11/11/16
La Tolleranza - di Pier Paolo Pasolini (dalle Lettere Luterane).
20/06/16
La Profezia di Pasolini (1975): "Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia".
Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche.
La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.
Da Luisella Re, Pasolini: Il nudo e la rabbia, Stampa sera, 9 gennaio 1975.
12/03/14
Che cosa sono le nuvole...
Capriccio all'italiana è un film collettivo, girato nel 1967 e distribuito nel 1968, composto da sei episodi diretti da diversi registi, tra cui Che cosa sono le nuvole?, diretto da Pier Paolo Pasolini, con Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Domenico Modugno.
ah straziante, meravigliosa bellezza del creato ! dice Totò nell'ultima battuta recitata.
E' il momento della rivelazione: quello in cui le marionette che hanno sempre vissuto nel cupo inganno del loro teatrino, dopo essere state straziate dallo stracciarolo, fatte a pezzi e gettate nella discarica, hanno finalmente l'agio di guardare il cielo.
E di scoprire, oltre alle nuvole, l'esistenza dell'autentico.
Della vita autentica.
E' così anche per noi. E' spesso proprio il dolore che ci rende autentici, che ci fa scoprire la parte autentica di ciascuno di noi - vigliaccheria, dignità, coraggio, orgoglio, rassegnazione, determinazione, fede, fiducia, disperazione .
Ma queste parti autentiche - anche l'essere impotenti e fragili - esistono DA SEMPRE, sono lì.
Solo che passiamo una gran parte della vita a far finta che non esistano, a dissimularle, a raccontarci frottole, a non ascoltarle perché abbiamo paura di soffrire, o in definitiva soltanto di conoscere il nostro mondo interiore.
Ma invece è soltanto così che si cresce, solo così, solo cercando le nostre parti più autentiche e cercando di dar loro voce, che noi ritorniamo semplicemente umani.
Che cosa sono le nuvole...
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata
14/08/12
Elsa Morante - 100 anni dalla nascita.
Tra quattro giorni, il prossimo 18, si celebra il centenario della nascita di uno dei massimi scrittori italiani del novecento, Elsa Morante.
23/07/12
Spunta una lettera inedita di Pier Paolo Pasolini ai calabresi.
fonte ANSA
20/03/12
Pasolini, il professore a Ciampino a cui non passavamo la palla. Di Vincenzo Cerami.
10/05/11
Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.
Cuore.
Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “
E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.
A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.
In selve impraticabili,
mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti
o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,
oppure lo si vede emergere da una liquida fonte
o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara
o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.
Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).
“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”
Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.
Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.
Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:
Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.
E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l’infinita nuvolaglia.
O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l’inonda e muove la tempesta;
E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.
E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…
E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.
Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:
Se la memoria fosse del cuore,
non un nome svegliandoti
ti verrebbe alle labbra.
Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.
Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: “La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’
Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:
E’ difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.
Fabrizio Falconi.
21/11/08
Pasolini, Cesare e Dio.
Anche a proposito di trasformazioni nel modo di percepire la religione e sulla Chiesa Cattolica, Pasolini scrisse e disse cose ferocemente contestate allora, sulla quale oggi molti osservatori - di destra e di sinistra - concordano, ammettendo che forse 'aveva ragione. '
Risulta così quanto mai toccante rileggere questa pagina degli Scritti Corsari, che dice molto, e di grandemente attuale, sui rapporti tra Chiesa e Stato, su cui bisognerebbe grandemente meditare. Scrive Pasolini:
Prima di tutto la distinzione radicale tra Chiesa e Stato. Mi ha sempre stupito, anzi profondamente indignato, l'interpretazione clericale della frase di Cristo: "Dà a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio": interpretazione in cui si era concentrata tutta l'ipocrisia e l'aberrazione che hanno caratterizzato la Chiesa controriformistica.
Si è fatta passare cioè - per quanto ciò possa sembrare mostruoso - come moderata, cinica e realistica una frase di Cristo che era evidentemente, radicale, estremistica, perfettamente religiosa. Cristo infatti non poteva in alcun modo voler dire: "accontenta questo e quello, non cercar grane politiche, concilia la praticità della vita sociale e l'assolutezza di quella religiosa, dà un colpo al cerchio e uno alla botte, ecc.."
Al contrario Cristo - in assoluta coerenza con tutta la sua predicazione - non poteva che voler dire: "Distingui nettamente tra Cesare e Dio; non confonderli; non farli coesistere qualunquisticamente con la scusa di poter servire meglio Dio; non "conciliarli": ricorda bene che il mio "e" è disgiuntivo, crea due universi non comunicanti, o se mai, contrastanti: insomma, lo ripeto "inconciliabili".
Pasolini nel suo inconfondibile stile appassionato, radicale, polemico, avvertiva e avverte di un rischio sempre in agguato nel nostro mondo: quello di identificare Dio con Cesare e Cesare con Dio, di unificare gli scopi di Cesare con quelli di Dio, l'utile di Cesare con l'utile di Dio: la peggiore delle iatture umane.
19/06/08
Il Vangelo Secondo Matteo - di Pier Paolo Pasolini.
Le ragioni, forse stanno in questo articolo che vi consiglio caldamente di leggere e che ho tratto da http://www.hideout.it/ e che puo' essere letto nella sua completezza all'indirizzo originale:
Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII. Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora di “divinità” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.»
C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: «Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, [l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le “sproporzioni” delle stasi didascaliche (lo stupendo, interminabile discorso della montagna)],
la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione. Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.»
E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire: «Io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità, mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti, i soldati romani come la Celere, quando facevo Giuseppe e Maria profughi come profughi spagnoli sui Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più, cioè credevo di poter attualizzare il Vangelo senza toccare l’intima fedeltà che avevo stabilito fin da principio […]. Tutti questi richiami all’attualità, queste citazioni di Dreyer, questo insieme di fatti espressivi e espressionistici, che credevo saltassero molto fuori, in realtà si sono poi livellati nell’insieme del film, hanno raggiunto una loro specie di fermezza,
di distacco che io non avevo calcolato e che è venuto fuori a mia insaputa e quindi mi sto ancora chiedendo io stesso il perché».
«Il Vangelo è stato per me una cosa così spaventosa che, mentre lo facevo, mi ci aggrappavo e non pensavo più a niente. […] Dopo i primi tre giorni di lavorazione avevo deciso di sbaraccare tutto. […] Poi una sera ho messo lo zoom sulla macchina, il 300, ho cominciato a fare delle esperienze, e ho continuato così, giorno dopo giorno. […] La liberazione e l’invenzione tecnica si erano prodotte al di fuori di ogni programmazione. […]
Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo.
Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»
Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».