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08/08/20

"Sempre per sempre" - una poesia di Francesco De Gregori




Sempre per sempre

Pioggia e sole
Cambiano
La faccia alle persone
Fanno il diavolo a quattro nel cuore e passano
E tornano
E non la smettono mai
Sempre e per sempre tu
Ricordati
Dovunque sei
Se mi cercherai
Sempre e per sempre
Dalla stessa parte mi troverai
Ho visto gente andare, perdersi e tornare
E perdersi ancora
E tendere la mano a mani vuote
E con le stesse scarpe camminare
Per diverse strade
O con diverse scarpe
Su una strada sola
Tu non credere
Se qualcuno ti dirà
Che non sono più lo stesso ormai
Pioggia e sole abbaiano e mordono
Ma lasciano
Lasciano il tempo che trovano
E il vero amore può
Nascondersi
Confondersi
Ma non può perdersi mai
Sempre e per sempre
Dalla stessa parte mi troverai
Sempre e per sempre
Dalla stessa parte mi troverai
Fonte: LyricFind
Compositori: Francesco De Gregori

Testo di Sempre e per sempre © Sony/ATV Music Publishing LLC

07/07/20

La storia della mano di Ennio Morricone voluta dal Maestro e realizzata dal più bravo cesellatore di Roma

La mano di Morricone realizzata da Dante Mortet



"So Morricone. Ma sta mano la famo o no?". Dante Mortet, artigiano e dunque artista con bottega a Piazza Navona, dall'altra parte del telefono per poco non cade dal motorino

"Era un giorno di novembre di 4 anni fa. Il maestro aveva saputo che facevo sculture di mani, si era recuperato il telefono e mi aveva contattato. Ero su Ponte Cavour e in quel momento ho incontrato una persona immensa", dice Dante, oggi commosso per il passato e per il presente. 

Mortet immortala la mano di Morricone in una scultura in bronzo, "una mano che il maestro teneva in mostra a casa sua, poi io ne feci un'altra copia la notte che vinse l'Oscar, la feci inginocchiato mentre lo premiavano". 

"Andai a fare il calco a casa sua. Mise subito le cose in chiaro: 'deve essere la mia mano che scrive la musica, insomma con la penna ma quale bacchetta'", ricorda Dante, una famiglia di cesellatori da 5 secoli.

E quella mano in effetti viene alla luce nell'atto piu' concreto della creazione musicale, quella in cui le note fluiscono nell'inchiostro e prendono sostanza nello spartito. Insomma quell'atto semplice e potente in cui il mestiere diventa arte. 

"'Io la musica la scrivo' mi diceva il Maestro -spiega Dante- e a suggellare questo mi regalo' lo spartito in cui aveva scritto il brano che colsi nel calco: era il motivo principale del Il buono, il brutto e il cattivo, insomma si' L'ululato del coyote". 

Un vero gesto di stima "considerando che Morricone, mi disse poi un suo collaboratore, i suoi spartiti se li riportava sempre via e non ne lasciava mai nessuno in giro". 

Il calco, fatto in un pomeriggio tra tante chiacchiere romane, "il caffe' della signora Maria e un video girato col telefonino 'che fa il film', come diceva il Maestro", poi si trasforma in una scultura in bronzo. 

"Il materiale lo abbiamo scelto insieme -dice Dante- perche' e' il materiale di Roma, anche il Marc'Aurelio e' in bronzo. E Morricone e' un monumento di questa citta', anzi di questo mondo"

Da quella mano, solida e bella che tiene la penna e sembra strappata ad un affresco michelangiolesco, la vita artistica e umana di Dante cambia. "Te porta fortuna, vedrai", mi disse Morricone. 

Da li' Dante, bottegaio col dono dell'arte, fa le mani di Robert De Niro, Kirk Douglas, dell'intero cast del film di Tarantino 'The Hateful Eight', fa persino il calco dei piedi di Pele'. 

Ora sogna di immortalare nella materia le mani del grande fotoreporter Sebastiao Salgado, il fotografo del lavoro impastato di fatica nel bellissimo libro di 350 scatti "La Mano dell'uomo". Ma il legame di Dante con Roma resta ed e' fortissimo tanto che e' suo il logo del premio Roma Best Practice Award che quest'anno, per volere dell'organizzatore Paolo Masini, sara' dedicato a Ennio Morricone. 

 Da stamattina Dante tra le sue mani, belle e potenti come quelle del maestro, rigira quello spartito che Morricone gli ha regalato. "E' un pezzo mondiale", gli disse Morricone finendo di vergare le ultime note. "Io me lo tengo qui, nella scatola delle cose piu' belle, qui ci sono ancora le sue mani", dice Dante stringendo le note d'inchiostro e musica, le mani immortali del Maestro. 

20/06/20

72 anni fa, nasceva il primo Long Playing della storia della Musica



È un'esperienza che tutti i baby-boomer, cioe' i nati dall'immediato dopoguerra fino alla meta' degli Anni Sessanta, hanno sicuramente provato. 

A ogni trasloco si sono trovati per le mani un pesante pacco di oggetti neri, circolari, del diametro di circa 30 centimetri, obsoleti e ormai inutili. Eppure tutti sono stati ogni volta assai restii a disfarsene. 

Stiamo parlando, ovviamente, dei dischi a 33 giri, i cosiddetti Long-playing, o piu' familiarmente Lp (ellepi') o Album

L'occasione per ricordare queste icone della musica e' il loro anniversario di nascita. 

Esattamente 72 anni fa, il 21 giugno 1948, presso l'Hotel Waldorf Astoria di New York, la Columbia Records presentava il primo esemplare di 33 giri, che in breve avrebbe soppiantato il vecchio e glorioso 78 giri inventato nel 1894. 

Per la prima volta, su un supporto in vinile si potevano incidere brani musicali su entrambe le facciate, con una resa del suono di grande qualita' e una durata superiore, in genere dai 25 ai 30 minuti per ciascun lato. 

Il disco veniva collocato sul piatto dei giradischi e una puntina in diamante o zaffiro "leggeva" i solchi che vi erano stati incisi, trasmettendoli a un'apparecchiatura che li trasformava in suoni. 

Girando, appunto, alla velocita' di 33 giri (per la precisione 33 e un terzo) al minuto

Fu una vera rivoluzione per il mondo della discografia. Completata dal fatto che l'anno successivo, nel 1949, la Rca lancio' il piu' agile 45 giri e negli stessi anni altre grandi aziende americane (come la Wurlitzer e la Seeburg) perfezionarono il mitico Juke-box. 

Finalmente la musica poteva diventare un prodotto culturale a disposizione di tutti, a prezzi non eccessivi, fruibile a casa propria o addirittura all'aperto, in spiaggia, in viaggio (quando poi, alla fine degli Anni Cinquanta, fu commercializzato il mangiadischi). 

La musica usciva dalle segrete stanze dei privilegiati e diventava una forma d'arte diffusa e popolare. 

Poi, dagli Anni Ottanta, e' arrivata l'era dei compact-disc, e successivamente degli Mp3 e dei supporti digitali. I vecchi giradischi sono stati archiviati in cantina, o buttati in discarica. Alcuni sconsiderati si sono liberati dei loro 33 giri, contribuendo ad alimentare le bancarelle dei prodotti vintage. 

Ma tantissimi non hanno ceduto, e mossi da motivazioni esclusivamente sentimentali hanno conservato quei curiosi oggetti in vinile. Magari ripetendo fra se' e se': prima o poi mi ricompro un giradischi e "li metto su". Cosa che non avviene mai. In compenso, questi nostalgici se ne ricorderanno al prossimo trasloco.

27/03/20

Bob Dylan mette sul web inedito sull'omicidio di Kennedy e scrive: "State al sicuro"


Bob Dylan ha pubblicato la sua prima canzone originale in 8 anni.

Si chiama "A Murder Most Foul", dura 17 minuti e parla dell`omicidio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, avvenuto nel 1963. 

"Saluti ai miei fan e follower con gratitudine per tutto il vostro supporto e lealta' nel corso degli anni. Questa e' una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e che Dio sia con voi. Bob Dylan" il messaggio di Bob Dylan su Twitter. 

Gli ultimi inediti di Dylan risalgono al 2012 con "Tempest", album seguito da tre antologie di cover di standard americani. 

Sarebbe atteso proprio per quest'anno un suo nuovo lavoro. 

"Murder Most Foul" sembra raccontare proprio l'omicidio di Kennedy - come nota Variety - anche se poi la canzone diventa "piu' liberamente una fantasia di cultura pop". 

Dylan fa molti riferimenti agli anni '60, con versi che includono: "I Beatles stanno arrivando, ti terranno la mano" oppure "Vado a Woodstock, e' l'eta' dell'Acquario"

Parlando della morte del Presidente sembra parlare in prima persona, come fosse il defunto Kennedy: "Cavalcando sul sedile posteriore accanto a mia moglie, andando dritto verso l'aldila', mi chino a sinistra e ho la testa sul suo grembo"



25/03/20

Mina compie oggi 80 anni - Storia di un mito italiano



Anna Maria Mazzini, in arte Mina, domani compie oggi ottant'anni. 

Che sono un traguardo importante per chiunque ma che per lei, la Tigre di Cremona, assumono una valenza particolare tenuto conto di che cosa rappresenta per la musica italiana e internazionale. Le sue canzoni hanno fatto da colonna sonora alla storia patria, pietre sulle quali molti italiani hanno costruito le proprie fantasie, ritornelli che sono entrati nella memoria collettiva e personale. 

Un repertorio sconfinato e raffinato, 'Le mille bolle blu', anno di grazia 1961, 'E se domani', 'Grande grande grande', 'Non credere' sono alcuni titoli dei brani che l'hanno resa famosa e irraggiungibile. 

Louis Armstrong defini' Mina "la cantante bianca piu' grande del mondo", stregato da quella voce potente e cristallina, invasiva per il cuore, incontenibile per l'anima. 

Ad alimentare la leggenda di Mina molto ha contribuito il buen retiro a Lugano. 

Il 6 novembre 1989 e' diventata cittadina elvetica, con tanto di passaporto, anche se in realta' in Svizzera viveva dal 1966

Poi la scelta nel 1978 di scomparire dalla scena, cioe' dalle televisioni e dai concerti, da qualsiasi evento pubblico. 

Nessuna immagine, solo qualche scatto rubato con il teleobiettivo da paparazzi coraggiosi o immagini postate dai familiari. 

L'ultima della figlia Benedetta, qualche tempo fa: piu' che altro la nuca con i capelli rossi raccolti nel consueto chignon. 

Una donna unica, Mina. Per il trucco cosi' mercato da diventare iconico, per gli abiti che la rendono particolarmente sensuale tra paillettes e spacchi, per la gestualita' da femme fatale. 

La contrapposizione con Milva, la Pantera di Goro, le scivola sulla pelle. E' oltre, Mina. Oltre tutto e tutti. Oltre il Festival di Sanremo, oltre Canzonissima, oltre Studio Uno. Oltre e basta

Anche la vita sentimentale della signora Anna Maria Mazzini e' stata particolare. 

Dalla relazione con Corrado Pani, nel 1963 e' nato il primogenito Massimiliano, dal matrimonio con il giornalista Virgilio Crocco e' nata Benedetta, nel 1971. 

Ultimo colpo di fulmine con Eugenio Quaini, con il quale si e' sposata nel 2006. 

Amori intensi e fugaci, tutti avvolti in quell'alone di mistero che oggi chiameremmo privacy estrema.

 Gli ottant'anni di Mina sono un punto ma nessuno si sogna di andare a capo. 

Il suo ultimo lavoro, il disco con Ivano Fossati, ha riscosso il solito, enorme successo. Si chiama 'Mina-Fossati'. Undici brani, il primo si intitola 'L'infinto di stelle': forse non e' un caso. E, comunque, auguri.

17/03/20

The Koln Concert: Come nacque il capolavoro (immortale) di Keith Jarrett




The Köln Concert è la celebre registrazione del pianista Keith Jarrett pubblicata dall'etichetta ECM, frutto di una improvvisazione solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975

È considerato il più famoso album di jazz solo, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.

Diventato un must per un pubblico internazionale, di ogni confine, censo e età, The Köln Concert è stato definito da un critico, un capolavoro "che scorre con calore umano".

Con il passare degli anni si sono diffuse molte leggende intorno a questa esecuzione improvvisata, che non ebbe alcuna registrazione video, e nemmeno immagini fotografiche. 

Il concerto a Colonia faceva parte del suo tour europeo solista iniziato nel 1973.

Precedentemente, Jarrett aveva suonato in formazioni di tre o quattro elementi, poi si era aggregato al gruppo di Miles Davis. Per richiesta di quest'ultimo aveva abbandonato il piano acustico per passare al piano e l'organo elettrici, cosa che non gli piaceva.

Il tour da solista fu quindi un ritorno alla sua vena artistica più naturale. 

Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito, un Bösendorfer 290 Imperial, bensì un altro pianoforte, della stessa fabbrica, ma molto più piccolo

Peraltro lo strumento, usato dal coro del teatro, aveva un pedale rotto e non era accordato correttamente. 

Jarrett, pertanto, andò a cena e disse all'organizzatrice dell'evento che, se non fosse riuscita a rimediare sostituendo il pianoforte con quello pattuito, non avrebbe suonato. 

L'organizzatrice riuscì a sistemare l'accordatura dello strumento, ma il pianista non fu soddisfatto. Solo a causa dell'insistenza della stessa, decise di effettuare lo stesso il concerto.

La registrazione del concerto è divisa in tre parti, che durano rispettivamente 26, 33 e 7 minuti. 

Originariamente il disco fu distribuito come LP, perciò la seconda parte fu divisa in ulteriori due parti, chiamate "II a" e "II b". La terza parte, chiamata "II c", è l'encore eseguito alla fine del concerto. 

Un importante aspetto di questo album è la capacità di Jarrett di eseguire un gran numero di improvvisazioni su una vamp (equivalente jazzistico dell'ostinato) di uno o due accordi per periodi piuttosto prolungati di tempo. 

Ad esempio, nella parte I, Jarrett esegue ben 12 minuti di improvvisazione utilizzando praticamente due soli accordi, il la minore settima e il sol maggiore. 

A volte lo stile è calmo, a volte affine al blues, a volte vicino al gospel e alla musica classica

Per gli ultimi sei minuti della parte I inoltre rimane su un tema sull'accordo di la maggiore. 

Nella parte IIA, gli ultimi otto minuti si sviluppano sul re maggiore, mentre nella parte IIB i primi sei minuti sono un'improvvisazione sull'accordo di fa diesis minore. 

Fin dall'uscita dell'album, furono pressanti le richieste su Jarrett di pubblicare una trascrizione della musica.

Inizialmente Jarrett si rifiutò di soddisfare la richiesta, perché disse che: il concerto era completamente improvvisato e secondo lui "doveva andarsene così come era venuto"; alcune parti del concerto non sono possibili da trascrivere, in quanto completamente fuori dal tempo metronomico. 

Alla fine Jarrett cambiò idea, ma pose la condizione di poter controllare tutte le fasi del processo di trascrizione.

Successivamente è stata pubblicata anche una trascrizione per chitarra classica, dovuta a Manuel Barrueco. 

All'inizio della Parte 1 è possibile udire una risata di uno spettatore dovuta al fatto che Jarrett iniziò l'esecuzione citando una melodia dell'opera di Colonia, che avvisava gli spettatori dell'inizio dello spettacolo.

18/02/19

Libro del Giorno: "Johann Sebastian Bach. Lo specchio di Dio e il segreto dell'immagine riflessa" di Mario Ruffini.


Qualcuno ricorderà quel meraviglioso saggio di Douglas Hofstadter, divenuto un classico, pubblicato in Italia da Adelphi e continuamente ristampato, Godel, Escher, Bach, un'eterna ghirlanda brillante in cui il grande filosofo e divulgatore scientifico intreccia l'opera del logico matematico (Godel), dell'artista (Escher) e del musicista (Bach) in un geniale trattato che esplora il senso e la significanza di sistemi complessi (logici e matematici) che sembrano obbedire a regole universali collegati allo stesso sistema neuronale umano. 

Il musicologo, direttore d'orchestra e compositore Mario Ruffini, in questo saggio pubblicato per Polistampa nel 2017, su quella scia, si inoltra nei meandri della immane produzione artistica di Johann Sebastian Bach, e dei riflessi logico-matematici, scientifici, teologici e perfino esoterici nascosti nell'opera immortale del compositore di Eisenach. 

Un libro dedicato non solo ai musicologi (alcuni capitoli sono veramente molto specialistici ed è difficile addentrarvisi senza una profonda conoscenza musicale) ma anche agli appassionati e ai neofiti. 

Ne viene fuori una incredibile cavalcata attraverso le innumerevoli tracce numeriche, giochi, acrostici musicali, riferimenti intrecciati, disseminati attraverso le opere del catalogo di Bach, da quelle meno conosciute ai capolavori come le Variazioni Goldberg, L'Arte della Fuga o il Clavicembalo ben temperato. 

Non solo: Ruffini racconta con uguale dovizia di particolari la personale biografia di Bach, la sua vita quotidiana, i malanni, i rapporti con le due mogli, i 22 figli avuti, gli spostamenti nella Germania dell'epoca tra corti, chiese e cantorie. 

Alcuni capitoli sono poi dedicati ai due misteriosi ritratti esistenti di Bach (apparentemente copie uno dell'altro, ma scopriremo che non è così) realizzati dal pittore Elias Gottlob Haussmann, i quali contengono anch'essi una quantità incredibile di misteri, criptati nello spartito che il musicista tiene nelle mani e che è rivolto all'osservatore. 

Arricchisce il volume una prefazione di uno dei più grandi esecutori di Bach contemporanei, Ramin Bahrami. 

Una lettura che affascina e fa vacillare la mente.

01/02/19

Una rara intervista a Pasquale Panella il poeta autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti.






A beneficio degli appassionati e non pubblico in questo blog una delle rarissime (e più complete) interviste realizzate a Pasquale Panella, poeta romano, autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti,  da Don Giovanni a Hegel che conclusero la sua esperienza artistica e costituiscono ancora oggi un corpus eccentrico e affascinante. 

LE CANZONI SONO SOLO VAPORI
(primavera 2000)
Il vate aveva accettato di incontrarmi, ma ho preferito telefonargli. Sapevo già che è al telefono che dà il suo meglio. Leggendario, diluviante, Panella vive con il telefono appiccicato all’orecchio, e soprattutto alla bocca. Forse perché (tranne una recente acquisizione) non ha mai avuto uno stereo, e il telefono è un buon modo per ascoltare qualcosa, soprattutto se stesso. Forse perché come Elias Canetti ha subìto (o prodotto) l’autodafé dell’immensa biblioteca della sua cultura, optando per la comunicazione orale. Forse perché è un autore-attore senza spettacoli, se non quelli che telefona tutti i giorni alle sue incantate vittime. Perché le parole sono milioni e lui ha bisogno di pronunciarle tutte, articolandole nella sintassi del paradosso e del nonsense. Forse anche perché disprezza i cantanti (cioè gli autori), e preferisce al limite i giornalisti, purché le sciocchezze che scrivono possa firmarle un genio, per ribaltarne il senso. Lui stesso, paroliere per caso, firma quello che gli fuoriesce dalla macchina da scrivere, come in un incubo del suo amato Burroughs. Non parla mai di quello che fa, e nemmeno di quel che si fa, o si fa fare. Parla del linguaggio, provando sempre a soffocarlo nelle sue stesse spire.

Parlare con lui di Lucio Battisti, come avrei voluto fare, è stato molto illuminante. Perché Panella di Battisti non racconta quasi niente, ma quello che non dice è molto più di racconto. E’ il mistero della medietà, caratteristica intrinseca delle canzoni, ma anche delle persone.

Ho dimenticato, con lui, di provare a pronunciare la parola genio. Ma, proprio per questo, dalla nostra conversazione tale parola brilla di luce intensa per la sua assenza. In fondo il genio è un vapore della medietà, la capacità di trovare quello che neppure si cerca, come diceva Picasso. Di trovare ovvie le cose meno ovvie e così, genialmente, scoprirle. O meglio ancora (si fa prima) crearle ex novo. Dal vapore, dal nulla.
La chiamo per parlare con lei degli autori di canzoni.
Non ci sono autori, ci sono solo cantanti. Quelli che si dicono autori sono autori solo di quello che ascoltano: dunque sono cantanti. I cantanti sono sempre qualcosa di meno.
Eppure lei esordì come autore di testi con Enzo Carella, che cantò Barbara, vincendo un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979.
I cantanti sono parecchi. Enzo Carella è il meno parecchio di tutti, ovviamente perché è il primo, e come in tutte le cose la prima è sempre quella buona. Con Carella si è fatto tutto. Proprio ieri ho chiesto di darmi quelle vecchie registrazioni, che non ho mai avuto, perché non avevo uno stereo, solo oggi ho un lettore Cd. Sto chiudendo un periodo, un periodo blu. Non come Picasso, imitativamente, ma chiudo il mio periodo blu per entrare in quello rosa, il colore della cattiveria e della crudeltà. Non è vero che è un colore tenero, non è il colore dell’incarnato. Basta prendere un rosa e metterlo sull’ovale di un viso, e si vedrà che non è quello il colore della carne.
Ma lei ascolta canzoni?
Sento tanti provini, ma i cantanti, così come le persone, son tutti un po’ uguali.
Anche Lucio Battisti era un cantante?
Credo che così lo si privi della sua definizione assolutamente guadagnata nel tempo, del suo essere di meno ma non solo.
Quel “non solo” è un di più?
No, i cantanti sono sempre un di meno, perché son baciati dagli angeli. Ci sono molti parrucchieri che si chiamano Angelo.
Come iniziò e come finì tra lei e Battisti?
Per quel che mi riguarda inizia come finisce, cioè forzatamente. Parliamoci chiaro: parlando di canzoni io non sono affatto adeguato. Per me scrivere le canzoni è come fare le rapine. C’è un mondo abbastanza imbecille da farsi uscire i soldi dalle tasche, senza nemmeno dover andar lì a mano armata. Io che nella vita non ho fatto altro che pensare a scrivere, anzi non ho fatto altro che non pensare a scrivere, so che basta appoggiare la mano sui tasti della macchina da scrivere, come si fa su quelli di un pianoforte, e fai uscire quattro parole. Ma se ciò non è preceduto da una continua elaborazione della scrittura precedente, non esiste scrivere. A me della canzone non me ne è mai importato nulla. Mi sono avvicinato alla canzone giusto per ascoltare quattro dischi, quelli che facevo, magari nemmeno a casa ma in in studio di registrazione, mentre si elaborava. Oggi sono molto annoiato, perfino dall’ascolto di me stesso. Già a quel tempo, per me, scrivere era scrivere al di là di una destinazione, era scrivere in prosa. Capitavano queste occasioni abbastanza lucrose, e quindi lo facevo. Pur senza competenza di quello che la produzione musicale italiana è o non è, mi è sempre parsa un’attività abbastanza cretina. Mi vergognavo un pochino che il mio nome apparisse, usavo pseudonimi, poi sfuggiva perché il mondo della musica leggera è molto ciarliero. Ma è stato per me un mondo anche molto affabile, gentile, affettuoso.
Anche i cantanti sono dunque un po’ angeli, come i parrucchieri.
Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce.
Mentre registrava a Londra i dischi delle canzoni scritte con lei, spesso Battisti le telefonava. Cosa le chiedeva?
Più che chiedere mi faceva ascoltare delle cose.
Le chiedeva modifiche ai suoi testi?
No, a volte capitava che gli proponessi dei tagli. Io preferivo abbondare, però lo avvertivo: fa’ ‘na cosa, vedi tu quello che più ti occorre. A volte capitava non che fossero tagliati di botto, ma che alcune parti fossero restituite frammentariamente.
Con Mogol, Battisti preferiva modificare la propria melodia piuttosto che intervenire sulla lunghezza o sulla metrica dei versi. Faceva così anche con i suoi testi?
Come no, sempre. Salvo in casi rari, quando io stesso gli proponevo delle varianti, delle frammentazioni. Battisti lavorava moltissimo sulla melodia.
Si dice che lei e Battisti vi sentivate al telefono ogni giorno.
Anche più di una volta al giorno.
E cosa vi dicevate?
Di tutto, qualche volta era anche finalizzato alle canzoni. Poi a volte anche le chiacchiere potevano essere utili.
Sembravate avere in comune una vocazione scientifica. Lucio Battisti sapeva riparare tutti gli oggetti meccanici, lei li metteva in versi.
Scrivere significa avere tutte le vocazioni, e dibattersi perfino nella sconoscenza.
Ma perché ci sono tutte quelle macchine, e tutte quelle macchinazioni, nei suoi testi scritti per Battisti?
Perché se fossi vissuto in altri tempi avrei parlato di cose occorrenti nel passato. La canzone in fondo è molto legata a tutto questo che si muove, vive un po’ di questa sua prima ambizione che è il movimento. Ecco perché nelle canzoni si vola sempre, il primo referente dinamico e primordiale è quello, e nella canzone generalmente è teorico. Come in Freud, è l’anelito del mancante. Se uno parla del volo o è perché vive tutti i giorni su un aereo, o è perché si sta frustrando. Non è che io perda tutta la notte per dire solo “io volo”, come scrissi in un pezzo. Perché più astutamente osservavo la frustrazione che a loro veniva, cantanti e autori, mettendo il volo dovunque. La canzone è ingenua, una da poco arrivata, una parvenue. Anche questo sposalizio di interessi tra la parola e la musica… parola e musica non hanno niente a che vedere tra di loro, la canzone esiste per puro amore dell’orrido. Le più sopportabili sono le canzoni di tipo comportamentale, dove la musica è solo un’enfatizzazione dei toni espressivi. Quelle dove ad una splendida musica corrisponde una splendida falsità testuale sono le migliori, le canzoni stupide-belle, dove l’interesse dell’ascoltatore è lo stesso per il quale si sposarono parole e musica, perché per accoppiare insieme le due cose ce ne vuole, di sforzo. Oggi è un interesse potentissimamente commerciale, oggi per unire musica e parole a volte si devono mettere assieme due colossi industriali. La prima cosa che si chiede è se uno ci ha le edizioni. Poi la canzone cerca sempre di creare la castità, sembra sempre che uno produca la canzone di nuovo, la novia, la sposa, la nuova.
Dopo la vostra prima collaborazione, quella di Don Giovanni, lei non scrisse più testi sulle melodie di Battisti, ma fu lui a musicare i suoi testi. Perché invertiste il metodo?
Invertire il metodo è stata una mia richiesta, perché in Don Giovanni la presunzione di canzone era ancora forte. A me piaceva stabilire un diritto di prima notte, che una canzone uscisse già fatta, che uno se la fosse già fatta, in tutti i sensi, o signora, coi suoi difetti. Tutti quelli che ascoltano canzoni sono puritani, mormoni, una cosa tremenda. La canzone è piena di piccoli ma ferrei codici, molto morali. La canzone è il tentativo di darsi una morale. Altri si danno una calmata, questi una morale. Perciò la canzone esiste sempre, e tutti i governi in fondo la tollerano, ed essa ha con loro traffici illeciti. Una volta degli amici facevano una festa con le canzoni di Dylan, era venti o trent’anni fa. Chiedo: ma che dice questo? Andai a guardare, e mi sembrò un chierichetto. Noi italiani siamo abbastanza svezzati, gente come napoletani e romani, gente che circonda il Vaticano: quelli di Dylan mi sembrarono testi di uno scadente spiritualismo. Nessuno era d’accordo, tutti credevano che fossero gran cose. Solo dopo trent’anni, andandolo a rileggere, se ne rendono conto, forse perché lo hanno visto piegarsi davanti al papa. Sembravano canzoni di grande assalto, ma non era vero: canzoni mormoni, piegate, molto moraleggianti.
Ma cosa vi dicevate al telefono, lei e Battisti? Parlavate del vostro lavoro, o di cos’altro?
Allora parlavo un po’ così come adesso: per me parlare significa monologare.
Ma vi vedevate?
A volte ci trovavamo insieme, e c’era anche allora quella… Voglio dire, quando la stampa lamentava la sua sparizione, era lei che la creava. La sparizione di Battisti era una comoda notizia da scrivere seduti. Ma in fondo io apprezzo il giornalismo. E’ vero, non siamo più ai tempi d’oro, non dico di Truman Capote, ma del giornalismo iniziale, quello mosso, presente, di ricerca, nel senso proprio del cercare. Tutti sono notizia, sotto una certa specie. Ad esempio la bellezza, o lo scatenamento del desiderio da parte di un personaggio molto bello, è notizia; finché non arriverà alla decadenza, quando la notizia sarà quella, la notizia della decadenza.
Lei tace le relazioni, non parla mai di sentimenti. Lei lo ha amato, quel Battisti? Ricordo la violenza con cui scrisse a Boncompagni dopo una sua battuta infelice in televisione, all’indomani della scomparsa del musicista.
Io me la son presa perché ci aveva messo dentro anche me, me fisicamente. I testi sono come i quarti di bue, se uno non vuole non li produce. A me risultano più approssimative e più antipatiche le critiche benevole, perché non dicono niente di vero. Poiché l’astio, il livore, è molto più lucido. Ricordo certe scivolate di Luzzato Fegiz o di Zampa, che mi attaccavano: quando mi incontravano mostravano un’opinione di me molto più alta. Quello che dite è tutto vero, mancava solo la firma, perché non ci stava scritto Roland Barthes. Se si scrive “Panella persegue un progetto di insensatezza”, ed è firmato Roland Barthes anziché Fegiz, è questo che fa la differenza. Detto da Fegiz vorrebbe essere un astioso insulso… volevo dire insulto (ma detto da me va benissimo). Quando i benefattori sparano qualche complimento, chi se ne importa.
Battisti rivelò un giorno a un amico una specie di metodo per valutare quello che lei scriveva: “I testi di Panella, se non li capisco vuol dire che sono giusti”.
Qualche testo sempre mi rimaneva fuori… Sì, vabbè, ma era quello che chiedevo io, avrebbe fatto una brutta figura a dire “ho capito tutto”, peggio che dire “io sono ignorante”. Si sbaglia a mettere queste faccende sul piano della comprensione delle cose. Si dovrebbe piuttosto rimanere incantati di fronte a questo oggetto dal quale esce la musica. Non capiscono nemmeno perché un disco messo in un posto suona, poi vogliono capire cos’è la musica? Mi sembra troppo. Tra un uomo e una donna, non sia mai che uno debba dire all’altro: “fàmmiti sempre capire”. Mi sembra molto offensivo. E poi si parla di sentimento. Riconoscano prima che il sentimento è una falsa sovrastruttura, e allora poi parliamo di capire.
Quando lei e Battisti facevate assieme una canzone, cercavate la stessa cosa?
No, non credo. Io non so neppure cosa cercassi. Non è nemmeno che non cercassi niente. Mi trovavo quelle frasi davanti, oggi sarebbero probabilmente diverse. Ma non per ragioni strutturali o formali, perché le canzoni che vengono un giorno non vengono un altro.
Per un Battisti che non scriveva più secondo la logica della strofa e del ritornello, le melodie erano diventate un’operazione di dispendio. Come la parola per lei. Un’altra affinità fra voi due?
Io non scrivevo ritornelli, ma un percorso obbligato, nel quale c’erano però dei moduli tornanti. Ma quelle canzoni nell’insieme sono dei ritornelli.
Ma sono anche come i quarti di bue, come lei stesso diceva prima. Il pubblico compra le canzoni per mangiarle.
No, il pubblico mangia tutto, è quasi una discarica, riceve i testi di tutto. Se uno pensa a quello che è l’elaborazione della canzone… Prendiamo un giovane autore o cantante, giovane per offenderlo. Vive la sua vita giovanile, tutta fatta di speranze, pulsioni compositive, aspettative, e la sua dotazione è circa venticinque canzoni. Sono le canzoni migliori della sua vita. A un certo punto c’è questo ragazzo che s’incontra con altri ragazzi, produttori, discografici, e da questo gran corpo bovino o suino ricavano qualcosa come una cistifellea, nella quale gli antichi credevano ci fosse l’anima. Una cosa assottigliata, strofa-strofa-inciso, la cistifellea: qualcosa che normalmente si butta. E la buttano, infatti, in pasto al pubblico. Non mi pare che il pubblico riceva il meglio. Di tutto il corpo, bovino o suino che sia, di una vita rivolta alla canzone, ricevono qualcosa che veramente è stato sterilizzato da quel corpo. Lo ricevono nei termini di una “operazione” discografica, si dice così, no? Questo tampone pieno d’alcol snaturato. Quello che arriva. La canzone è qualcosa di molto levigato, prosciugato, tagliato e ritagliato, una cosina così. Ma nego che ci sia un’affinità tra musica e testi, che ci sia stata o che ci sarà. E’ un matrimonio di interessi. La parola non ha niente da condividere con la musica, né la musica con le parole. Esiste un luogo comodo, che è la canzone, con cui oggi la gente ritiene di aver assolto il compito del consumo culturale. Una cosa composta, molto calata nel ruolo. Si fanno seminari, ne parlano sul serio: questa è la più grande offesa portata alla canzone. La canzone non va discussa, perché è fuori da ogni discussione. Sennò perde la sua caratteristica di figlia degenere di un matrimonio d’interesse, ma bella, leggera, idiota. Perde quello che veramente dovrebbe essere: inafferrabile. Non conoscendo e non amando la canzone, le ho restituito quello che dovrebbe essere: l’inafferrabilità. Se chiediamo a un amante della canzone del passato cosa vuol dire “Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerà”, lui non lo sa. Con la canzone si entra in scemenza, uno esce dalla priorità del tutto. Entra in scemenza, nell’avulsione dal tutto. Ma da anni vien fuori che bisogna essere problematici, che bisogna farne un problema.
Stiamo scrivendo l’ennesimo libro su Battisti, nell’eterna speranza che sia quello vero. Lei trova sbagliato che in un libro si racconti la vita di una persona?
Sì. La vita di una persona coincide con la vita di chi l’ascolta, quella persona lì. Poiché esiste uno standard esistenziale: anche se gli ascoltatori di canzoni sono tanti, mediamente parlando, la canzone è la soddisfazione della zona mediana: le apprensioni, le aspettative, i medi desideri e le medie voluttà del medio. E’ tutto medio. Non esiste una canzone di tipo tirannico, o criminale. E’ tutto mezzo e mezzo. Un po’ autoritario, ma un po’. Un po’ vittima, un po’ no. Se uno dovesse ricostruire i rapporti umani dalle canzoni, non ne verrebbe fuori quasi nulla. E’ un mondo molle, perché è un mondo medio. E’ un mondo di quella vita lì, che non prende posizione né per un verso né per un altro. Non dà colpi né al cerchio né alla botte: accenna. Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perché L’apparenza. E’ un po’ un miracolo, ne ha tutte le caratteristiche, salvo che non la fa troppo lunga, perché dura tre minuti, se ne capisce l’origine, perché c’è di mezzo un oggetto. A differenza di Fatima può vendere anche qualche milione di copie nel mondo, ma almeno non è così invasivamente ecclesiale. La sua capacità invasiva è epidemica, ma sempre meno di quell’altra. Di vantaggioso ha che dura meno: la si può riascoltare, ma la sua durata resta sempre quella. Da ragazzi si comprava un 45 giri, e il primo giorno lo si metteva cento volte di seguito. Ma non è che facendo così moltiplicassero i tempi: non riuscivano a capirne il miracolo, per cui lo ripetevano. La canzone è amabile perché finisce, presto.
E la vita di chi scrive canzoni?
Della vita, che dire? Sono vite normali. Uno si sveglia dopo essere andato a letto il giorno prima, fa colazione. E vive come chiunque. Io poi son poco attendibile. Poco mi ci trovo nei panni di chi vive di ricordi, io so parlare solo di me, che vuole che dica di un altro? Si può dire di Alfred Jarry, che col revolver sparava ai bagarozzi, e li stecchiva pure. Ma son passati più di cento anni. Ho letto di Graham Greene che era uno scrittore mediocre perché parlava di persone. Obiettivamente è uno scrittore medio. Un bravo scrittore, scrittore-scrittore, di quelli veri, scrittore di professione, non certamente di vocazione. Si interessava delle persone perché di meglio non sapeva fare. Interessarsi alle vite è una noia, perché le vite sono noiose.
Ma insomma, questo Lucio Battisti. Nessun dettaglio da ricordare?
Sono io che non mi trovo nelle parti di uno che ricorda, non sono un memorialista, affettivamente parlando.
Un rapporto, dei sentimenti?
Io di natura non sono portato molto alla condivisione di nulla. Penso a me, penso di me, non vedo perché debba penare trapassandomi negli altri. Il fatto di mettere insieme queste due cose, la musica e le parole, questa compenetrazione in realtà è perfino un superamento, una sospensione dell’amicizia. Non vedo perché uno debba impegnarsi, dopo aver fatto qualcosa del genere, che è perfino un po’ immorale, come qualsiasi fondazione di una moralità: l’immoralità dell’estetica è nel farle, le cose, non nell’averle fatte. Partecipare di questa immoralità, come commettere una rapina insieme, è più dell’amicizia. Mi viene in mente Genet, che non aveva amici, ma che perciò aveva ancora qualcosa di più potente, con i suoi complici. Dell’amicizia non me ne importa nulla, anzi la detesto un pochino. Non la capisco.
Si è mai mosso di casa per incontrare Battisti?
Ho frequentato solo la sua casa romana, si figuri se io mi muovo, certo non per andare a parlare di canzoni. Si parla meglio al telefono.
Anche per comporre testi di canzoni?
Ci sono stati vari modi. All’inizio, dettandoglieli. Poi i fax, poi ancora la prima Internet.

Battisti le ha mai fatto proposte di modifica, sui testi? Voglio dire: non sulle metriche, ma sui contenuti?

Il problema sarebbe stato capire quali erano, i contenuti…
Perché? Vuol dire che Battisti non li capiva?
In fondo questa cosa fu risolta prestissimo. La cosa che dissi subito, e che subito lo persuase… Diciamo che probabilmente io gliene ho parlato come ne ho parlato con lei, sulla canzone come apparizione, sulla sua volatilità, la peste da una parte e il miracolo dall’altro.
Dunque lui accettò subito questa sua posizione?
Immediatamente.
Lei è elusivo, nei suoi testi come nel racconto della vita.
Ogni vita a raccontarla è assolutamente insulsa, salvo che tu non lo faccia da giornalista, detto nel senso bello. I fatti accaduti esistono solo in alcune pagine di questi giornalisti qui, parlo di gente come Hemingway. Ma uno notevole sotto il profilo esistenziale è Enzo Carella, perché non avendo vissuto imprenditorialmente la vita che fa, vive una vita senza risorse, che io ricordo e tengo presente come tutti gli altri. Ho un certo affetto per il giornalismo, specialmente per il cattivo giornalismo, che è ingenuo, perché è avventizio. Come quando cominciarono a dire: è la loro fine, non vendono più, eccetera. Per qualche motivo i discografici, vuoi perché macinano musica, vuoi perché sono commercialmente aggiornati, le garantisco che afferrano le cose molto più dei giornalisti avventizi. Capirono subito che dietro quella cosa c’era un evento commerciale, come si dice nel loro lessico. E quando leggevano quelle cose, le previsioni giornalistiche su quel cantante che consideravano finito, i discografici ridevano. L’evento è stato talmente produttivo dal punto di vista promozionale – tanto che noi oggi ne stiamo parlando – perché le vendite superarono le previsioni e ci fu pure un richiamo di vendita del suo passato, di tipo vendicativo. Senza che l’avessi fatto volontariamente, io partecipai di un’ottima operazione commerciale. Ecco perché andava bene tutto. L’elemento di novità attira le attenzioni, e la novità erano quelle parole lì.
Perché finì?
Perché mi stancai. Mi pareva che cinque dischi fossero già troppi. Si stava diventando troppo produttivi e continui. Io non amo molto la continuità. Se mi dessero un miliardo per posare nudo lo accetterei, perché mi metterebbe a rischio e non me ne importerebbe nulla. Perfino Fegiz cominciava a parlarne bene, si diventava consueti. Alcune cose io non le ho neanche firmate, perché non volevo diventare un miserabile mito della musica leggera, come dire: non c’è altro, ti devi accontentare. Diventare qualcosa in mancanza di tutto.
Mai pentito?
Assolutamente no. Anzi, in generale mi sto allontanando sempre più dalla canzone. Ne faccio sempre meno, e cerco di farle nella maniera più stupida possibile. Ma la cosa non era riconducibile a un episodio.
Lui come la prese?
Credo non bene. Ogni disco finito io dicevo vabbè, abbiamo fatto, ci possiamo dire appagati. Ma lui parlava subito del prossimo. Da parte mia era sempre più evidente questo blando scostamento dalla canzone. Da quella in particolare, perché stava diventando consueta, stava prendendo piede, come si dice. La mia scrittura per canzone è scrittura applicata alla canzone. Per me la canzone non è il riferimento assoluto, ma nemmeno relativo. Di quel passo avremmo fatto un disco ogni due anni per sempre. Era tutto così ripetitivo. Due anni e tutto si ripeteva, solite solfe, solito balletto, tutte finzioni da parte di tutti, il pubblico finto. Per me quelle cose, a voler esagerare, avrebbero dovuto vendere quindicimila copie. Il discorso più interessante è proprio questo: l’incidenza di queste cose nelle faccende discografiche, negli interessi del pubblico. La vita è bella quando te l’immagini, perché se sei bravo riesci a veder quello che non puoi vedere. Cosa vuole che m’importi mettere a nudo una vita normale? Non importa nemmeno a quello che l’ha vissuta. Le vite taciute è meglio che lo restino. Le vite di cui non si conoscono grandi espressioni, grandi barbagli, grandi abbacinamenti e grandi scivolate, grandi uppercut e grandi record (della vita, non della musica leggera, che qualsiasi imbecille è in grado di apportare) vanno taciute, perché quelle grandi espressioni non furono espresse proprio per non essere raccontate. Chi si esprime in maniera notevole vuole essere raccontato in maniera notevole. Vite così sono esistite, vite che volevano essere raccontate. Gente che, sapendo di vivere in pubblio, viveva in pubblico godendo, e pagandolo. Questo li pone di fronte alla violenta scelta di essere quasi per sempre. Ci fanno pure i film, su Ciaikovskij, su Oscar Wilde: gente talmente densa di racconto che questo racconto gli usciva dai pori. L’altra gente ascolta le canzoni, e ascoltare le canzoni significa farle. Non esiste un autore di canzoni che non sia stato pubbblico della canzone. Chi fa canzoni è un ascoltatore, e lo sarà per sempre. Io non ho mai ascoltato canzoni, ho scritto in assenza di suono, come Beethoven. Ecco perché ho scritto prima di ascoltare la canzone, perché io non la sento. O si vivono vite notevoli, o si ascoltano (si fanno) le canzoni.
Io sono elusivo perché son sordo.
E detesta gli aneddoti.
Alcuni fatterelli è bene che non si conoscano mai, perché se la normalità vuol esser taciuta, è bene che sia taciuta. Molte vite possono essere ricostruite sulle opere. E’ tutto lì. Esiste un’esposizione sfrontata, impavida di sé, che può essere ricostruita come vita.
Mi vien da pensare che quella pretesa di Battisti, che diceva di non essere più interessato a comunicare, forse gliel’aveva suggerita lei.
La canzone non è necessaria, per cui nessuno può dire di trovarsi scomodo in quei panni. Non è sartoriale. La più concreta analogia è quella con il miracolo: pura visione, puro nulla, però colorato. Non puoi infilare le braccia in una nuvola. Durano forse uguale, la canzone e il miracolo: per un miracolo un tempo di quattro minuti è sufficiente. La noia, l’usura, la sopravvivenza di una chiesa su quel miracolo sono molto più durature. La canzone è più astenuta: certo, sono un miracolo, ma non stiamo a far tante chiacchiere, tanto poi ne apparirà un altro. Son miracoli stagionali.
E poi?
Le canzoni sono vapori. La canzone dice: io sono un po’ falsa. Ma il fatto che lo dica è grande. Sono un po’ falsa, cioè sono un miracolo: un abbaglio nel quale puoi vedere delle cose, puoi vedere l’amore, cioè un abbandono cantabile, una cosa falsa. Ad esempio, io ho giocato a lungo come centravanti nella Roma, allenato da Zeman.
Davvero?

16/01/19

Storia di una canzone - e di una meravigliosa cover: "Hallelujah" di Leonard Cohen.




Il destino delle grandi canzoni - di essere abusate fino allo stremo - è toccato anche a Hallelujah, scritta da Leonard Cohen per l'album Various Positions, pubblicato nel 1984. 

Anche a questa nobilissima canzone, dal testo enigmatico e colto, è toccato di diventare una specie di inno dell'ovvio, tappeto musicale usato ovunque e in ogni occasione, cantato nelle chiese e nei ricevimenti molto mondani, negli X-factor  e nelle innumerevoli e spesso sgangherate cover. 

Il paradosso è che, pubblicato come singolo, insieme al lato B The Law, inizialmente Hallelujah non ebbe alcun successo commerciale. 

Con il tempo però grazie anche alle successive reinterpretazioni di Hallelujah, ad opera sia dello stesso Cohen, che ne modificò ripetutamente il testo, sia di molti altri artisti, questa canzone diventò un must assoluto. 

Per me la migliore e insuperabile cover della canzone (forse superiore anche all'originale) è quella che risale al 1991 e che fu incisa dal grande  John Cale, soltanto con la sua voce accompagnata dal pianoforte. 

Versione che passò piuttosto inosservata, almeno in Italia, fino al 1998 quando fu usata come tema dell'epilogo del film "Basquiat", realizzato da Julian Schnabel sulla vita dell'artista Jean-Michel Basquiat, lanciato da Andy Warhol e morto prematuramente - a soli 28 anni - nel 1988. 

Vale la pena riascoltare questa versione. 

Cale genialmente ha accelerato i tempi della ballata, rendendola molto più incalzante (l'opposto delle versioni lamentose, da canto scoutistico che vengono fatte oggi), un vero e proprio inno disperato, una richiesta, un contraddittorio ingaggiato con Dio, con il senso vero del trascendente, che parte dalla più coerente tradizione biblica e diventa un trascinante appello moderno nel quale ciascun uomo dei nostri tempi può riconoscersi, con le aspirazioni, le domande irrisolte e l'abbandono e lo sconforto che caratterizzano ogni vita umana. 

Fabrizio Falconi.

19/11/18

Thom Yorke (Radiohead) intervistato da Repubblica: "Internet e social network stanno generando un nuovo fascismo".




"La gente ha cambiato modo di pensare per colpa di internet e dei social network. È fascismo: ma non nel vecchio senso. Non è nemmeno reale ma non per questo è meno pericoloso: il nuovo fascismo è questo, è la gente non si sente più responsabile per il proprio comportamento".

In un'intervista rilasciata a Repubblica, Thom Yorke parla di social network e dei riflessi negativi che il loro utilizzo ha avuto sulla volontà delle persone.

Si legge su Repubblica:

"Sono sceso in piazza l'altro sabato nella grande manifestazione contro la Brexit. Temo di essere letteralmente terrorizzato. E del resto: non siete terrorizzati anche voi in Italia? O siete ancora tutti paralizzati? (...) Jaron Lanier (uno dei pionieri della realtà virtuale, oggi molto critico, ndr) dice che la rabbia della gente cresce perché attraverso un algoritmo finisce in un gioco di specchi dove le opinioni diventano sempre più estreme".

Quello che lo spaventa non è l'onda conservatrice che ha investito i governi di molti paesi in quest'ultimo periodo. Ma ciò che ha spinto verso la salita al potere di questi governi.

"Il pericolo non è uno stupido governo conservatore che finirà per divorare sé stesso. Per ritornare a Suspiria e alla metafora della danza: noi siamo come la danzatrice che sotto un incantesimo che non capisce si butta di qua e di là - fino a uccidere sé stessa. Quella danzatrice siamo noi che non abbiamo più fede nella nostra capacità di cambiare le cose: perché stiamo vivendo in una specie di vuoto"

Social che impoveriscono il linguaggio, le discussioni, i pensieri e i ragionamenti. Dando l'illusione di esser parte attiva. "Scrivere due frasi su Twitter non significa che stai facendo una discussione. E scrivere la tua opinione con la bava alla bocca su Facebook non significa che stai partecipando a un dibattito politico. Non c'è differenza tra quello e il tracciare tremebondi graffiti nella toilette".

Fonte: Huffington Post/ La Repubblica

10/06/18

La Poesia del Giorno: "Fix You" dei Coldplay.




Quando provi a fare il tuo meglio, ma non ci riesci
Quando ottieni quel che vuoi, ma non quello di cui hai bisogno
Quando sei così stanco, ma non riesci a dormire
Ancorato al passato

E le lacrime iniziano a scorrere sul tuo viso
Quando perdi qualcosa che non puoi sostituire
quando ami qualcuno, ma non vieni amato
Potrebbe andare peggio?

Le luci ti guideranno a casa
E faranno bruciare le tue ossa
Io allora ti consolerò 

Molto in alto o molto in basso
Quando ami tanto da lasciar perdere
Ma se non provi, non saprai mai
Che valore hai.

Le luci ti guideranno a casa
E faranno bruciare le tue ossa
Io allora ti consolerò

Fiumi di lacrime sul tuo viso
Quando perdi qualcosa che non puoi sostituire
Le lacrime che scendono sul tuo viso e io
Lacrime che scorrono sul tuo viso

Te lo prometto, imparerò dai miei errori
Lacrime scorrono sul tuo viso e io
Le luci ti guideranno a casa
E faranno bruciare le tue ossa
Io allora ti consolerò


When you try your best, but you don't succeed
When you get what you want but not what you need
When you feel so tired, but you can't sleep
Stuck in reverse

And the tears come streaming down your face
When you lose something, you can't replace
When you love someone, but it goes to waste
Could it be worse?

Lights will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you

And high up above or down below
When you're too in love to let it go
But if you never try, you'll never know
Just what you're worth

Lights will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you

Tears stream down your face
When you lose something you cannot replace
Tears stream down your face and I
Tears stream down your face

I promise you, I will learn from my mistakes
Tears stream down your face and I
Lights will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you

Coldplay - 2005

03/05/18

Sir Paul Mc Cartney regala al Victoria and Albert Museum di Londra 63 fotografie rare scattate dalla moglie Linda.



In questa foto del 25 novembre 1993, Paul e Linda McCartney posano per i fotografi in una conferenza stampa prima di un'esibizione a Città del Messico presso l'autodromo di Hermanos Rodriguez. Luis Magana, FILE AP Foto


Oltre 60 foto scattate dalla defunta moglie Linda sono state donate da Paul McCartney al Victoria &Albert Museum di Londra

Sono immagini che ritraggono stelle della musica ma anche momenti di vita familiare e saranno esposte da ottobre nella nuova sezione fotografica del museo. 

Tra le foto ci sono ritratti storici dei Beatles negli anni di gloria, dei Rolling Stones e di Jimi Hendrix, ma anche di fiori e animali, e istantanee della famiglia McCartney in vacanza.

Linda Eastman, prima di conoscere Paul, e diventare cantante e tastierista, era stata una fotografa professionista. 
Linda (Eastman) McCartney e Jimi Hendrix al Miami Pop Festival, 1968

Martin Barnes, curatore della sezione dedicata alla fotografia del V&A Museum, ha spiegato che Sir Paul con il suo "grande dono" ha voluto rendere "piu' accessibile al pubblico il lavoro di sua moglie". 

Inseriti in un museo, i lavori di Linda McCartney entrano in effetti nella storia della fotografia. 

La Eastman, in particolare a meta' degli anni '60, sperimento' stili diversi, con vari tipi di fotocamere e di stampa. 

Inoltre cerco' di fotografare star del rock e del pop nei momenti piu' privati, dietro le quinte, nella vita di tutti i giorni, cercando di catturarne un'immagine "piu' onesta e piu' reale".