Riporto qui di seguito l'intervista realizzata dal quotidiano Libero a Marco Vannini, davvero molto interessante, sul successo editoriale di Vito Mancuso, ma che contiene riflessioni molto interessanti sul comune sentire 'cristiano' e 'cattolico', oggi.
Vito Mancuso è un vero e proprio caso culturale ed editoriale. Non è infatti cosa abituale vedere un teologo entrare nelle classifiche di vendita e fare il pieno di pubblico ovunque si presenti. Firma ieri del Foglio e oggi della Repubblica, Mancuso è autore di diversi volumi. L’anima e il suo destino, edito da Cortina, ha venduto circa 100mila copie. Disputa su Dio, in collaborazione con Corrado Augias, è un best seller nonostante il caso di “copia e incolla” denunciato da Libero (sottolineiamo: nella vicenda Mancuso è privo di ogni responsabilità, a differenza del suo co-autore). Chiediamo un parere sulla teologia di Mancuso a Marco Vannini, 61 anni, fiorentino, massimo studioso italiano della mistica cristiana, cui si dedica da quaranta anni, primo editore di autori come Meister Eckhart, Taulero, Angelus Silesius, Gerson, Fénelon, Margherita Porete e altri. È autore di Introduzione alla mistica (Morcelliana), La morte dell’anima (Le Lettere), Storia della mistica occidentale (Mondadori), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere), La religione della ragione (Bruno Mondadori) e Sulla grazia (Le Lettere).
Professor Vannini, come spiega il successo di Mancuso?
«Lo spiego col fatto che viene intelligentemente incontro a problemi anche di tipo religioso della società contemporanea, ormai post-cristiana, e dà le risposte che questa si aspetta, ovvero che le sono più gradite. Infatti presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica».
Ma allora non è più cristianesimo?
«In senso tradizionale sicuramente no, però bisognerebbe prima intenderci su cosa significhi essere cristiani. Ora, a parte il fatto che, come si dice giustamente, “solo Dio scruta i cuori”, possiamo pensare con Simone Weil che chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano».
Infatti la Weil è una della autorità cui Mancuso si riferisce...
«Sì, e su questo punto a buon diritto. Però solo su questo punto. Anzi, se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia».
Che ne dice della proposta di Mancuso di una teologia laica?
«Anche qui bisognerebbe prima decidere cosa intendiamo tanto per teologia quanto per laico. Di per se stessa l’espressione “teologia laica” è un ossimoro, però una teologia che celebra festival può benissimo accordarsi con la laicità. In fondo “laico” oggi significa proprio questo: che non vuole sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, di conversione - ovvero che conosce solo la dimensione della natura e ignora quella della grazia».
Quindi lei condivide le censure mosse a Mancuso da alcuni esponenti della Chiesa?
«Io non sono il più adatto a giudicare, però posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto. Gnostica era la Weil, che non a caso amava tanto la civiltà catara e non perdonava al cattolicesimo di averla distrutta. E poi gnostico non è una brutta parola: gnosi vuol dire conoscenza, conoscenza che salva, e quindi anche il cristianesimo è una gnosi. I primi cristiani e i Padri della Chiesa parlavano infatti del cristianesimo come di una gnosi - certo, della vera gnosi opposta a quelle false, ma pur sempre di una gnosi. E questo i teologi dovrebbero saperlo. Se fossi un esponente del magistero ecclesiastico, quello che rimprovererei a Mancuso non sono tanto discutibili “errori teologici”, quanto l’aver messo la sordina agli aspetti più duri ma più essenziali del messaggio evangelico: conversione, distacco, rinuncia a se stessi, appunto. Non a caso ancora la Weil scrive che nel Vangelo non c’è una teologia, ma una concezione della vita».
In conclusione, per lei Mancuso è o no un teologo cattolico?
«Ripeto ancora una volta che non sono chiamato a giudicare nessuno. Comunque penso che Mancuso abbia, se non altro, il merito di costringerci a interrogarci sull’identità cristiana: siamo ancora capaci di recitare il Credo davvero credendo alle sue formulazioni? O in cosa consiste - se sussiste ancora - il nostro cristianesimo/cattolicesimo? Personalmente ritengo Mancuso un filosofo, un libero pensatore (non inteso come offesa, anzi!) che farebbe bene a dichiararsi tale, uscendo dall’equivoco del “teologo cattolico”. Questo gli farebbe forse perdere audience presso i “laici”, ma renderebbe più onore alla verità e a Cristo».
Professor Vannini, come spiega il successo di Mancuso?
«Lo spiego col fatto che viene intelligentemente incontro a problemi anche di tipo religioso della società contemporanea, ormai post-cristiana, e dà le risposte che questa si aspetta, ovvero che le sono più gradite. Infatti presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica».
Ma allora non è più cristianesimo?
«In senso tradizionale sicuramente no, però bisognerebbe prima intenderci su cosa significhi essere cristiani. Ora, a parte il fatto che, come si dice giustamente, “solo Dio scruta i cuori”, possiamo pensare con Simone Weil che chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano».
Infatti la Weil è una della autorità cui Mancuso si riferisce...
«Sì, e su questo punto a buon diritto. Però solo su questo punto. Anzi, se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia».
Che ne dice della proposta di Mancuso di una teologia laica?
«Anche qui bisognerebbe prima decidere cosa intendiamo tanto per teologia quanto per laico. Di per se stessa l’espressione “teologia laica” è un ossimoro, però una teologia che celebra festival può benissimo accordarsi con la laicità. In fondo “laico” oggi significa proprio questo: che non vuole sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, di conversione - ovvero che conosce solo la dimensione della natura e ignora quella della grazia».
Quindi lei condivide le censure mosse a Mancuso da alcuni esponenti della Chiesa?
«Io non sono il più adatto a giudicare, però posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto. Gnostica era la Weil, che non a caso amava tanto la civiltà catara e non perdonava al cattolicesimo di averla distrutta. E poi gnostico non è una brutta parola: gnosi vuol dire conoscenza, conoscenza che salva, e quindi anche il cristianesimo è una gnosi. I primi cristiani e i Padri della Chiesa parlavano infatti del cristianesimo come di una gnosi - certo, della vera gnosi opposta a quelle false, ma pur sempre di una gnosi. E questo i teologi dovrebbero saperlo. Se fossi un esponente del magistero ecclesiastico, quello che rimprovererei a Mancuso non sono tanto discutibili “errori teologici”, quanto l’aver messo la sordina agli aspetti più duri ma più essenziali del messaggio evangelico: conversione, distacco, rinuncia a se stessi, appunto. Non a caso ancora la Weil scrive che nel Vangelo non c’è una teologia, ma una concezione della vita».
In conclusione, per lei Mancuso è o no un teologo cattolico?
«Ripeto ancora una volta che non sono chiamato a giudicare nessuno. Comunque penso che Mancuso abbia, se non altro, il merito di costringerci a interrogarci sull’identità cristiana: siamo ancora capaci di recitare il Credo davvero credendo alle sue formulazioni? O in cosa consiste - se sussiste ancora - il nostro cristianesimo/cattolicesimo? Personalmente ritengo Mancuso un filosofo, un libero pensatore (non inteso come offesa, anzi!) che farebbe bene a dichiararsi tale, uscendo dall’equivoco del “teologo cattolico”. Questo gli farebbe forse perdere audience presso i “laici”, ma renderebbe più onore alla verità e a Cristo».