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29/04/24

"La Zona d'Interesse" NON è un film sulla "banalità del male", ma sulla "banalità di CHI COMPIE il male" !


A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".

Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.

Fabrizio Falconi - 2024

17/10/23

"Il Complotto contro l'America" - perché è una serie da vedere oggi


E' un'opera che tutti, specialmente oggi, dovrebbero vedere.

"Il Complotto contro l'America", miniserie HBO (un marchio di garanzia), in 6 puntate da un'ora ciascuna, disponibile su Sky e NowTv, è tratta dall'omonimo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2004.
In quel romanzo, Roth metteva in scena una ucronia (o storia alternativa o allostoria o fantastoria), collocandola nel 1940, cambiando il corso degli eventi e quindi raccontando non della vittoria di Franklin D. Roosevelt, al suo terzo mandato - come è avvenuto nella realtà - ma di quella del trasvolatore Charles Lindbergh, che per primo aveva attraversato l'oceano Atlantico in solitaria con il suo aereo e che negli anni immediatamente prima della guerra godeva di enorme popolarità negli USA.
Lindbergh fu in effetti, nella sua vita, simpatizzante del regime nazista, accolto anche con mille onori da Adolf Hitler a Berlino.
La vittoria di Lindbergh a quelle elezioni, immaginata da Roth, cambia completamente il destino della storia: il Lindbergh del romanzo - e anche della serie, ovviamente - si è candidato contro Roosevelt proprio rivendicando la necessità e il diritto degli USA di rimanere neutrali nella guerra che si è scatenata in Europa e di non intervenire al fianco degli inglesi, sommersi da un diluvio di bombe naziste.
Il paese resta, così, neutrale. E addirittura il ministro degli esteri nazista Von Ribbentrop, viene ricevuto, con tutti gli onori, alla Casa Bianca.
Nel contempo nel paese, comincia una lenta e capillare discriminazione degli ebrei (americani) che vengono destinati a "programmi di inserimento" che si propongono di "integrare" gli ebrei nel modo di vita, nei costumi e nelle credenze del popolo americano.
Il tutto viene visto dalla prospettiva di una famiglia ebrea della midlle class di Newark, New Jersey, che precipita in un incubo e in un orrore pesantissimo, con il padre che non vuole per nessun motivo essere costretto ad abbandonare il paese che ritiene "il suo" e la madre che spinge per fuggire - finché è possibile - in Canada.
La zia, zitella, finisce invece per diventare l'amante del rabbino (vedovo) Bengelsdorf che in buona fede finisce per diventare il megafono del presidente Lindbergh.
La serie è prodigiosa per realizzazione tecnica (costumi, ricostruzione dell'epoca, ambienti, ecc.), di qualità cinematografica, per scrittura e per bravura degli attori: John Turturro in primis nei panni dell'ambizioso rabbino che fino alla fine non vuol vedere cosa sta succedendo, rendendosi complice; Wynona Rider, eccezionalmente brava nel ruolo della zia ingenua; Zoe Kazan (nipote del grande Elia), nei panni della madre, Morgan Spector nei panni del padre.
Si parla di una storia parallela, ma la serie parla - molto - dell'oggi, di quello che succede oggi intorno a noi, per questo va vista: perché i meccanismi umani sono sempre gli stessi e possono precipitare - come è successo sovente nella storia e come succede anche oggi - nella viltà, nell'ignavia, nell'ambizione irresponsabile, nella cecità, nell'incapacità di misurare il principio di realtà, conducendo i poteri all'orrore e gli innocenti al sacrificio.

Fabrizio Falconi - 2023

06/09/23

Perché Oppenheimer è un grandissimo film, anzi, un "capolavoro"?


Perché Oppenheimer di Christopher Nolan è un grandissimo film per il quale si può scomodare l'abusatissimo termine "capolavoro"?

Perché è un film difficilissimo (trama, dialoghi intricatissimi) e allo stesso tempo perfettamente apprezzabile anche da chi non sa o capisce un acca di fisica, di quanti di luce, di fissione nucleare.
Eppure il film, ossessivamente dialogato per 180 continui minuti, potrebbe essere assai ostico: non ci sono effettacci di sceneggiatura o politically correct, che piacciono tanto al cinema contemporaneo; non ci sono eccentricità buttate a caso, c'è pochissimo sesso, la grande parte del film si svolge in asfittiche aule di oscure commissioni governative e non; si parla molto di scienza e di fatti accaduti 80 anni fa; c'è al centro un fisico vagamente antisociale, poco conosciuto, fino a ieri, dalla gente che di solito guarda fiction; c'è una colonna pervasiva, che come una creatura vivente segue lo sviluppo del film, di ogni suo passaggio, nessuno escluso, anche qui con piglio ossessivo; non ci sono toni consolatori o retorici, il mood generale è invece un tono dolente, disarmato, sconfitto.
Eppure..
Eppure è un film rapidamente diventato fenomeno di massa. Com'è possibile?
E' possibile perché è grande cinema. E il cinema, quando è grande, travalica ogni gusto personale, ogni pregiudizio, ogni linguaggio specifico, come la grande musica.
In un certo senso, poi, Oppenheimer, è il trionfo del cinema britannico, che oggi e da parecchi anni, è ormai la Superpotenza del cinema mondiale.
Britannico è il regista Christopher Nolan (di cui ho amato grandemente Interstellar, soprattutto), britannico è in gran parte l'incredibile cast allestito per questo film, dove anche il più umile dei partecipanti (anche con una o due scene in tutto), è un grande, grande attore, proveniente dalla infinita scuola di talenti britannica. Così, per un cinefilo, il godimento è doppio, perché si gode vedendo sfilare questa galleria di attori straordinari:
- Cillian Murphy è il protagonista, da Oscar (sarebbe meritato): un talento irlandese ormai globale, definitivamente affermatosi con Peaky Blinders, che regala al fisico Oppenheimer credibilità, sguardo allucinato, toni di tormento e sconfitta, fallimento, persecuzione.
- Florence Pugh è l'attrice inglese rivelatasi ormai da anni, che interpreta la tormentata, carnale, psichiatra comunista Jean Tatlock, ex amante di O.
- Emily Blunt è l'attrice britannica che impersona la moglie di Oppenheimer, Kitty
- il grande Robert Downey Jr. interpreta il cattivo Lewis Strauss, membro della commissione per l'energia atomica americana, nemico di O. La sua prova è straordinaria. Mi auguro vivamente che l'Oscar 2023 gli venga assegnato, perché lo stramerita, come attore non protagonista.
- Kenneth Branagh è un altro mostro sacro del teatro e del cinema britannico che qui interpreta il grande fisico Niels Bohr.
- il grande Matthew Modine, quasi irriconoscibile, invecchiato, il glorioso protagonista di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, è un alto burocrate, dalla parte di O.
- L'ormai indefinibile (sono finiti gli aggettivi) britannico, Gary Oldman (forse il più grande attore maschile vivente) con una sola scena, dà corpo e anima al 33mo presidente americano Harry Truman.
- lo scozzese Tom Conti (vincitore di ogni possibile premio teatrale tra cui il Tony Award e il Laurence Olivier Award) è Albert Einstein.
- Dane De Haan uno degli attori migliori delle nuove generazioni, già visto in moltissime serie e film, è l'infido generale Nichols, uno dei persecutori di O.
- Rami Malek, il Freddy Mercury di "Bohemian Rhapsody" è David Hill, colui che riuscirà a incastrare Strauss.
- Casey Affleck (fratello di Ben e straordinario talento) è Boris Pash, capo dei servizi segreti dell'esercito
- Matt Damon è come sempre perfetto nel ruolo del generale Leslie Groves, il costruttore e fondatore del centro di ricerche di Los Alamos, dove verrà costruita la prima bomba atomica della storia.
Insomma, il catalogo è questo.

Sì, il film dura 3 ore, ma per una volta non ci si annoia neanche per un istante.
Si esce anzi dalla sala piuttosto grati: sentirsi raccontare una storia, oggi, e una grande storia, e raccontata con stile sobrio, classe e profondità, è un regalo di cui essere grati.
(consiglio, se si vuol leggere poi il parere di un vero addetto ai lavori, di recuperare la recensione di Roberto Escobar, forse il miglior critico in giro in Italia attualmente, sul Domenicale del Sole 24 ore, uscito il 2 settembre, che dà al film 5 stelle, sulle cinque disponibili - e non è un punteggio che Escobar conferisce frequentemente).

Fabrizio Falconi - 2023

05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

17/04/23

André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin: protagonisti di una bellissima serie Tv su Netflix, "Transatlantic"


André Breton, Chagall, Max Ernst, Hannah Arendt, Walter Benjamin, sono loro qui i protagonisti.

Davvero un'altra insperata bellissima sorpresa nel panorama delle serie tv, che ritenevo stesse diventando asfittico, in crisi.
Invece non perdete Transatlantic (titolo fuorviante, completamente sbagliato, NON è una storia ambientata in un Transatlantico e non c'entrano niente i transatlantici), una bellissima serie di produzione tedesco/francese/inglese ora su Netflix.
La storia vera di Varian Fry e Mary Jane Gold che nel 1941 misero in salvo a Marsiglia, circa 2000 persone destinate ai campi di sterminio nazista.
Tra di loro molti intellettuali, artisti, i più prestigiosi dell'epoca, quelli che ho citato, e altri celebri, fedelmente rappresentati qui.
Una serie molto diversa da quelle storiche ambientate in quel periodo. Un tocco meraviglioso della ideatrice Anna Winger e due registe svizzere, a metà e in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, con sfumature che fanno pensare a Wes Anderson, fotografia bellissima, musiche all'altezza, cast freschissimo, che diverte e commuove.
8 puntate che si vedono con grande piacere, un prodotto notevolmente intelligente e di livello inusuale rispetto alle offerte di grande consumo di Netflix.

Fabrizio Falconi - 2023

23/10/22

Muore a 98 anni, Zilli Schmidt, sopravvissuta ad Auschwitz, portavoce del riconoscimento del genocidio nazista di Sinti e Rom

 


È morta Zilli Schmidt, una sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz, Lety e Ravensbrueck che si è fatta portavoce del riconoscimento del genocidio nazista di Sinti e Rom. Aveva 98 anni. 

Secondo la fondazione del Memoriale degli ebrei assassinati d'Europa, il memoriale dell'Olocausto di Berlino, la Schmidt è morta venerdì. Non è stata indicata la causa del decesso. 

Come uno degli ultimi sopravvissuti al genocidio di Sinti e Rom, ha dichiarato la fondazione in un comunicato, la morte di Schmidt "lascia dietro di sé un profondo vuoto". 

Sia i Sinti che i Rom sono popolazioni gitane che vivono prevalentemente nell'Europa orientale. 

Gli storici stimano che fino a 500.000 Sinti e Rom siano stati uccisi durante l'Olocausto. 

Nata come Zilli Reichmann nello stato tedesco orientale della Turingia nel 1924, la Schmidt è cresciuta in una famiglia sinti tedesca di commercianti di strumenti e gestori di cinema ambulanti. 

Fu arrestata e inviata al campo di concentramento di Lety nel 1942 e poi, insieme alla sua famiglia, ad Auschwitz-Birkenau nel 1943

Zilli Schmidt da giovane, prima dell'arresto nazista, con un amica


Nel 1944, la Schmidt fu deportata da Auschwitz al campo di concentramento di Ravensbrueck, in Germania. 

Lo stesso giorno in cui fu trasferita, gran parte della sua famiglia, compresi i genitori, la figlia e la sorella, furono uccisi insieme a molti altri Sinti e Rom ad Auschwitz

Dopo la guerra, la Schmidt si è battuta per il riconoscimento e l'aiuto delle vittime del genocidio nazista.

In seguito, ha iniziato a parlare pubblicamente delle sue esperienze contro il razzismo e l'estremismo di destra. 

Nel 2021 ha ricevuto la Croce Federale al Merito, che premia coloro che hanno dato un contributo notevole alla società tedesca. 

"Lei ci ha raccontato le sofferenze dei Sinti e dei Rom sotto la dittatura nazionalsocialista, a Lety, Auschwitz e Ravensbrueck, dove era stata deportata", ha detto all'epoca il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. 

Dopo la notizia della sua morte, il ministro della Cultura tedesco Claudia Roth ha elogiato Schmidt come una persona con il "coraggio di affrontare le rimostranze" sia del passato che del presente. "Sono eternamente grata che Zilli abbia scelto di parlare della sua vita e degli orrori che le sono accaduti", ha dichiarato Roth in un comunicato. Schmidt mancherà "come testimone contemporaneo, come combattente per il riconoscimento del genocidio dei Sinti e dei Rom", ha aggiunto Roth. 

05/10/22

Libri: Arriva in Italia "Hitler, la manipolazione, il consenso, il potere"



"Hitler aveva una capacita' quasi medianica di comprendere le piu' profonde aspirazioni del popolo tedesco". A quasi ottant'anni dalla sua morte nel bunker della Cancelleria a Berlino ha ancora senso interrogarci sulla sua eredita' e sulla modernita' della sua leadership? 

La risposta e': ora piu' che mai

Basta leggere il volume Il leader, su Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere scritto dallo storico Davide Jabes. 

Un libro scorrevole, divulgativo, con alla base la volonta' di non volere essere tanto una nuova ricerca sull'attivita' del dittatore tedesco, quanto una riflessione sulla sua 'presenza'. 

Sulla insondabile ma ricorrente seduzione esercitata dal despota sulle masse che lo acclamano.

Una necessaria lettura da fare superando "il naturale disgusto" verso la persona e la ricerca del nemico da annientare, a partire dagli ebrei, suggerisce l'autore, per iniziare "seriamente a preoccuparci di come avrebbe impostato l'esistenza dei suoi 'amici', ovvero di quel mondo che lo idolatrava o quanto meno gli ubbidiva". 

"In Italia, non molti anni fa, durante un quiz televisivo nessuno dei concorrenti seppe rispondere a una semplice domanda: quando era andato al potere Adolf Hitler", ricorda Jabes nella prefazione al libro. 

Il Fuhrer "diede risposta a masse di diseredati, di persone schiacciate da un presente terribile promettendo loro un futuro radioso, il tutto risultando credibile e onesto (questa forse la sua performance 'artistica' migliore). Perche' non considerare la sua pericolosa eredita' non degna della massima attenzione, quando oggi una moltitudine assai maggiore aspetta di essere sollevata dallo stato di costante miseria economica e sociale in cui versa?". 

Il volume analizza la giovinezza di Hitler, il condizionamento disturbante avuto dalla sua famiglia di origine nonche' la giovinezza trascorsa a Vienna, dove sviluppa quel rifiuto della societa' multiculturale, multilinguistica per abbracciare a Monaco sintesi piu' semplificatrici e rispondenti al suo bisogno di cercare il nemico a tutti i costi. 

Le trova nella destra bavarese e nell'antisemitismo che l'alimenta, nella sua disordinata e caotica costruzione di un modello illustrato con enfasi in un crescendo retorico ma quasi musicale

Per questo Jabes sottolinea l'importanza della passione di Hitler per Wagner e le sue frequentazioni dei teatri. Sono descrizioni e ricostruzioni molto suggestive, capaci di trasportarci nel vissuto di un uomo di cui vorremmo non parlare piu', mentre l'autore con professionale distacco ci mostra uno per uno quali sono i possibili agganci con l'attualita'. Sta a noi scegliere di interrogarci sul tema o chiudere il libro e ancora una volta far finta di niente, sperando che tutto si risolva da se'.

DAVIDE JABES
IL LEADER. ADOLF HITLER: LA MANIPOLAZIONE, IL CONSENSO, IL POTERE 
Solferino
pagine 251
18 euro 

09/05/22

Krishnamurti e la Guerra. Che fare?



In questi tempi così complessi, è utile rileggere le parole di Krishnamurti (1895-1986) sulla guerra, le cause e ciò che l'uomo, ogni singolo uomo può fare. In particolare, queste furono pronunciate a Ojai, California, il 27 maggio 1945, nella imminenza della fine della Seconda Guerra Mondiale. 

Domanda: Sicuramente la maggior parte di noi ha visto al cinema o sui giornali le immagini degli orrori e delle barbarie dei campi di concentramento. Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, a coloro che hanno perpetrato tali mostruose atrocità? Non dovrebbero venire puniti? 

Krishnamurti: Chi li punirà? Il giudice non è spesso colpevole come l’accusato? Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. 

Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. 

Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili degli orrori della guerra. 

La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. 

Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. 

Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre. 

Dovete sradicare le cause della guerra, della violenza, dentro di voi, il che richiede pazienza e gentilezza, non questa maledetta condanna degli altri. L’umanità non ha bisogno di altra sofferenza per poter capire, ma ciò che occorre è che voi siate consapevoli delle vostre azioni, che vi risvegliate alla vostra ignoranza e al vostro dolore, per far nascere in voi stessi la compassione e la tolleranza. Non dovete preoccuparvi di punizioni e ricompense, ma di sradicare in voi stessi quelle cause che si manifestano nella violenza e nell’odio, nella rivalità e nell’ostilità. Uccidendo l’uccisore diventate come lui, diventate voi i criminali. Ciò che è sbagliato non viene raddrizzato con mezzi sbagliati, solo con giusti mezzi si può raggiungere un giusto fine. 

Se volete la pace, dovete usare mezzi pacifici; mentre lo sterminio di massa e la guerra conducono solo a ulteriore sterminio, ulteriore sofferenza. Non si raggiunge l’amore con lo spargimento di sangue, un esercito non è uno strumento di pace. Solo la benevolenza e la compassione possono portare pace nel mondo, non la forza, l’inganno, e neppure le leggi. Voi siete i responsabili per l’infelicità e i disastri, voi che nella vostra vita quotidiana siete crudeli, avidi, ambiziosi, oppressori. La sofferenza continuerà finché non avrete sradicato dentro di voi le cause che generano la passione, l’avidità, la crudeltà. Abbia pace e compassione nel cuore, e troverà la giusta risposta alla sua domanda.

Ojai, 27 maggio 1945

A qualcuno o a tanti, potrà sembrare del tutto utopistico. Ma, a ben guardare è così: ogni possibile cambiamento dell'umanità dipende solo ed esclusivamente dal cambiamento dei singoli. 

06/05/22

E' vero che Mussolini si fece costruire un Bunker sul Monte Soratte?

 



E' stato già dai primordi dell'antichità, un monte considerato sacro dove sorgeva, sulla sommità, che domina la valle del Tevere, a pochi chilometri da Roma, un vetusto Tempio di Apollo, cristianizzato in età antichissima, che servì anche da eremo a papa Silvestro I, esiliato da Massenzio e poi diventato dopo la Battaglia di Ponte Milvio consigliere stretto di Costantino imperatore, e il fautore della cristianizzazione urbanistica di Roma. 

Sul Soratte, però, non c'erano soltanto mistici, predicatori, o astronomi. 

Nel 1937, per volere di Benito Mussolini, fu infatti avviata sul Monte Soratte, data la vicinanza con la Capitale, la realizzazione di numerose gallerie all’interno della montagna, che sarebbero dovute servire da rifugio antiaereo per le alte cariche dell’Esercito Italiano, pur sotto le mentite spoglie di fabbrica di armi della Breda: le cosiddette “officine protette del Duce”. 

Cioè un vero e proprio Bunker. 

I lavori furono svolti sotto la direzione del Genio Militare di Roma e, ancora oggi, questo dedalo ipogeo costituisce una delle più grandi ed imponenti opere di ingegneria militare presenti in Europa (circa 4 km di lunghezza: una vera e propria città sotterranea). 

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare nel settembre del 1943, il “Comando Supremo del Sud” delle forze di occupazione tedesche in Italia, guidato dal Feldmaresciallo Albert Kesselring, si stabilì sul Soratte. 

Per un periodo di circa dieci mesi, le gallerie si prestarono come valido rifugio segreto per le truppe naziste e resistettero al pesante bombardamento del 12 maggio 1944,effettuato da due stormi di B-17 alleati, partiti appositamente da Foggia per distruggere il quartier generale tedesco al Soratte. 

Sembrerebbe che, prima di abbandonare l’area, il Feldmaresciallo dette ordine di minare ed incendiare tutto il complesso ipogeo e di interrare delle casse contenenti parte dell’oro sottratto alla Banca d’Italia: le stesse non sono mai state ritrovate.

Per anni, dopo la fuga delle truppe tedesche successiva al bombardamento, il complesso visse periodi di totale abbandono

Fu solamente nel 1967, durante gli anni della Guerra Fredda, che, sotto l’egida della N.A.T.O., venne modificato un tratto delle gallerie, che assunse l’aspetto di bunker anti-atomico, che avrebbe ospitato il governo italiano e il presidente della repubblica in caso di attacco atomico sulla capitale

I lavori, solo parzialmente terminati, si protrassero fino al 1972, quando, per ragioni ancora incerte, vennero bruscamente interrotti

L’area, da alcuni anni, è stata riacquisita dal Comune di Sant’Oreste ed è oggetto di un progetto di recupero delle ex-caserme e di allestimento di un museo storico diffuso, denominato “Percorso della memoria”. 

Oggi le gallerie sono visitabili grazie all'impegno della Libera Associazione Culturale Santorestese “Bunker Soratte”.

Tutte le info per visitare il Bunker al sito: https://bunkersoratte.it/

Informazioni tratte da https://bunkersoratte.it/







19/04/22

La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943


 

San Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.

 

Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc  inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.  

La pioggia di bombe del 19 luglio smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo, scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.

Oltre ad aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri cristiani. 

E anche se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il 26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano, tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al 36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.

A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme,  assiste anche Paolo, che ancora non si è convertito (dunque prima del  40 d.C.).            .

Pio XII a San Lorenzo il giorno dopo il bombardamento

In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.

Essendo poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in disparati angoli d'Europa.

L'episodio più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono solennemente portate dal vescovo Giovanni II.

Qualche anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide, dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura 

La reliquia della testa di Santo Stefano, invece,  si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del cardinale Scipione Cobelluzi.

Tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton 2013-2017


06/04/22

Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht

 


E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935. 

Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte. 

Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri. 

Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio. 

Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile. 

Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza. 

In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini. 

Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.  

Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori.  Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto. 

Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco. 

Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro. 

Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza. 

Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale. 

Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni  - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino. 

Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria. 


Raoul Precht

Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò

Bottega Errante Edizioni,2022 

pagg. 198, Euro 17


Fabrizio Falconi - aprile 2022


04/04/22

Perché la Shoah (l'Olocausto) è un "unicum" nella storia umana?


Specialmente in questi anni così confusi, di negazionismi sfrenati, benaltrismi, narcisismi piccoli e grandi che si esaltano nella confutazione spavalda dell'ovvio e del naturale, col pretestuoso e l'inaccettabile, vale la pena riportare qui la risposta forse più chiara ed esaustiva possibile alla domanda che spesso si sente ripetere, ovvero: per quali motivi la Shoah, l'Olocausto degli ebrei da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra mondiale è un "unicum" nella storia umana, e perché è sbagliato concettualmente e materialmente equipararlo ad altri tipi di genocidi terrificanti che sono stati compiuti nella storia. 

La risposta è piuttosto evidente e ciascuno di noi dovrebbe conoscerla, ma Lisa Palmieri-Billig dell'American Jewish Committee l'ha spiegato recentemente con poche parole essenziali che meritano di essere divulgate il più possibile: 

"La Shoah è stata pianificata a sangue freddo secondo precisi concetti di efficienza e tecnologia moderna. Fu eseguita da una civiltà altamente istruita, colta, avanzata, con l'uso di un diabolico, meticoloso piano di omicidio di massa mirato alla totale estinzione di tutti i membri di un certo popolo, una certa religione, una certa tradizione e cultura. Erano condannati per il loro Dna: uomini, donne, bambini, neonati, vecchi e infermi, tutto coloro a quella che era considerata una "razza inferiore". 

Più chiaro di così. 

Fabrizio Falconi - 2022

27/02/22

Anche Putin è stato un bambino. Ma quale storia da bambino? E quale storia da adolescente?

Vladimir Putin con la madre nel 1958

Assistendo al delirio di onnipotenza di questi giorni di Vladimir Putin ci si può legittimamente chiedere se anche lui sia stato un bambino - e che tipo di bambino e di adolescente, che tipo di infanzia e di adolescente abbiano preparato e forgiato una personalità di questo tipo. 

Vladimir Putin proviene da una famiglia operaia di cui è il terzo figlio. I suoi genitori, Vladimir Spiridonovich Putin (1911-1999) e Maria Ivanovna Putina, nata Chelomova (1911-1998), avevano avuto in precedenza due figli, Viktor Putin e Oleg Putin, nati negli anni '30 ma morti in tenera età. 

Il padre di Putin, soldato dell'Armata Rossa dal 1941, appartenente alle divisioni dislocate intorno a Leningrado, lungo la Neva , fu gravemente ferito alla gamba sinistra. 

La madre, Maria Ivanovna Putina sopravvisse all'assedio di Leningrado di 872 giorni durante la guerra, creduta morta e salvata dal marito dopo essere tornata dall'ospedale. 

Dopo la guerra, la coppia ha lavorato presso lo stabilimento ferroviario di Leningrado. I suoi nonni paterni erano contadini della frazione di Pominovo, appartenente al villaggio di Turginovo ( Tver Oblast ), a nord di Mosca, che vi si erano stabiliti sin dalla fondazione del villaggio nel XVII secolo.

Secondo un biografo di Vladimir Putin, il nonno, Spiridon Putin, fu il primo della stirpe a nascere dopo l'abolizione della servitù della gleba nell'impero zarista.

Spiridon, che secondo Vladimir Putin era il membro della sua famiglia che ammirava di più, sarebbe stato un cuoco per i Romanov , poi per Lenin e Stalin. 

Pochi giorni dopo la sua nascita, la madre di Vladimir Putin chiede segretamente che suo figlio sia battezzato nella Cattedrale della Trasfigurazione, in anni in cui il battesimo era severamente punito in Unione Sovietica , uno stato ateo . 

È uno studente mediocre e un combattente, finché non incontra un maestro che lo guida alla scoperta della cultura e delle arti, portandolo a visitare i musei di Leningrado. Questo ha cambiato la sua apertura al mondo. 

Vladimir Putin ha cominciato prestissimo a praticare arti marziali, wrestling, sambo e judo russo in gioventù dall'età di 11 anni (è stato più volte campione di sambo di Leningrado; nel 1973 gli viene conferito il titolo di maestro dello sport in sambo, e nel 1975 in judo). 



Successivamente, il giovane Putin studiò giurisprudenza all'Università di Leningrado (ora Università statale di San Pietroburgo), laureandosi 1975 con una tesi su “Il principio del commercio delle nazioni più favorite nel diritto internazionale”. 

Putin  imparò a parlare correntemente il tedesco, avendo vissuto e lavorato per diversi anni nella Repubblica Democratica Tedesca , ma parla pochissimo inglese e preferisce usare interpreti quando conversa con persone che parlano inglese.  

Secondo il suo stesso resoconto, Putin tentò senza successo di essere assunto nel KGB all'età di 16 anni. Dopo una formazione iniziale di base di cui si sa poco, entrò nel servizio territoriale decentralizzato del KGB - la direzione del KGB per la città di Leningrado e la sua regione, dove prestò servizio per diversi anni prima come subordinato, poi come ufficiale operativo nel servizio di controspionaggio locale, incaricato in particolare della lotta della polizia politica contro i dissidenti e altri “elementi antisovietici” (sotto il patrocinio della quinta direzione del KGB). 

Come tutti gli altri servizi speciali europei dell'epoca, il KGB inviava solo uomini sposati, condizione intesa in linea di principio ad escludere gli omosessuali ed evitare legami con donne straniere. Putin si è sposato nel 1983. 

Con il grado militare di maggiore, fu mandato nel 1984 a frequentare un corso annuale di formazione continua presso l' Andropov Institute (o Red Flag Institute, Krasnoznamenny Institoute – KI) del KGB a Mosca, in linea di principio per diventare una spia. 

Durante i suoi studi universitari a Mosca, fu chiamato in codice "Platov" e prestò servizio come leader volontario della sua unità di cadetti. Dopo aver lasciato il KGB KI, Putin non entra nello staff dell'apparato centrale del KGB a Mosca, ma torna a Leningrado dove parte del suo servizio viene trascorso nell'unità locale sotto la supervisione del primo comando generale del KGB , l'intelligence straniera servizio. 



È entrato nella "riserva attiva" del KGB per prepararsi a una missione operativa nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Dall'agosto 1985 ha officiato, per il suo primo incarico all'estero, a Dresda nella DDR, ufficialmente come impiegato consolare, con l'incarico di reclutare spie con il ruolo di  maggiore dei servizi segreti russi. 

In particolare, cerca di costringere un professore di medicina a dargli accesso a uno studio sui veleni mortali che non lasciano quasi traccia, ricattandolo con elementi pornografici. 

Dopo la caduta del muro di Berlino, ha impedito ai tedeschi di entrare negli uffici del KGB per saccheggiarli e depredare gli archivi, distruggendo lui stesso questi documenti . 

Fu richiamato nel febbraio 1990, nel contesto della riunificazione tedesca . Secondo il media tedesco Correctiv , deve il suo ritorno al fatto che Werner Grossmann, l'ultimo capo dei servizi di spionaggio esteri della DDR, rivela ai suoi colleghi del KGB che Putin sta reclutando agenti della DDR la cui copertura è stata violata, il che crea un notevole rischio per il KGB.

Tali scelte di vita verranno rinnegate più tardi, nel 1999, quando Putin prese le distanze dalla ideologia sovietica descrivendo il comunismo come "un vicolo cieco, lontano dalla corrente principale della civiltà".

Fabrizio Falconi 2022