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07/05/24

L'incredibile caso di due dei boia nazisti delle Fosse Ardeatine, che nel dopoguerra diventarono attori a Cinecittà, in un libro di Mario Tedeschini Lalli


Questo è un libro molto interessante.

Lo ha scritto Mario Tedeschini Lalli, giornalista romano e storico contemporaneista di formazione e racconta una storia veramente incredibile.
Nazisti a Cinecittà racconta dunque, la storia di Karl Hass e Borante Domizlaff, due ufficiali nazisti, che spararono alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944, sulle teste di innocenti, i quali, nel dopoguerra italiano, non solo rimasero sostanzialmente impuniti, ma finirono per lavorare nel cinema - Hass sotto falso nome, Domizlaff addirittura con il suo vero nome - come comparse e comprimari (con battute) in film importanti o importantissimi del cinema italiano come Una vita difficile di Dino Risi (1961) o La Caduta degli Dei di Luchino Visconti (1969) e in diversi altri film, quasi sempre impersonando se stessi, cioè crudeli nazisti all'opera.
Come ciò sia potuto accadere - e soprattutto rimanere sconosciuto a tutti - è per l'appunto oggetto del minuzioso lavoro di Tedeschini Lalli che per Nutrimenti ha messo insieme una lunghissima ricerca che in alcuni momenti assume i toni di una spy-story.
E in effetti Karl Hass, per esempio, riuscì per molti anni a vivere liberamente e in una certa agiatezza, sempre in Italia, grazie al lavoro di spia per gli americani e i servizi occidentali che lo utilizzavano per avere informazioni - da lui fornite col contagocce - riguardanti altri camerati cui si dava la caccia.
Ma ancora molto più importante che la protezione dei servizi stranieri, per Hass, Domizlaff e l'altro camerata nero Anton Bossi Fedrigotti, loro sodale, fu la rete messa in piedi dal neofascismo italiano post-liberazione e dagli ex repubblichini di Salò, ben organizzata, e con livelli di complicità nel mondo della destra cattolica romana, dei giornali, delle ambasciate, rete di cui Mina Magri Fanti era la coordinatrice e il generale Herbert Kappler - riuscito a fuggire dall'ospedale militare del Celio dentro una valigia - una specie di nume tutelare.
Ciò nonostante, come abbiano fatto registi come Luchino Visconti o Risi o sceneggiatori come Rodolfo Sonego, o attori come Alberto Sordi a non sapere che stavano recitando insieme a vere SS, a veri membri della Gestapo, impuniti per i loro crimini, e ben remunerati dalle case di produzioni cinematografiche resta un mistero, spiegabile in parte soltanto col clima disinvolto e iperproduttivo della Cinecittà di quegli anni, in cui anche i semplici controlli anagrafici (per le comparse ad esempio) erano quasi del tutto assenti.
Tra le pagine del saggio di Tedeschini Lalli riaffiorano tutti i fantasmi del neofascismo italiano del dopoguerra, tra cui quel Junio Valerio Borghese, autore del famoso tentativo di golpe militare da operetta, scoperto prima che fosse realmente tentato.
L'autore ha sentito personalmente tutti i testimoni ancora vivi, i figli, le mogli, i nipoti, ha setacciato gli archivi di stato e le pellicole incriminate, fotogramma per fotogramma, ricostruendo una storia destinata a restare nell'oblio.
Oblio che del resto Karl Hass, ad esempio avrebbe mantenuto con la tranquilla impunità - mai un moto di coscienza, se non di pentimento - fino alla fine, se il suo nome non fosse riemerso dal buio, subito dopo la cattura di Erich Priebke (anche lui ha vissuto a piede libero per decenni, continuando tranquillamente a viaggiare tra l'Argentina e l'Italia).
Il clamore intorno alla vicenda di Priebke portò a indagare su che fine avessero fatto i suoi colleghi ancora vivi. Fu così che si arrivò a Hass, il quale prima partecipò in aula come testimone, e poi si ritrovò sul banco degli imputati, condannato.
Ma era già troppo anziano per scontare una vera condanna: uscì dopo pochi anni e concluse tranquillamente la sua esistenza in una villa ai Castelli Romani, a 82 anni.
Insomma, questa potrebbe essere chiamata senza sbagliare, la "Zona d'interesse italiana" e bisogna ringraziare l'autore e l'editore per averla resa viva, perché qualcuno o tutti continuino a ricordarla.
N.B.: per la cronaca, sulla copertina del libro la foto della scena in cui Alberto Sordi ne "Una vita difficile" viene minacciato dal "vero" nazista Borante Domizlaff (uno degli assassini delle Fosse Ardeatine), comparsa e comprimario nel film.

Fabrizio Falconi - 2024

16/08/21

Uno dei caffè più famosi di Roma, "Il Cigno" di Viale Parioli, in una memorabile scena de "I Mostri" di Dino Risi



Come si sa Roma è sempre stata un set ideale per i film italiani - e non solo - in ogni suo angolo storico o non.

A Roma Nord è celebre il caffè Il Cigno, che sorge su Viale Parioli, poco prima di arrivare a Piazza Ungheria (sul marciapiede di sinistra, salendo). 

Questo caffè ospita una scena di uno dei film più celebri e importanti del cinema italiano degli anni '60, I Mostri, il film che Dino Risi realizzò nel 1963 e che raccontava  "L’Italia bella, quella del boom, l’Italia divertente che non c’è più,"  ma anche l'Italia inguaribile dei suoi vizi atavici,  dei suoi comportamenti anarchici, cinici, spietati.

Un mix insomma di commedia e di amaro: si potrebbe riassumere così il meraviglioso lavoro di Dino Risi, conglomerato di ventidue episodi uno più divertente dell’altro che raccontano i vizi del Bel Paese del Dopoguerra. 

Nell’episodio “L’Educazione Sentimentale”, il protagonista è il mitico Ugo Tognazzi, che vediamo  entrare con suo figlio nel bar Il Cigno di viale Parioli e impartire al povero ragazzino una "lezione di vita" sulla furbizia. 

“Due cappuccini e due paste” – esclama alla cassiere del bar. Subito dopo aver pagato il conto, il figlio piccolo però gli sussurra a bassa voce: “Ma papà ne abbiamo mangiati sei…”.

La scena ambientata nel bellissimo caffè Il Cigno - rimasto praticamente come allora - inizia al minuto 1.02 fino al minuto 1.45 

Fabrizio Falconi 




29/06/20

29 giugno 2000 - 20 anni senza "Il Mattatore" - Ricordo di Vittorio Gassman






Ha scelto il giorno di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno, giusto 20 anni fa il 29 giugno. 

Non era romano Vittorio Gassman, figlio di un ingegnere tedesco, passato per una breve stagione a Palmi, cresciuto a Roma e rivelatosi a Milano; non era romano, ma sapeva esserlo piu' di tanti suoi concittadini, capace pero' di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali. 

Ma alla fine e' stato tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della sua citta' adottiva

Del "mattatore", appellativo che lo ha sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi trasloco' nella riuscita commedia di Dino Risi, non e' facile dare una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza sforzo

Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelo' nella sua autobiografia i tarli dell'anima, si scopri' la fatica della perfezione, l'infaticabile ricerca del dettaglio, la necessita' di superarsi ogni volta con precisione maniacale.

Si e' detto che aveva personalita' bipolare e si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. 

Eppure era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialita', fisicita', intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore

Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il corpo come strumento della sua arte. 

Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo scudetto del basket universitario con la societa' sportiva Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che gia' svettava tra i compagni di corso all'Accademia d'arte drammatica. 

In piena guerra, nel '43, debutto' a Milano con Alda Borelli nella "Nemica" di Niccodemi, ma fu all'Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo

Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficolta' a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, il compagno d'Accademia Luigi Squarzina e piu' tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis nel 1949

Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere alta la sua popolarita': fra il '52 e il '56 la sua lettura di Shakespeare (prima "Amleto" e poi "Otello") fecero storia cosi' come l'"Orestiade" di Eschilo con la regia di Pasolini. 

Gassman sembrava un dio greco, l'incarnazione del teatro, svettava in un'Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra persa. 

Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offri' l'occasione di essere "altro". Ne "I soliti ignoti" (1958) incontro' il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indosso' una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni. 

Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della commedia all'italiana, uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi

Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con Monicelli in testa

Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, cosi' come Risi gli offri' lo spaccone disperato de "Il sorpasso", mentre Scola fu suo complice in tutto l'itinerario della maturita' da "C'eravamo tanto amati" a "La famiglia"

Meno nota, ma non meno intensa e' la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70 in poi avra' i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, Andre' Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson. 

Si provera' anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio.

Chiudera' la carriera la' dove l'aveva iniziata, in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca" che e' una sorta di testamento artistico ed esistenziale. 

Nato nel 1922, sognava di morire in scena e per poco non ci e' riuscito. 

Spirito irregolare e controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme.

Spirito inquieto, paradossalmente e' stato il meno "italiano" dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava. 

Sognava un suo teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli e' stato intitolato; meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film)

La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma poteva accorgersi di lui ben prima

E' stato un gigante solo e forse proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo e' il sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche oggi. Sulla sua lapide sta scritto: "Non fu mai impallato".