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02/09/24

Bowie, Kubrick, i Pink Floyd: come i viaggi spaziali nei '60 ispirarono i più grandi artisti

 

David Bowie nel videoclip di Life On Mars

Nel clima degli anni '60, le imprese spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il cinema, la musica, la letteratura.  Il mondo sembrava sull’orlo di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato chissà quali imprevedibili sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del vicino spazio (poi dimostratasi ben più complessa di quanto si immaginava).

   Space Oddity fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968 Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.

   Quattro anni dopo l’impresa di Borman, Anders e Collins – nel maggio del 1972 -  a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato significativamente chiamato The Dark Side of the Moon, destinato a diventare una pietra miliare della musica contemporanea (28).

   Fu quello un album estremamente innovativo anche dal punto di vista dell’ingegneria del suono – come sanno bene i numerosi appassionati dell’opera in tutto il mondo: sulla base di un concept  che secondo le intenzioni del gruppo avrebbe evocato temi impegnativi come la condizione dell’esistenza, la morte, l’alienazione mentale, gli ingegneri del suono costruirono un suono compatto che prevedeva – oltre alle eclettiche invenzioni dei quattro musicisti – l’utilizzo dei materiali più disparati, come il rumore di una macchina calcolatrice, il battito cardiaco – che ricorre all’inizio e alla fine – passi di corsa in una stanza anecoica, orologi, macchine, frammenti di conversazione.

  

2001: A space odissey di Stanley Kubrick, 1969

L’idea di usare la voce umana di anonimi, registrati fu di Roger Waters, il quale preparò dei bigliettini con domande come «quale colore ti piace?»,  oppure «quando sei stato violento ?» e fece poi registrare le risposte che venivano date d’istinto dalle persone che si trovavano a frequentare gli studi di Abbey Road. 
   Le voci con le risposte vennero poi mixate e disseminate lungo i diversi pezzi musicali e tra le interiezioni di questi, componendo un ulteriore mosaico di sottotesto, di lettura alternativa.

   C’è una rara foto, delle molte che raccontano l’epopea musicale dei Pink Floyd a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80, che ritrae i componenti del gruppo in una sorta di foto di famiglia, ciascuno con la compagna e con i figli al seguito. È stata scattata sulla spiaggia di Saint-Tropez nell’estate del 1970. Poco prima dell’inizio della lavorazione di The Dark Side of The Moon.  Insieme ai quattro musicisti ci sono anche i più stretti roadies, collaboratori tecnici che seguivano il gruppo in sala d’incisione e nei lunghi tour.

   Sorridente e seminudo, insieme a Waters, Mason, Gilmour e Wright, compare qui anche Peter Watts, in piedi insieme alla compagna che tiene in braccio una bambina di due anni: la piccola è la futura attrice Naomi Watts, mentre il padre, Peter è l’autore di quella risata che ritorna più volte in The Dark Side of The Moon, e che ne rappresenta quasi il marchio di fabbrica.  Anche Peter fu infatti intervistato e registrato da Waters durante la lavorazione dell’album, con altri due roadies, Roger “The Hat” Manifolt e Chris Adamson, e addirittura l’usciere irlandese degli studi di Abbey Road, Gerry O’ Driscoll, il quale finì per essere coinvolto in quei giorni anche lui dal gioco creativo di Waters. Anche senza essere menzionato direttamente nei credits dell’album O’ Driscoll è riuscito a imprimere il suo nome definitivo sull’opera, visto che sua è la voce dell’ultimissima frase che si ascolta nel disco, al termine dell’ultimo brano, Eclipse, sullo sfondo del ritmo dello stesso battito cardiaco che apre l’album.   Quasi all’ultimo solco, si sente la voce dell’uomo sussurrare:

   «There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun».

   E cioè: «In realtà non c’è un lato oscuro della luna. Il fatto è che è tutta oscura. L’unica cosa che la fa sembrare luminosa è il sole».

    In realtà non sappiamo quale fosse la domanda esatta che gli fece a bruciapelo Waters con uno dei suoi bigliettini – la raccomandazione è che gli intervistati rispondessero senza pensarci – ma è sicuro che la risposta dell’anonimo usciere divenuto warholianamente famoso, è davvero interessante.

   La litania finale, nei due minuti e mezzo di Eclipse («Tutto ciò che tocchi/Tutto ciò che vedi/ Tutto ciò che assaggi/Tutto ciò che senti/Tutto ciò che ami… Tutto ciò che distruggi/Tutto ciò che mangi/Chiunque incontri/Tutto ciò che disprezzi/Tutto ciò che è adesso/Tutto ciò che è passato/Tutto ciò che arriverà…») esprime le infinite sfumature della vita, tutto quanto è sotto il sole sintonia, gli infiniti toni dei colori che si riuniscono nel bianco fascio della luce, come nel celebre prisma della copertina del disco.

  

La copertina di The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd, 1973

Tutto è (sarebbe) riunito nella luce, tutto è in sintonia con il sole.

   Se non ci fosse … la luna, appunto. Il sole eclissato dalla luna.

   La luna è l’ombra del sole.  Perché la Luna, come dice quell’ultimo sospiro – la voce di Gerry O’ Driscoll (29) – è tutta oscura. E l’unica cosa che la fa sembrare (o diventare) luminosa – a tal punto di rischiarare perfino la terra - è il sole.

   Luce e ombra, pertanto, hanno bisogno una dell’altra.

   La follia dell’ombra permea la vita, la vita – solo la vita – può dare un senso alla follia (cioè illuminarla).

   Durante la cerimonia di inaugurazione della XXXma edizione dei Giochi Olimpici, a Londra, organizzata e diretta da Danny Boyle – succeduta di otto anni a quella di Atene – il 27 luglio del 2012, proprio le note di Eclipse  nella edizione originale del disco dei Pink Floyd hanno accompagnato l’accensione dell’immenso braciere, in un grande gioco di luci spettacolari.

   Migliaia di fiammelle e di fuochi si sono innalzati sul tempo del rullante di Nick Mason, illuminando a giorno lo stadio olimpico di Stratford, immerso nella notte londinese, mentre sui mega schermi si alternavano le immagini di un gigantesco occhio umano e della luna che lentamente arrivava ad eclissare l’anello solare, rendendone i contorni ancora più brillanti.

   Subito dopo l’ultima esplosione, le parole dell’uscire Gerry Driscoll sono risuonate in tutto lo stadio.

   L’ombra non faceva paura.

   I nuovi Giochi erano aperti.

   Incuranti delle prossime, inevitabili rovine.


estratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017 

22/10/22

E' morto a 93 anni Mc Divitt, l'astronauta dell'Apollo 9 che fu il primo a vedere nello spazio un UFO

 


È morto James A. McDivitt, comandante della missione Apollo 9 che testò il primo equipaggiamento completo per andare sulla Luna. Aveva 93 anni

McDivitt fu anche il comandante della missione Gemini 4 del 1965, dove il suo migliore amico e collega Ed White compì la prima passeggiata spaziale statunitense. 

Le sue fotografie di White durante la passeggiata spaziale sono diventate immagini iconiche. 

Non ha avuto la possibilità di atterrare sulla Luna e invece è diventato il responsabile del programma dell'agenzia spaziale per cinque missioni Apollo dopo l'atterraggio sulla Luna dell'Apollo 11. 

Durante il suo primo volo nel 1965, McDivitt riferì di aver visto "qualcosa là fuori", un oggetto stranissimo, della forma di una lattina di birra volare fuori dalla sua navicella Gemini. 

Fu ovviamente definito un UFO e McDivitt scherzò in seguito dicendo di essere diventato "un esperto di UFO di fama mondiale".

L'Apollo 9, che orbitò intorno alla Terra e non andò oltre, fu una delle missioni spaziali meno ricordate del programma della NASA. 

In una storia orale del 1999, McDivitt ha detto che non gli dava fastidio che fosse stata trascurata: "Capisco perché l'abbiano fatto, sai, non è atterrato sulla Luna. E quindi non fa parte dell'Apollo. Ma il modulo lunare era... fondamentale per l'intero programma".

Volando con i compagni di equipaggio dell'Apollo 9, Rusty Schweickart e David Scott, la missione di McDivitt fu il primo test nello spazio del leggero lander lunare, soprannominato Spider. 

L'obiettivo era verificare se le persone potessero vivere al suo interno, se fosse in grado di agganciarsi all'orbita e - cosa che divenne cruciale nella crisi dell'Apollo 13 - se i motori del modulo lunare fossero in grado di controllare la pila di veicoli spaziali, che comprendeva il modulo di comando Gumdrop. 

All'inizio dell'addestramento, McDivitt rimase impressionato dalla fragilità del modulo lunare: Ho guardato Rusty e lui ha guardato me e ci siamo detti: "Oh mio Dio! Stiamo davvero per far volare una cosa del genere?" Era davvero squallido... era come cellophane e carta stagnola messi insieme con scotch e punti metallici!"

A differenza di molti altri astronauti, McDivitt non desiderava volare fin da bambino. Era semplicemente bravo a farlo. Crescendo a Kalamazoo, nel Michigan, McDivitt non aveva i soldi per l'università. Ha lavorato per un anno prima di frequentare un junior college. 

Quando si arruolò nell'Aeronautica Militare a 20 anni, poco dopo lo scoppio della guerra di Corea, non era mai salito su un aereo. Fu accettato per l'addestramento da pilota prima ancora di essersi alzato da terra. "Per fortuna mi piaceva", ha ricordato in seguito. McDivitt ha volato in 145 missioni di combattimento in Corea ed è tornato in Michigan dove si è laureato in ingegneria aeronautica. In seguito fu uno dei piloti collaudatori d'élite della base aerea di Edwards e divenne il primo studente della Scuola per piloti di ricerca aerospaziale dell'Aeronautica. L'esercito stava lavorando alle proprie missioni spaziali umane, poi abbandonate. 

Nel 1962, la NASA scelse McDivitt per far parte della seconda classe di astronauti, spesso chiamata "New Nine", insieme a Neil Armstrong, Frank Borman, Jim Lovell e altri. McDivitt fu scelto per comandare la seconda missione Gemini a due uomini, insieme a White. La missione di quattro giorni del 1965 girò intorno al globo 66 volte. Il volo di prova dell'Apollo 9 durò 10 giorni nel marzo del 1969, quattro mesi prima dello sbarco sulla Luna, e fu relativamente privo di problemi e privo di conseguenze. "Dopo aver volato con l'Apollo 9 mi fu chiaro che non sarei stato il primo ad atterrare sulla Luna, cosa che per me era importante", ha ricordato McDivitt nel 1999. "Ed essere il secondo o il terzo non era così importante per me". Così McDivitt è passato alla gestione, prima del lander lunare Apollo, poi della parte Houston dell'intero programma. Nel 1972 McDivitt lasciò la NASA e l'Aeronautica per una serie di incarichi nell'industria privata, tra cui quello di presidente della divisione vagoni ferroviari della Pullman Inc. e di dirigente dell'azienda aerospaziale Rockwell International. Si è ritirato dall'esercito con il grado di generale di brigata. 1

24/09/21

C'è una fotografia sul suolo lunare. Chi l'ha lasciata?

 


E' veramente una storia bella e poco conosciuta.

Riguarda le missioni spaziali Apollo e in particolare quella che il 20 aprile 1972 portò l'astronauta dell'Apollo 16 Charles Duke a fare i suoi primi passi sulla luna. 

All'epoca Duke aveva 36 anni ed è l'essere umano tuttora più giovane nella storia ad aver mai camminato sulla superficie lunare. 

Ma questo non è l'unico risultato di Duke che sopravvive nella storia americana. 

Mentre era sulla luna, infatti, Duke scattò una foto di questo ritratto di famiglia di lui, dei suoi due figli e di sua moglie, che è rimasta sulla luna fino ad oggi. 



Sul retro della foto Duke aveva scritto: "Questa è la famiglia dell'astronauta Charlie Duke del pianeta Terra che è atterrato sulla luna il 20 aprile 1972." 

Nell'ingrandimento della foto qui sopra si individuano bene i componenti della famiglia: all'estrema sinistra c'è il suo figlio maggiore, Charles Duke III, che aveva appena compiuto sette anni. Davanti in rosso c'è il figlio più giovane, Thomas Duke, che aveva cinque anni. Duke e sua moglie, Dorothy Meade Claiborne, sono sullo sfondo. 

“Avevo sempre pianificato di lasciarla sulla luna”, ha detto Duke a Business Insider, "Quindi, quando l'ho lasciata cadere, era solo per mostrare ai bambini che l'avevo davvero lasciato sulla luna". 

Da allora la foto è stata inclusa in numerosi libri fotografici popolari ed è un ottimo esempio del "lato umano dell'esplorazione dello spazio", ha detto Duke. 

Quando Duke si stava allenando per diventare un astronauta dell'Apollo, trascorreva la maggior parte del suo tempo in Florida. Ma la sua famiglia era di stanza a Houston. 

Di conseguenza, i bambini non hanno potuto vedere molto il padre in quel periodo. 

"Quindi, solo per entusiasmare i bambini su cosa avrebbe fatto papà, ho detto 'Vorreste tutti venire sulla luna con me?'", ha detto Duke. "Possiamo scattare una foto della famiglia e così tutta la famiglia può andare sulla luna". 

Sono passati più di 43 anni da quando Duke ha camminato sulla luna. E mentre le impronte che ha lasciato sul suolo lunare sono relativamente invariate, Duke sospetta che la foto non sia in ottime condizioni a questo punto. 

"Dopo 43 anni, la temperatura della luna ogni mese sale fino a 400 gradi [Fahrenheit] nella nostra area di atterraggio e di notte scende quasi allo zero assoluto", ha detto Duke. "La pellicola termoretraibile non viene molto bene a quelle temperature. Sembrava a posto quando l'ho lasciata cadere, ma non l'ho mai più guardata e immagino che ormai sia tutta sbiadita". 

Sfortunatamente, non c'è modo di determinare quanto sia sbiadita la foto perché è troppo piccola per essere individuata dai satelliti lunari. Indipendentemente da ciò, la foto "è stata molto significativa per la famiglia", ha detto Duke. Alla fine, questo è tutto ciò che conta, giusto?

30/04/21

La morte di Michael Collins e la faccia nascosta della Luna

 


Rendo omaggio alla scomparsa del grande Michael Collins, uno degli astronauti più importanti nella storia delle missioni spaziali, morto pochi giorni fa, con questo brano a lui dedicato dal mio libro, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi 2018.

È la troppa luce che rende impossibile distinguere le ombre e le rende misteriose e spaventose.

   Il simbolo dell’oscurità si manifesta in ogni notte, dall’alba dei tempi: ogni notte, nei secoli e nei millenni da molto tempo prima che la razza umana si affacciasse sul pianeta e prima ancora che i nostri antenati primati cominciassero a sfidare la legge della gravità, ergendosi sulla linea verticale della propria colonna vertebrale, la luna – l’unico satellite terrestre – mostrava l’unica faccia, nascondendo agli occhi degli umani il suo lato oscuro.

   Per motivi difficilmente comprensibili a chi non è pratico delle leggi di astrofisica, l’ordine dell’universo ha stabilito che nel complicato moto di rivoluzione intorno alla Terra e di rotazione sul proprio asse, il satellite lunare mostri agli abitanti del pianeta – di tutti gli abitanti, di qualsiasi continente, di qualunque latitudine o longitudine – sempre la stessa faccia.

   È una legge che i fisici chiamano rotazione sincrona : il periodo di rivoluzione della Luna intorno alla Terra è infatti di 27,32 giorni ed è assolutamente identico al suo periodo di rotazione. Il doppio movimento fa sì che dalla Terra sia impossibile osservare il lato nascosto del satellite (26) che tuttavia non è oscuro, come lo si definisce, in quanto è illuminato dalla luce del sole anche in misura leggermente maggiore di quello che è rivolto al nostro pianeta, solo che noi non possiamo vederlo.  

   Da alcuni secoli, da quando cioè, si è avuta cognizione che la Luna – come la Terra  - è rotonda, e gira sul proprio asse, gli uomini hanno provato ad immaginare quel lato oscuro, mai visibile e lo hanno popolato di sogni, aspettative e timori, come sempre riguardo alle cose che non si mostrano.

   L’esplorazione della faccia oscura della Luna è avvenuta in tempi molto recenti, durante l’epica corsa alla conquista dello spazio, che negli anni della Guerra Fredda del Novecento, portò Stati Uniti ed Unione Sovietica a concepire e realizzare incredibili missioni, sempre più ardimentose e tecnologicamente avanzate, culminate con la conquista del suolo lunare, compiuta dall’Apollo 11.

   Le prime immagini in assoluto della faccia oscura della Luna furono inviate da una sonda automatica russa, denominata Luna 3 e furono elaborate dal centro di controllo di Baikonur, il 7 ottobre del 1959.

L’inizio dell’esplorazione spaziale coincise dunque con il primo tabù violato, nella storia dell’umanità.  Esaminando le prime sbiadite fotografie, i tecnici russi si resero conto che la superficie nascosta del satellite si mostrava simile a quella visibile, seppure diversa per l’enorme numero di crateri, l’aspetto molto più accidentato e privo degli estesi mari presenti sull’altro lato.

   Dopo altre immagini di più alta qualità scattate sei anni più tardi da un’altra sonda sovietica – la Zond 3 – era ormai tempo che occhi umani potessero finalmente vedere quel luogo inaccessibile:  accade questa volta con una sonda – e un equipaggio – americani, l’Apollo 8, partito da Cape Canaveral il 21 dicembre 1968, nell’anno fatidico di grandissimi cambiamenti sociali.

   La missione (considerata in assoluto la più importante di quelle spaziali, dopo quella dell’allunaggio, dell’Apollo 11, proprio perché fu la prima con equipaggio umano che arrivò ad avvicinare e a circumnavigare per la prima volta il satellite) contava su tre uomini esperti: Frank Borman, William Alison Anders e Michael Collins. Tre giorni dopo il lancio, nella mattina della vigilia di natale, la sonda  entrò nell’orbita lunare, in diretta televisiva e mentre gli astronauti a bordo leggevano ad alta voce le prime parole della Bibbia, dal primo libro della Genesi.

   Quella sera stessa, gli occhi dei tre membri dell’equipaggio furono dunque i primi, umani a gettare uno sguardo oltre l’ignoto.

   Senza poterlo comunicare in diretta: ogni volta infatti che durante la loro orbita, la navicella spaziale sorvolava il lato oscuro della Luna, il centro spaziale perdeva il contatto radio. Per circa 30 minuti – tanto durava il sorvolo dell’emisfero nascosto – gli astronauti erano soli di fronte al cosmo, completamente isolati dalla Terra.

   All’uscita dal cono d’ombra – che fece tremare il centro di controllo – William Anders scandì le celebri parole: «la parte posteriore si presenta come se fosse un mucchio di sabbia in cui i miei figli hanno giocato per qualche tempo. È tutta picchiettata, senza definizione, solo un sacco di dossi e di buche».

   Un altro brivido attraversò la sala controllo, quando il capitano dell’equipaggio accese i motori per uscire dall’orbita lunare, operazione anche questa che fu effettuata sorvolando il lato nascosto, e quindi senza contatto radio con la terra, con gli astronauti che dissero poi – nelle missioni seguenti - di aver ascoltato durante quel tempo uno strano suono. (27)

   A tutto questo, i giornali e le televisioni dell’epoca diedero, com’è logico, un’enorme eco. Per la  prima volta venivano violate le colonne d’ercole dell’universo, così sembrava, in un facile parallelismo con l’impresa di Cristoforo Colombo e delle sue navi, di cinque secoli prima.

   Nel clima di quegli anni, le imprese spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il cinema, la musica, la letteratura.  Il mondo sembrava sull’orlo di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato chissà quali imprevedibili sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del vicino spazio (poi dimostratasi ben più complessa di quanto si immaginava).

   Space Oddity fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968 Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.

   Quattro anni dopo l’impresa di Borman, Anders e Collins – nel maggio del 1972 -  a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato significativamente chiamato The Dark Side of the Moon, destinato a diventare una pietra miliare della musica contemporanea (28).


Tratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra - Castelvecchi Editore, 2018