14/10/22
Beatles: "Love me Do" ha compiuto 60 anni !
19/08/22
Quella volta che George Harrison fu aggredito e colpito da 40 coltellate, mentre si trovava a casa
10/07/22
La lettera - intima - che Paul Mc Cartney scrisse a John Lennon e lesse nel 1994 per l'ingresso di John nella Rock'n Roll of Fame - Testo e video
Caro John,
Mi ricordo quando ci siamo incontrati per la prima volta, a Woolton, alla festa del paese. Era una bella giornata estiva, avevo camminato fin lì e ti ho visto sul palco. E tu stavi cantando "Come Go With Me", dai Vichinghi Dell, ma non sapevi le parole e così le inventavi. "Vieni con me al penitenziario." Non era nel testo.
Mi ricordo quando scrivevamo le nostre prime canzoni insieme. Andavamo a casa mia, a casa di mio padre, e fumavamo il Ty-Phoo the con la pipa di mio padre che conservava in un cassetto. Non ha fatto molto per noi, ma ci ha portato sulla strada.
Volevamo essere famosi.
Ricordo le visite alla casa di tua mamma. Julia era una donna molto alla mano, una donna molto bella. Aveva i capelli lunghi e rossi e suonava l'ukulele. Non avevo mai visto una donna che sapeva farlo. E mi ricordo di aver dovuto spiegarti gli accordi per la chitarra, perché avevi imparato a suonare gli accordi per l'ukulele.
E poi al tuo 21esimo compleanno hai ricevuto 100 sterline da uno dei tuoi parenti ricchi di Edimburgo, e quindi abbiamo deciso di andare in Spagna. Così abbiamo fatto l'autostop da Liverpool, fino a Parigi, e abbiamo deciso di fermarci lì, per una settimana. E alla fine ci siamo fatti fare il nostro taglio di capelli, da un tizio di nome Jurgen, che ha finito per essere il "taglio di capelli alla Beatle".
Ricordo quando ti presentai il mio amico George, il mio compagno di scuola, che tu facesti entrare nella band dopo che lui ebbe suonato "Raunchy" sull' autobus. Rimanesti colpito. E incontrammo Ringo che lavova tutta la stagione al campo Butlin - era un professionista esperto - ma la barba doveva sparire, e se la tagliò.
Più tardi abbiamo ottenuto di suonare ad un concerto al Cavern Club di Liverpool che era ufficialmente un club blues. Noi non sapevamo veramente tutti i numeri blues. Apprezzavamo molto il blues, ma non sapevamo i numeri del blues, così ci siamo presentati con un "Signore e signori, questo è un grande numero di Big Bill Broonzy chiamato" Wake Up Suzie Little " E il pubblico continuava a dire "Questo non è il blues, questo non è il blues. Questa canzone è pop." Ma abbiamo continuato a suonarla.
E poi siamo finiti in tour. Era un tizio chiamato Larry Parnes che ci ha ingaggiati per il nostro primo tour. Ricordo che cambiammo tutti i nostri nomi per quell'occasione. Cambiai il mio in Paul Ramon, George Harrison diventò Carl Harrison e, anche se la gente pensa che in realtà non cambiasti veramente il tuo nome, mi sembra di ricordare che diventasti Long John Silver per tutta la durata del tour.
Viaggiavamo su un furgoncino durante il tour, e una notte il parabrezza si ruppe. Eravamo in autostrada e stavamo tornando a Liverpool. Si congelava e quindi abbiamo dovuto metterci uno sopra l'altro nella parte posteriore del furgone creando un sorta di panino-Beatle. Abbiamo avuto modo di conoscerci. Ci siamo conosciuti così.
Siamo arrivati ad Amburgo e abbiamo incontrato personaggi del calibro di Little Richard, Gene Vincent ... Mi ricordo di Little Richard quando ci invitò al suo hotel. Stava guardando l'anello di Ringo e disse: "Amo questo anello. Ho un anello simile. Potrei darti un anello simile." Così siamo andati tutti in albergo con lui. (Non abbiamo mai avuto un anello.)
Siamo tornati con Gene Vincent nella sua camera d'albergo una volta. Era andato tutto bene finchè non si avvicinò ad un cassetto del comodino e ne tirò fuori una pistola. Dicemmo: "Ehm, dobbiamo proprio andare, Gene, dobbiamo andare ..." Uscimmo di corsa!
E poi arrivarono gli Stati Uniti - New York City - dove ci siamo incontrati con Phil Spector, le Ronettes, Supremes, i nostri eroi, le nostre eroine. E poi a Los Angeles, incontrammo Elvis Presley per una grande serata. Abbiamo visto il ragazzo sul suo territorio nazionale. Ragazzi! Era un eroe.
E poi, Ed Sullivan. Volevamo essere famosi, e lo eravamo davvero diventati. Voglio dire, immaginate di incontrare Mitzi Gaynor a Miami!
Poi, la registrazione ad Abbey Road. Ricordo ancora mentre suonavamo "Love Me Do." Tu ufficialmente cantavi "Love me do", ma perché suonavi l'armonica. Poi George Martin disse all'improvviso nel mezzo della sessione: " Può Paul cantare il verso " Love me do? " , il pezzo cruciale.
Mi ricordo mentre cantavo "Kansas City" - beh, non riuscivo a farlo, perché è difficile da cantare quella roba. Sai, urlare nella parte superiore della testa (?). Sei sceso dalla sala di controllo e mi ha portato da una parte e mi hai detto: "Ce la puoi fare, devi solo urlare, si può fare." Così, grazie. Grazie per questo. Sono riuscito a farlo.
Mi ricordo mentre scrivavamo "A Day in the Life" insieme, e l'occhiata d'intesa che ci siamo lanciati quando abbiamo scritto il verso "I'd love to torn you on". Sapevamo quello che stavamo facendo, sai. Uno sguardo furtivo.
Dopo di che c'era questa ragazza di nome Yoko. Yoko Ono. Lei si presentò a casa mia un giorno. Era il compleanno di John Cage e lei disse che voleva entrare in possesso di alcuni manoscritti di diversi autori per consegnarglieli, e ne voleva uno mio e tuo. Così ho detto: "Beh per me va bene, ma dovrai andare da John ".
E lei lo ha fatto ...
Dopo di che avevo impostato un paio di macchine di registrazione Brennell, che eravamo soliti usare, e tu sei rimasto sveglio tutta la notte e hai registrato "Two Virgins". Ma lo hai fatto da solo - non aveva niente a che fare con me.
E poi, poi c'erano le telefonate con te. La gioia per me, dopo tutta la merda di business che avevamo attraversato, era che stavamo tornando insieme e comunicavamo ancora una volta.
Così ora, anni dopo, eccoci qui. Tutte queste persone. Qui si sono riuniti per ringraziarti per tutto quello che hai significato per tutti noi.
Questa lettera viene dal cuore, dal tuo amico Paul.
John Lennon, ce l'hai fatta. Stasera sei entrato nella Rock Hall 'n' Roll of Fame.
Dio ti benedica.
Paul
I remember when we first met, at Woolton, at the village fete. It was a beautiful summer day and I walked in there and saw you on stage. And you were singing “Come Go With Me,” by the Dell Vikings, But you didn’t know the words so you made them up. “Come go with me to the penitentiary.” It’s not in the lyrics.
I remember writing our first songs together. We used to go to my house, my Dad’s home, and we used to smoke Ty-Phoo tea with the pipe my dad kept in a drawer. It didn’t do much for us but it got us on the road.
We wanted to be famous.
I remember the visits to your mum’s house. Julia was a very handsome woman, very beautiful woman. She had long, red hair and she played a ukulele. I’d never seen a woman that could do that. And I remember to having to tell you the guitar chords because you used to play the ukulele chords.
And then on your 21st birthday you got 100 pounds off one of your rich relatives up in Edinburgh, so we decided we’d go to Spain. So we hitch-hiked out of Liverpool, got as far as Paris, and decided to stop there, for a week. And eventually got our haircut, by a fellow named Jurgen, and that ended up being the “Beatle haircut.”
I remember introducing you to my mate George, my schoolmate, and getting him into the band by playing “Raunchy” on the top deck of a bus. You were impressed. And we met Ringo who’d been working the whole season at Butlin’s camp - he was a seasoned professional - but the beard had to go, and it did.
Later on we got a gig at the Cavern Club in Liverpool which was officially a blues club. We didn’t really know any blues numbers. We loved the blues but we didn’t know any blues numbers, so we had announcements like “Ladies and gentlemen, this is a great Big Bill Broonzy number called “Wake Up Little Suzie.” And they kept passing up little notes - “This is not the blues, this is not the blues. This is pop.” But we kept going.
And then we ended up touring. It was a bloke called Larry Parnes who gave us our first tour. I remember we all changed names for that tour. I changed mine to Paul Ramon, George became Carl Harrison and, although people think you didn’t really change your name, I seem to remember you were Long John Silver for the duration of that tour. (Bang goes another myth.)
We’d been on a van touring later and we’d have the kind of night where the windsceen would break. We would be on the motorway going back up to Liverpool. It was freezing so we had to lie on top of each other in the back of the van creating a Beatle sandwich. We got to know each other. These were the ways we got to know each other.
We got to Hamburg and met the likes of Little Richard, Gene Vincent…I remember Little Richard inviting us back to his hotel. He was looking at Ringo’s ring and said, “I love that ring.” He said, “I’ve got a ring like that. I could give you a ring like that.” So we all went back to the hotel with him. (We never got a ring.)
We went back with Gene Vincent to his hotel room once. It was all going fine until he reached in his bedside drawer and pulled out a gun. We’ said “Er, we’ve got to go, Gene, we’ve got to go…” We got out quick!
And then came the USA — New York City — where we met up with Phil Spector, the Ronettes, Supremes, our heroes, our heroines. And then later in L.A., we met up with Elvis Presley for one great evening. We saw the boy on his home territory. He was the first person I ever saw with a remote control on a TV. Boy! He was a hero, man.
And then later, Ed Sullivan. We’d wanted to be famous, now we were getting really famous. I mean imagine meeting Mitzi Gaynor in Miami!
Later, after that, recording at Abbey Road. I still remember doing “Love Me Do.” You officially had the vocal “love me do” but because you played the harmonica, George Martin suddenly said in the middle is the session, “Will Paul sing the line “love me do?”, the crucial line. I can still hear it to this day - you would go “Whaaa whaa,” and I’d go “loove me doo-oo.” Nerves, man.
I remember doing the vocal to “Kansas City” — well I couldn’t quite get it, because it’s hard to do that stuff. You know, screaming out the top of your head. You came down from the control room and took me to one side and said “You can do it, you’ve just got to scream, you can do it.” So, thank you. Thank you for that. I did it.
I remember writing “A Day in the Life” with you, and the little look we gave each other when we wrote the line “I’d love to turn you on.” We kinda knew what we were doing, you know. A sneaky little look.
After that there was this girl called Yoko. Yoko Ono. She showed up at my house one day. It was John Cage’s birthday and she said she wanted to get hold of manuscripts of various composers to give to him, and she wanted one from me and you. So I said,” Well it’s ok by me. but you’ll have to go to John.”
And she did…
After that I set up a couple of Brennell recording machines we used to have and you stayed up all night and recorded “Two Virgins.” But you took the cover yourselves — nothing to do with me.
And then, after that there were the phone calls to you. The joy for me after all the business shit that we’d gone through was that we were actually getting back together and communicating once again. And the joy as you told me about how you were baking bread now. And how you were playing with your little baby, Sean. That was great for me because it gave me something to hold on to.
So now, years on, here we are. All these people. Here we are, assembled, to thank you for everything that you mean to all of us.
This letter comes with love, from your friend Paul.
John Lennon, you’ve made it. Tonight you are in the Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.
God bless you.
Paul
09/07/22
L'incredibile vicenda delle foto perdute dei Beatles in India, in un documentario da non perdere
"I Beatles in India" è un documentario realizzato nel 2021, vincitore di molti premi, realizzato in stile quasi naif, eppure assai godibile, visibile su Amazon Prime Video a costo di noleggio di 1,99 euro.
17/06/22
* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*
Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista.
Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo.
Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni.
Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.
Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".
John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.
Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo.
Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività.
Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.
La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.
In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.
Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo:
"Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale.
La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead". Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.
Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia". Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.
Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori. Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare.
Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".
fonti: Wikipedia - LaRepubblica
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