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08/03/23

"Aftersun", un film da non perdere !

 


Stavolta non c'è bisogno del mio invito alla visione, perché da quel che si vede sui profili socials, "Aftersun" è già sulla lista dei più gettonati - ed encomiati - del momento.

L'ha girato una trentacinquenne britannica, Charlotte Wells, alla sua opera prima, e presentato alla Semaine de La Critique di Cannes ha ricevuto apprezzamenti e elogi.
E' già difficile usare il termine "vicenda" su un film costruito quasi sul nulla: partecipiamo a una vacanza sulle coste della Turchia - villaggi turistici piuttosto cheap - di un ragazzo padre (festeggerà i suoi 30 anni durante la vacanza) e della figlia undicenne - una straordinaria attrice giovanissima che risponde all'italianissimo nome di Francesca Corio.
Il film - che con ogni evidenza raccoglie un intenso vissuto autobiografico - è fatto di lunghi silenzi, dialoghi scarnificati, immagini fisse, piani sequenze, apparenti giri a vuoto.
Mentre lo si vede però, si sente salire una tensione - non si sa verso dove o cosa - che ha a che vedere con il mondo interiore di Callum, il padre e con suoi evidenti fallimenti personali.
Non viene spiegato il motivo della separazione con la madre della bambina, che appare in rare telefonate a casa.
Non viene spiegato molto altro.
Ed è in questo che si apprezza parecchio, "Aftersun": nel suo coraggio di non spiegare, di lasciare tutto aperto, di lasciare allo spettatore - dopo un finale di grande coinvolgimento emotivo - l'interpretazione di ciò che accadrà dopo l'apparizione dei titoli di coda.
Scelta che lo fa, a mio avviso, di gran lunga preferire all'altro film del momento, "Gli spiriti dell'Isola" di cui ho già parlato qui, e che è un film dove invece ogni metafora è fin troppo calcata, un film preparato a tavolino, molto furbo, che strizza di continuo l'occhiolino allo spettatore.
Qui no. La Wells, come una moderna nipotina di Tarkovskij seppellisce il dolore nel profondo dei suoi personaggi e lo lascia alla scoperta dello spettatore.
Merito in gran parte dell'attore, Paul Mescal. Non era stato difficile, due anni fa, pronosticare per lui e per l'altrettanto formidabile Daisy Edgar-Jones, protagonisti di "Normal People" la serie tratta dall'omonimo romanzo di Sally Rooney, un grande futuro da protagonisti.
Sono entrambi già tra gli attori più ricercati del mercato d'autore.
+++SPOILER (Attenzione: non leggere se non si è visto il film e non si vuole sapere nulla del finale).
L'indice di un film interessante è anche questo spaesamento che lascia nello spettatore. Ho letto in questi giorni molti siti dove si avvicendano commenti e interpretazioni molto diverse sull'enigmatico finale del film.
Personalmente credo che sia la cosa migliore di tutto il film. In realtà non è molto importante come sia poi finito il rapporto tra Callum e sua figlia. Quella vacanza è stata la loro gloria e il loro requiem. L'amore, a volte, non basta da solo, a vincere le ombre.

Fabrizio Falconi - 2023

28/10/22

Scrittori, osate l'impossibile, non accontentatevi dell'ordinario: lo raccomandava Calvino

 


Rileggendo l'ultima delle Lezioni Americane di Calvino, l'ultima che scrisse, quella sulla Molteplicità (è la quinta, come è noto l'ultima, la sesta, dedicata alla Consistenza, Calvino non fece in tempo a scriverla), si ritrovano diversi passi che suonano come un monito agli scrittori di oggi (italiani) a ritrovare il coraggio di raccontare - e prima ancora di pensare - "in grande", ponendosi obiettivi alti, non consueti, non minimi, non minimalisti, non ordinari, non rinunciatari, non scontati. 

"L'eccessiva ambizione dei propositi" - scrive Calvino - "può essere rimproverabile in molti campi, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibile realizzazione. 

Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. 

Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo.

Uno scrittore che certo non poneva limiti all'ambizione dei proprio progetti era Goethe, il quale nel 1780 confida a Charlotte von Stein di star progettando un "romanzo sull'universo".  Poco sappiamo di come egli pensasse di dar corpo a questa idea, ma già l'aver scelto il romanzo come forma letteraria che possa contenere l'universo intero è un fatto carico di futuro."

Già: carico di futuro. Forse è per questa mancanza di coraggio e di ambizione che la letteratura italiana di oggi è così poco "carica di futuro". 

Fabrizio Falconi - 2022 

13/10/22

Torna Park Chan-wook, il geniale maestro di "Old Boy" e "Mr. Vendetta" - Il nuovo film, "Decision to Leave" potrebbe essere il suo più devastante - L'intervista

 


Molto prima che "Parasite" di Bong Joon Ho trionfasse agli Oscar e "Squid Game" facesse il giro del mondo, Park Chan-wook stupiva il pubblico mondiale con la sua visione sontuosamente stilistica, oltraggiosamente violenta e diabolicamente elaborata del cinema coreano. 

Il suo ultimo film, "Decision to Leave", è per certi versi più sobrio dei precedenti. Non ha la violenza brutale di "Oldboy" o il sesso di "The Handmaiden". 

Ma potrebbe essere il suo più devastante. È un noir tortuoso che si intreccia con una storia d'amore. Intricato e malizioso, "Decision to Leave" è un altro arazzo di genere di cui il magistrale Park può fare un elegante gioco. Al Festival di Cannes di maggio ha vinto il premio per la miglior regia

Park Hae-il interpreta un detective della polizia di Busan che si infatua di una vittima di omicidio (Tang Wei). La loro relazione in evoluzione si svolge come un'indagine

Prima dell'uscita del film nelle sale americane, venerdì, Park ha incontrato un giornalista durante una pausa del New York Film Festival, parlando della realizzazione di "Decision to Leave" (uno dei maggiori successi al botteghino del 2022 in Corea del Sud), del suo ruolo nell'espandere l'impronta del cinema coreano e del fatto che, a prescindere da martelli insanguinati o polpi mangiati interi, l'amore è sempre stato il suo soggetto principale.

Intervista 

D. La stanza in cui scrive è stata paragonata a quella che intrappola il protagonista di "Oldboy". È vero? 

PARK: (Ride) Quando abbiamo progettato la casa, abbiamo creato una stanza appositamente per me per scrivere. È una stanza piccola, con solo un tavolo e una scrivania, e sembra quasi di soffocare all'interno. Ma non scrivo solo in quella stanza. Scrivo davvero ovunque. Scrivo in uffici, caffè, alberghi e in aereo.

D. Tra un film e l'altro vive una vita relativamente tranquilla, vero? 

PARK: La mia casa è in una piccola città in una zona remota fuori Seoul. Anche la mia casa di produzione è alla periferia di Seoul. Quindi sono quasi come uno che lavora in un'azienda e fa la spola tra il mio ufficio e la mia casa.

D: A cosa pensava quando lei e il suo co-sceneggiatore, Jeong Seo-kyeong, avete scritto "Decision to Leave"? 

PARK: All'epoca stavo lavorando alla post-produzione di "Little Drummer Girl" e ho dovuto dirigere da solo l'intera serie di sei episodi. Ci è voluto molto tempo ed è stato anche molto impegnativo dal punto di vista fisico. Mi sono ammalato a casa. Naturalmente mia moglie era con me, ma comunque. Durante la fase di post-produzione, il mio co-sceneggiatore ha fatto un viaggio di famiglia a Londra e mi ha incontrato due volte in un caffè. Abbiamo avuto conversazioni generali su quale dovesse essere il mio prossimo lavoro. I due principi fondamentali da cui siamo partiti sono stati: Volevo che il film fosse un film coreano e che venisse proiettato nelle sale cinematografiche. Poi volevo che fosse un film poliziesco. Credo sia dovuto al fatto che all'epoca stavo leggendo la serie di Martin Beck. Ne sono stato molto influenzato. Volevo partire da un'ambientazione molto familiare: Un detective assegnato a un mistero di omicidio. E volevo creare una storia d'amore.

D: Il suo film suggerisce che tutti sono colpevoli in amore, ma il sospetto lo ucciderà.

PARK: È un bel modo di esprimerlo. Quando si è innamorati, si è naturalmente curiosi dell'altra persona. Si vuole sapere di più su di lui. In questo processo d'amore, c'è sempre un senso di dubbio che ti spinge a scavare più a fondo. Quando questo assume una forma drammatica, può anche trasformarsi in uno stalking dei suoi social media o in un'occhiata al telefono o in domande per verificare se sta mentendo. Molte persone fanno queste cose o hanno il desiderio di farle. Quando si raggiunge quel punto di dubbio e di suspense, penso che diventi davvero simile a un'indagine investigativa.

D.: L'amore potrebbe non essere quello che alcuni pensano immediatamente come il tema principale dei suoi film. Perché pensa di tornare sempre alle storie d'amore? 

PARK: Tutti i miei film parlano fondamentalmente di persone innamorate. Ma ognuno di questi lavori nella mia filmografia ha i suoi elementi di genere, come il thriller o l'horror. Credo che questo sia troppo forte e faccia dimenticare che si tratta di amore. L'occupazione di un artista è naturalmente quella di esplorare ciò che l'uomo è realmente, e credo che il soggetto migliore per esplorare le caratteristiche dell'uomo sia l'amore. Ma anche come intrattenitore, l'amore è il soggetto migliore. L'amore ha il brivido, il mistero, la comicità, ti tocca e ti fa inorridire. 

D.: Il suo film è spesso divertente, persino farsesco, ma finisce, indimenticabilmente, in tragedia. Come ha visto funzionare questo arco tonale? 

PARK: Ci sono alcune tragedie in cui è solo una progressione di eventi tristi che accadono. Ma credo che ci sia anche una tragedia che deriva da un film che non sembra tale. Il contrasto fa emergere ancora di più la tragedia. C'è qualcosa di molto farsesco nella loro situazione. C'è una farsa che deriva dalla simpatia. Senza risate, mi sembra di forzare un'emozione al pubblico. Come se dicessi loro: "Siete tristi, vero?" "Siete inorriditi, vero?". C'è un senso di totalità che deriva dall'umorismo che riempie tutti i buchi mancanti. 

D.: Anche il modo in cui la tecnologia modella la vita di uomini e donne è un tratto distintivo dei suoi film. Perché ha affollato "Decision to Leave" con telefoni, messaggi di testo e applicazioni di traduzione? 

PARK: Volevo che questo film fosse molto classico e avesse questi elementi mitici. Se si considera l'ultima scena, ricorda davvero Orfeo. Ma non volevo che fosse un film classico con lettere scritte a mano. Se avessi voluto farlo, avrei potuto inserirlo in un contesto in cui non c'erano telefoni. Molti registi sentono il desiderio di farlo. Invece, ho scelto di incorporare attivamente la tecnologia moderna, anche più di quanto si vede in spettacoli sugli adolescenti come "Euphoria". Prendere questa decisione è stato un momento significativo per me. 

D.: È orgoglioso del suo ruolo nella diffusione del cinema e della cultura pop coreana? 

PARK: Se mi fossi prefissato l'obiettivo di diffondere l'amore per il cinema coreano e avessi lavorato duramente per raggiungerlo, ne sarei orgoglioso. Ma la verità è che è successo così. È semplicemente il risultato del mio tentativo di divertirmi nel realizzare le mie opere e di permettere al pubblico di divertirsi guardando i miei lavori. Non sono mai consapevole del pubblico non coreano o straniero quando faccio un film. È più che altro che faccio i miei film con l'intenzione di farli apprezzare al pubblico coreano del futuro. Cinquanta o cento anni dopo, voglio che si divertano tanto quanto il pubblico contemporaneo. 

Fonte: Jake Coyle per AP-


20/09/22

La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione

 


Uno dei più bei libri italiani che siano stati scritti sul tema della depressione - che non minor valore di "Un'oscurità trasparente" del grande William Styron - è a mio avviso Vedere l'erba dalla parte delle radici, scritto da Davide Lajolo nel 1977, vincitore in quell'anno del Premio Viareggio, il romanzo autobiografico nel quale Lajolo raccontava scene della sua vita come metodo terapeutico per combattere la depressione psichica che lo aveva fortemente invalidato dopo un attacco di cuore.  

E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra. 

Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.  

Le parole di Gassman furono forti e profonde,  in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva  –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.

Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò,  "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”


Fabrizio Falconi - 2022 

15/09/22

"Federer è una esperienza religiosa": Quando David Foster Wallace celebrò il mito di Federer - il celebre articolo che apparve sul NYT



Quasi tutti quelli che amano il tennis e seguono i tornei maschili in televisione avranno sperimentato, negli ultimi anni, uno di quelli che potrebbero essere definiti “Federer Moments”.

Ci sono delle volte, quando guardi giocare il giovane tennista svizzero, in cui la mascella scende giù, gli occhi si proiettano in avanti ed emetti suoni che inducono il coniuge nell’altra stanza a venire a vedere se ti è successo qualcosa. Questi Federer Moments sono ancora più intensi se hai abbastanza esperienza diretta di gioco da comprendere l’impossibilità di quanto gli hai appena visto fare.

Tutti possiamo citare qualche esempio. Questo è uno. Finale dello US Open 2005, Federer contro Agassi, siamo all’inizio del quarto set, Federer ha il servizio. C’è uno scambio piuttosto lungo di colpi da fondocampo, con il caratteristico andamento a farfalla del tennis da picchiatori che predomina ai giorni nostri, con Federer e Agassi impegnati ognuno dei due a far correre l’avversario da un lato all’altro del campo, cercando di trovare il colpo vincente… fino a quando, improvvisamente, Agassi tira fuori un potente rovescio incrociato che costringe Federer a decentrarsi alla sua sinistra: ci arriva, in allungamento col rovescio, ma il tiro esce corto e tagliato, mezzo metro oltre la linea di battuta, una di quelle situazioni in cui Agassi va a nozze, e mentre Federer si scalmana per cambiare direzione e recuperare la posizione centrale, Agassi si fa sotto per prendere la palla corta di controbalzo e la scaglia con forza nello stesso angolo di prima, per cercare di prendere Federer in contropiede, e in effetti ci riesce: Federer è ancora vicino all’angolo, ma sta correndo verso il centro, e la palla ora è diretta verso un punto dietro di lui, dove stava appena un attimo fa, e non c’è tempo di girare il corpo, e Agassi segue il colpo scendendo a rete sul rovescio… ed ecco che Federer, non si sa come, riesce a invertire istantaneamente la spinta, arretra di tre o quattro passi quasi saltellando, a velocità impossibile, e colpisce la palla di diritto sul suo lato di rovescio, con tutto il peso spostato all’indietro, e quel diritto è un topspin lungolinea da urlo, e Agassi, sceso a rete, si protende per cercare di intercettarlo, ma la palla lo supera, corre lungo la linea e va a atterrare esattamente sull’angolo destro del campo di Agassi, conquistando il punto, con Federer che ancora sta danzando all’indietro quando la palla tocca terra.

E poi segue quel consueto, breve secondo di silenzio attonito prima che la folla newyorchese esploda, e in tv John McEnroe, con il suo auricolare da commentatore in testa, che dice (più che altro a se stesso, sembra): «Come ha fatto a far punto da quella posizione?». E ha ragione: considerando la posizione di Agassi e la sua straordinaria velocità, Federer doveva indirizzare la palla dentro un corridoio largo cinque centimetri se voleva superarlo, ed è quello che ha fatto, muovendosi all’indietro, senza tempo per preparare il colpo, e senza poter sfruttare il peso del corpo per imprimergli potenza. Era impossibile. Era una roba alla Matrix. Non so che razza di suoni siano usciti dalla mia bocca, ma la mia consorte dice di essere accorsa nella stanza e di aver trovato il divano pieno di popcorn e il sottoscritto in ginocchio, con gli occhi che sembravano quelli finti a palla che si trovano nei negozi di cianfrusaglie.

Questo è un esempio di Federer Moment, ed era solo in tivù, e la verità è che il tennis in tivù sta al tennis dal vivo più o meno come il video porno sta alla realtà percepita dell’amore umano.

Giornalisticamente parlando, non ho notizie succose da offrirvi su Roger Federer. A venticinque anni è il miglior tennista vivente. Forse il migliore di tutti i tempi. Biografie e profili si sprecano. Il programma di informazione della Cbs, 60 Minutes, gli ha dedicato una puntata lo scorso anno. Tutto quello che volete sapere su mister Roger Federer, il suo passato, la sua città natale in Svizzera, Basilea, il modo assennato e disinteressato con cui i genitori hanno sostenuto il suo talento, la sua carriera tennistica giovanile, i suoi iniziali problemi di fragilità e carattere, il suo amato allenatore delle giovanili, la morte accidentale di quell’allenatore, nel 2002, che lo ha al tempo stesso annichilito e temprato e lo ha aiutato a diventare quello che è oggi, i trentanove titoli conquistati finora in singolo nella sua carriera, gli otto titoli del Grande Slam, l’attaccamento, insolito per costanza e maturità, alla sua ragazza, che lo segue nei suoi viaggi (nel circuito maschile è una cosa rara) e gestisce i suoi affari (nel circuito maschile è una cosa mai sentita), il suo stoicismo di altri tempi e la sua solidità mentale e la sua bella sportività e la sua generale, evidente modestia e la sua meditata e filantropica prodigalità: è tutto a portata di Google.

Rimboccatevi le maniche. Il presente articolo vuole descrivere il modo in cui Federer viene sperimentato da uno spettatore, e il contesto in cui ciò avviene. La tesi specifica è la seguente: se non avete mai visto il ragazzo giocare dal vivo, e poi lo andate a vedere, di persona, sul sacro manto erboso di Wimbledon, in mezzo a un caldo letteralmente disidratante, seguito da vento e pioggia come nell’edizione di quest’anno, allora siete il soggetto ideale per sperimentare quella che uno degli autisti dei pulmini riservati alla stampa durante il torneo descrive come «un’esperienza che rasenta lo spirituale».

La bellezza non è l’obbiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi. Il rapporto è più o meno quello che intercorre fra il coraggio e la guerra. La bellezza umana di cui parliamo in questa sede è una bellezza di tipo particolare: la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso o i modelli culturali. Sembra legata, in realtà, alla riconciliazione degli esseri umani con il fatto di avere un corpo.

Naturalmente, negli sport maschili nessuno parla mai di bellezza o di grazia del corpo. Gli uomini possono professare il loro “amore” per lo sport, ma questo amore deve sempre essere casto e rappresentato secondo la simbologia della guerra: eliminazione contro avanzamento, gerarchia del rango e della classifica, ossessione per le statistiche, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalista, uniformi, masse rumoreggianti, striscioni, gente che si batte il petto, facce dipinte, ecc.

Per ragioni non per tutti evidenti, i codici espressivi della guerra dalla maggior parte di noi sono considerati più sicuri dei codici espressivi dell’amore. Magari la pensate così anche voi, e in questo caso il mesomorfico e marzialissimo spagnolo Rafael Nadal è l’uomo-uomo che fa per voi, con la manica tirata su a mostrare il bicipite e le autoesortazioni in stile teatro Kabuki. E per di più, Nadal è la nemesi di Federer nonché sorpresa dell’anno a Wimbledon, dato che è uno specialista della terra battuta e nessuno si aspettava di vederlo andare più avanti dei primi turni. Mentre Federer, dal primo turno alle semifinali, non ha offerto la minima sorpresa o la minima suspense competitiva. Ha surclassato ogni avversario con tale eclatante superiorità che stampa e televisione si preoccupavano che i suoi match, troppo noiosi, non riuscissero a tener testa al fervore nazionalista dei Mondiali di calcio.

Ma la finale del 9 luglio è il sogno di chiunque. Nadal contro Federer è un replay della finale del Roland Garros del mese prima, vinta da Nadal. Federer, in tutto l’anno, aveva perso appena quattro partite, ma sempre contro Nadal. E si aggiunga che Nadal aveva adattato il suo stile di gioco terragnolo all’erba, avvicinandosi più alla linea di fondo per i tiri da fondocampo, potenziando il servizio e superando la sua allergia alla rete. Al terzo turno, ha praticamente sventrato Agassi. Nella finale di quest’anno va in scena il fascino della vendetta, la dinamica re-contro-regicida, il contrasto stridente fra i caratteri. Il machismo passionale dell’Europa del sud contro la contorta, clinica abilità artistica di quella del nord. Apollo e Dioniso. Scalpello e mannaia. Destrorso e mancino. Numero uno e numero due al mondo. Nadal, l’uomo che ha spinto fino alle estreme conseguenze il tennis moderno tutto potenza e fondocampo, contro un uomo che ha trasfigurato questo tennis medesimo, eccezionale sia per precisione e varietà sia per ritmo e rapidità, ma che può essere incredibilmente vulnerabile, o intimidito, di fronte al primo. Un giornalista sportivo britannico, eccitatissimo insieme ai suoi colleghi in tribuna stampa, ripete due volte: «Sarà una guerra».

La bellezza di un grande atleta è quasi impossibile da descrivere in modo diretto. O da evocare. Il diritto di Federer è una grande frusta liquida, il suo rovescio a una mano può diventare piatto, carico di effetto o tagliato, tagliato con una spinta tale che la palla cambia forma nell’aria e schizza sull’erba ad altezza caviglia. Il suo servizio ha una velocità e un livello di precisione e varietà tale che nessun altro riesce ad avvicinarcisi; quando serve, il suo movimento è sinuoso e diseccentrico, distinguibile (in tivù) solo da un particolare schiocco tipo anguilla che coinvolge tutto il corpo al momento dell’impatto. La sua capacità di anticipazione, il suo senso del campo, sono di un altro pianeta, e il suo gioco di gambe non ha eguali nel mondo del tennis (da bambino, era anche un calciatore prodigio). Tutto questo è vero, eppure niente di tutto ciò spiega veramente qualcosa, niente evoca l’esperienza di guardare quest’uomo che gioca. Di testimoniare, in prima persona, la bellezza e la genialità del suo gioco. Ti devi avvicinare all’essenza estetica per vie indirette, girarci intorno, o come faceva San Tommaso d’Aquino col suo ineffabile soggetto di studio, cercare di definirlo dicendo ciò che non è.

Esistono tre tipi di spiegazioni valide per dar conto dell’ascendente di Federer. Una ha a che fare con il mistero e la metafisica ed è, ritengo, quella che più si avvicina alla realtà. Le altre sono più tecniche e più praticabili per un testo giornalistico. La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari, soprannaturali atleti che sembrano essere esentati, almeno in parte, da certe leggi della fisica. Esempi analoghi sono quelli di Michael Jordan, che oltre a riuscire a saltare ad altezze disumane era capace di rimanere sospeso in aria un istante o due di più di quanto consentito dalla forza di gravità, e Muhammad Ali, che riusciva a “galleggiare” sul ring e a mettere a segno due o tre diretti nel tempo necessario per assestarne uno. Dal 1960 a oggi di altri esempi del genere ce n’è forse una mezza dozzina. E Federer appartiene a questa categoria, una categoria che si potrebbe chiamare geni, mutanti o incarnazioni divine. Non è mai in affanno o sbilanciato. La palla che si avvicina rimane sospesa, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe. I suoi movimenti sono sinuosi, più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Wayne Gretzky sembra essere al tempo stesso meno solido e più solido degli uomini che affronta. Specialmente nel completo bianco che Wimbledon ancora ama imporre ai partecipanti, Federer appare quello che forse (secondo me) è: una creatura dal corpo fatto sia di carne sia, in un modo o nell’altro, di luce.

Questa storia della palla che con spirito collaborativo rimane sospesa lì, rallentando, come se fosse suscettibile al volere dell’elvetico: la metafisica sta qui. Qui e nel seguente aneddoto. Dopo la semifinale del 7 luglio in cui Federer ha distrutto Jonas Björkman — non semplicemente battuto, distrutto — e subito prima della rituale conferenza stampa post- partita in cui Björkman, che è amico di Federer, dice di essere contento di «aver avuto un posto in prima fila» per vedere lo svizzero «giocare il tennis più vicino alla perfezione che si possa immaginare», Federer e Björkman chiacchierano e scherzano fra di loro, e lo svedese gli chiede se la palla quel giorno per lui era più grande del solito, visto come aveva giocato, e Federer gli conferma che «era grande quanto una palla da bowling o da basket». Per Federer era solo un modo modesto e scherzoso di consolare Björkman, per confermargli che anche lui era sorpreso dalla qualità del gioco espresso quel giorno; ma è anche una battuta rivelatrice di quello che è il tennis per lui. Immaginate di essere una persona con riflessi, coordinazione e velocità soprannaturali, e di giocare a tennis ad alti livelli. Giocando, non vi sembrerà di possedere dei riflessi e una velocità fuori dal comune; vi sembrerà invece che la palla sia grande, che si muova lentamente e che avete tutto il tempo che volete per colpirla. In altre parole, non proverete niente di simile alla velocità e all’abilità (empiricamente reali) che vi attribuirà il pubblico dal vivo, guardando le palline muoversi a una velocità tale da diventare indistinte masse sibilanti.

La velocità è solo un elemento. Ora passiamo al tecnico. Il tennis spesso è definito un «gioco di centimetri», ma è un luogo comune che prende come punto di riferimento più che altro il punto in cui atterra la pallina. Se il punto di riferimento è il giocatore che colpisce la palla in arrivo, allora il tennis è più correttamente un gioco di micron: cambiamenti tanto sottili da essere quasi inesistenti riguardo al momento dell’impatto, avranno ripercussioni considerevoli sulla direzione e la traiettoria della palla. Lo stesso principio spiega perché la minima imprecisione quando si mira a un bersaglio con un fucile farà sbagliare il tiro, con un bersaglio sufficientemente lontano.

Per illustrare la tesi, rallentiamo il tutto. Immaginate di essere un giocatore di tennis, posizionato appena dietro la linea di fondo sull’angolo destro. L’avversario vi serve una palla sul diritto, voi ruotate in modo che il vostro fianco sia sulla traiettoria della palla in arrivo, e cominciate a portare indietro la racchetta per effettuare la risposta di diritto. Continuate a visualizzare il punto in cui vi trovate quando siete a metà del movimento: la palla ora è all’altezza del fianco più avanzato, a una quindicina di centimetri dal punto di impatto.

Consideriamo alcune delle variabili implicate. Sull’asse verticale, cambiare l’angolo di inclinazione della testa della racchetta di un paio di gradi soltanto produrrà rispettivamente un topspin o un colpo di taglio; mantenendola perpendicolare, verrà fuori un diritto piatto, senza effetto. Orizzontalmente, spostare anche di pochissimo a sinistra o a destra la testa della racchetta, e colpire la palla un millisecondo prima o dopo farà la differenza tra una risposta incrociata e un lungolinea. Ulteriori, piccole modifiche nella curva del movimento del vostro colpo da fondocampo e dell’accompagnamento del colpo contribuiranno a determinare se la palla supererà la rete a una distanza lontana o vicina dal bordo della medesima, e questo, insieme alla velocità del colpo (e a certe caratteristiche dell’effetto che imprimete alla palla) determinerà la profondità della risposta, l’altezza del rimbalzo, ecc. Queste, naturalmente, sono solo le distinzioni di massima: per esempio, c’è la distinzione tra topspin potente e topspin morbido, o quella fra colpo incrociato da un angolo all’altro del campo e colpo incrociato appena accennato, e così via. E poi c’è anche la questione della distanza a cui consenti alla palla di avvicinarsi al tuo corpo, della presa che usi, di quanto pieghi le ginocchia e/o di quanto porti avanti il peso, se sei in grado o meno di guardare la palla e simultaneamente vedere cosa sta facendo il tuo avversario dopo aver servito. Anche tutte queste cose contano. E in più c’è il fatto che non stai mettendo in moto un oggetto statico, stai invertendo la traiettoria e (in varia misura) l’effetto di un proiettile che arriva verso di te, a una velocità, nel caso del tennis professionistico, tale da rendere impossibile un pensiero cosciente. Il servizio di Mario Ancic, ad esempio, spesso viaggia a una velocità intorno ai 210 chilometri orari. Considerando che dalla linea di fondocampo di Ancic alla vostra intercorre una distanza di poco meno di 24 metri, questo significa che il suo servizio impiega 0,41 secondi per arrivare fino a voi. È meno del tempo necessario per battere le ciglia due volte, rapidamente.

La conclusione è che il tennis professionistico comporta intervalli di tempo troppo brevi per agire in modo deliberato. Da un punto di vista temporale, siamo piuttosto nel raggio d’azione dei riflessi, reazioni esclusivamente fisiche, che bypassano il pensiero cosciente. E ciononostante, rispondere a un servizio in modo efficace dipende da un ampio insieme di decisioni e aggiustamenti fisici molto più consapevoli e intenzionali di un battito di ciglia, del sobbalzo che facciamo quando qualcosa ci spaventa, ecc.

Per riuscire a rispondere con efficacia a un servizio potente ci vuole quello che qualcuno chiama “senso cinestetico”, che significa la capacità di controllare il corpo e le sue estensioni artificiali tramite un sistema complesso e molto rapido di compiti. La nostra lingua ha un vasto campionario di termini per descrivere i vari elementi di questa capacità: percezione, tocco, forma, propriocezione, coordinamento, coordinamento occhio-mano, cinestesia, grazia, controllo, riflessi, e via elencando. Per i giovani tennisti promettenti, l’obbiettivo principale dei durissimi programmi di allenamento quotidiani di cui si sente parlare è affinare il senso cinestetico.  

Siamo sul 2-1 per Nadal nel secondo set della finale, e lo spagnolo è al servizio. Federer ha vinto il primo set lasciando l’avversario a zero, ma poi ha avuto un leggero calo, come a volte gli succede, e si è trovato subito sotto di un break. Siamo ai vantaggi, è avanti Nadal, un punto con 16 tocchi. Rispetto a Parigi, le battute di Nadal sono molto più veloci, e in questo caso serve centrale. Federer tiene a galla la palla con un diritto morbido alto: può permetterselo perché Nadal non scende mai a rete dopo il servizio. Lo spagnolo effettua un tipico diritto potente in topspin, con palla indirizzata in profondità sul rovescio di Federer; Federer replica con un rovescio in topspin ancora più potente, quasi un colpo da terra battuta. Nadal è preso di sorpresa ed è costretto ad arretrare leggermente e risponde con una palla corta, bassa e tesa, che atterra appena oltre la T della linea di battuta, sul diritto di Federer. Contro qualsiasi altro avversario, più o meno, Federer su una palla del genere potrebbe semplicemente chiudere il punto, ma una delle ragioni per cui Nadal lo mette tanto in difficoltà è che è più veloce degli altri, può arrivare su palle su cui gli altri non arrivano: e quindi Federer in questo caso si limita a incrociare di diritto, piatto e di forza media, cercando, più che il colpo vincente, una palla bassa e non troppo angolata, che costringe Nadal a salire decentrandosi sul lato destro, quello di rovescio per lui. Nadal effettua un rovescio lungolinea in corsa; Federer, sempre di rovescio, restituisce la palla tagliata con un backspin, sulle stessa linea, lenta e fluttuante, costringendo Nadal a tornare nello stesso punto. Nadal rimanda la palla indietro tagliandola — e siamo a tre colpi lungo la stessa linea — e Federer a sua volta gliela rimanda indietro, sempre tagliata e sempre nello stesso punto, questa volta ancora più lenta e più fluttuante, e Nadal pianta i piedi per terra e spara un violento rovescio a due mani in lungolinea sempre sullo stesso lato, è come se ormai lo spagnolo avesse piantato le tende sul suo lato destro: non cerca più di tornare indietro al centro della linea di fondo tra un colpo e l’altro, Federer lo ha come ipnotizzato. Ora lo svizzero tira fuori un rovescio in topspin, profondo e violentissimo, di quelli che fanno sibilare la palla, in un punto leggermente spostato sulla sinistra di Nadal: Nadal ci arriva e spara un diritto incrociato; Federer risponde con un rovescio incrociato ancora più forte e potente sulla linea di fondo, talmente veloce che Nadal deve colpire di diritto all’altezza del piede di appoggio e poi correre verso il centro mentre la palla atterra a mezzo metro circa da Federer, di nuovo sul rovescio. Federer fa un passo avanti e confeziona un altro rovescio incrociato, ma completamente diverso, molto più corto e angolato, un angolo che nessuno avrebbe previsto, e talmente potente e carico di effetto che atterra corto, appena al di qua della linea laterale, schizzando via dopo il rimbalzo, e Nadal non può avanzare per intercettare il tiro e non può arrivarci lateralmente sulla linea di fondo, a causa dell’angolazione e dell’effetto: fine del punto. È un punto spettacolare, un Federer Moment: ma guardandolo dal vivo, ti rendi conto che è anche un punto che Federer ha cominciato a costruire quattro o cinque colpi prima. Tutto quello che è avvenuto dopo quel primo lungolinea tagliato è stato progettato dalla svizzero per abbindolare Nadal, cullarlo e poi spezzargli il ritmo e l’equilibrio aprendosi quell’ultimo, inimmaginabile angolo, un angolo che sarebbe stato impossibile senza un topspin estremo.

Federer non ha niente da invidiare a Lendl e ad Agassi quanto a potenza dei colpi, si solleva da terra quando colpisce ed è capace di colpire da fondocampo con una potenza che nemmeno Nadal. La raffinatezza, il tocco e la classe non sono morti nell’era del tennis dei picchiatori. Perché ora, nel 2006, siamo ancora nell’era del tennis dei picchiatori: e Roger Federer è un picchiatore di prima categoria, uno dei più agguerriti.

Il fatto è semplicemente che lui non è soltanto questo. È anche la sua intelligenza, la sua capacità occulta di anticipare gli eventi, il suo senso del campo, la sua capacità di interpretare e manipolare gli avversari, di mescolare effetto e velocità, di sviare e mascherare, di usare capacità di visione tattica, vista periferica e gamma cinestetica invece della semplice potenza meccanica, e tutto questo ha messo in mostra i limiti, e le possibilità, del tennis maschile così come viene giocato oggi.

Roger Federer sta dimostrando che la velocità e la potenza del tennis professionistico odierno sono semplicemente lo scheletro, non la carne.

Federer, in senso figurato e in senso letterale, ha reincarnato il tennis maschile, e per la prima volta da anni il futuro di questo sport appare imprevedibile.


Federer is a religious experience di David Foster Wallace apparve originariamente in inglese su The New York Times del 20 agosto 2006 e, in traduzione italiana di Fabio Galimberti, su Repubblica del 3 settembre 2006 con il nuovo titolo “Federer il mutante e il segreto del tennis perfetto”. 

Fonte: Gli Scritti 

17/06/22

* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*

 

Paul McCartney fotografato dalla moglie Linda

Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista. 

Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo. 

Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni. 

Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.

Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".

John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.

Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo. 

Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività. 


Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.

La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.

In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.

Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo: 

 "Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale. 

La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead".  Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.

Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia".   Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.

Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori.  Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare. 

Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".

fonti: Wikipedia - LaRepubblica

18/04/22

"The Gilded Age", la nuova serie di quel genio di Julian Fellowes

 


Julian Fellowes è senza dubbio uno scrittore eccezionale. Quando aveva 50 anni il maestro Robert Altman lo contattò per scrivere la sceneggiatura di uno dei suoi ultimi film più riusciti in assoluto: "Gosford Park"

Il film, con un cast tutto di mostri sacri inglesi (Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Alan Bates, Emily Watson, Helen Mirren, Stephen Fry), dopo il successo planetario ricevette ben 7 nominations agli Oscar 2002. 

L'unica statuetta che però il film portò a casa (su 7) fu quella conquistata da Julian Fellowes per la migliore sceneggiatura originale (che aveva firmato da solo). 

Diversi anni più tardi Fellowes, che nella vita ha fatto anche l'attore, il regista, il produttore e naturalmente lo scrittore di romanzi, è diventato universalmente noto per la serie "Downton Abbey" (6 stagioni), una delle più viste di sempre, che ha messo d'accordo tutti, pubblico popolare e platea sofisticata amante delle atmosfere e delle psicologie alla Henry James. 

Ci voleva dunque una buona dose di coraggio per Fellowes, per cimentarsi con una nuova saga originale, intitolata "The Gilded Age", ambientata stavolta nella New York di fine Ottocento, qualche decennio prima dei fatti di Downton Abbey. 

Anche stavolta Fellowes ha messo in piedi un congegno narrativo perfetto (per ora 1 stagione, 9 puntate) basato sullo scontro tra la classe sociale degli immigrati americani di prima generazione legati alla madre patria Inghilterra, e perciò assai snob e la nuova generazione di parvenu americani, fortissimamente intenzionati a prendersi soldi, potere e successo e soprattutto notorietà e riconoscimento da parte della vecchia

La scrittura e i dialoghi sono del solito alto livello, la ricostruzione è fenomenale, senza i soliti trucchi al computer, con centinaia di comparse vere, costumi e ambienti fantastici, nella più consolidata tradizione dei lavori di Fellowes. 

Però sono quasi sicuro che The Gilded Age non avrà lo stesso successo di Downton Abbey (anche se pure qui ci saranno diversi seguiti): i personaggi sono (volutamente) meno empatici, non c'è il tono ironico e leggero (e romantico/sentimentale) del british mood che piace molto in Italia. 

D'altronde Fellowes è troppo serio per non averci pensato: gli USA di fine ottocento, non erano l'Inghilterra. 

Qui il confronto, le ambizioni, la lotta sociale, le dinamiche sono molto più cruente, prive di scrupoli. 

Non mancano personaggi moralmente virtuosi, ovviamente, in primis la protagonista Marion (impersonata da Louisa Jacobson, figlia di Meryl Streep). 

Ma si respira un'aria meno lieta e consolante. La visione The Gilded Age è comunque del tutto raccomandabile: il puro grande piacere dell'intrattenimento anglosassone, sullo spartito di una scrittura sempre brillante, formidabile.

Fabrizio Falconi - 2022 

28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022




16/01/22

Chi era il vero poeta che si nascondeva dietro il nome di Humboldt nel romanzo che valse a Saul Bellow il Premio Nobel per la Letteratura?

Delmore Schwartz in una foto giovanile 

Il Dono di Humboldt è il grande romanzo che, uscito nel 1975, valse a Saul Bellow il premio Pulitzer nel 1976 e contribuì non poco anche al conferimento del Premio Nobel per la Letteratura, assegnato a Bellow in quello stesso anno. 

Un romanzo fiume, che aveva al centro la figura di un poeta vero, cui la fama non aveva arriso, che viveva una vita piuttosto oscura, sempre in bilico sul disagio psichico, ma il cui enorme talento incuteva nei confronti di Charles Citrine, il protagonista del romanzo (costruito da Bellow con toni autobiografici, sul modello di se stesso), soggezione e enormi sensi di colpa.

Ma chi era nella realtà il vero Humboldt? 

Le recensioni dell'epoca sottolinearono che il personaggio di Humboldt era basato sulla vita del poeta Delmore Schwartz (1913-1966). 

Come Humboldt, Schwartz aveva fantasie paranoiche che lo coinvolgevano in situazioni farsesche e umilianti

La carriera di Schwartz era iniziata brillantemente; ma alla fine non sapeva più scrivere; beveva molto e litigava con i suoi amici. La fine arrivò in uno squallido hotel nel centro di Manhattan, un infarto nel cuore della notte mentre portava fuori la spazzatura. Per giorni il corpo del poeta rimase incustodito. 

Humboldt ovviamente non era l'unico personaggio in "Il dono di Humboldt" che sembrava essere stato preso dalla vita. Charlie Citrine, che racconta la storia in prima persona, ha, come abbiamo detto, una sorprendente somiglianza con Saul Bellow. In effetti, ci sono momenti in cui la narrativa di Bellow sembra più vicina alla realtà della pubblicità di Bellow. Charlie è uno scrittore. Ha avuto un certo successo commerciale ma non ha raggiunto i suoi ideali giovanili, e ora scrive soprattutto di noia. 

L'altro protagonista è il poeta morto Von Humboldt Fleisher, resuscitato nelle memorie di Charlie. 

Ma per far muovere il romanzo, Bellow coinvolge Charlie con un personaggio di nome Cantabile, una sorta di gangster, che inizia a umiliarlo.  Charlie ha anche una ragazza, Renata, un tipo di bomba sexy, che ha già precedenti nella narrativa di Bellow, in particolare "Herzog". Renata alla fine lascia Charlie e se ne va con un becchino. 

Per quanto riguarda il "regalo" promesso dal titolo, si scopre essere denaro. 

Humboldt ha scritto la sceneggiatura di un film basato su un'idea con cui lui e Charlie si divertivano anni fa. "Ho sempre pensato che sarebbe diventato un classico", dice Humboldt nella lettera che ha lasciato a Charlie.

Come sempre, però, l'interesse di “Humboldt's Gift” non sta nella trama, è nelle idee di Bellow. 

Ha scelto di fare di Delmore Schwartz un personaggio perché la vita di Schwartz ha illustrato la difficoltà di essere un artista in America, un problema che affligge lo stesso Bellow

Inoltre, Schwartz era ebreo e Bellow è fedele alle tradizioni ebraiche. Schwartz è nato a Brooklyn nel 1913, figlio di Harry e Rose (Nathanson) Schwartz

Ha studiato all'Università del Wisconsin, alla New York University, dove si è distinto in filosofia, e ad Harvard. 

Da studente curò na piccola rivista, Mosaic, e si guadagnò la reputazione di "precocità". All'età di 24 anni pubblicò un racconto, "In Dreams Begin Responsibility" (edito anche in Italia), che lo rese famoso, almeno nei circoli letterari. 

Dwight Macdonald, che iniziò a pubblicare Partisan Review nel 1937 come "rivista socialista rivoluzionaria", ricorda l'impatto delle "Responsabilità"

Era una storia sbalorditiva, secondo Macdonald, migliore di qualsiasi altra di Hemingway o Fitzgerald, e altri critici hanno concordato sul merito di questo particolare lavoro

Nella sua concezione, dalla prima riga alla fine, “Responsabilità” ha l'aspetto di un mito o di una favola, un'idea che è balzata in piena forma nella mente, una situazione che ci sembra perfettamente ovvia una volta che l'abbiamo vista

La storia inizia nel 1909. "Mi sento", dice il narratore, "come se fossi in un cinema". Sta guardando un vecchio film muto. “È domenica pomeriggio, 12 giugno 1909, e mio padre sta camminando per le tranquille strade di Brooklyn mentre va a trovare mia madre” Suo padre sta pensando mentre cammina: come sarà bello presentarla alla sua famiglia. Ma lui - non è sicuro di volersi sposare, "e ogni tanto va in panico per il legame già stabilito".

In questa storia, come scrisse la critica dell'epoca, Schwartz è stato il primo ad avere una visione della vita ebraica in America che sarebbe stata ripresa da altri scrittori. Tutti dicevano che Delmore Schwartz era brillante, ed era stato elogiato da TS Eliot, che era come "essere stato canonizzato da un arcivescovo"

Ma questo era già un successo più grande di quanto Delmore sapesse gestire.

Fu coinvolto nella politica letteraria, cercando di preservare la fama che aveva conquistato così presto. Era terribilmente imbarazzato. Sapeva che ci si aspettava che realizzasse dei capolavori e che i critici erano pronti per lui.

La “canonizzazione” di Schwartz da parte di Eliot portò, in parte, alla morte del poeta più giovane: come qualsiasi altro genere di affari, infatti, nessuno scrittore che sia stato elogiato non riesce a suscitare invidia. 

Il secondo libro di Schwartz, "Genesis", fu così piuttosto deludente. La gente lo diceva. Fece una traduzione di "Una stagione all'inferno" di Rimbaud ed era evidente che non conosceva il francese: la traduzione era piena di passi falsi. Cosa gli ha fatto pensare di poter tradurre da una lingua che non conosceva? Aveva manie di grandezza. 

Questi sono stati seguiti da una serie di sospetti. Negli anni successivi Schwartz uscì fuori di testa, ed era convinto, come Humboldt nel romanzo, che Rockefeller stesse complottando contro di lui, danneggiando il suo cervello inviando raggi dall'Empire State Building. 

Tra i due estremi, la mente che poteva vedere la vita dei suoi genitori chiaramente come se stesse guardando un film, e la mente offuscata dal sospetto, c'erano molte fasi: contorcimenti, perdite, ritorni a se stessa, nuovi inizi e nuovi fallimenti. Le fasi sono descritte o suggerite da Bellow nel romanzo basato sulla vita di Schwartz. 

La prima edizione italiana de Il Dono di Humboldt di Saul Bellow

Ci sono aspetti di Schwartz, tuttavia, che non sono rappresentati da Bellow. Schwartz aveva una venerazione per la tradizione, in particolare le tradizioni letterarie. Quando insegnava ad Harvard, il primo di una serie di incarichi accademici, accompagnava i visitatori in un tour del cimitero di Mt. Auburn, dove è sepolta la famiglia di Henry James. 

Come si sa, l'America non è stata gentile con i poeti; offre loro abbandono e oscurità. Pochissimi poeti americani sono conosciuti dal pubblico, anche il pubblico che legge. 

Ciò che Wordsworth dice dei poeti di tutto il mondo sembra particolarmente vero per i poeti in America. Noi poeti nella nostra giovinezza cominciamo con letizia, ma ne derivano alla fine lo sconforto e la follia. Le idee con cui un uomo sceglie di vivere possono fare la differenza per il suo benessere anche se può avere una debolezza psicologica. 

Delmore Schwartz, come altri letterati in un'epoca di incredulità, non aveva altro di cui fidarsi se non la letteratura. 

Ne "Il regalo di Humboldt", Bellow fa dire a Charlie Citrine alcune cose dure sui compilatori di antologie che, dalla morte di Humboldt, hanno omesso le sue poesie dalle loro raccolte. 

Nella sua passione per l'arte Schwartz era ingenuo, nel buon senso del termine. Era l'amante della poesia che la gente amava. 

Alcuni artisti si consumano nel processo di creazione: hanno fatto del loro meglio e non c'è più niente da fare. Un episodio in cui Humboldt insegue un critico è tratto dalla vita. Schwartz era fuori di testa per la gelosia, o geloso perché era fuori di testa. Il critico aveva una stanza al Chelsea Hotel. Con suo sgomento, anche Schwartz prese una stanza lì e iniziò a molestarlo. Le cose sono arrivate al culmine una notte con Schwartz che ha bussato alla sua porta, gridando: "Esci e combatti come un uomo!"  Il critico ha telefonato alla reception e loro hanno chiamato la polizia. Quando sono arrivati, il critico non ha voluto sporgere denuncia. Aveva la sua carriera a cui pensare: non gli sarebbe servito a niente essere conosciuto come il critico che ha fatto rinchiudere un poeta. La polizia ha fatto alcune domande e Schwartz è salito nella sua stanza e si è chiuso dentro. La polizia è salita e lui non li ha lasciati entrare. È diventato isterico. Sono entrati dopo di lui. È diventato violento. Lo hanno portato via.

Era difficile per coloro che conoscevano Schwartz solo nei suoi ultimi anni capire che una volta era stato un uomo dotato e attraente. 

Negli ultimi anni Schwartz ebbe un lavoro alla Syracuse University. Lo trattavano generosamente; hanno sopportato molto, perché non ha insegnato la materia, ha insegnato da solo. Ma i giovani lo amavano: era uno dei pochi professori a casa cui sarebbero andati. Negli ultimi mesi, quando era nei bar del Greenwich Village, a bere birra nel tentativo di rimanere sobrio, era al centro di un gruppo di giovani, tra i quali un giovane Lou Reed che successivamente e per sempre, considerò Schwartz il suo maestro. Poi sarebbe tornato al suo albergo delle pulci sulla 48esima strada.

Tutti concordano sul fatto che Schwartz nel suo periodo migliore fosse un grande oratore: "se fosse stato inglese sarebbe stato nominato cavaliere per la sua conversazione", afferma Dwight Macdonald. 

Bellow è sempre stato affascinato dal comportamento disinibito e turbolento. È particolarmente affascinato dalla vita bassa, le persone sagge del mondo. "I figli delle tenebre", diceva spesso, "sono più saggi nella loro generazione dei figli della luce". 

Il poeta di Bellow è pazzo, mentre Delmore Schwartz lo era solo a volte e sempre più verso la fine della sua vita. Questo ci porta al punto del romanzo: Bellow vede l'artista come un capro espiatorio. L'uomo sensuale ordinario guarda la vita dell'artista e dice a se stesso: “Se non fossi un bastardo, un ladro e un avvoltoio così corrotto e insensibile, non potrei sopravvivere neanche a questo. Guarda questi uomini buoni, teneri e dolci, i migliori di noi. Hanno ceduto, poveri pazzi"

 Il messaggio non è nuovo. Altri hanno sottolineato che la vita autodistruttiva di Dylan Thomas o Plath o Berryman serve a rassicurare la classe media sui suoi valori

E gli stessi poeti si sono affrettati a conformarsi, accettando il ruolo assegnato, e si sono ubriacati fino allo stordimento, si sono uccisi, hanno recitato un'idea borghese della vita dell'arte. “E poeti come ubriaconi e disadattati o psicopatici, come i miseri, poveri o ricchi, sono sprofondati nella debolezza". 

Il comportamento di Humboldt - comprare una pistola e inseguire il critico che crede abbia sedotto sua moglie - è irrimediabilmente antiquato. A questo punto, Bellow  sta dicendo all'artista: "Povera linfa, non ce la farai mai". Gli consiglia di rinunciare alla sua arte e di trovare “la cosa nuova, la cosa necessaria” che gli permetterà di poter competere con la modernità tecnologica. 

Qual è la "cosa nuova?" Bellow non dice. Charlie Citrine ipotizza nuovi tipi di coscienza e l'immortalità dell'anima, ma i suoi pensieri sono troppo vaghi per essere confortanti. Tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è la distruzione del poeta. E non c'è differenza tra la vita e l'arte: come il poeta è condannato, così è la poesia. Bellow si è impegnato a dimostrare che l'arte come l'abbiamo conosciuta non è più possibile in un mondo di macchine. Sembra determinato a portarlo con sé, senza lasciare nulla per il resto di noi. Ma non è necessario accettare questo punto di vista. 

Schwartz ha detto questo sul futuro della poesia: “Nel mondo moderno, la poesia è alienata; rimarrà indistruttibile finché sopravvive la fede e l'amore di ogni poeta nella sua vocazione”. 

La vita di Schwartz, per quanto infelice, sembra rappresentare qualcosa di più: una devozione. Schwartz è rimasto insomma una delle figure simboliche che tormentano la coscienza degli americani, dai tempi in cui non riusciva più a scrivere e vagava per New York in cerca di affetto. Nella vita riuscì a raggiungere le vette della commedia, gli abissi dell'umiliazione, il pathos che ammirava nei libri. La sua vita è un classico americano, anche se forse non la sua arte. Ed è tutto questo che Saul Bellow ha cantato con la sua grande opera. 

Saul Bellow


fonti: Louis Simpson, The New York Times