeta rimase incustodito. 

Humboldt ovviamente non era l'unico personaggio in "Il dono di Humboldt" che sembrava essere stato preso dalla vita. Charlie Citrine, che racconta la storia in prima persona, ha, come abbiamo detto, una sorprendente somiglianza con Saul Bellow. In effetti, ci sono momenti in cui la narrativa di Bellow sembra più vicina alla realtà della pubblicità di Bellow. Charlie è uno scrittore. Ha avuto un certo successo commerciale ma non ha raggiunto i suoi ideali giovanili, e ora scrive soprattutto di noia. 

L'altro protagonista è il poeta morto Von Humboldt Fleisher, resuscitato nelle memorie di Charlie. 

Ma per far muovere il romanzo, Bellow coinvolge Charlie con un personaggio di nome Cantabile, una sorta di gangster, che inizia a umiliarlo.  Charlie ha anche una ragazza, Renata, un tipo di bomba sexy, che ha già precedenti nella narrativa di Bellow, in particolare "Herzog". Renata alla fine lascia Charlie e se ne va con un becchino. 

Per quanto riguarda il "regalo" promesso dal titolo, si scopre essere denaro. 

Humboldt ha scritto la sceneggiatura di un film basato su un'idea con cui lui e Charlie si divertivano anni fa. "Ho sempre pensato che sarebbe diventato un classico", dice Humboldt nella lettera che ha lasciato a Charlie.

Come sempre, però, l'interesse di “Humboldt's Gift” non sta nella trama, è nelle idee di Bellow. 

Ha scelto di fare di Delmore Schwartz un personaggio perché la vita di Schwartz ha illustrato la difficoltà di essere un artista in America, un problema che affligge lo stesso Bellow

Inoltre, Schwartz era ebreo e Bellow è fedele alle tradizioni ebraiche. Schwartz è nato a Brooklyn nel 1913, figlio di Harry e Rose (Nathanson) Schwartz

Ha studiato all'Università del Wisconsin, alla New York University, dove si è distinto in filosofia, e ad Harvard. 

Da studente curò na piccola rivista, Mosaic, e si guadagnò la reputazione di "precocità". All'età di 24 anni pubblicò un racconto, "In Dreams Begin Responsibility" (edito anche in Italia), che lo rese famoso, almeno nei circoli letterari. 

Dwight Macdonald, che iniziò a pubblicare Partisan Review nel 1937 come "rivista socialista rivoluzionaria", ricorda l'impatto delle "Responsabilità"

Era una storia sbalorditiva, secondo Macdonald, migliore di qualsiasi altra di Hemingway o Fitzgerald, e altri critici hanno concordato sul merito di questo particolare lavoro

Nella sua concezione, dalla prima riga alla fine, “Responsabilità” ha l'aspetto di un mito o di una favola, un'idea che è balzata in piena forma nella mente, una situazione che ci sembra perfettamente ovvia una volta che l'abbiamo vista

La storia inizia nel 1909. "Mi sento", dice il narratore, "come se fossi in un cinema". Sta guardando un vecchio film muto. “È domenica pomeriggio, 12 giugno 1909, e mio padre sta camminando per le tranquille strade di Brooklyn mentre va a trovare mia madre” Suo padre sta pensando mentre cammina: come sarà bello presentarla alla sua famiglia. Ma lui - non è sicuro di volersi sposare, "e ogni tanto va in panico per il legame già stabilito".

In questa storia, come scrisse la critica dell'epoca, Schwartz è stato il primo ad avere una visione della vita ebraica in America che sarebbe stata ripresa da altri scrittori. Tutti dicevano che Delmore Schwartz era brillante, ed era stato elogiato da TS Eliot, che era come "essere stato canonizzato da un arcivescovo"

Ma questo era già un successo più grande di quanto Delmore sapesse gestire.

Fu coinvolto nella politica letteraria, cercando di preservare la fama che aveva conquistato così presto. Era terribilmente imbarazzato. Sapeva che ci si aspettava che realizzasse dei capolavori e che i critici erano pronti per lui.

La “canonizzazione” di Schwartz da parte di Eliot portò, in parte, alla morte del poeta più giovane: come qualsiasi altro genere di affari, infatti, nessuno scrittore che sia stato elogiato non riesce a suscitare invidia. 

Il secondo libro di Schwartz, "Genesis", fu così piuttosto deludente. La gente lo diceva. Fece una traduzione di "Una stagione all'inferno" di Rimbaud ed era evidente che non conosceva il francese: la traduzione era piena di passi falsi. Cosa gli ha fatto pensare di poter tradurre da una lingua che non conosceva? Aveva manie di grandezza. 

Questi sono stati seguiti da una serie di sospetti. Negli anni successivi Schwartz uscì fuori di testa, ed era convinto, come Humboldt nel romanzo, che Rockefeller stesse complottando contro di lui, danneggiando il suo cervello inviando raggi dall'Empire State Building. 

Tra i due estremi, la mente che poteva vedere la vita dei suoi genitori chiaramente come se stesse guardando un film, e la mente offuscata dal sospetto, c'erano molte fasi: contorcimenti, perdite, ritorni a se stessa, nuovi inizi e nuovi fallimenti. Le fasi sono descritte o suggerite da Bellow nel romanzo basato sulla vita di Schwartz. 

La prima edizione italiana de Il Dono di Humboldt di Saul Bellow

Ci sono aspetti di Schwartz, tuttavia, che non sono rappresentati da Bellow. Schwartz aveva una venerazione per la tradizione, in particolare le tradizioni letterarie. Quando insegnava ad Harvard, il primo di una serie di incarichi accademici, accompagnava i visitatori in un tour del cimitero di Mt. Auburn, dove è sepolta la famiglia di Henry James. 

Come si sa, l'America non è stata gentile con i poeti; offre loro abbandono e oscurità. Pochissimi poeti americani sono conosciuti dal pubblico, anche il pubblico che legge. 

Ciò che Wordsworth dice dei poeti di tutto il mondo sembra particolarmente vero per i poeti in America. Noi poeti nella nostra giovinezza cominciamo con letizia, ma ne derivano alla fine lo sconforto e la follia. Le idee con cui un uomo sceglie di vivere possono fare la differenza per il suo benessere anche se può avere una debolezza psicologica. 

Delmore Schwartz, come altri letterati in un'epoca di incredulità, non aveva altro di cui fidarsi se non la letteratura. 

Ne "Il regalo di Humboldt", Bellow fa dire a Charlie Citrine alcune cose dure sui compilatori di antologie che, dalla morte di Humboldt, hanno omesso le sue poesie dalle loro raccolte. 

Nella sua passione per l'arte Schwartz era ingenuo, nel buon senso del termine. Era l'amante della poesia che la gente amava. 

Alcuni artisti si consumano nel processo di creazione: hanno fatto del loro meglio e non c'è più niente da fare. Un episodio in cui Humboldt insegue un critico è tratto dalla vita. Schwartz era fuori di testa per la gelosia, o geloso perché era fuori di testa. Il critico aveva una stanza al Chelsea Hotel. Con suo sgomento, anche Schwartz prese una stanza lì e iniziò a molestarlo. Le cose sono arrivate al culmine una notte con Schwartz che ha bussato alla sua porta, gridando: "Esci e combatti come un uomo!"  Il critico ha telefonato alla reception e loro hanno chiamato la polizia. Quando sono arrivati, il critico non ha voluto sporgere denuncia. Aveva la sua carriera a cui pensare: non gli sarebbe servito a niente essere conosciuto come il critico che ha fatto rinchiudere un poeta. La polizia ha fatto alcune domande e Schwartz è salito nella sua stanza e si è chiuso dentro. La polizia è salita e lui non li ha lasciati entrare. È diventato isterico. Sono entrati dopo di lui. È diventato violento. Lo hanno portato via.

Era difficile per coloro che conoscevano Schwartz solo nei suoi ultimi anni capire che una volta era stato un uomo dotato e attraente. 

Negli ultimi anni Schwartz ebbe un lavoro alla Syracuse University. Lo trattavano generosamente; hanno sopportato molto, perché non ha insegnato la materia, ha insegnato da solo. Ma i giovani lo amavano: era uno dei pochi professori a casa cui sarebbero andati. Negli ultimi mesi, quando era nei bar del Greenwich Village, a bere birra nel tentativo di rimanere sobrio, era al centro di un gruppo di giovani, tra i quali un giovane Lou Reed che successivamente e per sempre, considerò Schwartz il suo maestro. Poi sarebbe tornato al suo albergo delle pulci sulla 48esima strada.

Tutti concordano sul fatto che Schwartz nel suo periodo migliore fosse un grande oratore: "se fosse stato inglese sarebbe stato nominato cavaliere per la sua conversazione", afferma Dwight Macdonald. 

Bellow è sempre stato affascinato dal comportamento disinibito e turbolento. È particolarmente affascinato dalla vita bassa, le persone sagge del mondo. "I figli delle tenebre", diceva spesso, "sono più saggi nella loro generazione dei figli della luce". 

Il poeta di Bellow è pazzo, mentre Delmore Schwartz lo era solo a volte e sempre più verso la fine della sua vita. Questo ci porta al punto del romanzo: Bellow vede l'artista come un capro espiatorio. L'uomo sensuale ordinario guarda la vita dell'artista e dice a se stesso: “Se non fossi un bastardo, un ladro e un avvoltoio così corrotto e insensibile, non potrei sopravvivere neanche a questo. Guarda questi uomini buoni, teneri e dolci, i migliori di noi. Hanno ceduto, poveri pazzi"

 Il messaggio non è nuovo. Altri hanno sottolineato che la vita autodistruttiva di Dylan Thomas o Plath o Berryman serve a rassicurare la classe media sui suoi valori

E gli stessi poeti si sono affrettati a conformarsi, accettando il ruolo assegnato, e si sono ubriacati fino allo stordimento, si sono uccisi, hanno recitato un'idea borghese della vita dell'arte. “E poeti come ubriaconi e disadattati o psicopatici, come i miseri, poveri o ricchi, sono sprofondati nella debolezza". 

Il comportamento di Humboldt - comprare una pistola e inseguire il critico che crede abbia sedotto sua moglie - è irrimediabilmente antiquato. A questo punto, Bellow  sta dicendo all'artista: "Povera linfa, non ce la farai mai". Gli consiglia di rinunciare alla sua arte e di trovare “la cosa nuova, la cosa necessaria” che gli permetterà di poter competere con la modernità tecnologica. 

Qual è la "cosa nuova?" Bellow non dice. Charlie Citrine ipotizza nuovi tipi di coscienza e l'immortalità dell'anima, ma i suoi pensieri sono troppo vaghi per essere confortanti. Tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è la distruzione del poeta. E non c'è differenza tra la vita e l'arte: come il poeta è condannato, così è la poesia. Bellow si è impegnato a dimostrare che l'arte come l'abbiamo conosciuta non è più possibile in un mondo di macchine. Sembra determinato a portarlo con sé, senza lasciare nulla per il resto di noi. Ma non è necessario accettare questo punto di vista. 

Schwartz ha detto questo sul futuro della poesia: “Nel mondo moderno, la poesia è alienata; rimarrà indistruttibile finché sopravvive la fede e l'amore di ogni poeta nella sua vocazione”. 

La vita di Schwartz, per quanto infelice, sembra rappresentare qualcosa di più: una devozione. Schwartz è rimasto insomma una delle figure simboliche che tormentano la coscienza degli americani, dai tempi in cui non riusciva più a scrivere e vagava per New York in cerca di affetto. Nella vita riuscì a raggiungere le vette della commedia, gli abissi dell'umiliazione, il pathos che ammirava nei libri. La sua vita è un classico americano, anche se forse non la sua arte. Ed è tutto questo che Saul Bellow ha cantato con la sua grande opera. 

Saul Bellow


fonti: Louis Simpson, The New York Times 


 

11/01/22

Il bellissimo discorso (integrale) di insediamento di David Sassoli - 3 luglio 2019


Pubblico nel giorno della scomparsa di David Sassoli, l'integrale del suo bellissimo discorso di insediamento alla carica di Presidente del Parlamento Europeo, pronunciato il 3 luglio 2019 

Discorso Presidente Sassoli 

Cittadine e cittadini dell’Unione europea, signore e signori parlamentari, cari amici, colleghi, rappresentanti delle Istituzioni, dei Governi, donne e uomini di questa Amministrazione. Tutti voi capirete la mia emozione in questo momento nell’assumere la Presidenza del Parlamento europeo e di essere stato scelto da voi per rappresentare l’Istituzione che più di ogni altra ha un legame diretto con i cittadini, che ha il dovere di rappresentarli e difenderli. E di ricordare sempre che la nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo conquistare e della solidarietà che sapremo sviluppare. Permettetemi di ringraziare il Presidente Antonio Tajani per il lavoro svolto in questo Parlamento, per il suo grande impegno e la sua dedizione a questa Istituzione. Voglio anche dare il benvenuto ai nuovi colleghi, che sono il 62% di quest’Aula, un bentornato ai parlamentari confermati e alle donne, che rappresentano il 40% di tutti noi. Un buon risultato, ma noi vogliamo di più. In questo momento, al termine di una intensa campagna elettorale, ha inizio una legislatura che gli avvenimenti caricano di grande responsabilità perché nessuno può accontentarsi di conservare l’esistente

Ce lo dice il risultato elettorale, ce lo testimonia la stessa composizione di questa Assemblea. Siamo immersi in trasformazioni epocali: disoccupazione giovanile, migrazioni, cambiamenti climatici, rivoluzione digitale, nuovi equilibri mondiali, solo per citarne alcuni, che per essere governate hanno bisogno di nuove idee, del coraggio di saper coniugare grande saggezza e massimo d’audacia. 

Dobbiamo recuperare lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri Fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra, porre fine ai guasti del nazionalismo dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza. In questi mesi, in troppi, hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia. I cittadini hanno dimostrato invece di credere ancora in questo straordinario percorso, l’unico in grado di dare risposte alle sfide globali che abbiamo davanti a noi. Dobbiamo avere la forza di rilanciare il nostro processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte alle esigenze dei nostri cittadini e per dare risposte vere alle loro preoccupazioni, al loro sempre più diffuso senso di smarrimento. La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l’Ue.

Cari colleghi, pensiamo più spesso al mondo che abbiamo, alle libertà di cui godiamo. E allora diciamolo noi, visto che altri a Est o ad Ovest, o a Sud fanno fatica a riconoscerlo, che tante cose ci fanno diversi - non migliori, semplicemente diversi - e che noi europei siamo orgogliosi delle nostre diversità. Ripetiamolo perché sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere, che il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo per misurare le nostre politiche... che da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori, che i nostri governi e le istituzioni europee che li rappresentano sono il frutto della democrazia e di libere elezioni... che nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica... che da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni...che nessun europeo può essere umiliato e emarginato per il proprio orientamento sessuale...che nello spazio europeo, con modalità diverse, la protezione sociale è parte della nostra identità, ...che la difesa della vita di chiunque si trovi in pericolo è un dovere stabilito dai nostri Trattati e dalle Convenzioni internazionali che abbiamo stipulato. 

Il nostro modello di economia sociale di mercato va rilanciato. Le nostre regole economiche devono saper coniugare crescita, protezione sociale e rispetto dell’ambiente. Dobbiamo dotarci di strumenti adeguati per contrastare le povertà, dare prospettive ai nostri giovani, rilanciare investimenti sostenibili, rafforzare il processo di convergenza tra le nostre regioni ed i nostri territori. La rivoluzione digitale sta cambiano in profondità i nostri stili di vita, il nostro modo di produrre e di consumare. Abbiamo bisogno di regole che sappiano coniugare progresso tecnologico, sviluppo delle imprese e tutela dei lavoratori e delle persone. Il cambiamento climatico ci espone a rischi enormi ormai evidenti a tutti. Servono investimenti per tecnologie pulite per rispondere ai milioni di giovani che sono scesi in piazza, e alcuni venuti anche in quest’Aula, per ricordarci che non esiste un altro pianeta. Dobbiamo lavorare per una sempre più forte parità di genere e un sempre maggior ruolo delle donne ai vertici della politica, dell’economia, del sociale. Signore e Signori, questo è il nostro biglietto da visita per un mondo che per trovare regole ha bisogno anche di noi. Ma tutto questo non è avvenuto per caso. 

L’Unione europea non è un incidente della Storia. Io sono figlio di un uomo che a 20 anni ha combattuto contro altri europei, e di una mamma che, anche lei ventenne, ha lasciato la propria casa e ha trovato rifugio presso altre famiglie. Io so che questa è la storia anche di tante vostre famiglie... e so anche che se mettessimo in comune le nostre storie e ce le raccontassimo davanti ad un bicchiere di birra o di vino, non diremmo mai che siamo figli o nipoti di un incidente della Storia. 

Ma diremmo che la nostra storia è scritta sul dolore, sul sangue dei giovani britannici sterminati sulle spiagge della Normandia, sul desiderio di libertà di Sophie e Hans Scholl, sull’ansia di giustizia degli eroi del Ghetto di Varsavia, sulle primavere represse con i carri armati nei nostri paesi dell’Est, sul desiderio di fraternità che ritroviamo ogni qual volta la coscienza morale impone di non rinunciare alla propria umanità e l’obbedienza non può considerarsi virtù. 

Non siamo un incidente della Storia, ma i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia. Se siamo europei è anche perché siamo innamorati dei nostri Paesi. Ma il nazionalismo che diventa ideologia e idolatria produce virus che stimolano istinti di superiorità e producono conflitti distruttivi. Colleghe e colleghi, abbiamo bisogno di visione e per questo serve la politica. Sono necessari partiti europei sempre più capaci di essere l’architrave della nostra democrazia. 

Ma dobbiamo dare loro nuovi strumenti. Quelli che abbiamo sono insufficienti. Questa legislatura dovrà rafforzare le procedure per rendere il Parlamento protagonista di una completa democrazia europea. Ma non partiamo da zero, non nasciamo dal nulla. 

L’Europa si fonda sulle sue Istituzioni, che seppur imperfette e da riformare, ci hanno garantito le nostre libertà e la nostra indipendenza. Con le nostre Istituzioni saremo in grado di rispondere a tutti coloro che sono impegnati a dividerci. E allora diciamo in quest’Aula, oggi, che il Parlamento sarà garante dell’indipendenza dei cittadini europei. E che solo loro sono abilitati a scrivere il proprio destino: nessuno per loro, nessuno al posto nostro. In quest’aula insieme a tanti amici e colleghi con molta esperienza, vi sono anche tantissimi deputati alla prima legislatura. A loro un cordiale saluto di benvenuto. Ho letto molte loro biografie e mi sono convinto si tratti di una presenza molto positiva per loro competenze, professionalità. Molti di loro sono impegnati in attività sociali o di protezione delle persone, e questo è un campo su cui l’Europa deve migliorare perché abbiamo il dovere di governare i fenomeni nuovi. 

Sull’immigrazione vi è troppo scaricabarile fra governi e ogni volta che accade qualcosa siamo impreparati e si ricomincia daccapo. Signori del Consiglio Europeo, questo Parlamento crede che sia arrivato il momento di discutere la riforma del Regolamento di Dublino che quest’Aula, a stragrande maggioranza, ha proposto nella scorsa legislatura. Lo dovete ai cittadini europei che chiedono più solidarietà fra gli Stati membri; lo dovete alla povera gente per quel senso di umanità che non vogliamo smarrire e che ci ha fatto grandi agli occhi del mondo

Molto è nelle vostre mani e con responsabilità non potete continuare a rinviare le decisioni alimentando sfiducia nelle nostre comunità, con i cittadini che continuano a chiedersi, ad ogni emergenza: dov’è l’Europa? Cosa fa l’Europa? Questo sarà un banco di prova che dobbiamo superare per sconfiggere tante pigrizie e troppe gelosie. E ancora, Parlamento, Consiglio e Commissione devono sentire il dovere di rispondere con più coraggio alle domande dei nostri giovani quando chiedono a gran voce che dobbiamo svegliarci, aprire gli occhi e salvare il pianeta. Mi voglio rivolgere a loro: considerate questo Parlamento, che oggi inizia la sua attività legislativa, come il vostro punto di riferimento. 

Aiutateci anche voi a essere più coraggiosi per affrontare le sfide del cambiamento. Voglio assicurare al Consiglio e alle Presidenze di turno la nostra massima collaborazione e lo stesso rivolgo alla Commissione e al suo Presidente. 

Le Istituzioni europee hanno la necessità di ripensarsi e di non essere considerate un intralcio alla costruzione di un’Europa più unita. Tramite il Presidente del Consiglio europeo voglio rivolgere anche un saluto, a nome di quest’Aula, ai Capi di Stato e di Governo. 

Ventotto paesi fanno grande l’Unione europea. E si tratta di 28 Stati, dal più grande al più piccolo, che custodiscono tesori unici al mondo. Tutti vengono da lontano e posseggono cultura, lingua, arte,  paesaggio, poesia inimitabili e inconfondibili. Sono il nostro grande patrimonio e tutti meritano rispetto. Ecco perché quando andrò a visitarli, a nome vostro, non sarò mai distratto. E davanti alle loro bandiere e ai loro inni sarò sull’attenti anche a nome di coloro che, in quest’Aula, non mostrano analogo rispetto. 

Lasciatemi infine rivolgere un saluto ai parlamentari britannici, comunque la pensino sulla Brexit. Per noi immaginare Parigi, Madrid, Berlino, Roma lontane da Londra è doloroso. Sì sappiatelo, con tutto il rispetto che dobbiamo per le scelte dei cittadini britannici, per noi europei si tratta di un passaggio politico che deve essere portato avanti con ragionevolezza, nel dialogo e con amicizia, ma sempre nel rispetto delle regole e delle rispettive prerogative. Voglio salutare i rappresentanti degli Stati che hanno chiesto di aderire all’Unione europea. Il loro percorso è avviato per loro libera scelta. Tutti capiscono quanto sia conveniente far parte dell’Unione. Le procedure di adesione proseguono e il Parlamento si è detto più volte soddisfatto dei risultati raggiunti. Infine, un in bocca al lupo a tutta l’amministrazione e ai lavoratori del Parlamento. 

Ci siamo dati un obbiettivo nella scorsa legislatura: far diventare il Parlamento europeo la Casa della democrazia europea. Per questo abbiamo bisogno di riforme, di maggiore trasparenza, di innovazione. Molti risultati sono stati raggiunti, specie sul bilancio, ma questa legislatura deve dare un impulso maggiore. Per fare questo c’è bisogno di un maggior dialogo fra parlamentari e amministrazione e sarà mia cura svilupparlo. Care colleghe e cari colleghi, l’Europa ha ancora molto da dire se noi, e voi, sapremo dirlo insieme. Se sapremo mettere le ragioni della lotta politica al servizio dei nostri cittadini, se il Parlamento ascolterà i loro desideri e le loro paure e le loro necessità. Sono sicuro che tutti voi saprete dare il necessario contributo per un’Europa migliore che può nascere con noi, con voi, se sapremo metterci cuore e ambizione. 

Grazie e buon lavoro.


David Sassoli 


23/12/21

Covid-19 e No-Vax - Bellissima lettera di Donatella di Cesare ad Agamben: "Ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo"

Giorgio Agamben

Una dei migliori filosofi italiani, Donatella Di Cesare, scrive e pubblica una bellissima lettera a Giorgio Agamben, che merita davvero di essere letta e divulgata su vaccini, Covid e la deriva complottista seguita da Agamben, Cacciari e altri filosofi italiani

Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo di Donatella Di Cesare 

È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva.

Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. 

Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza. Giorgio Agamben - piaccia o no - è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. 

Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri - soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 - hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. 

Sulla scia della migliore tradizione del Novecento - da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger - Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato? 

Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. 

Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere. Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile - fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. 

L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. 

Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì. Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. 

I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 - “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” - dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. 

Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente. È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. 

La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione

Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia. Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia - a questo punto non importa se vera o simulata…».

Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo

No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo

Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. 

Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili

Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. 

Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò. Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni - come “stato d’eccezione” - divenuti quasi ormai grotteschi. 

E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.


Donatella Di Cesare




07/11/21

Quali sono stati i 5 film più visti di sempre al cinema, per numero di spettatori, in Italia? Molte sorprese.

 


Siamo da sempre abituati alle classifiche del box-office, per ciò che concerne il cinema, sempre aggiornate però sulla stagione in corso, oppure sull'unico parametro degli incassi, sulla base dei quali è ben difficile fare confronti con il passato: costo del biglietto, numero delle sale, diverso valore della moneta, delle lire prima e dell'euro poi, rendono impossibile stilare classifiche che abbiano un qualche senso.

L'unico criterio valido resta allora quello del numero di biglietti staccati: cioè del numero di spettatori che effettivamente si è recato in una sala cinematografica per vedere quel certo film. 

Anche qui non mancano i problemi nel paragonare gli anni d'oggi con quelli del passato: troppo diverso il sistema di fruizione del cinema, ieri e oggi. Come sappiamo oggi l'offerta del cinema è variatissima e i mezzi per usufruire della visione di un film sono infiniti, dal web agli smartphone, dalla smart tv allo streaming: la sala è rimasta un mercato praticamente di nicchia.

La classifica del maggior numero di spettatori GLOBALE dei film proiettati in Italia nella storia del cinema e della distribuzione riserva tuttavia interessanti sorprese.

Il film più visto nella storia del cinema in Italia è infatti Dottor Zivago: il capolavoro di David Lean, uscito nel 1966, risulta essere stato visto nel nostro paese da una cifra incredibile di spettatori: 22 milioni e 900.000. Considerando che all'epoca la popolazione italiana era di circa 51.000.000 di abitanti, significa che quel film fu visto da quasi un italiano su due, al cinema.

Al secondo posto si piazza Il Padrino di Francis Ford Coppola, che nel 1972 portò al cinema qualcosa come 21.800.000 spettatori. 

In terza posizione il colosso biblico I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, che nel 1953 (quando gli italiani erano 47 milioni) realizzò 16.800.000 spettatori.

Quarto è il più grande successo italiano della saga dell'agente 007: Missione Goldfinger, uscito nel 1964, ottenne 15.800.000 spettatori.

Quinto, un altro kolossal: Guerra e Pace, tratto da Tolstoj con la regia di King Vidor, anche se di completa produzione italiana, nel 1956. Al botteghino realizzò 15.623.000 spettatori (dato certificato dalla SIAE che lo conferma film di produzione italiana più visto di tutti i tempi nel nostro paese). 

A sorpresa, il sesto posto è occupato dal controverso Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci. Il film con Marlon Brando e Maria Schneider, pur essendo stato sequestrato poche settimane dopo la sua uscita, e tornato nelle sale nel 1973, fu visto da ben 15.623.000 milioni di spettatori. 

Sono numeri da capogiro, oggi del tutto irripetibili. Basti pensare che La vita è bella di Roberto Benigni (1997) o il recente Quo vado di e con Checco Zalone, non hanno raggiunto la soglia dei 10 milioni di spettatori.  


Fabrizio Falconi (Fonte dati: http://boxofficebenful.blogspot.com/)


18/08/21

Quando Bruce Chatwin viaggiò in Afghanistan e la sua profezia oggi

 


Come tutti sanno, Bruce Chatwin amò soprattutto tre cose nella vita: viaggiare, scrivere, stupire.

I suoi libri, punti di riferimento il cui valore di testimonianza e di scrittura aumenta con il passare degli anni, dalla morte avvenuta troppo precocemente.

Bruce Chatwin, che era un fiero coltivatore dell'arte degli opposti, e che non amava nessun tipo di etichetta, una cosa fu di sicuro e certamente: un grande viaggiatore, intendendo con questo, qualcuno capace di percepire lo spirito dei luoghi e delle persone incontrate che diventano protagonisti dei suoi libri. 

Un titolo meno conosciuto della bibliografia che lo riguarda, è Bruce Chatwin: Viaggio in Afghanistan, volume nato in occasione di una mostra svolta a Bologna nell'autunno del 2000: Bruce Chatwin e il tesoro perduto di Fullol. A Palazzo Poggi furono esposti i disegni, le fotografie, gli appunti dello scrittore raccolti in un viaggio fatto nel 1969 in Afghanistan, in compagnia del gesuita Peter Levi, alla ricerca di resti archeologici che documentassero la presenza greca in questa regione. 




Chatwin, raggiunto poi dalla moglie Elizabeth, attraversò parte del paese, affascinato dagli usi e costumi locali e particolarmente colpito dal tesoro di Fullol, conservato al museo di Kabul e sconosciuto all'Occidente. 

Ma il viaggio rappresentò soprattutto la "scoperta" di una nuova visione dell'esistenza che lo portò a decidere di intraprendere seriamente la professione di scrittore, mantenendo viva e forte la voglia di percorrere le strade del mondo

Stephen Spender lo ricollegò a Lawrence. "Due secoli fa Bruce avrebbe potuto conquistare una vasta porzione di impero e probabilmente sarebbe morto giovane per essere sepolto in Afghanistan. L'Inghilterra non gli piaceva, ma anche questo è molto inglese. Dopotutto l'impero britannico si è fondato su persone che cercavano di allontanarsi dalla Gran Bretagna."

Come scrive oggi L'intellettuale dissidente Chatwin tornò a scrivere dell'Afghanistan, una sorta anzi di Lamento per l’Afghanistan scritto nel 1980, quando l’Armata Rossa era appena entrata a Kabul, dopo aver invaso il paese da lui amato. 

Chatwin in Afghanistan nel 1969


In questo saggio, Chatwin scrive:

“Nel 1962 – sei anni prima che gli hippies lo rovinassero (spingendo gli afghani istruiti tra le braccia dei marxisti)si poteva partire per l’Afghanistan con le stesse aspettative, diciamo, di un Delacroix diretto ad Algeri. Per le strade di Herat si vedevano uomini con vertiginosi turbanti passeggiare mano nella mano, una rosa in bocca e i fucili avvolti in chintz a fiori. 
Nel Badakhshan si poteva fare un pic-nic su tappeti cinesi e ascoltare il canto del bulbul. A Balkh, la Madre delle Città, chiesi a un fachiro la strada per il santuario di Haji Piardeh. ‘Non lo conosco’, mi rispose. ‘Dev’essere stato distrutto da Genghiz’… Non leggeremo più le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra cespugli di rose facendosi guidare dall’olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell’Islam con i mendicanti di Gazor Gah. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamomo; l’uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l’afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri. Mai più. Mai più. Mai più”

E' davvero un lamento che oggi, dopo la nuova tragedia afghana, suona ancora più vibrante, e commovente.

Fabrizio Falconi



02/08/21

Libro del Giorno: "Helgoland" di Carlo Rovelli

 



Come si sa, Carlo Rovelli è un fisico teorico di fama internazionale, specializzato soprattutto nel campo della gravità quantistica e tra i fondatori della teoria della gravità quantistica a loop

Ma Rovelli negli ultimi anni ha acquistato grande notorietà a causa dei suoi libri, che si occupano anche di storia e filosofia della scienza, dimostrando doti speciali di divulgatore con i suoi saggi che, attraverso un linguaggio semplice e traboccante di meraviglia per i temi indagati, hanno saputo avvicinare molti lettori a questioni scientifiche apparentemente astratte e invece assai concrete e fascinosissime.

A sei anni dal suo maggior successo editoriale, Sette brevi lezioni di fisica (tradotto in 41 lingue, ha venduto più un milione di copie in tutto il mondo), a cui è seguito L’ordine del tempo, Rovelli, nato a Verona il 3 maggio 1956, è tornato a parlare del mondo della fisica, sempre per Adelphi, con  Helgoland

Il titolo del libro si riferisce a Helgoland, spoglia isola nel Mare del Nord, luogo adatto alle idee estreme, dove nel giugno 1925 il ventitreenne Werner Heisenberg ha avviato quella che, secondo non pochi, è stata la più radicale rivoluzione scientifica di ogni tempo: la fisica quantistica

A distanza di quasi un secolo da quei giorni, la teoria dei quanti si è rivelata sempre più gremita di idee sconcertanti e inquietanti (fantasmatiche onde di probabilità, oggetti lontani che sembrano magicamente connessi fra loro, ecc.), ma al tempo stesso capace di innumerevoli conferme sperimentali, che hanno portato a ogni sorta di applicazioni tecnologiche. 

Si può dire che oggi la nostra comprensione del mondo si regga su tale teoria, tuttora profondamente misteriosa. 

In questo libro dunque non solo si ricostruisce, con formidabile limpidezza, l’avventurosa e controversa crescita della teoria dei quanti, rendendo evidenti, anche per chi la ignora, i suoi passaggi cruciali, ma la si inserisce in una nuova visione, dove a un mondo fatto di sostanze si sostituisce un mondo fatto di relazioni, che si rispondono fra loro in un inesauribile gioco di specchi. Visione che induce a esplorare, in una prospettiva stupefacente, questioni fondamentali ancora irrisolte, dalla costituzione della natura a quella di noi stessi, che della natura siamo parte.

Un libro ottimo e fortemente consigliabile, che spinge a riflettere e meditare sul senso e sulla natura della nostra esistenza e della nostra esistenza dentro l'universo. 

Due appunti, da lettore che meriterebbero di essere approfonditi:

1. Mi sembra che R. speculi esageratamente sulla teoria quantistica, quasi dando per scontato che essa sia definitiva. Quando sappiamo bene, e lui per primo, che la scienza non è mai definitiva. Tra 100 anni chissà cosa avremo/avranno scoperto ancora. Questa descrizione della realtà, anzi della non-realtà, che leggendo il libro sembra determinata e chiara è dunque ancora assai incompleta (fra l'altro nessuno sa ancora bene spiegare cosa sia la fisica quantistica e perché funzioni e già dai tempi di Einstein si insegue una "Teoria del tutto" capace di mettere insieme quantistica, relatività, gravitazione). 

2. La sostituzione degli "oggetti" (non reali) con le "relazioni tra forze e campi", come fondative di tutto - universo, mondo, uomo, ecc.. - mi sembra che non sposti minimamente la questione meta-fisica, che Rovelli rigetta: se sono le relazioni e non gli oggetti alla base della realtà o di quella che noi chiamiamo realtà, cosa cambia nella sostanza? Da dove vengono queste relazioni e perché esistono? Perché esistono invece di non esistere? E soprattutto come si fa ad escludere la scoperta futura in grado di confermare le ipotesi attuali della teoria delle Stringhe (la più accreditata), quella del Mondo di Mondi o quella di universi paralleli (fortemente sostenuta da molti astrofisici moderni) dove le leggi fisiche - e dunque anche la quantistica - potrebbero tranquillamente essere totalmente diverse dalle nostre oggi conosciute ?

Fabrizio Falconi


15/07/21

Arriva su Sky l'attesa docu-serie "Allen vs. Farrow" targata HBO


Allen v. Farrow è una docu-serie HBO divisa in quattro parti che ripercorre l'oscura storia di uno degli scandali piu' noti di Hollywood: l'accusa di abuso sessuale di Mia Farrow contro Woody Allen che coinvolge Dylan, loro figlia adottiva, il successivo processo per la custodia, la rivelazione della relazione di Allen con un'altra figlia della Farrow, Soon-Yi, con cui poi si sposo'

Allen v. Farrow e' su Sky Documentaries (canali 122 e 402), disponibile anche on demand e in streaming su NOW. 

Attraverso video amatoriali, documenti legali e interviste esclusive a Mia Farrow, Dylan Farrow, e Ronan Farrow, la serie riapre una delle ferite piu' dolorose nel mondo dello spettacolo, ricostruendo le accuse che la ex compagna e due dei suoi figli hanno mosso al regista, ovvero di aver molestato la piccola Dylan

Fatti per i quali Allen non fu mai incriminato. 

Il documentario, firmato da Kirby Dick e Amy Ziering, ha riportato la discussione su una delle piu' note, intricate e dibattute vicende di accuse di violenze sessuali nella storia dello spettacolo americano. 

È stato inoltre molto discusso per la sua visione Farrow-centrica che non ha dato spazio alla versione dell'accaduto di Woody Allen. Esamina pero' gli effetti devastanti del trauma su una famiglia ed e' una rappresentazione inquietante dello scetticismo e della reazione negativa che puo' derivare da un'accusa.