09/12/22
Vito Mancuso compie oggi 60 anni: il suo libro "L'anima e il suo destino" rimarrà
23/04/13
Robert Pogue Harrison e Vito Mancuso all'Auditorium il 29 aprile.
Lunedì 29 aprile 2013, alle ore 21 nella Sala Sinopoli dell'Auditorium di Roma c'è un incontro interessantissimo: Il Paradiso ritrovato, con Robert Pogue Harrison e Vito Mancuso.
Varrà davvero la pena esserci.
L'incontro è inserito nel ciclo intitolato: LEZIONI DI PARADISO PERDUTO Piccolo viaggio alla ricerca di un eden sostenibile.
Riporto qui sotto il comunicato relativo.
"Noi dobbiamo scegliere il buono altrimenti ci estingueremo. I dinosauri hanno fatto l’errore di scegliere la corazza come protezione invece dell’intelligenza e per questo si sono estinti. Noi facciamo parte del mondo naturale e se non ci comporteremo da persone naturali finiremo con l’estinguerci. Per questo dobbiamo scegliere di diventare umani.” (Arthur Clarke, scrittore di fantascienza e scienziato, sceneggiatore di “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick).
Questa semplice deduzione di uno dei più grandi scrittori di fantascienza del ‘900 fa ancora fatica a trovare spazio nei piani economici dei governi mondiali. Eppure la maggioranza degli abitanti del pianeta, come recitano le statistiche, desidera oggi una vita diversa, più vicina alla natura e ai suoi ritmi dimenticati.
La dittatura del Pil e dello spread ci ha fatto perdere di vista le ragioni per cui alla fine val la pena vivere. Una volta la costituzione americana parlava di diritto alla felicità per ogni singolo individuo, parola che in questi tempi cupi sembra appartenere a un’utopia impossibile, visto che è già un sogno se riusciamo ad arrivare alla fine del mese.
Ma come diceva già Robert Kennedy nel suo memorabile discorso del 1968 “Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari (…). Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”
La domanda che ci poniamo è “Ma il nostro paradiso è perduto per sempre?”
Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva o il botanico Libereso Guglielmi e tante altre menti eccellenti un’inversione di rotta è ancora possibile, proprio oggi che le risorse della terra sono agli sgoccioli, forse si può spingere la politica a ridiscutere l’economia e il concetto di benessere personale e pubblico e ricominciare a considerare la nostra terra com’era una volta, ovvero un immenso giardino dell’eden.
Il viaggio di Serena Dandini si ripropone di “coltivare” queste suggestioni attraverso delle conversazioni eccellenti. Cosa hanno in comune i giardinieri, gli economisti o gli scrittori che inviteremo in queste atipiche lezioni all’Auditorium? Semplice, sono tutti dei “coltivatori di sogni” che non si arrendono al pessimismo dominante e attraverso l’arte, la bellezza o la scienza e naturalmente i giardini cercano di farci ritrovare la strada per il nostro paradiso perduto.
“Anche per i pensieri c’è un tempo per arare e un tempo per mietere” (Ludwig Wittgenstein).
Le Lezioni sono realizzate in collaborazione con Mismaonda. Biglietti: 10 euro Info 06-80241281
02/06/10
Pavel Florenskij il pensiero contro l' ideologia.
Pavel Florenskij il pensiero contro l' ideologia
06/02/10
Vito Mancuso sulla vicenda Boffo e sugli intrighi vaticani.
( "la Repubblica" del 4 febbraio 2010 )
fonte La Repubblica - http://www.repubblica.it
30/11/09
La vecchiaia e la Sintesi di una Vita - Vito Mancuso rilegge Wittgenstein.
Ciò che Wittgenstein percepì a 27 anni di fronte al fuoco dell'esercito russo ogni uomo che prenda sul serio l' esistenza è destinato a sperimentarlo quando inizia a sentire arrivare il termine dei suoi giorni. Non è un caso quindi che il cardinale Carlo Maria Martini,riflettendo sulla preghiera dall' alto dei suoi 82 anni, abbia sentito anzitutto il richiamo di un grande vecchio della letteratura biblica quale Qohèlet ricordandone la celebre descrizione allegorica degli effetti fisici della vecchiaia, quando le mani («i custodi dellacasa»), le gambe («i gagliardi»), i denti («le donne che macinano»), gli occhi («quelle che guardano dalle finestre»), le orecchie («ibattenti sulla strada») non funzionano più come prima, preludio al momento in cui l' uomo se ne andrà "nella dimora eterna".
In questa prospettiva la preghiera di chi è anziano per Martini è anzitutto ricerca di consolazione interiore di fronte alla crescente fragilità che la vecchiaia comporta, è richiesta della ragione e del sentimento che un senso definitivo della vita ci sia e che a questo senso si possa personalmente partecipare. Il cardinal Martini però aggiunge un'ulteriore considerazione sulla preghiera di chi è anziano, rivolta ora non più al futuro ma al passato, e qui a mio avviso egli tocca il momento più alto del suo scritto.
Mi riferisco a quando egli parla degli anziani come di coloro che hanno raggiunto «una certa sintesi interiore» e che per questo possiedono «uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza». Aver compiuto un lungo cammino non significa solo vederne la fine, significa anche potersi voltare e vederne per intero il percorso. Da questa altezza può scaturire «una lettura sapienziale della storia e del mondo», per descrivere la quale Martini giunge a coniare in perfetto stile evangelico una vera e propria beatitudine, una nona beatitudine che non sfigurerebbe come prosieguo delle otto beatitudini proclamate da Gesù nel celebre Discorso della montagna: «Beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente inconfronto con quelli passati!». Martini sa bene che il giudizio negativo sul presente è una delle tipiche malattie che affliggono lo spirito della vecchiaia, quando la consapevolezza che presto per sé sarà la fine conduce spesso a un rapporto amaro e risentito con ilpresente, valutato solo come progressiva decadenza rispetto "ai miei tempi".
Ma il cardinale aggiunge che a un uomo può capitare di peggio,cioè di guardare indietro alla propria esistenza e di vedere solo macerie (talora anche le ricchezze e gli onori ricevuti non sono altroche macerie perché costruiti con la frode e a prezzo dell' onestà personale). Ne viene che non solo il futuro ma anche il passato
risultano avvolti da un disperato senso di vuoto. Può capitare, e se capita è forse la più grande disgrazia per la vita di un uomo. Per questo «beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio», cioè come dotato di senso, di logicità, di sincerità, di rettitudine.
Pregare è pensare al senso della vita, scriveva Wittgenstein; pregare è pensare con riconoscenza e con gioia alla storia della propria vita, aggiunge il cardinal Martini. Felice quindi chi ha lavorato su di sé per essere in grado di coltivare questi sentimenti, essendo diventato così libero dal proprio ego da poter dire grazie alla vita anche al cospetto della fine cui il proprio ego inevitabilmente va incontro.
Per quanto concerne la modalità concreta della preghiera, Martini ne distingue due forme fondamentali, quella vocale fatta di recitazione di formule e di partecipazione alla liturgia comunitaria, e quella mentale, più personale, intima, colloquiale. Egli dice che generalmente col progredire dell' età «diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione» e quindi aumenta la preghiera vocale, con la conseguenza che si ritorna a pregare quasi come si faceva da bambini,quando si ripetevano formule misteriose sentite dai grandi. Si trattadi una considerazione molto cattolica da cui emerge il valore dellacomunità. Nella trincea di fronte all' essere e al nulla non si è da soli, ma si può contare sulla relazione con altri, su ciò che ladottrina chiama "comunione dei santi", e che a me, e penso anche al cardinal Martini, piace allargare abbracciando santi per nulla canonici, tra cui il caporale Wittgenstein e tutti i giusti che primadi noi hanno lasciato questo mondo.
VITO MANCUSO
03/06/09
Vito Mancuso è un teologo cattolico ? L'opinione di Marco Vannini.
Professor Vannini, come spiega il successo di Mancuso?
«Lo spiego col fatto che viene intelligentemente incontro a problemi anche di tipo religioso della società contemporanea, ormai post-cristiana, e dà le risposte che questa si aspetta, ovvero che le sono più gradite. Infatti presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica».
Ma allora non è più cristianesimo?
«In senso tradizionale sicuramente no, però bisognerebbe prima intenderci su cosa significhi essere cristiani. Ora, a parte il fatto che, come si dice giustamente, “solo Dio scruta i cuori”, possiamo pensare con Simone Weil che chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano».
Infatti la Weil è una della autorità cui Mancuso si riferisce...
«Sì, e su questo punto a buon diritto. Però solo su questo punto. Anzi, se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia».
Che ne dice della proposta di Mancuso di una teologia laica?
«Anche qui bisognerebbe prima decidere cosa intendiamo tanto per teologia quanto per laico. Di per se stessa l’espressione “teologia laica” è un ossimoro, però una teologia che celebra festival può benissimo accordarsi con la laicità. In fondo “laico” oggi significa proprio questo: che non vuole sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, di conversione - ovvero che conosce solo la dimensione della natura e ignora quella della grazia».
Quindi lei condivide le censure mosse a Mancuso da alcuni esponenti della Chiesa?
«Io non sono il più adatto a giudicare, però posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto. Gnostica era la Weil, che non a caso amava tanto la civiltà catara e non perdonava al cattolicesimo di averla distrutta. E poi gnostico non è una brutta parola: gnosi vuol dire conoscenza, conoscenza che salva, e quindi anche il cristianesimo è una gnosi. I primi cristiani e i Padri della Chiesa parlavano infatti del cristianesimo come di una gnosi - certo, della vera gnosi opposta a quelle false, ma pur sempre di una gnosi. E questo i teologi dovrebbero saperlo. Se fossi un esponente del magistero ecclesiastico, quello che rimprovererei a Mancuso non sono tanto discutibili “errori teologici”, quanto l’aver messo la sordina agli aspetti più duri ma più essenziali del messaggio evangelico: conversione, distacco, rinuncia a se stessi, appunto. Non a caso ancora la Weil scrive che nel Vangelo non c’è una teologia, ma una concezione della vita».
In conclusione, per lei Mancuso è o no un teologo cattolico?
«Ripeto ancora una volta che non sono chiamato a giudicare nessuno. Comunque penso che Mancuso abbia, se non altro, il merito di costringerci a interrogarci sull’identità cristiana: siamo ancora capaci di recitare il Credo davvero credendo alle sue formulazioni? O in cosa consiste - se sussiste ancora - il nostro cristianesimo/cattolicesimo? Personalmente ritengo Mancuso un filosofo, un libero pensatore (non inteso come offesa, anzi!) che farebbe bene a dichiararsi tale, uscendo dall’equivoco del “teologo cattolico”. Questo gli farebbe forse perdere audience presso i “laici”, ma renderebbe più onore alla verità e a Cristo».
04/05/09
La risposta di Enzo Bianchi a Mancuso. Nessuna salvezza al di fuori di Gesù Cristo.
Così, quando l’uomo chiede salvezza, si fa voce anche di tutte le creature, animate e inanimate. A questo dolore cosmico non può che corrispondere una salvezza cosmica, salvezza che appare soprattutto come liberazione dalla morte, come nuova creazione dove «non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21,4). Con una certa audacia si potrebbe affermare anche che ogni essere umano, in virtù di un dinamismo che precede il suo volere e il suo sentire, è attirato verso la salvezza assieme a tutta la creazione. Salvezza che, per essere autentica, deve declinarsi come liberazione dalla morte: così nella loro attesa di salvezza i cristiani sono chiamati a sperare per tutti nella venuta definitiva del Signore che apporterà alla storia il suo compimento. Ora, nella fede cristiana questa salvezza è azione di Dio nella storia, dall’in-principio fino a quando la storia stessa troverà il suo compimento. Per i cristiani, quindi, c’è una storia di salvezza grazie a un’azione di Dio - acclamato già da Israele come Goel, «Redentore», nell’uscita dall’Egitto - che ha il suo culmine nell’incarnazione, nell’umanizzazione di suo Figlio.
Il Dio dei cristiani è il Dio che salva, che si prende cura del sofferente; è il compassionevole che accorre dove c’è la vittima, le si fa vicino e non l’abbandona neanche al di là della morte. È quanto ha fatto Gesù - il cui nome significa «il Signore salva» - con le persone che incontrava: è passato tra gli uomini salvando le vite, come ci testimoniano i Vangeli con la loro narrazione di storie personali e di relazioni con Gesù. E avendo vissuto l’amore fino all’estremo e senza contraddizioni, Gesù quale Figlio è stato risuscitato dal Padre in modo che l’amore di Dio, l’amore che è Dio vincesse la morte. L’evento dell’alba pasquale sigilla la presenza della salvezza autentica: Gesù risorto ha trionfato sulla morte ed è veramente il Kyrios, il Signore della Chiesa e del cosmo. Questa è la fede cristiana e la declinazione della salvezza cristiana, oggi non capìta neppure da molti cristiani che non osano credere nella risurrezione di Gesù, nella vittoria dell’amore sulla morte e sovente preferiscono pensare alla salvezza come realizzazione di sé, guarigione, felicità da acquisire nell’istante che passa, speranza terapeutica di tutti gli aspetti della realizzazione di sé. Così l’attesa della salvezza si è fatta individualistica: ciascuno si limita a sperare per sé, per la realizzazione dei propri interessi, identificando la salvezza con una promessa personale di vita senza gli altri o persino contro gli altri.
Questa deriva dell’idea di salvezza va denunciata con chiarezza senza pertanto misconoscere le molteplici ferite che affliggono l’esistenza quotidiana, le sofferenze nascoste sotto la superficie patinata di una società costantemente intenta a darsi un’immagine luccicante di illusioni. Ecco perché la storia della salvezza va coniugata con la salvezza delle storie: già qui e ora si può sperimentare la salvezza come arte del vivere quotidiano, una salvezza sì personale, ma anche solidale con gli altri e con il cosmo. È quanto ha testimoniato l’esistenza terrena di Gesù, il suo percorso di ricerca del senso della vita, della liberazione dalla morte.
La fede cristiana pensa dunque che la salvezza è opera di Dio, che l’uomo non si salva da se stesso, che questa salvezza ha avuto la sua pienezza in Gesù Cristo, l’unico salvatore del mondo, al quale competerà l’atto finale della storia, il «giudizio» che mostrerà come la salvezza è stata offerta a tutti ed è da tutti perseguibile, ma rivelerà anche chi potrà parteciparvi, in base alle scelte operate durante la propria vita, scelte secondo l’amore, che portano alla via della vita, o scelte contro l’amore, che conducono sulla via della morte e del nulla. Purtroppo oggi nella Chiesa questa predicazione sul giudizio escatologico è carente rischiando così non solo di dimenticare l’orizzonte della storia e le realtà ultime, ma anche di smarrire la comprensione della vera e definitiva salvezza.
Un filosofo ateo come Adorno ha osato pensare la liberazione per tutti e non a caso ha concluso che questa potrebbe esserci se ci fosse un giudizio finale, una risurrezione dei morti che introducesse le vittime della storia in una condizione di salvezza e di restituzione all’integrità. Questa per i cristiani è una convinzione essenziale della fede: se infatti Cristo non è risorto, se non ci sarà giudizio finale, vana è la nostra fede e noi cristiani siamo da compiangere come i più miserabili (cfr. Prima Lettera ai Corinti 15, 17-19). A questa concezione cristiana si opposero ben presto altre letture della salvezza o altre salvezze, come quella dichiarata dalle «gnosi», dove la salvezza consiste in una presa di coscienza da parte dell’uomo di se stesso e della sua identità divina originale avente in sé, senza Dio, una capacità di redenzione. Oggi, sulla scia delle gnosi, attraversano la nostra cultura molte concezioni di salvezza che negano o attenuano l’azione di salvezza del Dio vivente nella storia: poco attente alla «storia di Gesù di Nazareth», sono portate a relegare l’evento della croce e della risurrezione di Gesù a semplice eloquenza dell’amore. Se la vicenda della rivelazione di Dio da Abramo a Mosè fino a Gesù è ridotta a una storia particolare, che riguarda un tempo e un popolo particolare, la si coglie come vicenda incapace di portata universale, come invece l’ha sempre letta la tradizione cristiana.
È per questo che, senza voler giudicare eretico Vito Mancuso né tanto meno volerlo condannare, ho letto i suoi due ultimi libri come appartenenti alla galassia di una gnosi oggi risuscitata. La fede cristiana, e non solo quella cattolica, è invece convinta che Gesù di Nazareth è stato ed è «l’immagine del Dio invisibile», «l’esegesi del Padre», il Figlio di Dio fattosi uomo, il giusto condannato e crocifisso perché in un mondo ingiusto questa è la fine che spetta al giusto. Sì, Gesù ha vissuto l’amore e la giustizia fino all’estremo e ci ha insegnato a vivere così quale vero uomo, l’uomo come Dio lo ha pensato nel crearlo. Con la risurrezione Dio ha mostrato che l’amore vissuto dall’uomo Gesù vince la morte e che dunque la salvezza è data a tutti quelli che si conformano a lui. Ecco perché, se nel mondo non ci fosse la Chiesa, verrebbe meno il segno e lo strumento del piano di Dio di riunire tutti gli uomini nell’unico corpo di Cristo, così che «l’uomo diventi Dio», secondo l’adagio dei padri orientali. Ma a questa salvezza possono partecipare tutti gli uomini di tutte le epoche e di tutte le culture quando, percorrendo vie di umanizzazione, si rendono conformi a Dio. È quanto ha rivelato Gesù nel discorso sul giudizio universale nel Vangelo secondo Matteo. L’evento della morte-risurrezione di Gesù per i cristiani è l’unico evento di salvezza, un evento di portata universale: «Cristo è morto per tutti - ricorda il concilio - e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).
Tutti gli esseri umani, non solo i cristiani, non solo quelli che sono nella Chiesa, ma anche quelli «extra ecclesia» possono essere salvati da Cristo e la salvezza ha destinazione cosmica. Questa visione della storia di salvezza non si nutre di «miserabili artifizi, né di salti logici clamorosi», ma nasce dalla visione consegnataci dall’Antico e dal Nuovo Testamento in cui un popolo marginale, Israele, un ebreo marginale, Gesù, una comunità marginale come la Chiesa non sono una delle storie possibili, ma la storia scelta da Dio per fare alleanza con tutta l’umanità, perché il suo Nome possa regnare come speranza di salvezza per tutti quelli che nella libertà e per amore aderiscono alla buona notizia o all’immagine di Dio impressa per sempre da Dio stesso in ogni uomo fin dalla creazione. La storia del popolo di Dio, la vicenda terrena di Gesù è particolare, ma con la sua morte e risurrezione Gesù è anche morto all’appartenenza ristretta a un gruppo particolare, per rinascere all’universalità, a una presenza diffusa ovunque dal suo Spirito santo. La salvezza passa sì attraverso una storia particolare, ma è destinata e si estende universalmente.
ENZO BIANCHI - La Stampa 3 maggio 2009.
30/04/09
Mancuso vs. Bianchi - Una disputa sulla Salvezza.
05/04/09
Un cristianesimo senza Cristo ? - Domenica delle Palme.
Che cosa sarebbe il Cristianesimo senza Cristo ? Difficile da immaginare. Eppure, in questi tempi, ho l'impressione - più che una impressione in realtà - che molto disinvoltamente si tenda spesso a 'fare' Cristianesimo senza Cristo, ovvero mettendo in secondo piano - quasi senza mai pronunciarne nemmeno il nome - la figura di Cristo.
E questa tendenza noto specialmente in una certa teologia che viene molto corteggiata dai giornali e dai media - penso anche a Vito Mancuso, il cui lavoro è sicuramente degno di attenzione, di studio e di considerazione, tra i più brillanti degli ultimi anni in assoluto - la quale propone e disputa infiniti discorsi su un 'Dio', un Dio Cristiano, la cui figura quasi mai però assume i caratteri specifici della persona del Nazareno.
Eppure, se una caratteristica peculiare il cristianesimo ha, tra le molte, è proprio quella di essere la religione che ha una persona al suo centro: la persona di Gesù Cristo, di Nazareth. Senza Gesù Cristo, il Cristianesimo cosa diventa, cosa diventerebbe ? Sicuramente un'altra cosa.
Non la religione nella cui fede abbiamo professato nel Battesimo, e nei Sacramenti. Assisto insomma al diffondersi di un cristianesimo a-personificato, e anche un po' pagano, mi sembra, che mescola piani diversi, e che cerca probabilmente di adattarsi allo spirito dei tempi. Il che, non sarebbe neanche un male assoluto, perchè il cristianesimo deve anche incarnare i tempi che vive.
Ma elidere Gesù Cristo non è mai un buon segno, non può esserlo. Ogni nostra considerazione cristiana non può che partire da Gesù Cristo.
Dovremmo ricordarcene in particolar modo oggi, quando si ricorda l'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme. Gesù sembrava 'aver conquistato tutti'. Tutti sembravano essere ai suoi piedi, pronti a fare tutto per lui, a portarlo per sempre nei loro cuori, a tenerlo per sempre al centro dei loro pensieri. Eppure, come sappiamo bene, quegli stessi osannatori, appena quattro giorni dopo, si trasformeranno in un baleno nei condannatori e persecutori. Cercheranno di eliminare quel problema per sempre. Di cancellarlo. Non ci riuscirono. Riuscirono soltanto a rendere glorioso il suo nome, nei secoli. Oggi, forse, la musica è cambiata nuovamente. E' in corso una nuova cancellazione, più silenziosa, meno eclatante. Vedremo, sapremo, se da questo nuovo tentativo, inizierà una nuova, seconda, rinascita.
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11/03/09
Cristiani perchè tanta paura ?
Cari amici, anche riallacciandomi all'ultimo commento di Alessandro, e alla mia risposta, nel post precedente a questo, mi piace proporvi questo denso articolo comparso domenica sul Sole 24 ore a firma di Roberta de Monticelli.
Cristiani, perché tanta paura?
di Roberta De Monticelli
in "Il Sole-24 Ore" dell'8 marzo 2009
Ma esiste una «scuola medica-teologica-filosofica» del San Raffaele, come da più parti si dice?
Certamente c'è un nuovo personalismo, da molti di noi condiviso (sul Sole 24 Ore lo ribadisce Giorgio Cosmacini, che chiama giustamente «testamento biografico» il testamento biologico).
Come non rallegrarsi profondamente dell'eco che oggi trova la voce di un teologo come Vito Mancuso? Anche le reazioni di sconcerto o scandalo che essa provoca sono segno certo che con lei «lo spirito è al lavoro». Lo sentiamo, il suo soffio che ravviva, in un'idea grandiosamente semplice, che Mancuso esprime dal punto di vista teologico ed ecclesiologico, quando invita i cattolici a rinnovare «la svolta positiva che il Vaticano II ha introdotto fra cattolici e storia», estendendola «al rapporto con la natura».
Vista dal versante neuroscientifico, etico e filosofico questa è l'idea stessa che ha portato a fondare una facoltà filosofica di concezione tutta nuova. L'evento cosmico cui noi umani assistiamo da che esistiamo - lo stupefacente emergere della personalità e dei suoi mondi dalla materia e dall'energia di cui siamo fatti - dopo aver finalmente penetrato, con la modernità, la nostra consapevolezza e la nostra scienza, chiede oggi alla nostra ragione pratica-morale, giuridica, politica oltre che religiosa - di farsene carico. La nostra ragione matura con noi. Forse quello che veramente caratterizza l'intero «tempo moderno», sempre più incisivamente e rapidamente, è la crescita relativa della vita personale rispetto a quella sub-personale, che la nutre e sostiene. Cresce la parte di «natura umana» che ciascuno di noi «impersona», che ingloba nella propria personalità morale e spirituale, e di cui è chiamato a farsi responsabilmente carico. Cresce la parte di vocazione e decresce quella di destino.
Si allargano i confini della giurisdizione della coscienza morale di ciascuno: e questo vuol dire che molto più spirito si incarna e molta più natura si spiritualizza. Cioè si incorpora nella personalità degli individui: molti più fatti biologici, molti più legami sociali si fanno oggetto delle sensibilità personali. Per la responsabilità che ne portiamo ormai, nel bene e nel male. Oggi le posizioni del Magistero in materia di etica pubblica si riconducono in gran parte a una volontà
di limitare l'interpretazione personale della vita biologica: in nome della sua «indisponibilità», in nome della «natura».
Eppure le differenze personali nel modo di vivere la sessualità, la riproduzione della specie, la fine della vita attestano una «spiritualizzazione» della natura, un suo venire incorporata entro le vocazioni personali. Dove la biologia, il sesso, l'amore, la morte sono «impersonate », come si può rispettare la natura senza rispettare le differenze fra le persone? Là dove la natura si impersona e la personalità si incarna, lo spirito vive e soffia potenzialmente di più, e non di
meno, la sensibilità ai valori si allarga e non si restringe.
Il cristianesimo, la «religione dello spirito», è la radice di un personalismo che oggi più che mai è seme di intelligenza nuova. E lo spirito è fatto per rinnovare la mente di ciascuno, non dei soli credenti. Non porta un semplice rinnovamento del sentire e del pensare, ma la concezione stessa del divino come perenne nascita del nuovo in noi, anche attraverso l'immensa libertà che la quotidiana «morte» dell'«uomo vecchio» ci conquista rispetto al passato e alla cieca ripetizione di ciò che eravamo.
E allora perché tanta paura, tante difese? Perché così poca speranza?
14/01/09
La religione civile che manca all'Italia - Un articolo di Vito Mancuso.
La crisi però non dipende dal fatto che valiamo poco, ma dal fatto che valiamo molto, nel senso che la notevole intelligenza degli italiani è incapace di trovare un valore-guida comune. Già nel 1513 Machiavelli scriveva che «in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma»: il nostro problema non è la materia umana, che c' è; è piuttosto la mancanza di una forma su cui modellare l' esuberanza della materia.
Il problema non è il valore dei singoli, ma l' armonia tra tanti singoli di valore. Il problema, in altri termini, è "religioso", nel senso etimologico del termine religio: in Italia, a differenza degli altri paesi occidentali, manca una religione "civile", capace di legare responsabilmente l' individuo alla società.
Si tratta, per dirla ancora in altro modo, di capire come mai l' Italia, ai primi posti quanto a pratica religiosa, lo sia anche per corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata e litigiosità della politica. Per argomentare il mio pensiero procedo mediante tre tesi.
Prima tesi: Una società è tanto più forte quanto più è unita, e ciò che tiene unita una società è la sua religione. Con questa tesi non voglio dire che il cattolicesimo in quanto religione istituita del nostro paese sia ciò che unisce la società e che per "salvare l' occidente" anche i non credenti debbano giungere a dirsi culturalmente cattolici, come vogliono gli "atei devoti".
Intendo dire, al contrario, che ciò che tiene insieme una società rappresenta de facto la religione di quella società, religione da intendersi nel senso etimologico di religio, cioè legame, principio unificatore dei singoli. Nel suo senso più profondo, infatti, che cos' è la religione? È il fatto che talora un individuo avverta un' attrazione irresistibile verso una realtà più grande di lui, nella quale egli, tuttavia, si identifica. Il termine "religione" porta al pensiero questo fenomeno fisico di dipendenza e insieme di identificazione.
Chi ne è abitato non conosce nulla di più forte, e se poi condivide con altri questo legame, la struttura che si crea è solidissima. Per questo, quanto più una società condivide un principio unificatore, tanto più è forte. Il principio unificatore condiviso è stato visto dai nostri padri latini e chiamato religio, legame dei singoli che trasforma un insieme casuale in un sistema operativo.
La religione civile è la particolare disposizione della mente per cui un antico romano concepiva Roma più importante di sé, o per cui i politici americani ripetono God bless America sapendo che è l' America l' idea che tiene insieme gli americani. È superficiale pensare che la società sia la semplice somma degli individui: l' Impero romano non era la somma dei cittadini romani, e l' America non è la somma degli americani. Roma e l' America rappresentano idee in grado di far sì che i singoli si sommino in modo ordinato, formando un sistema. E più l' idea è unificante, più il sistema è operativo.
Seconda tesi: L' Italia non ha una religione civile e questo è il suo problema più grave. L' Italia è ai primissimi posti in Europa quanto a corruzione. La corruzione lacera il legame sociale producendo un diffuso senso di sfiducia e sfilacciamento nel Paese e un' immagine negativa all' estero. Occorre chiedersi come mai siamo così corrotti e corruttori. Anche senza la retorica degli "italiani brava gente", io non penso che la causa di tale fenomeno sia che gli italiani, individualmente presi, siano moralmente peggiori degli altri europei. Penso piuttosto che la causa sia la mancanza, all' interno della coscienza comune, di un' idea superiore rispetto all' Io e ai suoi interessi. I danesi, che risultano il popolo meno corrotto d' Europa, come singoli non penso siano moralmente migliori degli italiani; penso piuttosto che essi condividano in misura molto maggiore la convinzione che vi sia qualcosa più importante del loro particulare, per usare la classica espressione di Guicciardini.
Questo qualcosa cui l' Io sa cedere il passo è la società: il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che essa è più importante di lui e perché al contempo vi si identifica, secondo la logica di dipendenza e identificazione vista sopra. Viceversa in Italia i più ritengono che il singolo sia più importante della società, e per il bene del singolo non si esita a depredare il bene comune della società. Da qui il tipico male italiano che è la furbizia, uso distorto dell' intelligenza. Il furbo è un intelligente che sbaglia mira, che non ha un oggetto adeguato su cui dirigere l' intelligenza, che non capisce il primato dell' oggettività e la dirige solo su di sé. Al contrario chi sa usare davvero l' intelligenza capisce che la vita contiene valori più grandi del suo piccolo Io, e di conseguenza vi si dedica. L' intelligente gravita attorno a una stella, il furbo invece fa di se stesso la stella attorno a cui tutto deve ruotare. Con l' ovvio risultato che un insieme di intelligenti è in grado di creare un sistema, in questo caso non solare ma sociale, mentre un insieme di furbi è destinato semplicemente al caos e alla reciproca sopraffazione.
Noi italiani siamo più corrotti perché usiamo in modo distorto la nostra intelligenza, e tale distorsione la si deve alla mancanza di un' idea comune più grande dell' Io, cioè di una religione civile e dell' etica che ne discende.
La religione civile è ciò che consente di rispondere alla seguente domanda: perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo? Senza un legame di tipo "religioso" con la società, nessuno sacrifica il suo particulare, nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d' importanza vitale per il nostro paese.
Terza tesi: Una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune. I tentativi di creare un' etica civile in Italia sono stati, e sono, di due tipi: guelfo e ghibellino. Il primo intende l' etica civile come traduzione diretta del cattolicesimo, anche a prescindere dalla fede: è l' idea degli atei devoti, guardata con notevole favore dall' attuale gerarchia cattolica. Il secondo ritiene al contrario che un' etica civile potrà sorgere solo dal superamento del cattolicesimo, ritenuto il principale responsabile della sua mancanza in Italia soprattutto per la presenza del papato. Io ritengo entrambi i tentativi destinati a fallire, il primo perché non tiene conto della secolarizzazione e della globalizzazione, il secondo della tradizione.
La storia ci ha mostrato infatti che una religione civile contrapposta al cattolicesimo non sia politicamente concepibile in Italia, si pensi al mito risorgimentale della nazione confluito nel fascismo e al mito della società confluito nel comunismo. Una religione civile, e la conseguente etica di cui l' Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il cattolicesimo, non contro di esso. Non so in quale direzione si debba muovere il pensiero dei laici per contribuire alla nascita di un' etica civile in Italia pari a quella degli altri paesi occidentali.
Mi sento però di dire, da teologo, che il lavoro in questa direzione da parte dei cattolici è uno dei compiti più urgenti. Si tratta di porre davvero la fede a servizio del mondo, di questo pezzo di mondo che si chiama Italia, pensandosi come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta. Fino a quando il seme vorrà preservare la sua identità di seme senza pensarsi in funzione della pianta, verrà meno al suo compito; fino a quando il lievito vorrà preservare la sua identità di lievito senza pensarsi in funzione della pasta, verrà meno al suo compito.
Fino a quando i cattolici italiani vorranno preservare la loro identità di cattolici senza pensarsi al servizio della società italiana, verranno meno al loro compito; e fino a quando la Chiesa tutelerà i suoi interessi particolari come una delle tante lobby senza essere davvero "cattolica" cioè universale, non sarà fedele al suo compito che è spendersi "per la vita del mondo". La situazione del Paese richiede a ogni italiano, laico o cattolico, con responsabilità politiche in campo civile o in campo ecclesiastico, di ripensare il proprio rapporto con la società secondo ciò che in termini religiosi si chiama "conversione". Purtroppo non è più sdolcinata retorica dire che ne va del futuro dei nostri figli.
- VITO MANCUSO
20/12/08
Il dolore innocente.
Se si applica agli occhi dell’intelletto un berillo intellettuale, che abbia forma parimenti massima e minima, attraverso di esso si coglie il principio indivisibile di tutte le cose” (“De Beryllo”, cap. II; ed. it. Niccolò Cusano, Scritti filosofici, a cura di Giovanni Santinello, vol. II, Zanichelli, Bologna 1980, p. 385). Io assumo il dolore innocente quale “berillo intellettuale” per capire il senso del nostro essere al mondo.
Non tutti i dolori sono innocenti. Se uno viene impiccato perché ha violentato dei bambini si può discutere sulla proporzionalità e la liceità della pena capitale che gli viene inflitta, ma non vi sono dubbi che il dolore che subisce sia riconducibile a una sua colpa e quindi colpevole. Non così invece quello dei bambini violentati: il loro dolore è senza colpa, è innocente. Nel mondo vi sono molteplici tipologie di dolore innocente, di cui il caso esemplare a mio avviso è nelle nascite colpite da una delle svariate migliaia di malattie genetiche finora censite, il cinque per cento dei nati oggi nel mondo. Le statistiche dicono che ogni giorno nel mondo ottomila bambini nascono gravemente handicappati, di questi 76 in Italia. Penso sia compito della teologia porsi la domanda metafisica sul perché di queste nascite, su come conciliarle con l’affermazione tradizionale, così spesso ripetuta, che la vita viene da Dio.
Tre risposte sbagliate. Di fronte al dolore innocente vi sono di solito tre reazioni, a mio avviso tutte sbagliate: la prima è il fideismo, la seconda il razionalismo, la terza la disperazione. Sono tutte e tre una sconfitta della ragione, del logos interiore a ciascuno di noi, chiamato a riconoscere la sua appartenenza al logos che è all’origine del mondo – perché precisamente questo è lo scopo della vita.
1) Il fideismo è quell’atteggiamento mentale che genera il senso opprimente del mistero e della vita umana come nulla, polvere, in balìa di una forza misteriosa e talora anche capricciosa che è la forza divina. A questo livello non ha molta importanza che tale forza venga ritenuta impersonale, come gli antichi greci pensavano il fato, oppure personale, come se la raffigura la fede giudaico-cristiana e anche l’islam: quello che conta è il senso di nullità dell’uomo di fronte a essa, il fatto che non vi sia nessun rapporto stabile, sicuro, affidabile, nessuna vera alleanza di Dio con il singolo uomo. E’ la spiritualità cui invita l’intervento divino nel finale del libro di Giobbe. A Giobbe che si lamenta del suo dolore ritenendolo innocente, cioè ingiustificato, Dio risponde: “Chi è costui che oscura il mio consiglio con parole insipienti?” (38, 2), e poi gli rovescia addosso tutte le meraviglie del cosmo facendolo sentire un nulla. E infatti Giobbe conclude: “Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me… perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere” (42, 3 e 6).
2) Il razionalismo è l’atteggiamento mentale generato dall’apologetica. Dio governa il mondo con forza e giustizia, quindi non vi può accadere nulla contro il suo volere e il suo senso di giustizia. Non c’è perciò nessun dolore innocente: se c’è un dolore, c’è stata di sicuro, prima, una colpa che l’ha prodotto. Il dolore, quindi, è sempre colpevole. E’ quello che dice a Giobbe il secondo dei tre amici, Bildad: “Può forse Dio deviare il diritto o l’Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha messi in balìa delle loro iniquità” (8, 3-4). La stessa cosa dice Zofar: “L’iniquità è nella tua mano, l’ingiustizia nelle tue tende” (11, 14). Il cristianesimo conosce una forma moderata di razionalismo in quella teoria che riconduce il dolore a un progetto di Dio, secondo cui il dolore, innocente quanto al soggetto che lo vive, sarebbe però misteriosamente finalizzato da Dio che lo permette per trarne un bene maggiore, come diceva Agostino e come ribadisce oggi il Catechismo (vedi Compendio, art. 58).
3) Il terzo atteggiamento, la disperazione, nasce quando il dolore vince e si impone alla coscienza che non riconosce più nulla di superiore ad esso. Che cos’è la vita? Un continuo declinare verso l’assurdo, verso il nulla. Si sentono i discorsi dei moderni amici di Giobbe, poi si guarda la realtà, e si giunge alla conclusione che quei discorsi sono solo chiacchiere, la verità è un’altra, la vita è una tragedia, a volte una farsa. Dopo aver sentito i discorsi dei tre amici teologi, Giobbe si rivolge a Dio: “Perché mi hai tratto dal seno materno? Fossi morto e nessun occhio mi avesse mai visto!” (10, 18). Parole che sono una vera e propria bestemmia, molto più dura di quelle rivolte direttamente contro Dio magari solo per abitudine; si tratta di una bestemmia contro la vita, l’azione divina per eccellenza. Si può anche bestemmiare Dio o Cristo per una falsa idea che se ne ha, ma se si bestemmia la vita si pecca contro lo Spirito, ed è il peccato che non può essere perdonato. Questo è stato, ed è ancora oggi, il risultato dei discorsi “teologici” degli amici di Giobbe.
I nostri giorni sono attraversati da una disperazione senza pari. Recentemente ho visto il film di un giovane regista italiano sulla condizione giovanile. Era venuto in università con la troupe per intervistarmi, stava realizzando un film-documentario proprio sul male, poi mi ha spedito a casa il Dvd del suo primo film. Io quindi ero ben disposto, tuttavia guardare quel film è stato durissimo per l’immenso senso di vuoto e di disperazione che conteneva. L’anima contemporanea si dibatte in una morsa: sente di aver bisogno della verità, ma sente al contempo che le risposte tradizionali non funzionano, e non sa dove andare e non sa cosa fare. I nostri giovani spesso non sanno cosa fare di se stessi. Il cristianesimo appare loro inconsistente soprattutto per l’incapacità di rispondere al problema del male. Magari non lo sanno tematicamente, ma lo sentono.
Il limite della dottrina è stato finora, a mio avviso, quello di fare del dolore un problema da risolvere. Occorre invece fare del dolore il berillo intellettuale. E non certo per un malsano dolorismo, ma per il più grande atto di omaggio alla vita, la quale può essere compresa solo guardandola come totalità. Per riconciliare gli uomini col senso della vita, è necessario guardare con onestà al tutto della vita, il che comporta l’inevitabile passaggio attraverso “il travaglio del negativo”. Scrive ancora Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”: “La vita di Dio e il conoscere divino possono venire espressi come un gioco dell’amore con se stesso; ma questa idea degrada fino alla predicazione, e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”. Quante volte sentendo le prediche su un Dio che ci ama, che è amore, che vince il dolore, si sente insipidezza, un vuoto parlare di cose tanto distanti dalla vita reale. Fare del dolore innocente il berillo intellettuale significa comprendere che nel dolore innocente la posta in gioco non è la sorte di qualche sfortunato, ma è la complessiva visione del mondo (metafisica) e conseguentemente l’azione umana in esso (l’etica). La nascita di una sola bambina con una malformazione genetica ha a che fare con il senso della vita di ognuno. E’ il principio formulato da Kierkegaard: “Se si vuole studiare correttamente l’universale è sufficiente ricercare una reale eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente… Le eccezioni esistono. Se non si è in grado di spiegarle, non si è nemmeno in grado di spiegare l’universale” (“La ripetizione”, tr. it. di Dario Borso, Guerini e Associati, Milano 1991, pag. 128).
Nel dolore che il mondo riserva ai suoi figli è in gioco la filosofia in quanto fisica + metafisica, e la conseguente costruzione dell’etica.
Il dolore innocente ci dice che l’uomo è natura, fragile natura come ogni altra parte del cosmo, esposta alle ferite del caso. Ma io penso che esso sia il luogo dialettico per eccellenza, dove si scorge l’abisso, ma dove insieme lo si può superare. Il dolore innocente mi ha fatto vedere l’abisso del nulla, ma al contempo mi ha mostrato la luce più intensa che io abbia mai visto intorno alla natura umana, la luce che scaturisce da chi si prende cura di chi nulla mai gli potrà dare in cambio. Di fronte a un’assurdità naturale, l’uomo reagisce creando senso laddove senso naturale non c’è, e si mostra in grado di produrre ciò che di più importante esiste per la vita, cioè il bene.
Coloro che si prendono cura delle vittime del dolore innocente mostrano che vi è qualcosa di più della semplice casualità naturale nel fenomeno uomo. E questa cura avviene, ogni giorno, senza retorica, poche parole, tanti fatti, nella completa gratuità, perché a volte non si ottiene nulla in cambio, talora gli interessati non sanno neppure sorridere. Il bene è l’evento più nobile a cui l’uomo può accedere. Tutte le grandi spiritualità e le grandi filosofie lo hanno riconosciuto. Ma perché l’uomo è capace di bene?
Eccoci all’ultimo punto. Il bene lo si comprende nella sua realtà ontologica come relazione ordinata. Il bene nasce sì dalla volontà, ma non è qualcosa che la volontà inventa. Se la volontà sceglie di attuarlo è perché prima l’ha riconosciuto, l’ha visto, l’ha sentito, e quindi si pone al servizio di un’oggettività che preesiste, che viene prima di lei. Se voglio fare del bene a una pianta, le devo dare la giusta quantità di acqua e la devo esporre alla giusta quantità di luce. Così è per ogni altra cosa.
Il bene è prima di tutto comprendere che cosa ha bisogno chi è di fronte a me, e poi farlo. Esiste un ordine oggettivo preesistente, che è l’origine di ogni essere, dentro cui ogni essere si inscrive. Questo ordine oggettivo è la relazione ordinata, la logica che costruisce il darsi dell’essere.Le nascite di bambini con malformazioni, come tanti altri eventi della natura e della storia, ci mostrano che l’essere del mondo non raggiunge l’ordine necessariamente, ma solo attraverso la libertà delle relazioni. Proprio perché l’essere è energia che costantemente si muove, la libertà è intrinseca al suo darsi. Questa libertà di cui gode l’essere il più delle volte è ordinata e fonda relazioni stabili e benefiche; alcune volte, invece, non lo è e fonda relazioni disordinate. Le malattie, congenite e non, sono descrivibili fisicamente come assenza di ordine. Questa possibilità che vi sia assenza di ordine è il prezzo che si paga per il darsi dell’essere, per la nascita della vita e la sua evoluzione, cioè, supremo paradosso, per la creazione di livelli superiori di organizzazione.
Alcuni più sfortunati pagano sul loro corpo il conto che occorre saldare per il darsi della libertà. Coloro che se ne prendono cura, fanno del bene a tutta l’umanità perché manifestano che il bene esiste, e se qui e ora esiste il bene è lecito inferire razionalmente l’esistenza di una dimensione dell’essere senza più la possibilità di disordine, dimensione che la mente umana di tutti i tempi ha chiamato “Dio”. L’ha riconosciuto anche uno dei più grandi logici del Novecento, Wittgenstein, in un pensiero del 1929: “Se qualcosa è buono, allora è anche divino” (“Pensieri diversi”, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, pag. 21).
Il bene è la freccia che conduce verso la trascendenza. Per questo tutti coloro che vogliono negare la trascendenza negano con attenta determinazione la possibilità della purezza del bene e dell’amore, riconducendo tutto a istinto, a impulso, a interesse mascherato. Ma il bene puro esiste, e quando si manifesta, la natura compie la promessa che porta dentro di sé. E’ il regno della luce e della grazia, è il mondo divino. Se c’è il bene, c’è Dio. E il bene, c’è.
05/05/08
Vito Mancuso - Le quattro discontinuità, i grandi misteri dell'esistenza.
Con piacere vi ripropongo qui - dopo averlo cercato a lungo - il brano della trasmissione di La7 L'infedele, in cui era ospite Vito Mancuso, teologo dell'Università San Raffaele di Milano, che in poco più di due minuti riassume con efficace sintesi quelle quattro discontinuità che sono al centro del suo libro, L'anima e il suo destino, grandissimo successo editoriale, pubblicato da Raffaello Cortina Editore.
Vi consiglio di ascoltarlo con attenzione, perchè, in pochissimo tempo, si percepisce appunto quale incredibile, stupefacente concatenazione di eventi (di un livello di improbabilità elevatissima) hanno permesso la nostra vita qui, la vita della specie umana, di noi tutti su questo pianeta.
E' una cosa a cui non pensiamo spesso, e che invece dovrebbe essere sempre al centro della nostra consapevolezza.
Buona visione !
Il sito di Raffaello Cortina Editore:
http://www.raffaellocortina.it/
Su Vito Mancuso:
http://it.wikipedia.org/wiki/Vito_Mancuso
Il sito de La7: