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01/10/24

Bowie, Lennon, McCartney: da dove veniva il loro genio? E perché oggi non ce ne sono più in giro?


La cosa su cui meriterebbe riflettere (in omaggio alle teorie hillmaniane sul talento individuale) è che tutta quella generazione di poeti/musicisti inglesi e americani (in primis i Beatles) che tra il 1965 e il 1975 cambiarono per sempre la musica contemporanea, Bowie compreso, era formata da nati a ridosso - o durante - la fine della 2a guerra mondiale e provenienti quasi tutti dalla classe operaia o dalla piccola (o piccolissima) borghesia, da famiglie non di casta e che non avevano mai prodotto intellettuali. Provenivano quasi tutti dalla periferia estrema di Londra o di New York, o da sobborghi ancora più lontani, da famiglie mediamente povere.

Di dove costoro abbiano appreso a frequentare le alte vette della forma espressiva (e sostanziale) dell'arte, oltre che dalla strada, non è affatto facile dire (se non si ricorre per l'appunto alla "ghianda" di Hillman). Erano "angeli venuti da un altro mondo", come si diceva dello stesso Bowie o di Jim Morrison? Forse no. Erano semplicemente "antenne" che percepivano prima degli altri lo spirito del tempo, anche se il loro punto di partenza e di osservazione, inziale, era assai laterale o parziale. Eppure, furono artefici della loro stupefacente emancipazione.

E questo dovrebbe far pensare soprattutto noi italiani, essendo questo un paese dove la cultura e gli intellettuali sono spesso provenuti da eredità paterne, famiglie benestanti, insomma dalla famosa (esaltata e vituperata) borghesia italiana.

E ancora oggi succede spesso così. In Italia, per il gioco dei poteri e delle cricche, che sono ovunque, è ancora più difficile per il figlio di un operaio (ammesso che esistano ancora) o di un tassista notturno squattrinato, poter sognare un giorno di diventare non una vacua meteora da reality, ma un artista vero (un grande musicista o un vero scrittore), capace di riempire la propria anima di vita e spargerla poeticamente donandola al mondo. Per lui, le porte non si aprono.



26/09/24

Quando il sogno si spezzò: 1970, la dichiarazione di guerra di Lennon ai Beatles. Nel libro "La fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", presentato domenica prossima alla Libreria Eli

 



Qui di seguito un estratto (p. 162 e ss), de "La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", libro che verrà presentato domenica prossima, 22 settembre alla Libreria Eli di Roma. E' uno dei momenti cruciali della storia, quando Lennon pubblica un album immediatamente dopo l'annuncio dello scioglimento della band che ha cambiato il mondo. E' un regolamento di conti durissimo, principalmente tra i due fautori - John e Paul - della grande rivoluzione musicale (e non solo) del Novecento, e la definitiva rottura del loro "patto di sangue" siglato quando avevano quindici anni e mai violato sino ad allora.



La prima bordata contro Paul, ma contro la storia stessa dei Beatles, è una iniziativa di John– che del resto non si è mai fatto problemi a “lavare i panni sporchi in pubblico” – ed è contenuta in John Lennon/Plastic Ono Band, uscito pochi mesi dopo lo scioglimento: God, penultima traccia del LP, ballata dai toni ultimativi (da resa dei conti appunto), rappresenta il più esplicito “manifesto programmatico” di Lennon, all’indomani del divorzio dei/dai Beatles.

                    John mette le cose in chiaro: vuole esprimere in modo essenziale e definitivo, quello in cui egli crede – quello cioè che lui sostanzialmente è ora – ora che l’incantamento dei dieci anni sull’Helter Skelter è finito. Quella giostra si è fermata. Lui è sceso. Cosa è rimasto? Cosa è adesso John, appena oltrepassata la linea d’ombra dei suoi primi trent’anni di vita?

                   God lo afferma esplicitamente, ma nel tipico stile di John, cominciando dall’enunciazione di ciò in cui lui non crede. Di ciò che lui non è o non è più.

                   Anche God, come Mother, viene scritta durante il periodo della Primal Therapy, nella casa di Nimes Road, a Bel-Air. John ne incide una prima versione acustica, suonata alla chitarra, oggi presente in diversi bootleg bramati dai collezionisti, nella quale fa ironicamente precedere al testo vero e proprio, un proclama nello stile dei predicatori americani: “Ho una missione dall'alto. E sono qui per dirvi che questo messaggio riguarda il nostro amore. Gli angeli devono avermi mandato per consegnarvi questo messaggio. Ora ascoltatemi, fratelli e sorelle.” L’iconoclasta Lennon usa questo espediente per lanciarsi così, di seguito, in un radicale peana contro-religioso, il manifesto di un ateismo che sembra radicale e che viene affermato con forza già a partire dai primi versi:

 

God is a concept
By which we measure our pain
I'll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah
Pain
Yeah

                 Dio, dice Lennon, è semplicemente un concetto che gli uomini hanno inventato per dare un nome, o meglio, per misurare, il loro dolore. È una definizione filosofica lapidaria, che sembra provenire dal pensiero filosofico di Janov, dalle conversazioni fatte con il dottore, prima del rilascio delle urla del paziente, nella stanza insonorizzata.

                  A questo punto, sull’incalzare dello stesso tema, ribattuto in crescendo, ad ogni rima John elenca ciò in cui non crede, non ha mai creduto o non crede più. Anche questo è un elenco radicale, che non ammette discussioni, e che Lennon stila con tono perentorio, definitivo:


I don't believe in magic
I don't believe in I-Ching
I don't believe in Bible
I don't believe in Tarot
(cioè nei tarocchi)
I don't believe in Hitler
I don't believe in Jesus
I don't believe in Kennedy
I don't believe in Buddha
I don't believe in Mantra
I don't believe in Gita
I don't believe in Yoga
I don't believe in Kings
I don't believe in Elvis
I don't believe in Zimmerman
(cioè in Bob Dylan)

 

                  E qui, con un abile colpo di teatro, dopo una improvvisa pausa della sequenza, e un eloquente vuoto, arriva la voce dell’elenco più difficile da mandar giù, specie per le moltitudini di fans che avevano fatto del gruppo di Liverpool, i loro idoli:

 

I don't believe in Beatles

 

                  John, dunque, ha fatto finalmente a pezzi tutto: non solo non crede ad alcuna divinità – e Gesù e la Bibbia sono stati inseriti nell’elenco subito prima e dopo dei Tarocchi e di Hitler - ma non crede nemmeno in alcun idolo della musica, né Elvis (che pure fu un suo idolo giovanile), né in Dylan, né nei “suoi” Beatles, che sono, al pari delle altre voci in capitolo, puri idoli, simulacri, simboli rivestiti di un valore immaginario e inconsistente. Al dunque, inutili.

                  E dunque, cosa resta? In cosa crede l’uomo John, al termine di questa distruzione di miti, divinità e simboli? John crede alla realtà. E la realtà si restringe, con un cambio di passo drastico della melodia, all’improvviso fattasi dolce e malinconica, a “me” e a “Yoko e me”:

                   

I just believe in me
Yoko and me
And that's reality

 

                  Ogni sogno è dunque tramontato, continua John. Anche i Beatles erano fatti di quel sogno. Adesso che egli è rinato, tutto è più chiaro: il sogno era “Ieri”, con una velenosa allusione alla canzone di Paul, Yesterday (sempre considerata, da John, la sua migliore), e ai tempi dei Beatles. Che vengono ripudiati con i versi seguenti, di facile interpretazione per tutti i fans del gruppo: John non è più The Walrus (il “tricheco”), nel chiaro riferimento a una delle canzoni più celebri e autobiografiche di John (scritta sotto acido e ispirata a una poesia di Lewis Carroll, I’m the Walrus, contenuta nel Doppio Bianco). The Walrus, cioè il John-nei-Beatles, il dreamweaver (cioè il “tessitore di sogni”) è diventato ora, soltanto John, il ri-nato.

 

The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday
I was the dreamweaver
But now I'm reborn
I was the walrus
But now I'm John
And so dear friends
You'll just have to carry on

The dream is over

 

                  Il sogno è finito: ed è piuttosto singolare che a decretarlo sia proprio John che - con le sue utopie pacifiste, i bed-in, le tirate contro i potenti e il loro cinismo - tutto il mondo identifica come il sognatore per eccellenza. E lui stesso, del resto, così si definisce nella sua più famosa canzone, Imagine: You may say, i’m a dreamer, but i’m not the only one. Tu puoi chiamarmi un sognatore. Lui non lo nega, risponde soltanto che di certo non è l’unico.

                 Questa canzone, God, è allora un proclama nel più caratteristico stile provocatorio di John. La sua identità – se ne esiste una – è ora ciò che risulta da una serie di negazioni: “non posso affermare ciò che sono, posso soltanto dire ciò che non sono.”

                 Di sicuro, la canzone è uno shock per molti fan dei Beatles, con effetti potenziali imprevedibili e violenti, come vedremo tra poco.

                 Ma ciò che sta a cuore a John, al di là dei toni, è smontare il mito dei Beatles e ridimensionarlo, nel momento in cui sta “imparando a nuotare”. I Beatles andavano bene, ma non il loro mito. E lo ribadisce con chiarezza nella famosa intervista del 1980: “Se i Beatles hanno un messaggio, era quello. Con i Beatles, il punto sono i dischi, non i Beatles come individui. Non hai bisogno del pacchetto, così come non hai bisogno del pacchetto cristiano o del pacchetto marxista per ricevere il messaggio… Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno un messaggio, era imparare a nuotare. Punto. E una volta che impari a nuotare, nuoti. Le persone che sono attaccate al sogno dei Beatles e degli anni Sessanta hanno perso il punto, quando il sogno dei Beatles e degli anni Sessanta è diventato il punto. Portare in giro il sogno dei Beatles o degli anni Sessanta per tutta la vita è come portare in giro la Seconda Guerra Mondiale e Glenn Miller. Questo non vuol dire che non puoi goderti Glenn Miller o i Beatles, ma vivere in quel sogno è una zona crepuscolare. Non è vivere adesso. È un’illusione.” [1]

                   Sembra un discorso impeccabile, e in effetti lo è, ma c’è sicuramente di più, oltre a questo: la lunga intervista di Lennon – una sorta di bilancio, senza sapere che stava arrivando la sua morte – è in realtà una presa di distanza dalle biografie dei Beatles, non soltanto dal fenomeno musicale, culturale che essi hanno rappresentato. Perché ogni aspetto, in questa vicenda, parla prima di tutto di vite, traumi, mancanze, nevrosi, sogni, utopie, delusioni, malinconie, perdite, fallimenti. In primis, di John e Paul. Così, il mistero che resta – l’argomento che John scantona nell’intervista – è perché queste vicende personali, queste vite, si siano assemblate così stranamente e per quali cause – con potenza simbolica – esse abbiano collegato le anime di così tanta gente nel mondo, fino a oggi. Forse Lennon, morendo nel 1980, non ha fatto in tempo a constatare la durevolezza, la consistenza e l’autorevolezza nel tempo, del “mito” dei Beatles. E forse se fosse vivo ancora oggi, avrebbe una percezione parecchio diversa di quello che realizzò con i suoi compagni di allora.



[1] D. Sheff, Lennon Interview, op. cit.


Ogni diritto d'autore riservato. Testo tratto da: Fabrizio Falconi, La Fine del Sogno, Beatles, Manson, Polanski, Arcana Editore, Roma, 2024.

Presentazione del Libro: Domenica 29 settembre, con Noemi Serracini e l'autore, alla Libreria Eli di Roma, Viale Somalia 50/a (seguirà brindisi). 

Prenotazione qui





10/07/22

La lettera - intima - che Paul Mc Cartney scrisse a John Lennon e lesse nel 1994 per l'ingresso di John nella Rock'n Roll of Fame - Testo e video



Buona domenica!
Pubblico, a beneficio dei lettori di questo blog, il testo e il video (in fondo all'articolo) della bellissima lettera postuma scritta da Paul McCartney a John Lennon in occasione della cerimonia di introduzione nella Hall of Fame del 19 gennaio 1994, quando Lennon fu inserito nella leggendaria lista come artista solista.


Caro John,


Mi ricordo quando ci siamo incontrati per la prima volta, a Woolton, alla festa del paese. Era una bella giornata estiva, avevo camminato fin lì e ti ho visto sul palco. E tu stavi cantando "Come Go With Me", dai Vichinghi Dell, ma non sapevi le parole e così le inventavi. "Vieni con me al penitenziario." Non era nel testo.

Mi ricordo quando scrivevamo le nostre prime canzoni insieme. Andavamo a casa mia, a casa di mio padre, e fumavamo il Ty-Phoo the con la pipa di mio padre che conservava in un cassetto. Non ha fatto molto per noi, ma ci ha portato sulla strada.

Volevamo essere famosi.

Ricordo le visite alla casa di tua mamma. Julia era una donna molto alla mano, una donna molto bella. Aveva i capelli lunghi e rossi e suonava l'ukulele. Non avevo mai visto una donna che sapeva farlo. E mi ricordo di aver dovuto spiegarti gli accordi per la chitarra, perché avevi imparato a suonare gli accordi per l'ukulele.

E poi al tuo 21esimo compleanno hai ricevuto 100 sterline da uno dei tuoi parenti ricchi di Edimburgo, e quindi abbiamo deciso di andare in Spagna. Così abbiamo fatto l'autostop da Liverpool, fino a Parigi, e abbiamo deciso di fermarci lì, per una settimana. E alla fine ci siamo fatti fare il nostro taglio di capelli, da un tizio di nome Jurgen, che ha finito per essere il "taglio di capelli alla Beatle".

Ricordo quando ti presentai il mio amico George, il mio compagno di scuola, che tu facesti entrare nella band dopo che lui ebbe suonato "Raunchy" sull' autobus. Rimanesti colpito. E incontrammo Ringo che lavova tutta la stagione al campo Butlin - era un professionista esperto - ma la barba doveva sparire, e se la tagliò.

Più tardi abbiamo ottenuto di suonare ad un concerto al Cavern Club di Liverpool che era ufficialmente un club blues. Noi non sapevamo veramente tutti i numeri blues. Apprezzavamo molto il blues, ma non sapevamo i numeri del blues, così ci siamo presentati con un "Signore e signori, questo è un grande numero di Big Bill Broonzy chiamato" Wake Up Suzie Little " E il pubblico continuava a dire "Questo non è il blues, questo non è il blues. Questa canzone è pop." Ma abbiamo continuato a suonarla.

E poi siamo finiti in tour. Era un tizio chiamato Larry Parnes che ci ha ingaggiati per il nostro primo tour. Ricordo che cambiammo tutti i nostri nomi per quell'occasione. Cambiai il mio in Paul Ramon, George Harrison diventò Carl Harrison e, anche se la gente pensa che in realtà non cambiasti veramente il tuo nome, mi sembra di ricordare che diventasti Long John Silver per tutta la durata del tour.

Viaggiavamo su un furgoncino durante il tour, e una notte il parabrezza si ruppe. Eravamo in autostrada e stavamo tornando a Liverpool. Si congelava e quindi abbiamo dovuto metterci uno sopra l'altro nella parte posteriore del furgone creando un sorta di panino-Beatle. Abbiamo avuto modo di conoscerci. Ci siamo conosciuti così.

Siamo arrivati ​​ad Amburgo e abbiamo incontrato personaggi del calibro di Little Richard, Gene Vincent ... Mi ricordo di Little Richard quando ci invitò al suo hotel. Stava guardando l'anello di Ringo e disse: "Amo questo anello. Ho un anello simile. Potrei darti un anello simile." Così siamo andati tutti in albergo con lui. (Non abbiamo mai avuto un anello.)

Siamo tornati con Gene Vincent nella sua camera d'albergo una volta. Era andato tutto bene finchè non si avvicinò ad un cassetto del comodino e ne tirò fuori una pistola. Dicemmo: "Ehm, dobbiamo proprio andare, Gene, dobbiamo andare ..." Uscimmo di corsa!

E poi arrivarono gli Stati Uniti - New York City - dove ci siamo incontrati con Phil Spector, le Ronettes, Supremes, i nostri eroi, le nostre eroine. E poi a Los Angeles, incontrammo Elvis Presley per una grande serata. Abbiamo visto il ragazzo sul suo territorio nazionale.  Ragazzi! Era un eroe.

E poi, Ed Sullivan. Volevamo essere famosi, e lo eravamo davvero diventati. Voglio dire, immaginate di incontrare Mitzi Gaynor a Miami!

Poi, la registrazione ad Abbey Road. Ricordo ancora mentre suonavamo "Love Me Do." Tu ufficialmente cantavi "Love me do", ma perché suonavi l'armonica. Poi George Martin disse all'improvviso nel mezzo della sessione: " Può Paul cantare il verso " Love me do? " , il pezzo cruciale.

Mi ricordo mentre cantavo "Kansas City" - beh, non riuscivo a farlo, perché è difficile da cantare quella roba. Sai, urlare nella parte superiore della testa (?). Sei sceso dalla sala di controllo e mi ha portato da una parte e mi hai detto: "Ce la puoi fare, devi solo urlare, si può fare." Così, grazie. Grazie per questo. Sono riuscito a farlo.

Mi ricordo mentre scrivavamo "A Day in the Life" insieme, e l'occhiata d'intesa che ci siamo lanciati quando abbiamo scritto il verso "I'd love to torn you on". Sapevamo quello che stavamo facendo, sai. Uno sguardo furtivo.

Dopo di che c'era questa ragazza di nome Yoko. Yoko Ono. Lei si presentò a casa mia un giorno. Era il compleanno di John Cage e lei disse che voleva entrare in possesso di alcuni manoscritti di diversi autori per consegnarglieli, e ne voleva uno mio e tuo. Così ho detto: "Beh per me va bene, ma dovrai andare da John ".

E lei lo ha fatto ...

Dopo di che avevo impostato un paio di macchine di registrazione Brennell, che eravamo soliti usare, e tu sei rimasto sveglio tutta la notte e hai registrato "Two Virgins". Ma lo hai fatto da solo - non aveva niente a che fare con me.

E poi, poi c'erano le telefonate con te. La gioia per 
me, dopo tutta la merda di business che avevamo attraversato, era che stavamo tornando insieme e comunicavamo ancora una volta.
E la gioia quando mi dicesti che stavi a letto ora. E che stavi giocando con il tuo piccolo bambino, Sean. E 'stato meraviglioso per me, perché mi ha dato qualcosa a cui aggrapparmi.

Così ora, anni dopo, eccoci qui. Tutte queste persone. Qui si sono riuniti per ringraziarti per tutto quello che hai significato per tutti noi.

Questa lettera viene dal cuore, dal tuo amico Paul.

John Lennon, ce l'hai fatta. Stasera sei entrato nella Rock Hall 'n' Roll of Fame.

Dio ti benedica.

Paul 



Originale: 

"Dear John,

I remember when we first met, at Woolton, at the village fete. It was a beautiful summer day and I walked in there and saw you on stage. And you were singing “Come Go With Me,” by the Dell Vikings, But you didn’t know the words so you made them up. “Come go with me to the penitentiary.” It’s not in the lyrics.

I remember writing our first songs together. We used to go to my house, my Dad’s home, and we used to smoke Ty-Phoo tea with the pipe my dad kept in a drawer. It didn’t do much for us but it got us on the road.

We wanted to be famous.

I remember the visits to your mum’s house. Julia was a very handsome woman, very beautiful woman. She had long, red hair and she played a ukulele. I’d never seen a woman that could do that. And I remember to having to tell you the guitar chords because you used to play the ukulele chords.

And then on your 21st birthday you got 100 pounds off one of your rich relatives up in Edinburgh, so we decided we’d go to Spain. So we hitch-hiked out of Liverpool, got as far as Paris, and decided to stop there, for a week. And eventually got our haircut, by a fellow named Jurgen, and that ended up being the “Beatle haircut.”

I remember introducing you to my mate George, my schoolmate, and getting him into the band by playing “Raunchy” on the top deck of a bus. You were impressed. And we met Ringo who’d been working the whole season at Butlin’s camp - he was a seasoned professional - but the beard had to go, and it did.

Later on we got a gig at the Cavern Club in Liverpool which was officially a blues club. We didn’t really know any blues numbers. We loved the blues but we didn’t know any blues numbers, so we had announcements like “Ladies and gentlemen, this is a great Big Bill Broonzy number called “Wake Up Little Suzie.” And they kept passing up little notes - “This is not the blues, this is not the blues. This is pop.” But we kept going.

And then we ended up touring. It was a bloke called Larry Parnes who gave us our first tour. I remember we all changed names for that tour. I changed mine to Paul Ramon, George became Carl Harrison and, although people think you didn’t really change your name, I seem to remember you were Long John Silver for the duration of that tour. (Bang goes another myth.)

We’d been on a van touring later and we’d have the kind of night where the windsceen would break. We would be on the motorway going back up to Liverpool. It was freezing so we had to lie on top of each other in the back of the van creating a Beatle sandwich. We got to know each other. These were the ways we got to know each other.

We got to Hamburg and met the likes of Little Richard, Gene Vincent…I remember Little Richard inviting us back to his hotel. He was looking at Ringo’s ring and said, “I love that ring.” He said, “I’ve got a ring like that. I could give you a ring like that.” So we all went back to the hotel with him. (We never got a ring.)

We went back with Gene Vincent to his hotel room once. It was all going fine until he reached in his bedside drawer and pulled out a gun. We’ said “Er, we’ve got to go, Gene, we’ve got to go…” We got out quick!

And then came the USA — New York City — where we met up with Phil Spector, the Ronettes, Supremes, our heroes, our heroines. And then later in L.A., we met up with Elvis Presley for one great evening. We saw the boy on his home territory. He was the first person I ever saw with a remote control on a TV. Boy! He was a hero, man.

And then later, Ed Sullivan. We’d wanted to be famous, now we were getting really famous. I mean imagine meeting Mitzi Gaynor in Miami!

Later, after that, recording at Abbey Road. I still remember doing “Love Me Do.” You officially had the vocal “love me do” but because you played the harmonica, George Martin suddenly said in the middle is the session, “Will Paul sing the line “love me do?”, the crucial line. I can still hear it to this day - you would go “Whaaa whaa,” and I’d go “loove me doo-oo.” Nerves, man.

I remember doing the vocal to “Kansas City” — well I couldn’t quite get it, because it’s hard to do that stuff. You know, screaming out the top of your head. You came down from the control room and took me to one side and said “You can do it, you’ve just got to scream, you can do it.” So, thank you. Thank you for that. I did it.

I remember writing “A Day in the Life” with you, and the little look we gave each other when we wrote the line “I’d love to turn you on.” We kinda knew what we were doing, you know. A sneaky little look.

After that there was this girl called Yoko. Yoko Ono. She showed up at my house one day. It was John Cage’s birthday and she said she wanted to get hold of manuscripts of various composers to give to him, and she wanted one from me and you. So I said,” Well it’s ok by me. but you’ll have to go to John.”

And she did…

After that I set up a couple of Brennell recording machines we used to have and you stayed up all night and recorded “Two Virgins.” But you took the cover yourselves — nothing to do with me.

And then, after that there were the phone calls to you. The joy for me after all the business shit that we’d gone through was that we were actually getting back together and communicating once again. And the joy as you told me about how you were baking bread now. And how you were playing with your little baby, Sean. That was great for me because it gave me something to hold on to.

So now, years on, here we are. All these people. Here we are, assembled, to thank you for everything that you mean to all of us.

This letter comes with love, from your friend Paul.
John Lennon, you’ve made it. Tonight you are in the Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.

God bless you.

Paul


02/04/16

I Coldplay utilizzano una poesia di Rumi nell'ultimo album (e Obama).




Alla traccia 7 del nuovo - bellissimo - album dei Coldplay, nel brano intitolato Kaleidoscope, alcuni avranno riconosciuto, recitata dalla profonda voce del cantante blues Coleman Barks, una delle più celebri poesie di Rumi, poeta mistico persiano, fondatore della confraternita sufi dei dervisci, La locanda.

Eccone il testo in Italiano: 

L'essere umano è una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.

Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.

Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,

lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.

Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.

Sii grato per tutto quel che arriva, 
perché ogni cosa è stata mandata 
come guida dell'aldilà.


Nella stessa canzone, alla fine, I Coldplay utilizzano un frammento della voce del presidente Obama: non di un discorso, ma mentre canta "Amazing Grace" al funerale del reverendo Clementa Pinckney , uno delle nove vittime della sparatoria giugno 2015 a Charleston, South Carolina. 

Chris Martin, il frontman del gruppo, parlando a The Sun , ha spiegato, " Abbiamo un piccolo frammento del presidente mentre canta 'Amazing Grace' in quella chiesa. A causa del significato storico di quello che ha fatto e anche perché il significato di quella canzone è più o meno: "io mi sono perso, ma ora mi sto ritrovando" E' un messaggio ispiratore di per sé, ma è reso ancor più forte in connessione con le altre parole che Obama ha condiviso durante l'elogio per Pinckney , in cui ha toccato la violenza armata, razziale tensione, e il significato della fede nel mondo terrificante di oggi. 

Ecco, il video originale della cerimonia funebre per Clementa Pinckney.


 

27/01/14

Lou Reed - Lo struggente ricordo che scrisse per il suo maestro, Delmore Schwartz.






Lewis Allan Reed, in arte Lou Reed, nato a Brooklyn, New York, e cresciuto a Freeport, Long Island, fu per tutta la vita riconoscente a quello che considerò il suo maestro, il poeta Delmore Schwartz, che il futuro musicista conobbe quando, alla fine del 1960, cominciò a frequentare la Syracuse University's College of Arts and Sciences, studiando giornalismo, regia cinematografica e scrittura creativa.

Nel giugno 1964 Reed ottenne la laurea.
Agli anni universitari risale dunque l'incontro. Delmore Schwartz ebbe Lou Reed fra i suoi allievi e, già malato e alcolizzato, prese in simpatia quel "ragazzo disorientato di New York", il quale, nel 1966 (anno della sua morte), gli avrebbe dedicato la composizione European Son inclusa nell'album di debutto dei Velvet Underground, considerato l'omaggio più intenso e più durevole alla memoria di questo campione dell'Alta Cultura.

Questa qui sotto è l'introduzione - struggente - scritta da Lou Reed per il libro Nei sogni cominciano le responsabilità che raccoglie alcuni famosi racconti di Schwartz e che a tutt'oggi è l'unico libro tradotto in lingua italiana di questo grande scrittore e poeta americano (il quale ispirò fra l'altro il personaggio di Humboldt a Saul Bellow per il romanzo che valse allo scrittore il premio Nobel per la letteratura nel 1976).



Oh, Delmore, quanto mi manchi. Sei tu che mi hai incoraggiato a scrivere. Eri l’uomo più grande che avessi mai incontrato. Riuscivi a esprimere le emozioni più profonde con le parole più semplici. I tuoi titoli bastavano da soli a far salire sul mio collo la musa di fuoco. Eri un genio. Segnato dal destino.

Le storie folli. Oh, Delmore, eri così giovane . Così pieno di speranza.  Ci riunivamo attorno a te mentre leggevi Finnegan's Wake. Così divertente ma così impenetrabile senza il tuo aiuto. Dicevi che il modo migliore per vivere la propria vita era consacrarla a Joyce. Avevi annotato ogni parola  nei romanzi presi in prestito in  biblioteca. Ogni parola. 

E dicevi che stavi scrivendo The Pig's Valise. Oh, Delmore, non era vero. Lo hanno cercato dopo che il tuo ultimo delirio ti ha provocato un infarto all'Hotel Dixie. Un corpo non reclamato per tre giorni. Tu - uno dei più grandi scrittori della tua epoca. Nessuna valigia.

Avevi la lettera di T.S. Eliot vicino al cuore. Il suo elogio di Nei sogni. Ci hai supplicati: "vi prego non lasciate che mi seppelliscano vicino a mia madre. Fate una festa per celebrare il viaggio da questo mondo a uno che mi auguro sia migliore.  E tu, Lou, giuro - e sai che se esiste qualcuno sulla terra capace di farlo, quello sono io - giuro che se scriverai per i soldi ti perseguiterò."

Gli ho portato un racconto. Mi ha dato una B. Ero così ferito, così umiliato. Perché perseguitare uno senza talento come me ? Ero io l'orso di The Heavy Bear Who Goes With Me, l'orso che lo accompagnava. Ai cocktail letterari. Li odiava. E affidavano a me la responsabilità. 

Delmore Schwartz


Dopo qualche drink - la camicia sbottonata - il lembo destro penzolante - la cravatta messa di traverso - la lampo slacciata. Oh Delmore, eri così bello. Con il tuo nome ispirato a un ballerino del cinema muto, Frank Delmore. O, Delmore - la cicatrice, un souvenir del tuo duello con Nietzsche. 

La campanella aveva suonato mentre ci leggevi Yeats, ma la poesia non era finita e volevi continuare a leggerla - rivoli di liquido ti uscivano dal naso ma tu non hai smesso di leggerla. Ero paralizzato . Ho gridato - l'amore per la parola - l'orso pesante.

.... O, Delmore, dov'era il Vaudeville for a Princess.  Un dono per la principessa offerto dalla star del teatro nel camerino.  
La duchessa ha ficcato un dito nel culo del duca e il regno è svanito per sempre. Non porterà niente di buono. Basta con questo corteggiamento !
Signore si calmi o dovrò buttarla fuori.
Delmore capiva tutto e riusciva a scriverlo in modo impeccabile.
Shenandoah Fish. Eri troppo bravo per sopravvivere. Le tue intuizioni ti hanno tradito. Le aspettative di successo. Così insegnavi.
E io ho assistito al tuo ultimo round.
Amavo il tuo ingegno e la tua smisurata conoscenza.
Eri e sarai sempre il più grande.
Riuscivi a portare un cavallo alla fonte ma non a farlo pensare.
Volevo scrivere. Un solo verso che fosse all'altezza dei tuoi. La mia montagna. La mia fonte di ispirazione.
hai scritto il racconto più fantastico che sia mai stato concepito.
Nei sogni.

Lou Reed.






27/11/13

Joni Mitchell e la figlia segreta. Una storia che è come un romanzo.



 Joni Mitchell qualche anno fa nella sua casa



è una storia che mi ha molto incuriosito e colpito, questa di Joni Mitchell e della sua figlia segreta. La ripropongo qui nell'ottima scrittura di Bill Higgins. 


Un pezzo del passato di Joni Mitchell è riaffiorato. 

La cantante si è riunita con la figlia che aveva dato in adozione 32 anni fa in circostanze dickensiane. Il fatto avvenne anni prima che la cantante scrivesse classici come 'Both sides now' , 'Big yellow taxi' "The Circle Game" e 'Woodstock', prima dei dischi d' oro, dei Grammy Award e del suo nome nella Rock' n' Roll Hall of Fame. 

Nel 1965 si chiamava Roberta Joan Anderson ed era una studentessa squattrinata dell' Alberta College of Art di Calgary, in Canada. Suo padre era il manager di un negozio di alimentari e sua madre un' insegnante. 

La Mitchell ha avuto sempre qualche difficoltà a raccontare questa vicenda. E anche oggi preferisce parlare della "gioia della riunione". 

Questa è la prima intervista sull' argomento; per la prima volta l' artista racconta cosa voleva dire nei primi anni Sessanta essere una ragazza madre in Canada. "Rimasi incinta a 20 anni nel college che frequentavo", ricorda la Mitchell, oggi 53enne. "La cosa più importante in quel momento era cancellare l' onta. Lo scandalo era enorme. Socialmente era una rovina. Come se avessi ammazzato qualcuno". 

I genitori - racconta - non seppero nulla, e lei non chiese mai aiuto alla famiglia. Il padre della piccola, Brad McMath, all'epoca era uno studente e non era pronto a metter su famiglia. Non se la sentì di affrontare l' aborto né un matrimonio riparatore. "Una madre infelice non può crescere un bambino felice", dice lei. 

Così partorì in un ospedale di Toronto. "Trovai barbaro il fatto che mi bendassero i seni per rimandare indietro il latte". Rimase dieci giorni in ospedale con la piccola, che battezzò Kelly Dale Anderson. "Non avevo soldi, non avevo un lavoro, non avevo una casa. Lasciai l' ospedale e non sapevo dove andare", ricorda. 

"E d' altra parte non volevo adattarmi a circostanze che potessero nuocere sia alla bambina che a me". Si avventurò così in un matrimonio con il folksinger americano Chuck Mitchell, del quale avrebbe conservato solo il cognome. L' agenzia che si occupava di adozioni intanto faceva pressioni: più tempo aspettava più sarebbe stato difficile trovare una sistemazione per la piccina. Alla fine la cantante firmò i documenti necessari. Circa tre anni più tardi la carriera della Mitchell cominciò a decollare. Erano gli anni solitari in cui vagava da un club all' altro della West Coast americana. Pubblicò il suo primo album, 'Song to a seagull' , nel 1968. L' anno dopo Judy Collins portò in classifica 'Both sides now' , tratta dal suo album 'Clouds' , che conteneva anche 'Chelsea morning' , il brano che influenzò Bill e Hillary Clinton nella scelta del nome della loro unica figlia. 

La Mitchell precisa oggi che il ricordo della bambina "mi piombava addosso nei momenti più impensabili, magari quando il figlio di un' amica cadeva dalla bicicletta". 

Kelly Dale sarebbe rimasta l' unica figlia della cantautrice. "Non ho mai trovato il momento giusto per avere un bambino. Il problema più grande forse è stato trovare un uomo che volesse un figlio. La nostra generazione è stata in generale molto irresponsabile. La classica sindrome di Peter Pan". 

I particolari dell' adozione sono diventati pubblici quattro anni fa, quando una compagna di college dell' artista ha venduto tutte le informazioni a un tabloid. A quel punto è spuntata una miriade di impostori che sostenevano di aver adottato la figlia della cantautrice.

Ma la ricerca non avrebbe dato nessun esito se anche la ragazza, Kelly Dale Anderson - oggi Kilauren Gibb - arrivata a ventisette anni, non si fosse messa a sua volta alla ricerca della sua vera madre. Quando ha cominciato a sospettare che la Mitchell potesse essere la persona che cercava, ha aperto la 'homepage' della cantante su Internet. "La biografia di mia madre è apparsa sullo schermo e ho pensato che tutte le informazioni coincidevano: la polio a nove anni, mio nonno che lavorava in un alimentari, mia nonna che faceva l' insegnante. Le coincidenze erano decisamente troppe".

A quel punto la Gibb si è messa in contatto con il manager di Joni Mitchell e il sogno si è avverato: madre e figlia si sono finalmente incontrate dopo 32 lunghissimi anni. In quella occasione Joni Mitchell ha scoperto anche di essere diventata nonna di un bambino di quattro anni, Marlin, che era presente all' incontro. "Assomiglia a mia madre", dice la Mitchell di Kilauren, "ha la sua corporatura e i miei zigomi". La Gibb ha lavorato per 13 anni come modella, ma i suoi genitori adottivi le hanno fatto frequentare anche l' Università di Toronto. "Sono grata a questa famiglia che ha cresciuto mia figlia così bene", dice Joni Mitchell. "Il cordone ombelicale tra me e mia madre non è mai stato reciso", conclude la Gibb.


Joni Mitchell, la figlia ritrovata Kilauren Gibb con il nipote. 

20/04/12

"George Harrison - Living in the material world" di Martin Scorsese - La recensione.


Ho visto ieri sera, "Living in the material World-George Harrison" il docu-film targato HBO realizzato da Martin Scorsese sulla vita di George Harrison, uscito nell'ottobre scorso negli USA.

E' un'opera pregevolissima, che raccomando a tutti - non solo agli amanti dei Beatles e della musica in generale-  con l'unica avvertenza che consiglio di considerare,  e cioè che si tratta di un'opera molto lunga, della  durata complessiva di ben 3 ore e 38 minuti (sconsigliabile dunque l'ultimo spettacolo..!)

Si tratta comunque di un film splendido, tenuto in mano dalla saldissima regia di Martin Scorsese che ormai alle opere documentariste sul rock ha dedicato una parte rilevante della sua filmografia, da Woodstock (di cui curò, in modo misconosciuto il montaggio) a The Last Waltz a Shine a Light, del 2008, dedicato ai Rolling Stones. 

Splendido perché ricostruisce con materiali di archivio stupefacenti - e mai visti - gli anni d'oro del percorso creativo di Harrison insieme ai Beatles, gli anni della Swinging London, la crisi definitiva del gruppo, la carriera solista, ma soprattutto il percorso personale di ricerca interiore di quello che era certamente il più 'solitario'  e meditativo - il più attratto dal lato spirituale dell'esistenza - dei Fab Four

Lo fa, oltre che ripescando i materiali sonori e visivi dell'epoca (molti dei quali messi a disposizione dalla vedova di Harrison, concedendo molto spazio alle interviste dei testimoni, che raccontano il loro lato di George:  Paul McCartney e Ringo Starr,  Eric Clapton e George Martin, Yoko Ono e Terry Gilliam,  Phil Spector e Ravi Shankar, e via discorrendo..

Il quadro che si compone è quello di un'anima, più che una persona, che si trovò coinvolta in un fenomeno senza precedenti - quello della popolarità del quartetto di Liverpool che in meno di dieci anni riuscì a conquistare il mondo intero, cambiando per sempre la storia della musica contemporanea - e che però riuscì a non farsi sopraffare, cercando sempre di tendere a quel 'centro' , a quella ricerca intorno al senso dell'esistenza, per la quale si può dire di non essere vissuti invano. 

Un tributo colto e approfondito, umano e non distaccato, che non poteva lasciare indifferente un autore come Scorsese da sempre attratto dai temi spirituali . "Tutta la musica dell'ultimo Harrison funziona da supporto alla meditazione, come avviene nelle tradizioni orientali " ha raccontato Scorsese a Richard Schickel nel libro autobiografico "Considerazioni su me stesso e tutto il resto" uscito da poco per Bompiani. 

E dunque un vero atto 'meditativo' è anche la visione di questo film.

Fabrizio Falconi