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12/06/24

ERIC - Una serie che riflette sul dolore (RECENSIONE)


 

Aprendosi sulle note di I'm Not in Love (10cc, 1975), "Eric" non può non essere una serie che ha per oggetto il dolore o la sofferenza. E com'è evidente ugualmente dalla scelta del brano d'apertura, siamo alla fine degli anni '70-primi '80 anche se la data non è specificata: quando non esistevano i cellulari, esistevano invece le segreterie telefoniche e soprattutto in ogni casa c'era un videoregistratore o lettore di cassette VHS.
E' una storia ambientata dunque a New York, che porta una firma pesantissima: quella di Abi(gail) Morgan, sceneggiatrice e scrittrice gallese che ha fatto diventare oro tutto ciò che toccato (o meglio, scritto), a teatro, al cinema (The Iron Lady con Meryl Streep, la Donna Invisibile, con Ralph Fiennes, Suffragette, del 2015), alla televisione (The Hour, vincitrice di una quantità infinita di premi, River, 2015, The Split.. e molte altre).
La Morgan fra l'altro si è guadagnata sul campo, purtroppo per lei, i gradi di esperta nel campo del dolore personale: figlia di due attori che divorziarono quando era adolescente, girò la Gran Bretagna al seguito della madre; sposata a sua volta con l'attore Jacob Krichefski, ha avuto due figli, ma poco dopo il marito si è ammalato di sclerosi multipla e ha sviluppato un'encefalite anti-recettore NMDA nel 2018 dopo aver partecipato a uno studio clinico; dopo sei mesi di coma farmacologico ebbe l'illusione di Capgras e non riuscì a riconoscere più la moglie. Che poi ha scritto un libro, This Is Not a Pity Memoir , descrivendo queste esperienze. A sua volta anche la Morgan si è poi ammalata cancro al seno.
Forse questo è il motivo per cui, prima di decidermi a vederla, avevo letto commenti su siti specializzati, che mettevano in guardia sulla materia "forte" della trama, sul clima depressivo che vi si respirava, sulle tragedie intime che racconta.
In realtà, dopo averla terminata, raccolgo l'ennesima conferma che evidentemente questa nostra società attuale non sembra più capace di fare minimamente fronte al dolore e alla sofferenza. Non sa affrontarle, non vuole vederle. E' del resto, come scrivono in tanti, una società anestetizzata, la nostra, rimbambita dai social e dall'apparenza che sembra voler edificare una civiltà di adulti-adolescenti, in gravi difficoltà di fronte all'elaborazione dei lati d'ombra della vita. Perché la serie non fa altro che raccontare questo. Cioè ciò di cui è (anche) fatta la vita.
Vincent e Cassie, i due protagonisti della miniserie (6 puntate targata Netflix), di guai e dolori ne hanno a bizzeffe. Un matrimonio infelice, intossicato dalle dipendenze di lui (un creatore di marionette televisive - è del resto il periodo dei Muppet's) e dalle frustrazioni di lei. L'unico figlio, il piccolo Edgar, sogna di scappare via da quell'inferno e appena può lo fa, mettendosi in guai ancora più seri.
Finisce rapito da un graffitaro nero che vive, insieme a una marea di diseredati, nei sotterranei della metropolitana.
Intanto, in superfice, seguiamo le indagini, condotte da un altro dolentissimo personaggio: il detective Ledroit, solo al mondo, emarginato perché nero e perché gay, con un compagno malato di aids.
Le indagini sulla scomparsa di Edgar si intrecciano con quelle di un altro ragazzo scomparso nel nulla tempo prima, un nero finito nel giro della prostituzione maschile; e con quelle di un losco locale, il Lux, dove avvengono abusi e transitano anche notabili e politici.
Ovviamente la scomparsa del bambino fa da detonatore ai problemi di Vincent e Cassie che ora hanno la giusta disperazione per separarsi.
Le sei puntate sono scritte con grande maestria e non ci si annoia mai. Benedict Cumberbatch è come sempre stra-ordinario (è nei 5 migliori attori oggi in circolazione in assoluto, insieme a Gary Oldman, Christian Bale e pochi altri), ben sostenuto dall'ottima Gaby Hoffman.
Notevole anche la compostezza e il segreto carisma che McKinley Belcher III dà al suo personaggio, il detective Ledroit.
Purtroppo, senza fare spoiler, la bella serie - che rende credibile e accettabile anche il fantasma di un mega-burattino che come l'armadillo di Zerocalcare è la cattiva coscienza di Vincent - scivola nell'ultima puntata, quando vira su toni marcatamente hollywoodiani/spielberghiani, perdendo un po' della sua dura misura, sempre efficacemente rispettata nelle precedenti puntate.
E' comunque un ottimo prodotto che merita il successo ricevuto.

Fabrizio Falconi - 2024

08/08/18

La serie dell'anno: "Patrick Melrose", un doloroso viaggio verso la consapevolezza.



Ecco una serie televisiva che ti apre il cuore - per chi ne ha ancora uno - come una noce. 

Patrick Melrose, appena andata in onda su Sky Atlantic, e recuperabile sul BoxSet o in streaming, è tratta dalla saga dei romanzi dello scrittore inglese Edward St Aubin (finalista del Man Booker Prize)  tra il 1992 e il 2012: cinque, come sono cinque le puntate della mini-serie. 

Si tratta della lunga tranche de vie del protagonista e come i romanzi si basa sulla vita dell'autore, cresciuto in una disfunzionale famiglia dell'alta borghesia britannica, il quale ha affrontato la morte di entrambi i genitori, problemi di alcolismo, una dipendenza da eroina, e successivamente la guarigione, il matrimonio e la paternità.

La serie è stata ideata e scritta dall'inglese David Nicholls, diretta sontuosamente da Andrew Berger per la produzione di Showtime e fortemente voluta dal carismatico Benedict Cumberbatch nei panni del protagonista.

Cinque puntate brillanti e livide, di un'ora ciascuna, in cui viene descritta senza compiacimenti e senza cadute di stile, la discesa agli inferi di Patrick, abusato da bambino dal padre-orco, un ricco e crudele aristocratico represso, con la complicità muta della disastrosa madre, in balia di alcool e psicofarmaci.

Le vicende si alternano tra la vita presente di Patrick - in lotta per liberarsi dalla dipendenza radicale dall'eroina e dall'alcool - e i frammenti agghiaccianti della vita altoborghese della sua infanzia, nel villone in Provenza, dove il padre e la madre portano il ragazzino ogni estate.

Non molto viene risparmiato allo spettatore, non certo in termini di effettacci, come oggi va molto di moda, quanto in clima di angoscia spirituale e materiale, intorno alle vicende di un bambino di dieci anni, impossibilitato a diventare un adulto responsabile e ossessionato dalla presenza-incubo dei due genitori.

La storia comincia con la telefonata che annuncia la morte del padre, dall'altra parte dell'Atlantico, in America.  Lentamente scopriamo la vita dissoluta, rovinata, consapevolmente rovinata di Patrick, il suo galleggiare sull'orlo di una impossibile normalità; i suoi anni terribili, la lotta feroce con se stesso; l'ambiente paranoico e cinico degli amici di famiglia; l'importanza di almeno due rapporti che salvano Patrick e lo guidano verso l'utopistica speranza di poter uscire fuori: l'amico e una moglie (il vero personaggio chiave della storia, nella riabilitazione alla vita, faticosissima di Patrick).

L'allestimento è da grande produzione, la regia è meravigliosamente misurata e allo stesso tempo brillante, i dialoghi sono di alto livello sempre, l'ironia e l'auto-sarcasmo percorrono tutta la vicenda attraverso la faccia, il corpo, lo stile di Cumberbatch, un attore dalle capacità espressive mostruose (come scrisse una volta Callisto Cosulich a proposito dei De Niro e Minnelli visti in New York, New York  di Scorsese), attorniato da un cast fantastico in cui spicca la grande Jennifer Jason Leigh oltre a Hugo Weaving, Indira Varma, Jessica Raine, Prasanna Puwanarajah, Pip Torrens, Anna Madeley, Allison Williams e Holliday Grainger.

Patrick Melrose conquista, turba e affascina perché è un grande racconto sulla impossibilità del perdono, sul lasciare andare, sulla consapevolezza, sul sacrificio, sulla deriva sanguinosa e sanguinaria che è generata dall'ignavia e dalla indifferenza, dalla cinica obbedienza all'egoismo.

Temi su cui è quanto mai importante riflettere oggi.

Fabrizio Falconi

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