13/07/14
La poesia della domenica - Tre frammenti d'amore di Anacreonte.
Omaggio
Amore molle, rigoglio di mitre fiorite: mi piace
fargli canzoni.
Chi domina gli dei
è lui, chi doma gli uomini
è lui.
Il mite
Voglio fare all'amore
con te.
Hai così vaga l'anima.
I dadi
Amore gioca: le follie, le risse
i suoi dadi.
Anacreonte; tratto da Saffo-Alceo-Anacreonte, Liriche e frammenti, Traduzione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, 1965.
12/07/14
Il mistero del numero 137, Pauli, Jung e la matematica che è in noi (e fuori di noi).
In questi giorni sto leggendo un bel saggio di Arthur J. Miller, professore emerito di storia e filosofia della scienza presso l'University College di Londra: L'equazione dell'anima, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che descrive e racconta l'ossessione per un numero nella vita di due geni, Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli.
Negli anni '30, ad appena trent'anni, Pauli è uno dei teorici più brillanti della nascente fisica quantistica. Eppure ogni notte si ritrova a vagare nei quartieri a luci rosse in preda all'alcol e alla depressione.
Wolfgang Pauli
Ed è proprio la sua doppia vita ad indurlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung, il discepolo eretico di Freud, divenuto in quegli anni un punto di riferimento della ricerca psichica mondiale.
L'incontro tra questi due geni, tra ragione e misticismo, diviene una potente alleanza tra due giovani scienze, la psicoanalisi e la meccanica quantistica, all'insegna di quello che appare come un numero magico: il 137.
Un numero che da un lato descrive con grande precisione il dna della luce e dall'altro è la somma dei valori numerici dei caratteri ebraici che compongono la parola Kabbalah (Cabala).
L'ossessione che accompagna Pauli fino al letto di morte, diventa anche un terreno di indagine parallela per Jung e per le sue ricerche sulla essenza e sul Sè.
La suggestione è quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto.
E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici.
Più andiamo avanti con le nostre conoscenze, più ci appare evidente che il mondo e l'universo che ci contengono si fondano su principi matematici. E la matematica è anche alla base della nostra vita biologica. Tutto sembra ridursi a questo: anche la nostra mente sembra essere predisposta per leggere secondo criteri matematici. Ma da dove deriva tutto questo, e perché esiste ?
La suggestione è quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto.
E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici.
Più andiamo avanti con le nostre conoscenze, più ci appare evidente che il mondo e l'universo che ci contengono si fondano su principi matematici. E la matematica è anche alla base della nostra vita biologica. Tutto sembra ridursi a questo: anche la nostra mente sembra essere predisposta per leggere secondo criteri matematici. Ma da dove deriva tutto questo, e perché esiste ?
Ecco un brano di una intervista rilasciata poco tempo fa da Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) e considerato uno dei migliori matematici italiani.
Che la matematica sia pura creazione della mente è un fatto largamente condiviso.
Desta perciò meraviglia l'eccezionale efficacia che questa scienza ha dimostrato nel consentire da un lato l'interpretazione della realtà e dall'altra l'intervento concreto, anche tecnologico, su di essa.
La matematica è una delle poche cose universali che noi sperimentiamo, e già questo è sorprendente.
Lo è ancora di più il fatto che l'universo risponde in qualche modo alle nostre sollecitazioni basate sugli strumenti matematici.
Da questa attività creativa dell'uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, che è alquanto sconcertante.
Nella misura in cui non si è ancora riusciti a giustificare l'indubbia consonanza verificabile tra una creazione della nostra mente, la matematica, e una realtà data a prescindere da noi, diventa legittimo ipotizzare l'esistenza di un Ente superiore intelligente che si pone alla radice tanto della realtà che ci circonda, quanto della nostra stessa mente.
Il dato fondamentale è che esiste in qualche modo una sintonia tra la mente e la realtà esterna alla mente, sintonia che si spiega bene con l'esistenza di qualcosa che sta sopra e unifica.
Fabrizio Falconi
11/07/14
2004-2014: LOST compie 10 anni. Una riflessione.
Si avvicina il decennale: il 22 settembre del 2004, la rete televisiva Abc trasmetteva la prima puntata di una serie televisiva intitolata Lost.
Come era avvenuto molti anni prima (nel 1991) per Twin Peaks di David Lynch, il mondo della creazione narrativa televisiva non è più stato lo stesso.
All'epoca non amavo molto la fiction televisiva, e prima di Lost ero assai
refrattario a seguire telefilm, series americane.
La scoperta di Lost mi aprì invece una esperienza del tutto nuova.
Con Lost il genere televisivo puro si emancipò definitivamente dal genere sottocultura (anche perché bisognerebbe capire cosa è la cultura, quella vera), e dopo qualche anno, in un decennio, la serialità televisiva è assurta al ruolo di prodotto culturale alto, in molti si sono accorti che la narrazione esperita dalle serie televisive di alta qualità rappresenta un linguaggio di contenuti e forme (e struttura tecnica) di livello molto più interessante di tanta letteratura e di tanto cinema che oggi esprime il mercato della cultura internazionale.
In particolare una seria come Lost - e questa fu la radice del suo planetario successo - fu la capacità di intercettare le domande che si fa l’uomo oggi, l’uomo che vive in
questa epoca bella e terribile, in questi anni, in questo occidente che ormai include anche molta parte d'oriente.
Cosa
ha nel cuore, cosa vuole, cosa desidera, cosa crede, quali sono le sue paure,
cosa spera. Ecco a queste poche e fondamentali
domande rispondeva Lost.
LOST per chi non lo sapesse, racconta
l’odissea di un gruppo di superstiti che si ritrovano su un’isola sconosciuta
in mezzo all’oceano dopo un disastro aereo. Da subito, l’isola si rivela ben strana:
abitata da misteriosi e pericolosi ‘Altri’ che hanno colonizzato l’isola molti
anni prima, per realizzarvi un altrettanto misterioso e inquietante
esperimento. Gli ‘Altri’ sono in agguato, non si sa
bene cosa vogliono, vogliono impadronirsi delle vite, del futuro e del passato
dei sopravvissuti. Non sono per niente ospitali.
Loro, i sopravvissuti, hanno TUTTI
delle imponenti croci personali da portarsi appresso. Queste croci – le loro
storie personali – vengono mostrate attraverso flash-back che si mischiano
alla narrazione di quel che avviene sull’isola. Queste croci hanno a che fare con
la famiglia, prima di tutto. Ciascuno dei sopravvissuti ha un fallimento, un
conto in sospeso, un rancore, un disprezzo, uno sbaglio che gli ha compromesso
la vita: Jack, il medico, il leader: un padre
alcolizzato e competitivo, professore come lui. Un fallimento matrimoniale; Kate, la ribelle, la coraggiosa: una
madre vessata da un marito violento, che lei, Kate ha ucciso; Sawyer, il ‘cattivo-buono’, il rude,
l’antipatico: un padre violento, che ha
distrutto la sua vita e di cui lui, Sawyer, si è vendicato; Locke, il ‘saggio’, il filosofo, il
veggente: un padre truffatore e subdolo, sadico; Charlie, il ‘buon ragazzo’, il
divertente, il compagnone: un fratello
eroinomane; Jin, la coreana, l’ingenua, la
materna: un padre-padrino, mafioso; Sayid:
l’iracheno: un passato da soldato-torturatore al servizio di Saddam; e cosi via…
Ciascuno
di questi personaggi fu indagato con inconsueta complessità, inanellando rimandi, citazioni, connessioni e
interconnessioni da lasciare stupefatti (soprattutto per la difficoltà tecnica di chi dovette redigere i copioni)
Lost riuscì perfino ad imbastire alcune precise risposte alle domande del secolo, di cui sopra (cosa ha nel cuore, cosa vuole, cosa
desidera, cosa crede, quali sono le sue paure, cosa spera l’uomo del mondo nel
XXI secolo ?): La serie ha suggerito che l’uomo del mondo, nel XXI secolo ha dentro il cuore una grande confusione,
che rischia di portarlo al manicomio . Lost risponde che l’uomo del mondo nel XXI secolo è come un sopravvissuto dopo un
incidente aereo: ha perso tutto e non ha più riferimenti, è solo e perso. Lost dice che quest’uomo ha perso i suoi riferimenti, che non sa più da che parte
andare, che vaga in una terra senza punti cardinali, affidandosi – come unica
traccia – a quello che gli tramanda il cuore.
A quello che ha dietro. Che però
è – a sua volta – molto confuso. Perché
quello che l’uomo del mondo nel XXI secolo si porta dietro, ha a che fare con i suoi padri. Ovvero, con le generazioni
che ci hanno preceduto, con quello che abbiamo alle spalle, e che ci ha
lasciato morte, dolore e distruzione (avete presente il XX. Secolo ?) Il passato è dunque ancora presente e
minaccioso, esattamente come il futuro.
E
l’uomo del mondo nel XXI secolo è a metà del guado: i suoi padri lo hanno
tradito, confuso, umiliato e tradito, uccidendo quel senso del sacro, antico e
nobile che fa parte della storia dell’uomo, del suo dna; e allo stesso tempo il
futuro che si presenta di fronte appare ancora più incerto, spaventoso,
temibile.
L’eredità
più grande che l’uomo del mondo nel XXI secolo ha ricevuto in dono è la domanda irrisolta sul SENSO DELLA SUA VITA su QUESTA TERRA: Che ci sto a fare io qui ? Chi o cosa mi
ha voluto qui ? Da chi dipende il mio futuro ? Cosa è il destino ? Ne sono io
partecipe o tutto avviene per caso ?
A
questa domanda LOST ha la presunzione di offrire una risposta precisa: il futuro e quindi il destino non avvengono per caso. Esiste un disegno. Anche se questo disegno è del tutto misterioso. Può essere avvicinato, ma non svelato del tutto.
Il
DESTINO si presenta anzi in LOST come una specie di RIPETIZIONE (o di Karma,
direbbero gli orientali) in cui siamo destinati a rivivere quei nodi che nella
nostra vita personale non abbiamo sciolto, che non abbiamo affrontato, finché –
attraverso questo doloroso passaggio – non possa avvenire una LIBERAZIONE, una
consapevolezza, o una REDENZIONE.
Ma
la Redenzione
che offre LOST è sempre parziale: c’è sempre un confine ulteriore che non è
dato superare perché il CONFINE dell’isola NON E’ CHIARO (è un confine
geografico, o reale ? E’ un sogno? C’è
il sospetto spesso, durante le puntate del serial che tutto quello che vediamo
sia solo una illusione, qualcosa di sognato, oppure di appartenente ad un’altra
dimensione).
I
superstiti NON SANNO dove finisce l’ISOLA e non sanno COSA C’E’ FUORI che li
aspetta, dall’altra parte, e non sanno se ritorneranno mai…
Ma allora in questo quadro così confuso, in cosa crede questo uomo del XXI
secolo ?
LOST
risponde che l’uomo crede ancora alle stesse cose che credeva agli albori dell’umanità: alla prevalenza del BENE, all’amicizia, alla
solidarietà tra persone, all’aiuto, al partorire un figlio e a cercare di
difenderlo da ogni avversità, alla costruzione di qualcosa da condividere, da
vivere insieme.
E’
molto, è poco ??
E’
molto.
LOST
è stato qualcosa di importante, un'opera originale capace di offrire risposte non banali, e a offrire un vero palcoscenico (spettacolare, fantasticamente congegnato) alle
nostre domande, che ritroviamo sempre uguali, dagli albori ad oggi, avvertendo come in esse si incarni tutta la nostra dannazione e la nostra possibile salvezza.
10/07/14
La casa delle ore silenziose.
La casa delle ore silenziose.
La casa dei merli e del sereno
la casa del cuculo e delle nuvole
del traffico lontano ma vicino
vicino ma lontano
la casa delle ore silenziose
della canna e delle zucche
delle ore condivise
e non condivise
del pianto sereno e del grigio
la casa dei giorni sul calendario
della gioia nella ricerca
del vecchio e del vuoto
dell'oltre e del già
la casa del cane prigioniero
la casa dell'atlante e dei giochi
dell'erica e del mandarino
del violoncello inerte
e molti oggetti parlanti
la casa dell'incontro e delle corse
dei morsi del sonno della fame
del vento dei graffi
del freddo e del caldo
la casa dei merli dispersi in volo
da un battere di mani.
Fabrizio Falconi © (inedito - riproduzione riservata).
Bernardo Bertolucci racconta (e ricorda) Marlon Brando. Una bellissima intervista di Paola Zanuttini.
Dieci anni dalla morte del grande Marlon Brando. Il ricordo e il racconto di Bernardo Bertolucci per il Venerdì di Repubblica in una intervista di Paola Zanuttini.
Roma. Al primo ciak di Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci grida «Buona la prima!». Ma non è tanto buona. Perché l’operatore di macchina Enrico Umetelli, arrossendo, gli sussurra: «Scusa, mi sono trovato Marlon Brando nella loop e sono rimasto a guardarlo, paralizzato». L’arrivo di Brando sul set ha sprigionato meraviglia, innamoramento, tremore. Anche Vittorio Storaro, che non è un principiante, si fa intimidire: nei camerini allestiti sul ponte di Passy, ha notato che l’attore ha la faccia troppo rossa, ma non osa farne parola con lui. Interpella il regista: «Secondo te, si offende?». Bertolucci lo tranquillizza: «Ma va’, diglielo». Storaro va. Il divo non si scompone, anzi. Piglia un asciugamano, se lo strofina in faccia, porta via tutto il cerone e domanda: «Meglio, così?».
Nel soggiorno color sabbia, con il soffitto azzurro come un cielo sul deserto, Bertolucci rievoca il suo Marlon Brando, a dieci anni dalla morte e a 42 dalla lavorazione di Ultimo tango. Intanto, una seducente gattina, passata con nonchalance dal randagismo ai divani, fa di tutto – fusa, moine, coda ritta – per occupare la scena: va detto che ci riesce. Perché, mentre il padrone mi racconta la sua triste storia a lieto fine, io la carezzo a dovere. Poi esagera, la micia: monta sul tavolo e lappa nel mio bicchiere. Gag da applauso, ma Bertolucci la esilia dalla stanza. A malincuore.
Per il ruolo di Paul in Ultimo tango lei aveva pensato prima a Jean-Louis Trintignant, poi a Jean-Paul Belmondo e Alain Delon. Come è arrivato a Brando?
Con Trintignan e Dominique Sanda avevo appena girato Il conformista; mi piacevano molto, pensavo di ricomporre la coppia, ma Dominique era incinta e Jean-Louis declinò l’offerta quasi piangendo: non se la sentiva di spogliarsi. Soprattutto per sua figlia, la piccola Marie che ora non c’è più: temeva i commenti a scuola. Allora, visto che si girava a Parigi e la cooproduzione era francese, mi rivolsi alle due star francesi del momento: Belmondo e Delon, che mi piacevano. Belmondo quasi mi buttò fuori dal suo ufficio. Secondo lui gli stavo proponendo un porno.
Conservatore dentro, Belmondo.
Lo so, ma aveva fatto Fino all’ultimo respiro, film determinante, per me. Delon, invece, aveva amato la sceneggiatura, ma voleva un ruolo da coproduttore, per mantenere un suo controllo. Non mi pareva il caso, e quindi adieu. Tempo dopo, ero a cena a piazza Navona, c’erano dei francesi, la costumista Git Magrini e Luigi Luraschi, il distributore Paramount che avrebbe preso il film. Uscì il nome di Brando, Luraschi disse che conosceva il suo agente, e, forse, poteva chiamarlo.
A lei piaceva Brando?
Certo, ma mi sembrava irraggiungibile. Come Zapata o Il selvaggio. Mi dava la sensazione di fare un film antihollywoodiano, ma hollywoodiano in quanto antihollywoodiano.
Questa è un po’ fumosa. E imbevuta di rivoluzionaria intransigenza.
No. Amando il cinema, non avrei mai potuto dire che le commedie musicali facevano schifo perché erano politicamente disimpegnate.
Lei era un talento emergente di trent’anni, Brando un mostro sacro di quasi cinquanta. Come andò il primo incontro?
Non sapeva niente di me. Aveva chiesto informazioni a una sua amica cinephile, una cinese ricchissima proprietaria di supermarket che aveva visto Il conformista e gli aveva intimato: “Devi andare assolutamente!”. Ci incontriamo a Parigi, all’hotel Raphael. Sono stravolto, non ci credo, eppure è lì. Tengo le gambe accavallate, ma ho un piede fuori controllo che scatta come una molla. Con l’inglese me la cavo male, ho fatto una settimana alla Berlitz, buona per spiegargli il film in dieci parole e, mentre tento di farlo, lui sta a occhi bassi. Gli chiedo perché non mi guarda in faccia: “Guardo il tuo piede. Voglio vedere quando la finisci con quel su e giù”.
Il duca nel suo dominio, come nella famosa intervista di Truman Capote.
Sì, ma sorridente. Poi si va a mangiare e dopo ancora in una saletta a vedere Il conformista. Durante la proiezione esco, non ho voglia di star lì. Quando torno mi fa: “Vieni a Los Angeles un mese. Ci mettiamo a casa mia e parliamo della sceneggiatura”. Adattava i dialoghi alla sua voce, Marlon, ma io lo faccio con tutti miei attori. In realtà, a casa sua, una villa su Mulholland Drive, non abbiamo mai parlato del film. Mi portava a mangiare dal giapponese, io gli chiedevo perché era sempre solo e lui rispondeva che stava benissimo così, che non gli piaceva andare in giro. Però era curiosissimo delle persone. A cento metri da casa sua, più in basso, c’era quella di Jack Nicholson; mi ha fatto sporgere dal giardino per mostramela: “Jack fa le cosacce con una ragazza in piscina”.
Nel ruolo fatale di Jeanne, Maria Schneider era molto nuda, Brando meno. Allora, lei ha giustificato la disparità di trattamento con la tesi che un uomo senza braghe perde mistero. Ne è ancora convinto?
No, è una sciocchezza. Nel film di Abel Ferrara su Strauss-Kahn, Depardieu è nudissimo e meraviglioso, una specie di Pantagruel. Però Marlon si è spogliato abbastanza, c’è anche quella posizione incriminata – quasi yoga – con Maria, che poi è stata ripresa da un logo di abbigliamento. Il problema è che aveva il pancione, non volevo esporlo troppo.
Altro indumento, più rispettabile: il cappotto di cammello di Marlon-Paul, molto simile a quello di Alain Delon nel contemporaneo La prima notte di quiete di Valerio Zurlini: coincidenza o plagio?
Il mio film è uscito prima. E Alain aveva letto la sceneggiatura. In ogni caso, io ho visto La prima notte di quiete dopo l’anteprima mondiale di Ultimo tango al New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. La critica Pauline Kael ha scritto che quella data sarebbe diventata una pietra miliare nella storia del cinema, come lo era quella della prima rappresentazione della Sagra della primavera, il 29 maggio 1913, nella storia della musica. L’avevo trovato bello, il film di Zurlini.
Non era troppo melodrammatico?
Può darsi, non mi ricordo più niente, solo il cappotto. Forse l’ho perdonato proprio perché c’era il cappotto di cammello.
Nel 1972, dopo anni di stracca, Brando esce con due film epocali che lo rilanciano: Il padrino a marzo e Ultimo tango aottobre. Mentre Coppola gli restituisce la gloria, ma non la carica erotica – con quelle guance imbolsite dal cotone – lei lo incorona di nuovo sex symbol. Sgualcito e irresistibile.
Accidenti! Avrà pure avuto la pancia, ma la sua testa era meravigliosa.
Brando si divideva fra i due set? E metteva zizzania fra lei e Coppola?
Per niente. Le riprese del Padrino erano già terminate, quando lavorava con noi. Un sabato pomeriggio, Coppola, che era a Parigi, passò a trovarci. Giravamo in esterni, senza Marlon perché il sabato non lavorava, per la felicità di Jean-Pierre Léaud, che aveva il ruolo del fidanzato cineasta di Maria ed era terrorizzato dall’idea di incontrarlo. Visto che avevo due biglietti per un balletto, ci andai con Francis. Mi raccontò del Padrino e mi chiese di Marlon. Non troppi anni dopo, sul set di Apocalypse Now, avrebbe avuto i suoi problemi con lui: Brando non voleva girare e Francis ci diventava pazzo, poi decise di fare solo l’inquadratura con The horror, the horror. Il direttore della fotografia era Storaro e quando Marlon si decise finalmente a parlare gli domandò mie notizie: “Come sta il bambino profeta?”. Ma sul set di Ultimo tango non è successo niente di tutto questo. Mi spiace, non ho aneddoti di screzi, liti o dispetti da star impazzita. È sempre stato puntuale ed estremamente professionale.
Intervista di Paola Zanuttini a Bernardo Bertolucci, che diresse Brando in Ultimo tango a Parigi, uscita su il Venerdì di Repubblica
08/07/14
Per dirmi che sei fuoco (Fabrizio Falconi).
Riesce a visitare suo
padre soltanto il giorno prima. Il giorno prima che sia troppo tardi.
Per tutta la settimana Nico ha vissuto
in una sorta di stagnazione, come sospeso.
Al reparto è diventato uno di casa.
Ci ha trascorso almeno sei, sette ore al giorno. Familiarizzando con altre facce e altre
storie così diverse dalle sue. Non ha potuto fare a meno di ascoltare i
racconti, le sofferenze, le speranze, i rancori sopiti di chi condivide con lui
il gelido limbo della sala d’aspetto.
Uomini e donne, ragazzi e vecchi appesi al filo di una notizia, di una
mezza parola detta o non detta, di un miglioramento intravisto, di un giorno
intero senza buone nuove. Non ha potuto
fare a meno di sentire vicino a lui il pianto sommesso, i risolini isterici di
sollievo, le domande senza risposta, ribattute come un rintocco di una
campana. C’è anche un ragazzo nel
reparto, un ragazzo di tredici anni, un kossovaro caduto dal cantiere abusivo
nel quale lavorava. I medici ottimisti
fanno fatica ad arginare il senso fatalistico della tragedia che incombe sulla
sterminata famiglia che si avvicenda al capezzale. Sono tutti immigrati senza passaporto, la
polizia ha fatto a meno di convocarli in commissariato, loro si danno il cambio
giorno e notte, interrogano i medici senza capire cosa gli viene
detto, si ingozzano di panini e caramelle, condividono il dolore dei parenti
degli altri ricoverati senza mai dare in escandescenze, senza farsi mai notare.
Fanno parte del piccolo universo
dolente al quale Nico era del tutto estraneo prima dell’incidente di Michele.
Anche lui vi appartiene adesso, separato dal resto del mondo dalla fragile
porta a vetri del reparto. Anche Nico,
e tutte le poche o tante persone con le quali la vita di Michele si è
intrecciata. Alcune di queste, ne è
convinto Nico, sono venute senza nemmeno farsi riconoscere, hanno spiato dai
vetri, forse hanno chiesto qualcosa al medico di turno, e se ne sono
andate. Altri sono apparsi soltanto una
volta, come l’avvocato Andò, che non si è più fatto vivo. (...)
Con il passare dei giorni, e l’assenza
di notizie significative, Nico è riuscito anche, durante le ore trascorse
all’ospedale, a studiare un po’. Ha
trovato un paio di libri giusti. Una nuova chiarezza gli si è fatta piano piano
spazio nella mente, riguardo alla sua tesi: ha deciso, scriverà soltanto a
riguardo del rapporto con Bruna, con la giovane poetessa. Partirà da lì. L’energia dell’amore che rimette in moto, per
l’ennesima volta – per l’ultima volta – il cuore del poeta. Tutte le lontananze, tutti i distacchi, tutta
la polvere, tutto ciò che è passato, è passato. L’esilio finisce con gli occhi
di Bruna. Gli occhi di Bruna, e i suoi
versi, il suo canto di poeta, il suo essere poeta, restituiscono la vita al
poeta.
Hai visto spegnersi negli occhi miei
L’accumularsi di tanti ricordi,
Ogni giorno più di struggitori,
E un unico ricordo
Formarsi d’improvviso.
Ha passato molte ore da
solo, Nico. Molte ore a leggere, ad
alzare gli occhi dal libro per sorvegliare il passaggio di medici e infermieri,
per accorgersi di un rumore, un segnale significativo.
07/07/14
Esce la prima biografia di Tiziano Terzani.
Il mestiere che ho fatto non era proprio quello del giornalista, me lo sono inventato
Un uomo libero: questo è stato, essenzialmente, Tiziano Terzani.
Un reporter, un viaggiatore che si è inventato una vita irripetibile, segnata da guerre, rivoluzioni, strepitosi traguardi professionali e faticose battaglie civili.
Uno scrittore che ancora oggi dialoga con un pubblico molto vasto il quale, a distanza di dieci anni dalla sua scomparsa, continua ad amarlo e a ispirarsi al suo modo di concepire il mondo e anche alla intensa spiritualità che caratterizza il suo intimo rapporto con la vita, la malattia e la morte.
Àlen Loreti ci consegna, con questa che è la prima vera biografia di Terzani, in libreria da domani, un racconto scrupoloso e completo testimoniato da documenti inediti e immagini private che scandiscono, anno dopo anno, un percorso esistenziale estremamente accidentato e avventuroso.
Un viaggio nell’opera e nel pensiero di chi ha raccontato un Novecento vissuto sulla propria pelle, senza mai rinunciare a smascherare illusioni, ad ammettere sbagli, e a interrogarsi sulla bellezza e durezza del vivere.
Una ricostruzione rigorosa nella quale rivivono la voce, gli incontri e la straordinaria, intrepida umanità di un grande interprete del nostro tempo.
Àlen Loreti (1978) è curatore dell’edizione delle opere di Tiziano Terzani nei due volumi de “i Meridiani”, Tutte le opere 1966-1992 e Tutte le opere 1993-2004 (Mondadori 2011).
Nel 2012, in seguito alla donazione della biblioteca del viaggiatore fiorentino, ha pianificato e diretto il primo convegno internazionale di studi, Tiziano Terzani: ritratto di un connaisseur, promosso dalla Fondazione Giorgio Cini di Venezia.
È inoltre curatore della selezione dei suoi diari dal titolo Un’idea di destino (Longanesi 2014).
www.librimondadori.it
Recalcati, Bauman, Enzo Bianchi, Galimberti, Severino, Bodei, Augé: è il Festival Filosofia 2014: "DALLA GLORIA ALLA CELEBRITÀ."
Da venerdì 12 a domenica 14 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche.
Tra i protagonisti Bodei, Bauman, Augé, Galimberti, Marzano, Severino, Recalcati, Bianchi, Baricco e Bergonzoni.
Un termine apparentemente desueto come quello di “gloria” si rivela dispositivo efficace per mettere a fuoco una questione cruciale dell’esperienza contemporanea: la celebrità.
Gli appuntamenti sono quasi 200 e tutti gratuiti.
Il festival, che lo scorso anno ha registrato oltre 200 mila presenze, è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, i cui fondatori – ovvero i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Provincia di Modena, la Fondazione Collegio San Carlo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena – sono i soci storici che hanno partecipato alla realizzazione del festival fin dalla prima edizione.
Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sulle varie declinazioni contemporanee della gloria.
Il percorso tematico prenderà le mosse dal suo carattere splendente, che rimanda al potere attrattivo della luce, a un tempo condizione di visibilità e meta di ogni desiderio di elevazione. Quando si associa la gloria alle stelle, si opera dunque qualcosa di più di una semplice metafora. In questa chiave prenderà rilievo propriamente filosofico anche il fenomeno tutto contemporaneo delle “vite spettacolari”, che ha al suo centro la visibilità e la messa in luce di sé. Le trasformazioni dell’ambizione e la riabilitazione dell’onore indicheranno nuove implicazioni antropologiche e morali del riconoscimento sociale, fino a giungere alle nuove sfide della democrazia alla prova del consenso mediatico.
Senza dimenticare che la gloria è un tentativo di lasciare una traccia, un’impronta riconoscibile, non solo nei monumenti materiali, ma anche nella rappresentazione immateriale di sé tipica dei social media.
Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Roberta de Monticelli, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Severino, Carlo Sini, Gustavo Zagrebelsky e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio.
Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francesi Miguel Abensour (spagnolo di nascita), Nathalie Heinich e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; il franco-libanese Milad Doueihi; il tedesco Gernot Böhme; i britannici Zygmunt Bauman ed Ellis Cashmore; lo spagnolo Javier Gomà.
Il programma filosofico del festival propone anche la sezione “la lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema della gloria, dal thymos platonico alla dottrina della magnanimità in Aristotele fino alla teoria dell’onore di Tommaso d’Aquino.
Tra gli autori moderni, Guicciardini servirà per mostrare gli effetti dell’ambizione sulla scena politica, mentre con Hobbes emergeranno gloria e vanagloria come passioni del potere.
Passando per lo snodo di Hegel, si incontrerà il tema cruciale del riconoscimento, mentre, arrivando alle questioni novecentesche, con Max Weber prende forma l’idea di potere carismatico e con von Balthasar la discussione teologica della Gloria si salderà alla teoria estetica.
Se le lezioni magistrali sono il cuore della manifestazione, un vasto programma creativo, in via di definizione, coinvolgerà narrazioni e performance, musica e spettacoli dal vivo, di cui saranno come d’abitudine protagonisti alcuni beniamini del pubblico. Non mancheranno i mercati di libri e le iniziative per bambini e ragazzi.
Oltre 30 le mostre proposte in occasione del festival, tra cui una personale di Mimmo Jodice, una mostra sull’iconografia di gloria della dinastia estense, una su Jamie Reid e lo schiaffo al potere del Punk inglese (con il sostegno di Gruppo Hera), una sulle celebrità in figurina, una sul ciclo affrescato dei Trionfi petrarcheschi nel Palazzo dei Pio di Carpi, e una dei ritratti Tullio Pericoli.
E, accanto a pranzi e cene filosofici ideati dall’Accademico dei Lincei Tullio Gregory per i circa settanta ristoranti ed enoteche delle tre città, nella notte di sabato 13 settembre è previsto il “Tiratardi”, con iniziative e aperture di gallerie e musei fino alle ore piccole.
Infoline: Consorzio per il festivalfilosofia, tel.059/2033382 e www.festivalfilosofia.it
I comunicati stampa, le biografie degli ospiti e le fotografie ad alta risoluzione relative al festivalfilosofia si possono scaricare dal sito www.festivalfilosofia.it
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06/07/14
La poesia della domenica - 'Lo spazio magico' di Maria Luisa Spaziani.
Lo spazio magico.
Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.
È così perfetta l'attesa (o l'intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita?
Maria Luisa Spaziani (Torino, 7 dicembre 1922 – Roma, 30 giugno 2014), da Tutte le poesie, Meridiani, Mondadori, 2012.
05/07/14
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (5./)
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (5./)
L’impressione
del silenzio di Dio. Frère Roger, come ogni grande mistico, non ha
esitato a fare i conti con questa costante
della fede. Il silenzio anzi, per chi conosce la Comunità , per chi ha
frequentato almeno una volta una delle grandi preghiere di massa nelle giornate
estive, nella Chiesa della Riconciliazione, è divenuta la vera colonna sonora di Taizé. Anche negli
spazi tra i canti, e durante le meditazioni, il silenzio avvolge come un’onda
le migliaia di pellegrini raccolti a pregare per lunghi, interminabili – e per
alcuni insostenibili, visto invece il chiasso che sembra essersi impadronito di
molti riti moderni – minuti. Il silenzio
è anche una delle modalità che si può scegliere all’inizio del soggiorno a
Taizé, approfittando dell’incantevole oasi verde della Source de Saint-Etienne. Il
silenzio è – Frère Roger lo ha sperimentato in quei giorni di solitudine,
quando arrivò nella campagna della Borgogna, in quei casolari abbandonati – la
conditio sine qua non per
l’ascolto. Non si può ascoltare nulla,
se c’è confusione, se c’è chiasso, se c’è inutile agitazione dentro il proprio
cuore.
Per
questo, scrive Olivier Clément, il tempo del silenzio che a Taizé è vissuto
in preghiera e in cui i giovani entrano così volentieri, è davvero
fondamentale. La preghiera si fonde con il silenzio e il silenzio permette alle
parole delle preghiera, quando ritornano, di essere parole diverse dalle solite
chiacchiere. (7)
Nella bellissima lettera scritta nella
occasione dell’incontro dei giovani di Lisbona del 2005, e intitolata Un
avvenire di Pace, Frère Roger, nel suo consueto linguaggio estremamente
semplice ed evidente, scriveva, rivolto con il cuore proprio ai giovani:
Attraversiamo
un periodo in cui molti si chiedono: che cos’è la fede? La fede è una
semplicissima fiducia in Dio, uno slancio di fiducia indispensabile,
incessantemente ripreso durante tutta la vita. In ciascuno di noi ci possono
essere dei dubbi. Essi non devono inquietarci. Vorremmo soprattutto ascoltare
Cristo che mormora nei nostri cuori: « Hai delle esitazioni? Non inquietarti,
lo Spirito Santo rimane sempre con te». Alcuni fanno questa sorprendente scoperta: l’amore di Dio
può sbocciare anche in un cuore attraversato dal dubbio. (8)
Più avanti, nella stessa Lettera, Frère
Roger dice, ci dice, che Dio non crea né
la paura né l’inquietudine, e che in
una semplicissima preghiera possiamo scoprire che non siamo mai soli.
E’
ciò che ha reso la presenza di Taizé nel mondo, finora, una specie di primavera, come la definì papa Giovanni
XXIII, salutando un giorno del 1958
Frère Roger, venuto a fargli visita con altri confratelli in
Vaticano.
Di lì a poco, nel settembre del 1960,
mentre in Vaticano si prepara il concilio ecumenico Vaticano II, Taizè ospita per tre giorni vescovi cattolici
e pastori protestanti, ed è la prima volta che un fatto del genere accade,
dalla lacerante separazione del sedicesimo secolo: un piccolo grande miracolo
realizzato da quella evidenza che germinò direttamente dallo
spirito di Frère Roger e che ancora oggi contamina visibilmente la Comunità da lui
fondata. Una evidenza che deve essere stata anche un peso da portare. Lo ha
spiegato con parole commosse ed essenziali Frère Francois nell’ultima parte del
suo tributo al grande fondatore, dopo la sua morte, parole che lette oggi
rendono pienamente il senso della sua ricerca, del suo cammino in questa vita:
Frère
Roger ha sicuramente affascinato con la sua innocenza.. Ed io penso che egli
abbia visto negli occhi di qualcuno che il fascino avrebbe potuto trasformarsi
in sfiducia o in aggressività. Per qualcuno che porta in sé dei conflitti
irrisolvibili, quell’innocenza è dovuta divenire insopportabile. Allora non
bastava insultare l’innocente, bisognava eliminarlo. Il dottor Bernard de
Senarclens ha scritto: “Se la luce è troppo vivida, ed io penso che quella che
emanava da frère Roger potesse abbagliare, non è sempre facile sopportarla. In
questo caso, non resta che la soluzione di spegnere quella sorgente di luce,
sopprimendolo”.
Ho voluto scrivere questa riflessione
perché permette di capire un aspetto dell’unità di vita di frère Roger. La sua
morte ha misteriosamente posto un sigillo su ciò che egli è sempre stato.
Poiché egli non è stato ucciso per una causa che difendeva. Egli è stato ucciso
a causa di ciò che era. (9)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
7. O.Clément, Op. Cit. pag. 21
8.
Frére Roger di Taizè, Lettera 2005, Atelier et Presses de Taizè, 2005.
9.
La morte di Frère Roger: perché ? Op.cit.
02/07/14
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)
Queste
parole trovano una stretta correlazione con la testimonianza commovente scritta
dal confratello Frère Francois di Taizè, all’indomani dell’assassinio del
Priore, e intitolata significativamente: La
morte di Frère Roger: perché ? (4) Una
testimonianza – da parte di chi lo ha conosciuto molto da vicino – che descrive un uomo davvero molto umano, incapace di trincerarsi dietro la
certezza degli assiomi della fede.
Il dubbio non ha
mai abbandonato frère Roger, scrive Frère
Francois, È per questo che egli amava le
parole “Non lasciare che le mie tenebre mi parlino!” Le tenebre significavano
le insinuazioni del dubbio. Ma il dubbio non intaccava l’evidenza con la quale
egli percepiva l’amore di Dio. Può essere persino che proprio questo dubbio
reclamasse un linguaggio che non lascia spazio ad alcuna ambiguità. L’evidenza
di cui parlo non si situava a livello intellettuale, ma più in profondità, a
livello del cuore. E come tutto ciò che non si può proteggere mediante dei
ragionamenti convincenti o delle certezze saldamente costruite, questa evidenza
era necessariamente fragile.
L’evidenza
di cui parla Frère Francois, fu la grande forza di Frère Roger, la forza che
gli permise di realizzare l’utopia di una comunità ecumenica nel cuore della
vecchia europa, aperta a tutte le confessioni religiose, e capace di parlare al
cuore di uomini di tutte le età, razze e credenze.
Già dalla fine degli anni ’50, il numero
dei giovani che si recavano a Taizè cominciò a crescere in modo
esponenziale. L’alacre, infaticabile
attività di Frère Roger portò, a partire
dal 1962 a
inviare alcuni fratelli e giovani, nei luoghi più sperduti del mondo, o in quei
paesi dell’Oltre Cortina dove allora era davvero molto rischioso parlare di
Cristo e della fede professata da una Chiesa.
Nello stesso tempo, lo stesso Frère Roger
cominciò a trascorrere lunghi periodi in luoghi di povertà ( dall’Etiopia ad
Haiti, dalle Filippine a Calcutta) dai quali compilava la sua lettera, che
veniva poi tradotta nelle diverse lingue, e spedita in molte nazioni a coloro
che cominciavano a conoscere la realtà di Taizé.
E’ esattamente quel processo di fondazione continua, di cui parla
Olivier Clément nel libro che ha dedicato a Taizé. Questa comunità, spiega Clément, non è stata
‘fondata una volta per tutte’. E’
piuttosto una realtà che continua e si sviluppa continuamente. Ciò è dovuto,
suggerisce Clément, alle stesse modalità che hanno accompagnato la nascita di
Taizè, modalità fondate su una visione,
e non su una previsione. “ C’è la visione di Frère Roger, “ scrive
Clément, “ che all’inizio era una
visione di riconciliazione fra i cristiani e di servizio agli uomini tramite i
cristiani. E non era una previsione: non
aveva mai previsto ciò che sarebbe potuto succedere e ciò che è successo oggi.
Prima di tutto abbiamo una personalità fuori dal comune e questa personalità attrae
senza volerlo. Poi abbiamo questo
aspetto di non previsione e di attrazione involontaria che troviamo sempre
nella grande storia del monachesimo. E’
una legge della storia della Chiesa: quando viviamo qualcosa di autentico, le
persone arrivano numerose. Chi si mette a riflettere nella sua camera dicendo:
“fonderò una comunità che attrarrà migliaia di giovani” ha già fallito in
partenza. In questo modo non funziona !” (5)
Questo qualcosa di autentico è esattamente l’evidenza di cui parla Frère Francois. Il progetto di Frère Roger –
quello che gli consentì di ricevere in terra gli onori dei grandi del mondo,
ricevendo ad esempio il premio UNESCO dell’educazione alla Pace nel 1988 o il
Premio Robert Schuman per il suo contributo alla costruzione dell’Europa nel
1992 – giunse a compimento, in una misura oltremodo inaspettata e impensabile
all’inizio, proprio grazie al fatto di basarsi su un cammino personale, umano,
vissuto ed esperito in prima persona. Tu non ignori la fragilità delle tue risposte,
scrisse nella Regola di Taizè,
rivolto a uno dei suoi confratelli, ma anche a se stesso, Ti
senti sprovveduto di fronte all’assoluto del Vangelo. Un credente della prima ora diceva, già
allora, al Cristo: “io credo, aiuta la mia incredulità.” Sappilo una volta per
tutte: né i dubbi, né l’impressione del silenzio di Dio ti tolgono il suo
Spirito Santo. Quello che Dio ti chiede
è abbandonarti al Cristo nella fiducia della fede e accogliere il suo amore. Anche se ti senti tirato da molte parti,
spetta a te fare una scelta. Nessuno può farla al posto tuo. (6)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
4. La testimonianza La morte di Frère Roger:
perché ? di Frère
Francois di Taizé è stata pubblicata, all’indomani della morte del Priore, sul
sito della Comunità, dove ancora è leggibile alla pagina: http://www.taize.fr/it_article3796.html
5. O.Clément, Taizé… Op.cit. pag. 34.
6.
Le Fonti
di Taizè, Op.cit. pag. 11
01/07/14
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (3./)
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (3./)
Nella mia gioventù, scrisse negli anni della vecchiaia, io ero stupefatto nel vedere alcuni
cristiani che, anche se si riferivano continuamente a un Dio d’amore,
spendevano tanta energia per giustificare delle opposizioni. E mi dicevo: per
comunicare il Cristo, c’è realtà più trasparente che una vita donata, dove
giorno dopo giorno la riconciliazione si compia in concreto ? Allora io ho
pensato che era essenziale creare una comunità dove gli uomini decidono di
donare tutta la loro vita e qui cercano sempre di riconciliarsi.
Questo pensiero era già un assillo, anche
se adesso l’urgenza principale era quella di mettere in salvo tanti derelitti –
i cugini ebrei – in fuga dai campi di sterminio, e per non creare problemi era
Geneviève a spiegare ai vari ospiti della casa che – per non turbare le diverse
suscettibilità religiose – era meglio che ognuno pregasse nella sua stanza, da
solo.
La situazione, però, in quel borgo a
così pochi chilometri dal confine, cominciò presto a farsi molto pericolosa. I
genitori di Roger e di Geneviève, venuti a conoscenza del rischio che i figli
stavano correndo, chiesero a un vecchio amico di famiglia, un ufficiale in
pensione, di vegliare su di loro, e quando, nell’autunno del 1942, arrivò la
soffiata che i due fratelli Schutz erano stati scoperti dalla Gestapo, fu
organizzata una tempestiva fuga che permise a Roger e Geneviève di riparare in
Svizzera.
L’11 e il 12 novembre del 1942 la Francia è completamente
occupata, e la polizia nazista perquisì due volte la casa, sperando di trovare
i fuggiaschi, e gli ebrei che erano stati nascosti. Ma la fuga è riuscita, e la casa viene
trovata vuota.
Furono due lunghi anni quelli che Roger
fu costretto a trascorrere in Svizzera, aspettando il momento per poter
ritornare in Borgogna.
Lo fece dopo la liberazione di Parigi,
nel settembre del 1944, ma non da solo: a Roger si erano infatti già uniti i
primi fratelli che aveva incontrato e con i quali aveva iniziato una vita in
comune. Difatti, mentre viveva nel paesino francese, Roger aveva scritto un libretto, intitolato Note
explicative, in cui esponeva, in poche e chiare pagine, il suo ideale di
vita. Pubblicato a Lione grazie all'interessamento dell'abbé Couturier, questo piccolo volume era stato letto da due
studenti, Pierre Souvairan e Max Thurian, che raggiunsero senza esitazione Roger
a Ginevra per unirsi a lui, nella missione evangelica.
Tornato insieme ai due nuovi compagni a
Taizè, Roger si trovò di fronte una situazione di totale desolazione. La piccola comunità che si andava formando,
cominciò con il dare accoglienza ai bambini e ai ragazzi rimasti orfani di
guerra, poi l’ospitalità si allargò subito ai reduci di entrambi i fronti. Poco distante da Taizè v’erano infatti due campi
di soldati tedeschi fatti prigionieri dagli alleati. Utilizzando uno speciale lasciapassare i tre (a cui nel
frattempo si è aggiunto un quarto, Daniel
de Montmollin), ricevettero il permesso di ospitare quei prigionieri a casa
loro la domenica, per offrirgli un pasto e un momento di preghiera.
Da quel giorno il numero dei fratelli, per
fortuna, cominciò rapidamente. Nel 1948 la chiesa del paesino di Taizè, grazie ad una
autorizzazione firmata dal nunzio a Parigi,
Angelo Giuseppe Roncalli – il futuro papa Giovanni XXIII – venne messa a
disposizione per la preghiera della piccola comunità e a Pasqua 1949, proprio in quella chiesa, i
fratelli si impegnarono per sempre nel celibato, nella vita
comune e nel perseguimento di una esistenza molto semplice, eleggendo nel
contempo Frère Roger come priore.
Tre anni dopo, nel silenzio di un lungo
ritiro, durante l’inverno del 1952, la regola di vita, divenuta universalmente
nota come Regola di Taizé – o Fonti di Taizé come fu chiamata più
tardi – fu definitivamente scritta dal Frère, in un breve testo di poche
pagine, che contiene i principi
fondamentali spirituali a cui la
Comunità fu chiamata ad ispirarsi e ancora oggi si ispira
(2), esprimendo “l’essenziale che rende possibile la vita comune.”
In uno di questi stringati capitoli,
Frère Roger espresse il senso della sua ricerca di Dio: Nel
profondo della condizione umana, è scritto nella Regola, esiste l’attesa di
una presenza. Sappi che il solo
desiderio di Dio è già l’inizio della fede.
Ciò che conta all’inizio, non sono le vaste conoscenze. Esse hanno certo
un grande valore, ma è solo con l’intuizione che riesci in primo luogo a
penetrare il Mistero della Fede. Saprai sempre ricordare la folgorante realtà
del Vangelo: “Non siamo noi, ma lui che ci ha amati per primo”? Questa è luce per la tua vita. Per strano che
sia, abbandonati a lui e non inquietarti se non giungi ad amarlo subito.
(3)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
2 Le Fonti
di Taizè, di Frère Roger di Taizé (titolo originale Le sources di Taizé) sono pubblicate in Italia da Elledici, Torino,
1998, con traduzione a cura della stessa Comunità di Taizé.
3.
Le Fonti di Taizè, Op.cit. pag.51/52
30/06/14
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)
Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)
La musica fra l’altro, ebbe, nella famiglia di
Roger, un'importanza del tutto particolare:
una zia aveva studiato virtuosismo
pianistico addirittura con Hans Von Bulow e
Franz Liszt. E anche Geneviève,
la sorella che condividerà con Roger l’avventura della fondazione della
Comunità, prima di raggiungere il fratello a Taizè, studiava musica pensando di diventare una
concertista. Questa familiarità con la
musica spiega bene la scelta dei canti e della meditazione musicale, come mezzo privilegiato di comunione e
condivisione, che verrà realizzato molti anni dopo a Taizé.
Il giovane Roger era cagionevole di salute:
durante l'adolescenza si
ammalò di tubercolsi polmonare e diverse ricadute fecero temere il peggio. Una volta guarito però, contro la volontà del
padre che lo voleva teologo, manifestò l’intenzione di iscriversi alla facoltà
di Lettere per diventare scrittore. Ma
raggiunta Parigi, dove portò con sé un primo scritto – intitolato: Evoluzione di una giovinezza puritana – cambiò
idea, finendo proprio per iscriversi alla facoltà di Teologia, prima a Losanna
e poi a Strasburgo.
Al termine di questo, periodo, nel 1940, quando
l’Europa bruciava ormai del conflitto mondiale, viaggiando in bicicletta, Roger riuscì a raggiungere la Francia , che significava
per lui un ritorno alle origini della sua famiglia materna: il giovane si
sentiva chiamato a ripercorrere le orme della anziana nonna, Marie-Louise
Marsauche-Delachaux, che durante il primo conflitto mondiale si
era prodigata, nelle sue terre, per dare rifugio agli scampati dalla guerra. Rimasta vedova, all'inizio del primo conflitto mondiale,
infatti, viveva nella Francia del Nord,
a pochi chilometri dal fronte, dove combattevano tre dei suoi figli. La sua
casa, finché il pericolo non la costrinse a riparare in Svizzera, era divenuta
rifugio per donne incinte, vecchi, bambini. Fu a quanto pare proprio la nonna,
ad inculcare nel nipote l’importanza della riconciliazione tra i cristiani d’Europa, per scongiurare
conflitti così crudeli come quello a cui lei aveva assistito. Da giovane, raccontò il Frère un giorno,
sono partito in bicicletta, per trovare una casa dove pregare, dove
accogliere e dove ci sarebbe stata un giorno questa vita di comunità. Idee già molto radicate e chiare, dunque.
E Roger trovò questo posto dove
stabilirsi, proprio in Borgogna, vicino a Cluny, dove sorge una delle più
antiche abbazie d’Europa, fondata nel 910 d.C. centro del monachesimo
occidentale benedettino.
Un racconto riferito dallo stesso Frère,
vuole che egli fu spinto a scegliere il piccolo villaggio di Taizè, poco
distante da Cluny, proprio a seguito del calore con cui fu accolto dai suoi
abitanti, e in particolare delle suppliche di una vecchia contadina, una certa Henriette Ponceblanc, che
invitatolo a pranzo, gli disse: "Resti
qui, siamo così soli". Una
frase che, come riferì più tardi, a Roger sembrò proferita dal Cristo stesso
attraverso le parole di quella donna.
Quella scelta fu davvero provvidenziale: Taizé sorgeva infatti vicinissima alla
linea di confine che divideva in due la Francia , dopo l’invasione nazista, ed era il
punto di passaggio ideale dei molti rifugiati che cercavano scampo al sud,
sfuggendo all’occupazione dei tedeschi.
In condizioni molto precarie – con
l’aiuto di un prestito e della sorella Geneviève accorsa dalla Svizzera - Roger comprò una vecchia casa abbandonata,
insieme a due casupole adibite a dimora dei contadini. Si mise al lavoro e in breve tempo riuscì a
rendere gli edifici abitabili. L’acqua era quella di un pozzo, si mangiava quel
poco che si riusciva a comperare al mulino del paese.
Eppure, in condizioni così povere, così
modeste, Frère Roger cominciò a edificare le fondamenta della sua grande opera,
decidendosi ad offrire rifugio a decine di ebrei in fuga dalla Francia occupata.
In quei mesi drammatici, pregava da solo per tre volte al giorno in un piccolo oratorio, come farà poi la
futura comunità che aveva già in mente.
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
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