12/08/22
Quando eravamo free-lance : una parola oggi scomparsa
16/06/22
*Quando Goffredo Parise fu inviato nella "sporca guerra" in Vietnam - La dura polemica con Noam Chomsky*
25/02/22
Guerra in Ucraina: Le 10 frasi profetiche di Anna Politkovskaja sulla Russia e su Putin
2. Io vedo tutto. Questo è il mio problema.
3. La Cecenia è lo strumento con cui Putin ha conquistato il Cremlino e che lo ha spinto a cercare di soffocare la società civile e la libertà di espressione.
4. La Russia sta per precipitare in un abisso, scavato da Putin e dalla sua miopia politica.
5. (A proposito delle fonti giornalistiche) Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”.
6. Impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile.
7. (Sulla guerra in Cecenia) È una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa.
29/11/21
La lettera di Saskia a suo padre Tiziano Terzani
03/07/21
Libro del Giorno: "Taccuini del deserto - Istruzioni per la fine dei tempi" di Ben Ehrenreich
“Il disastro è già avvenuto… È accaduto così tanto tempo fa che ce ne siamo dimenticati, l’abbiamo rimosso, tenuto lontano dalla nostra memoria collettiva. La civilizzazione, come la conosciamo, non è una conquista ma una tragica sconfitta. La maggior parte di quella che consideriamo storia è fondata su una catastrofe che la concrezione degli anni ha solo peggiorato. Ma ciò significa anche che non siamo condannati a questo, che esistono altri modi di vivere, che abbiamo da perdere molto meno di quanto pensassimo, e da imparare ancora un sacco di cose”.
Così scrive Ben Ehrenreich, americano, che scrive regolarmente per «The Nation» e collabora con varie riviste internazionali quali «Harper’s Magazine», «The New York Times Magazine», e «The London Review of Books», autore inoltre di due romanzi e di un libro di saggistica, "The Way to the Spring: Life and Death in Palestine" basato sulle sue esperienze di reporter in Cisgiordania.
Taccuini del deserto, pubblicato da Atlantide, nasce da un lungo soggiorno dell’autore nel deserto californiano del Mojave e da lì, luogo dove tutto inizia e finisce, trae uno sguardo inedito e assolutamente affascinante su quanto l’umanità sta vivendo in questo momento storico “in cui tutto, compreso il tempo, sembra sull’orlo del collasso”: una crisi irreversibile e sempre più profonda alla quale sembra non esserci rimedio se non la fine della nostra civiltà.
E proprio dal deserto, simbolo al tempo stesso di morte e di trascendenza, che “ti fa arretrare e mette l’eternità in primo piano” Ben Ehrenreich prende le mosse per riflettere su cosa significhi l’idea di “fine dei tempi” non solo per la nostra civiltà ma anche per quelle che ci hanno preceduto.
Come affrontare dunque l’Apocalisse ora che il tempo, suggerisce l’autore, sembra essersi annodato su se stesso? E cosa ci insegna la fine di intere civilizzazioni quali per esempio quella dell’antico Egitto e dei Maya?
Passando dalla mitologia alla scienza, dalla storia delle religioni alla politica, dalla cosmologia all’antropologia e al racconto autobiografico, Taccuini del deserto affronta il senso più profondo e riposto dell’essere vivi qui e oggi, sospesi in un tempo di assoluta incertezza, ma che ci pone problemi e domande non troppo dissimili da quelli che altre civiltà prima di noi hanno affrontato, sopravvivendo in modi nuovi oppure scomparendo per sempre.
04/08/20
100 anni fa nasceva Enzo Biagi, un testimone del tempo. Le celebrazioni.
29/10/18
La ridicolizzazione della realtà. Un interessante intervento di Caterina Serra
L’azione di cui è protagonista è un’azione passiva.
All’interno di un programma militare segreto scelgono lui, mediocre, semplice, con un quoziente intellettivo che un mondo di intelligenti definisce da idioti.
Scelgono anche una donna, una prostituta, (tralascio il dettaglio Cristo e Maddalena eroi di un altro mondo e la necessità narrativa di una sexworker). Ma il messia-capro è anche qui maschio, anche lui chiamato al miracolo.
Il futuro in cui i due si risvegliano è un tempo in cui essere intelligenti non funziona più, sempre che avesse mai funzionato in un passato competitivo efficientista.
Ammutoliti tutti gli idealisti, paralizzati i più sensibili, morti di fame gli intelligenti senza fini di lucro, suicidati quelli che Mark Fischer chiama i malati di depressione di massa, colpiti dal morbo della nullità – se non sei diventato nessuno è colpa tua, la società capitalistica ti avrebbe accolto a braccia aperte se solo avessi dimostrato di volere uscire dalla tua miseria, di classe, di sesso, di razza.
Il mondo in cui si risvegliano è sciatto, abbruttito, impigrito, ipnotizzato tutto il giorno davanti a un video idiota che distrae, rincoglionisce, appiattisce tutto per non impegnare l’audience che è diventata tutta deficiente.
Tra cumuli di immondizie dentro e fuori casa, tra facce spente instupidite, la bocca piena di cibo industriale e di risate davanti a una tv finta di reality, un cinema con l’immagine fissa di un culo gigante, o dentro un parlamento stile show in cui il premier è un omone seminudo ignorante e aggressivo in piedi su uno scranno sponsorizzato da banche e multinazionali, kalashnikov in pugno a ogni mugugno di platea.
Insomma, un mondo non tanti anni luce dal nostro (premier o presidente che sia). Un mondo in cui qualcuno bravo con l’ottundimento di massa ha convertito l’acqua in Gatorade, niente vino questa volta, in cui non cresce più una singola pianta perché l’acqua potabile è finita nel cesso – è gratis, cioè, per la ragione sbagliata – e la gente senza un solo moto di dissenso beve tutto come da una fonte sacra.
Di nuovo, non proprio anni luce lontano da qui, un mondo che dalla tv al parlamento al tinello conosce e ama il ridicolo, la ridicolizzazione della realtà.
Come accade in certi film di Hollywood, Idiocracy ironizza di un mondo devastato dal capitalismo consumista, e quindi di noi.
Siamo seduti, guardiamo la tv spazzatura che sta guardando il protagonista, vediamo la spazzatura che produce mangiando guardando la tv che produciamo anche noi, seppur differenziata, in un paese di idioti che ridono governato da idioti che ridono.
Cosa vediamo e cosa ci diverte?
Vediamo una proiezione di quello che saremo o che siamo, il mondo capitalista com’è nelle sue rappresentazioni tipiche e semplificate, desiderio, consumo, spettacolarizzazione, decadenza, bisogno indotto di scambiare un bene comune con un bene economico.
Un neanche tanto velato classismo razzista pessimista che vede espandersi solo l’ignoranza e la volgarità come un magma indistinto che pervade ogni piazza-centro commerciale, con un protagonista deficiente-sapiente perché agli occhi degli stupidi il meno stupido appare intelligente. In scena c’è il cinismo capitalista e quindi l’elisir dell’anticapitalismo, e noi ci mettiamo in una posizione anticapitalista, seduta, comoda. Ironica e cinica quindi comoda.
Così, continuiamo a fare quello che vediamo e che deridiamo. Continuiamo divertiti e passivi a consumare e urlare e votare esattamente come i protagonisti di Idiocracy. L’ironia e il cinismo sono per noi e contro di noi, in una mise en abîme, che è il modo migliore per dirci siete voi e allo stesso tempo quelli che vogliamo noi e però anche quelli che volete voi. Abisso e paradosso si tengono. Di questa divertente passività mi interessa la consonanza con la comodità (ci sono altre consonanze, ribellione, resistenza, protesta in cui forse la passività è un’azione meno divertente). Comodo è confortevole, accogliente ma anche opportuno, conveniente. Perché una certa cosa risulti comoda non deve costare fatica, nessun talento inteso come esercizio di una certa predisposizione, nessuna abilità da allenare, nessuna tecnica da acquisire col tempo, nessun tempo passato a imparare.
Basta lasciarsi andare, farsi fare tutto, farsi guardare senza saper fare veramente niente se non mettersi in mostra, non in scena. Questo tipo di comodità vale soprattutto per il godimento, il divertimento: il business più fruttuoso della terra, dallo sport allo spettacolo al sesso ma anche alla scuola al lavoro. Ciò che conta è divertirsi e divertire.
Vogliamo che tutto sia funny, divertente, che ci deresponsabilizzi, che sia tutto un po’ turistico, un giro di giostra, programmato facilitato. Di recente mi è capitata tra le mani la prospettiva di una escursione subacquea. Let’s have fun. No experience required.
Divertitevi, non occorre avere alcuna esperienza, dicono i volantini. Anche se non l’abbiamo mai fatto, se non abbiamo idea di cosa voglia dire immergersi nell’acqua, perfino se non sappiamo nuotare (sic) non importa, faremo la stessa esperienza di uno che ci ha messo anni e passione e fatica, e che finalmente ha la sensazione di avere il corpo leggero e fluido di un pesce. Potenza persuasiva della narrazione pubblicitaria.
La foto sui volantini è allo stesso tempo ridicola e tecnologica o ridicolmente tecnologica, non so. Sembra un po’ Idiocracy.
I visi sorridenti di un ragazzo e una ragazza sono infilati in un casco, una palla di vetro, un vaso per i pesci, un casco spaziale – acquario o mare, oceano o spazio, fa un po’ lo stesso, quello che vogliamo alla fine è sempre la luna. Dunque, si respira aria con l’acqua che non arriva mai alla bocca, e si nuota.
No, non si nuota, ci si siede, di nuovo!, su una specie di moto-poltrona teleguidata che fa stare tra i pesci seguiti da due in bombole maschera e pinne, loro sì, pronti a guardare dove vai, cosa fai, e in nome della sicurezza a salvarti la vita, che così seduto non si sa mai. E così, ce l’hai fatta, hai visto quello che per vederlo ci avresti messo mesi anni, senza contare il rischio, il pericolo, e la meraviglia di farlo da solo. Invece, qualcuno ti ha tenuto per mano, ti ha guidato, non ti ha insegnato niente ma ti ha fatto divertire.
Non ti è costato niente, pardon, ti è costato ma solo denaro, e intanto quell’esperienza l’hai avuta, consumata come le tante in cui basta comprare. È il pensiero magico della società dei consumi, essere già arrivati senza la fatica di arrivare, diventare ricchi per miracolo, far coincidere il desiderio delle cose con il loro consumo, all’infinito.
Una vita da imbecilli felici, come ci definisce George Perec in Le cose, siamo nel 1965, quando parla di felicità. “…tra le cose del mondo moderno e la felicità [c’è] un rapporto obbligato. Una certa ricchezza nella nostra società rende possibile un certo tipo di felicità: si può parlare della felicità di Orly (l’aeroporto di Orly, inaugurato nel 1961, fu per anni il «monumento» più visitato di Francia)… Ma questa felicità resta una possibilità, perché nel capitalismo vale il detto: cose promesse non sono cose dovute.”
Libro ironico ambiguo freddo. Per nulla divertente, ma forse erano anni in cui la felicità non coincideva con il divertimento. Un libro molto ironico, un’ironia che non mette comodi perché non è cinica, non condanna personaggi e lettori per la loro miseria morale, l’ignoranza, la banalità, la stupidità, ma non ci prende in giro, non ci fa ridere di essere così felici e così imbecilli. Forse ci intristisce, o ci fa anche venir voglia di alzarci.
15/09/17
"Viviamo nell'età della rabbia" - dal 29 settembre al 1 ottobre il Festival di Internazionale a Ferrara.
07/07/14
Esce la prima biografia di Tiziano Terzani.
06/07/12
Le Dolomiti celebrano Dino Buzzati.
04/01/12
E' morto Pietro Zullino. Un ricordo.
04/10/11
Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.
A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.
Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".
"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).
Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità. Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero', 3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica. Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.
Guerzoni era un giornalista. Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro. Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte. Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.
Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.
Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa) - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.
Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.
L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.
Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo. Guerzoni però si fidava ciecamente di noi. Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme. Di firmarlo perfino insieme a lui.
Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose. Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale. Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo. Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.
Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.
Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".
Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi". Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro, scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."
Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola.
Fabrizio Falconi
02/10/11
E' morto Corrado Guerzoni. Un maestro.
E' scomparso stanotte Corrado Guerzoni, storico direttore di Radiodue e conduttore di una delle più popolari trasmissioni della Radio (Radiodue 3131).
A quello che considero un vero maestro (un Direttore vero, sperimentatore, giornalista, valorizzatore di giovani, persona profondamente umana), dedico questo ricordo, sicuro di condividerlo con molti che gli sono oggi, in un modo o nell'altro, debitori.