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03/10/24

Recuperare la 4a stagione di "The Crown" - un prodotto di classe per raccontare la storia recente.


In un periodo di penuria di serie tv nuove di qualità, mi sono voluto dedicare a "The Crown" che avevo sempre scansato, puntando sulla 4a stagione, che mi interessava particolarmente per vedere come è stato trattato il decennio Thatcheriano e il contemporaneo ingresso nella famiglia reale della principessa Diana Spencer, moglie di Carlo.

Che dire, ancora una volta si resta ammirati dalla qualità britannica, che non ha eguali nel mondo. Peter Morgan è del resto un colto e straordinario scrittore/sceneggiatore e nessuno meglio di lui poteva affrontare il compito di dire qualcosa di nuovo (e di definitivo) su un argomento così frusto come quello della Corona e della Corte inglese.
Morgan sceglie una strada coraggiosa, fuori dai cliché, concentrandosi, ad ogni puntata, su una delle grandi questioni politiche che il governo della Lady di Ferro affrontò con decisione molto vicina alla ferocia, dalla questione economica interna, con la disoccupazione galoppante, la sofferenza immane della classe operaia e la chiusura delle miniere; a quella irlandese (su cui fu altrettanto intransigente, causando l'inasprimento del conflitto); a quella dell'apartheid in SudAfrica (la Thatcher fu l'unica tra i capi di governo dei 48 paesi membri del Commonwealth a dichiararsi contraria alle misure economiche contro il regime razzista di Johannesburgh); alla assurda guerra delle Falkland (che causò la morte di 300 soldati inglesi e il ferimento di più di 1000); alle fratture dentro la compagine di governo che portarono, dopo 11 anni alle dimissioni forzate della Thatcher, fatta fuori dal suo stesso partito.
Il tono della serie è controllato, rigoroso, formalmente impeccabile, anche se possono piacere o meno alcune scelte, degli interpreti, delle singole circostanze raccontate, degli inevitabili tagli alla storia raccontata.
Gli attori sono straordinari: Olivia Colman è una perfetta regina. Ma su di lei e sulle sue qualità ormai, sappiamo tutto. Josh Connor (Carlo) e Emma Corrin (Diana) sono perfetti, bravissimi. Così come tutti gli altri comprimari. Una nota di merito a parte va a Gillian Anderson, straordinaria attrice, che inventa una Thatcher più vera del vero.
Qui si aprirebbe un discorso sulla grandezza degli attori che "interpretano", non "copiano" la realtà dei personaggi. Insomma, per essere verosimili e veri non servono i quintali di cerone sul viso, e l'effetto sosia non è mai indice di un vero grande attore. Gillian Anderson è se stessa, ma riesce con le sue sole doti interpretative a rendere tutto della Thatcher, inventandone perfino la voce, i movimenti, i tic, che probabilmente nemmeno aveva. Ma è glaciale, cupa, nevrotica, ossessiva, irragionevole, testarda, vendicativa e gelosa, come e più di quel che fu veramente. Applausi.
Anche la triste vicenda di Carlo e Diana e del loro matrimonio da operetta, fasullo come una moneta di latta, è rappresentata con sobria oggettività, senza calcare mai la mano, e semplicemente per quello che è stato: una cinica operazione di marketing e di sistema che ha lasciato per terra l'elemento più fragile, sacrificandolo senza scrupoli in nome della favola che deve continuare e infatti continua col re meno popolare di sempre e la sua famiglia a pezzi.

Fabrizio Falconi - 2024

06/06/24

"Sugar", su Apple Tv, una serie riuscita (e appassionante) con Colin Farrell


Partono le prime note della sigla e riconosci al volo l'inconfondibile Kamasi Washington e il suo sax.

Non potrebbe esserci miglior prologo.

Già dopo i primi 10 minuti hai chiaro che "Sugar" non è una serie come le altre.
Siamo, qualitativamente, molto più in alto.
Targata AppleTv, Sugar (2024) si presenta come un tipico hard boiled. John Steven Sugar è un detective privato specializzato nella ricerca di persone scomparse.
Ha la faccia di Colin Farrell, attore capace di fare tutto o quasi e forse anche per via della sua faccia, si pensa quasi subito a True Detective (visto che Farrell era il co-protagonista della seconda, bellissima stagione, ovviamente non all'altezza della prima, ma questa è un'altra faccenda).
Il detective Sugar riceve l'incarico di ritrovare Olivia, nipote di un magnate ebreo di Hollywood, potente e ricchissimo. Olivia è scomparsa nel nulla. Il nonno è preoccupato, il padre no, perché la ragazza vive border line, e già più volte si è allontanata e poi è tornata.
Sugar però percepisce subito che c'è di più. Nel rapido sviluppo di 8 puntate - ciascuna molto breve, poco più di 30 minuti l'una - veniamo a scoprire che il detective fa parte di una rete, in cui ciascuno ha un compito speciale, coordinati dalla misteriosa Ruby.
L'intreccio noir si complica, ma noi, più che dalla trama siamo ammaliati dal monologo, interiore, continuo di Sugar, che accompagna i fatti. Considerazioni, paure, un sottofondo filosofico intessuto strettamente con l'azione: Sugar è un detective sui generis, contrario alla violenza, fa discorsi strani ai criminali con cui ha a che fare, li sconcerta con toni quasi naif.
E tutto, insieme alla narrazione di Sugar, si muove insieme a mille flash di pellicole famose. Sugar è un cinefilo, ha nella testa le scene di quello che vive e di quello che ha visto, al cinema. Il montaggio è prodigioso. La regia è per cinque delle otto puntate di Fernando Meirelles, uno dei registi più talentuosi in attività (premio Oscar per City of god) e per le restanti tre di Adam Arkin, figlio del mitologico Alan, uno dei più grandi attori caratteristi della storia di Hollywood.
Alla fine della 6a punta si teme che l'incanto si rompa e vada in mille pezzi: c'è infatti un colpo di scena che improvvisamente mette la vicenda - e la serie - su un binario parallelo di scie-fi.
Ma per fortuna, il delicato equilibrio resta in piedi fino alla fine. Nessun effettaccio e nessuna scorciatoia ridicola o ridicolizzante. Resta invece il tono dolente della narrazione, la singolare caratterizzazione dei personaggi, a partire dal protagonista.
E' una delle rarissime volte in cui ai titoli finali ho sentito il desiderio di vedere una seconda stagione - se e quando sarà disponibile.
Colin Farrel è magnifico, insieme ad Amy Ryan, splendida attrice, che regge una parte da quasi co-protagonista.
Altamente raccomandato.

Fabrizio Falconi - 2024

06/11/20

La Regina degli Scacchi, una bella serie tv. Ma il romanzo è un'altra cosa.

 



La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit è il titolo originario anche del romanzo, cioè "Il gambetto della Regina", che è una celebre mossa del gioco degli scacchi), è la nuova serie Netflix che sta spopolando un po' in tutto l'occidente e anche in Italia, come successe un anno fa per Unhortodox, non a caso anche quella una storia tutta al femminile, di sottomissione e di riscatto. 

La serie, va detto subito, è un ottimo prodotto, in sette lunghe puntate (ciascuna più di un'ora), con straordinarie ricostruzione di interni, costumi (la storia è ambientata negli anni '60 negli USA) e ambienti, con una colonna sonora ottima (Carlos Rafael Rivera) e una interprete brava e adatta (Anya Taylor-Joy) nel ruolo di Beth Harmon, la ragazzina prodigio che scala le vette più alte della scacchistica nazionale e internazionale. 

Ciò che però stona, nella serie, è la profonda differenza rispetto allo straordinario romanzo da cui è tratta, scritto da Walter Tevis nel 1983. 

Il personaggio di Beth, nella serie, è trasformato in salsa glamour (vestiti elegantissimi, fascino, sicurezza, autocontrollo), completamente diverso dal personaggio immaginato da Tevis.   Per ovvie ragioni di appetibilità televisiva anche le competizioni, cioè le partite sono rese in modo del tutto inverosimile - con le mosse che vengono compiute dai giocatori praticamente in automatico, senza pensare nemmeno un decimo di secondo, quando chiunque sa che ogni mossa delle competizioni di alto livello è meditata a lungo - o a lunghissimo - e le partite durano ore intere - a volte giornate - proprio per questo.

Ma torniamo al romanzo.

The Queen's Gambit è considerato il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più esclusivi del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine della psiche descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro è soprattutto nello stile e nella narrazione trasparente, sospesa ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto dunque, praticamente impossibile da trasporre nella fiction senza tradirne il nucleo originario: 

nella serie in particolare si è deciso di omettere quasi del tutto il cupio dissolvi della protagonista che, in particolare dopo la morte della matrigna, la avviluppa in una angosciosa autodistruzione e che nel romanzo occupa più della metà delle pagine, mentre nella serie è relegata appena ai margini.  

Si perde inoltre tutta la voce interiore che caratterizza il libro, la voce di Beth, il travaglio psicologico, la sofferenza, che è la grandezza del romanzo. 

E' ovvio che probabilmente non poteva essere diversamente da così, in una serie tv pensata per il grande pubblico onnivoro. 

Sarebbe però un bel successo se la serie televisiva riaccendesse l'interesse e la curiosità su questo libro e su questo autore, che meriterebbero davvero di essere conosciuti e letti in misura molto maggiore di quanto accade oggi.

Fabrizio Falconi - 2020  






04/07/12

The Killing - Una grande serie tv.



Lo sostengo da tempo, la creatività visiva e narrativa contemporanea - che sembra essersi impigrita al cinema - vive un  momento di nuovo fulgore in diverse serie televisive in produzione in diverse parti del mondo.

Un esempio è The Killing, serie televisiva statunitense poliziesca prodotta dalla Fox Television Studios e dalla Fuse Entertainment per la rete televisiva via cavo AMC, che l'ha trasmessa a partire dal 3 aprile 2011 e la cui ultima puntata - della seconda serie - è andata in onda qualche giorno fa praticamente in contemporanea in USA e in Italia.

The Killing è il remake della serie televisiva danese Forbrydelsen, considerata un capolavoro e detentrice di ogni record di ascolto nella televisione di quel paese.

La serie americana, come quella danese, è incentrata sulle vicende che ruotano attorno l'omicidio di una giovane ragazza e la conseguente indagine della polizia.

Nella versione statunitense è nella nordica Seattle che una giovane ragazza, Rosie Larsen, viene trovata uccisa, chiusa nel bagagliaio di una macchina affondata in un laghetto.

La trama intreccia tre aspetti connessi all'omicidio: le indagini della detective Sarah Lindendetective del dipartimento di polizia di Seattle, silenziosa e acuta osservatrice, conduce una vita solitaria con il figlio Jack -  affiancata dal collega Stephen Holderex detective della narcotici che ha ottenuto la promozione alla squadra omicidi;  il dolore che colpisce la famiglia della vittima; e un gruppo di politici locali che rischia di vedersi compromessa la campagna elettorale. Con la prosecuzione della storia, diventa chiaro che non ci sono casualità e ognuno dei personaggi coinvolti si porta dietro un segreto che gli impedisce di poter voltare pagina. 


Sono diversi e numerosi i motivi di interesse di questa serie: la precipitazione in un gorgo progressivo che sembra ingoiare ogni barlume di umanità (di senso umano) dei personaggi coinvolti;  la pioggia battente che scende per 24 giorni consecutivi su Seattle (la capitale della cultura grunge) e l'acqua - elemento onnipresente in tutte le puntate - nella quale sembra immersa la realtà intera rappresentata (e anche il corpo della vittima);  la solitudine dei due detective, la solidarietà progressiva che si stabilisce, il faticoso rapporto di fiducia, la protezione che offre Holder (anche se per alcune puntate si è indotti a credere che anche lui sia marcio, sia dall'altra parte) alla sperduta Linden; l'assenza di erotismo (seppure sempre sottinteso), la ricerca continua del senso ultimo e minimo delle cose, dalle quali ripartire (la certezza non esiste, va ricercata nell'humus più putrescente, va ritrovata - perché esiste - nel cancellato e nel negato);  la volontà - più forte di tutto - di mantenere la barra dritta nel gorgo, nell'abisso frequentato da spettri e mistificatori; l'estrema linearità del racconto che mantiene unità narrativa e precisione di scopi (senza voli pindarici, senza sotterfugi o strizzate d'occhio allo spettatore):  insomma un gran bel lavoro che parla a noi, e proprio a noi, oggi e ci spiega (anche) da dove si può e si deve ripartire.


Fabrizio Falconi 

16/04/12

Enlightened - La serie televisiva. Spunti per l'oggi.



E' molto interessante Enlightened, la serie televisiva statunitense trasmessa dal 2011 sul canale HBO, e co-ideata ed interpretata da Laura Dern, la grande attrice americana, figlia d'arte (suo padre è Bruce Dern) divenuta 'attrice feticcio' di David Lynch.

La prima stagione, andata in onda dal 10 ottobre 2011, è composta da dieci episodi. HBO ha poi rinnovato la serie per una seconda stagione, anch'essa di dieci episodi.

L'idea di questa serie è molto originale: seguiamo infatti la storia e le peripezie di Amy Jellicoe, una dirigente aziendale di una multinazionale attiva nel settore della cosmetica che, dopo una crisi di nervi causatale dal crollo della propria vita professionale e privata, ottiene il risveglio spirituale grazie ad un percorso di riabilitazione nelle Hawaii e decide così di riprendere in mano la propria vita.

Laura Dern è impareggiabile nel rendere la velleità perfino naif della protagonista di 'cambiare il mondo', una volta tornata alla sua solita vita: cambiare un luogo di lavoro - e colleghi di lavoro - infernali.  Cambiare la madre, persa in un deliquio anaffettivo e catatonico. Cambiare il marito, dipendente dalle droghe e completamente sballato. Cambiare gli amici.
Renderli partecipi di una nuova consapevolezza maturata: cosa è veramente importante nella vita.

Naturalmente questa velleità - convincere gli altri che si è compreso il vero senso della vita, e che la vita che vivono gli altri è piena di cose false, vacue, inutili e dannose - si scontrerà contro un poderoso muro di gomma:   Amy sbaglia tutto, ovviamente, sbaglia nel modo stesso in cui pretende di convincere e di rendere consapevoli gli altri.

Ma gli altri sono impietosi.  E' davvero troppo irresistibile rovesciare in faccia a chi pretende di cambiarti la vita il tuo disprezzo, bollando questa persona  semplicemente come una pazza supponente, una pazza fuori del mondo, che non sa o non vuole rendersi conto di come va la vita. 


E' perciò molto interessante Enlightened, per le dinamiche che descrive, e che ci riguardano tutti. 

Una volta raggiunta la consapevolezza che la vita che si vive fa schifo, cosa si può fare di concreto per cambiarla ? E una volta che siamo disposti a cambiarla, come possiamo per rendere consapevoli gli altri ?

Amy è una ingenua. Ma è anche, indubbiamente, una persona di buona volontà.

I suoi metodi sono sbagliati ma non c'è dubbio che il suo fine sia autenticamente giusto. Ma .. come fare ?  E particolarmente toccanti sono le pagine del suo discorso interiore che viene recitato, in ogni puntata, dalla voce di Amy fuori campo.

Da vedere.

16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.

28/04/10

La fiducia è una questione di Fede.


Per comprendere la vita, non abbiamo molti mezzi, se non affidarci agli altri.

Mi è venuto in mente, osservando una puntata del serial Lost, che ha tratti di genialità. Sembrerebbe che quasi tutta questa grande opera di fiction contemporanea sia basata sul concetto e sul sentimento della fiducia.

Quando è che posso fidarmi di qualcun'altro ? Quand'è che posso avere fiducia in lui ? Fiducia e fede hanno la stessa radice semantica.


La fede dei primi cristiani si basò su una conoscenza che derivava soltanto da coloro 'che avevano visto'. C'erano dei testimoni. Questi raccontarono quel che avevano visto. Ma tutto sarebbe finito lì, se qualcuno non avesse creduto al loro racconto, se non si fossero fidati di loro.

L'unica osservazione, conoscenza, sapienza che possiamo avere in questa vita, dipende dalla condivisione ( e dall'affidamento) che abbiamo negli/con gli altri. Il motto della intera serie di Lost è 'si vive insieme, si muore soli'.

Per un cristiano questo non è condivisibile, perché anche quando moriremo ci sarà Qualcuno con cui/ a cui affidarci. Ma se quello è un affidamento che potremo probabilmente rifiutare o accettare, l'affidamento in questa vita non è possibile per nessuno, evitarlo. Significherebbe vivere da esclusi o da esiliati su questa terra, che è meno grande di quel pensiamo, ed è popolata di tanti noi, che hanno molto da dire... a noi.


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