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23/11/24

"Nowhere Special" un bellissimo film di Uberto Pasolini, da vedere


Uberto Pasolini è un autore e regista (e produttore) italiano notevole e poco apprezzato e conosciuto in patria. Non parente di PPP, ovviamente, ha origini nobilissime di famiglia e casata, e una vita avventurosa e piena di cose.
Vive e lavora da molti in anni in Inghilterra, e il successo incredibile (come produttore) del film "Full Monty" (1997) gli ha aperto le possibilità di fare vero cinema d'autore, che è quel che gli interessa.
Dopo il sorprendente "Still Life", acclamato dalla critica e dal pubblico (2013), due anni fa ha firmato questo film, "Nowhere Special" ("Niente di speciale") ora disponibile su diverse piattaforme (Raiplay, gratuito, ma solo doppiato - Amazon Prime video in versione originale con sottotitoli al costo di 2.99 euro).
E' un film molto bello, poetico, stravolgente, soprattutto per chi è padre o genitore, ma anche per chi non lo è: perché parla della morte (argomento sempre più tabù in ogni contesto sociale), e della morte inaccettabile di un giovane uomo, già duramente colpito dalla sorte.
E' per di più, una storia vera. Il cui vero significato si esprime nella volontà e degli sforzi di lasciare in eredità il bene a qualcun (altro) che proseguirà il cammino dopo di noi e che dovremo lasciare a malincuore, con grande dolore.
Il film vede l'esordio di uno straordinario bambino attore che si chiama Daniel Lamont.
Il film è particolarmente raccomandabile perché rifugge da ogni sentimentalismo (nel film non c'è nessuna scena madre e nemmeno una di pianto).
Tutto viene vissuto sul volto di James Norton, che si conferma uno dei migliori attori in circolazione (e dei più intelligenti e coraggiosi, encomiabile per scegliere di fare film come questi) e sull'interiorità.
Un film che meriterebbe di essere visto dalle ampie platee che arridono di solito a film più facili o suadenti.

Fabrizio Falconi - 2024

29/07/24

"Le notti di Cabiria" - Perché il film di Fellini è meraviglioso


Il successo, la riuscita di "Cabiria" (il più chapliniano dei film di Fellini) è dovuta anche allo straordinario talento di Fellini nella scelta delle facce che fece la differenza già a partire dai primi film. 

La scelta di un attore francese, Francois Periér per il ruolo dell'orrido ragionier d'Onofrio è decisiva, ai fini della storia, tralasciando per un attimo il ruolo di mattatrice assoluta che spetta alla Masina, sul cui volto corpo e movimenti, è costruito il film.

Periér presta la sua faccia all'ambiguo d'Onofrio, che seduce la povera Cabiria, illudendola nel modo più crudele immaginabile.  

Ma per buona parte della vicenda, ogni spettatore della storia - non solo l'innocente Cabiria, che pure vorrebbe mantenersi diffidente visti i suoi precedenti in materia (la scena iniziale del film è l'anticipazione di ciò che succederà ancora, in una sorta di eterno ritorno) - è convinto della perfetta buona fede dell'uomo. Che appare appunto "un santo", come lo definisce Cabiria. Anche lo spettatore fin troppo smaliziato del 2020, finisce per crederci.

La bontà incarnata si disegna sul volto di Periér ed è solo parecchio più tardi, nella scena al ristorante sul lago, che l'ombra che comincia ad allungarsi sulla faccia dell'uomo, facendo rapidamente virare il film dai toni della commedia (Cabiria segna per molti versi l'inizio della commedia (all')italiana a quelli della tragedia. 

L'importanza delle facce era per Fellini tutto, o quasi. 

E la faccia di Periér, la sua figura, definita dall'impermeabile stazzonato, dalle movenze prima premurose, accudenti, soccorrevoli, e poi brutali, è di quelle che non si dimentica più.

Fabrizio Falconi 2024 

13/07/24

Cosa vuol dire essere un vero attore?


Come è noto, soltanto qualcosa che è vuoto può essere riempito, mentre nulla che è già pieno può esserlo.

Vale anche per la recitazione. Il campione dello svuotamento era Mastroianni: che era sempre vuoto. Per questo riusciva a interpretare qualunque personaggio, cioè ad esserlo per davvero. Perché il vero Mastroianni restava in disparte, non avresti mai saputo dire veramente chi fosse.
Molti attori invece, pur tecnicamente bravissimi, sono troppo pieni per essere davvero qualcun altro. Servillo è troppo Servillo per essere davvero qualcun altro: è sempre "Servillo che fa qualcuno."
L'arte della recitazione più difficile è quella della sottrazione [Laurence Olivier]: non è istrionismo, ammiccamento, fuochi d'artificio. È capacità di scomparire.

Fabrizio Falconi 2024

07/05/24

L'incredibile caso di due dei boia nazisti delle Fosse Ardeatine, che nel dopoguerra diventarono attori a Cinecittà, in un libro di Mario Tedeschini Lalli


Questo è un libro molto interessante.

Lo ha scritto Mario Tedeschini Lalli, giornalista romano e storico contemporaneista di formazione e racconta una storia veramente incredibile.
Nazisti a Cinecittà racconta dunque, la storia di Karl Hass e Borante Domizlaff, due ufficiali nazisti, che spararono alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944, sulle teste di innocenti, i quali, nel dopoguerra italiano, non solo rimasero sostanzialmente impuniti, ma finirono per lavorare nel cinema - Hass sotto falso nome, Domizlaff addirittura con il suo vero nome - come comparse e comprimari (con battute) in film importanti o importantissimi del cinema italiano come Una vita difficile di Dino Risi (1961) o La Caduta degli Dei di Luchino Visconti (1969) e in diversi altri film, quasi sempre impersonando se stessi, cioè crudeli nazisti all'opera.
Come ciò sia potuto accadere - e soprattutto rimanere sconosciuto a tutti - è per l'appunto oggetto del minuzioso lavoro di Tedeschini Lalli che per Nutrimenti ha messo insieme una lunghissima ricerca che in alcuni momenti assume i toni di una spy-story.
E in effetti Karl Hass, per esempio, riuscì per molti anni a vivere liberamente e in una certa agiatezza, sempre in Italia, grazie al lavoro di spia per gli americani e i servizi occidentali che lo utilizzavano per avere informazioni - da lui fornite col contagocce - riguardanti altri camerati cui si dava la caccia.
Ma ancora molto più importante che la protezione dei servizi stranieri, per Hass, Domizlaff e l'altro camerata nero Anton Bossi Fedrigotti, loro sodale, fu la rete messa in piedi dal neofascismo italiano post-liberazione e dagli ex repubblichini di Salò, ben organizzata, e con livelli di complicità nel mondo della destra cattolica romana, dei giornali, delle ambasciate, rete di cui Mina Magri Fanti era la coordinatrice e il generale Herbert Kappler - riuscito a fuggire dall'ospedale militare del Celio dentro una valigia - una specie di nume tutelare.
Ciò nonostante, come abbiano fatto registi come Luchino Visconti o Risi o sceneggiatori come Rodolfo Sonego, o attori come Alberto Sordi a non sapere che stavano recitando insieme a vere SS, a veri membri della Gestapo, impuniti per i loro crimini, e ben remunerati dalle case di produzioni cinematografiche resta un mistero, spiegabile in parte soltanto col clima disinvolto e iperproduttivo della Cinecittà di quegli anni, in cui anche i semplici controlli anagrafici (per le comparse ad esempio) erano quasi del tutto assenti.
Tra le pagine del saggio di Tedeschini Lalli riaffiorano tutti i fantasmi del neofascismo italiano del dopoguerra, tra cui quel Junio Valerio Borghese, autore del famoso tentativo di golpe militare da operetta, scoperto prima che fosse realmente tentato.
L'autore ha sentito personalmente tutti i testimoni ancora vivi, i figli, le mogli, i nipoti, ha setacciato gli archivi di stato e le pellicole incriminate, fotogramma per fotogramma, ricostruendo una storia destinata a restare nell'oblio.
Oblio che del resto Karl Hass, ad esempio avrebbe mantenuto con la tranquilla impunità - mai un moto di coscienza, se non di pentimento - fino alla fine, se il suo nome non fosse riemerso dal buio, subito dopo la cattura di Erich Priebke (anche lui ha vissuto a piede libero per decenni, continuando tranquillamente a viaggiare tra l'Argentina e l'Italia).
Il clamore intorno alla vicenda di Priebke portò a indagare su che fine avessero fatto i suoi colleghi ancora vivi. Fu così che si arrivò a Hass, il quale prima partecipò in aula come testimone, e poi si ritrovò sul banco degli imputati, condannato.
Ma era già troppo anziano per scontare una vera condanna: uscì dopo pochi anni e concluse tranquillamente la sua esistenza in una villa ai Castelli Romani, a 82 anni.
Insomma, questa potrebbe essere chiamata senza sbagliare, la "Zona d'interesse italiana" e bisogna ringraziare l'autore e l'editore per averla resa viva, perché qualcuno o tutti continuino a ricordarla.
N.B.: per la cronaca, sulla copertina del libro la foto della scena in cui Alberto Sordi ne "Una vita difficile" viene minacciato dal "vero" nazista Borante Domizlaff (uno degli assassini delle Fosse Ardeatine), comparsa e comprimario nel film.

Fabrizio Falconi - 2024

22/08/23

"Un Beau Matin" un film che fa bene al cuore (ma perché non si riesce a fare un film così in Italia?)


Vedo Un Bel Mattino (Un Beau Matin) su Mubi, uscito nel 2022 e mi chiedo perché sia inimmaginabile oggi un film così, fatto in Italia.
Lo firma una regista franco-danese (danese è la famiglia del padre), Mia Hanson Love, quarantenne, ex moglie di Olivier Assayas, già vincitrice con i suoi precedenti film, di molti premi in festival importanti, tra cui l'Orso d'Argento per la migliore regia alla Berlinale del 2021.
Un Bel Mattino è un film di bellezza disarmante, perché vero. Un film che parla della vita vera, con luminosità, dolore, intensità. La storia semplice e "ordinaria" (senza la minima ombra di retorica) di Sandra, giovane donna rimasta vedova troppo presto, con una figlia piccola, che deve affrontare la malattia del padre - professore di filosofia (come il vero padre di Mia), colpito da una grave malattia neurologica (Sindrome di Benson) e che nello stesso periodo, dopo lunghi anni di solitudine, vive una intensa storia d'amore con un uomo sposato e a sua volta padre di un bambino.
Tutti i tempi dell'amore e della passione, tutto il dolore per la malattia del padre, vivono e passano sul volto di Léa Seydoux, straordinaria attrice, che "vive" il ruolo di Sandra, più che interpretarlo. Con i silenzi, i gesti ordinari, le lacrime, i sorrisi, le fatiche, i dolori a tratti insostenibili.
C'è la lezione, modernizzata dei grandi maestri, c'è la poesia e la leggerezza di Truffaut, c'è lo scandaglio fotografico di Bergman.
E alla fine, quando questo film ti arriva al cuore con le sue immagini e il suo racconto coerente, apparentemente senza bisogno di altro, ti chiedi perché un film così oggi non possa essere fatto da noi.
E puoi darti una risposta tra una serie che provo a elencare in ordine sparso:
- perché in Italia non esiste una attrice come Léa Seydoux
- perché in Italia si "recita" e non si sa più essere, interpretando.
- perché il mondo borghese - o meglio, piccolo borghese, che è quello di quasi tutti - non sappiamo più raccontarlo.
- perché non sappiamo scrivere un copione così essenziale, funzionante, senza bisogno di trucchi o strizzate d'occhio allo spettatore
- perché la vita - come cantava Franco Battiato con Sgalambro - in Italia, è diventata una "parvenza di vita" o perché non è così e semplicemente è vita vera ma nessuno sa più raccontarla.
Non lo so, scegliete voi quale.
Nel frattempo fatevi un bel regalo, con Un Bel Mattino.

Fabrizio Falconi - 2023

11/07/23

Eco, Ottieri, Bompiani, Quasimodo: Tutti nella stessa scena, nel capolavoro di Antonioni, "La Notte" - 1961

In una delle prime scene de La Notte di Antonioni (1961) lo scrittore Giovanni Pontano/ Mastroianni va con la moglie Lidia/Jeanne Moreau alla presentazione del suo nuovo romanzo. Che si tiene nella sede di una grande casa editrice esplicitamente citata, ovvero la Bompiani.
Così nel film (e nel cocktail per l'autore) finiscono un ventinovenne Umberto Eco (a destra di Jeanne Moreau nella foto qui sotto), Ottiero Ottieri (che sceneggerà il film seguente di Antonioni, L'Eclisse) e poi lo stesso grande editore, Valentino Bompiani, che presenta e fa firmare una copia del suo libro al "famoso Premio Nobel" che non è esplicitamente citato, ma è ovviamente Salvatore Quasimodo (Premio Nobel per la Letteratura due anni prima, nel 1959).



Ora, fa una certa impressione vedere qui riunito in una piccola scena di un grande film un tale parterre de roi.

Viene da pensare che c'è stata un'epoca in cui in Italia la parola "intellettuale" era correttamente pronunciata: in fondo lo stesso Pontano (il cui cognome allude così esplicitamente al pantano esistenziale in cui sembra muoversi) è uno che tenta di vivere con il proprio lavoro intellettuale.

Oggi gli intellettuali sono più propriamente i milionari delle fazende multinazionali digitali, che prestano il loro intelletto - prosperando - alla invenzione di beni immateriali digitali sempre più pervasivi, confortevoli, ottimizzatori.
Gli intellettuali della parola o delle arti, invece, di questi tempi, se la passano male, e si attribuiscono questo titolo sovente coloro che hanno l'unico merito di godere dei favori e delle leggi del mercato dei consumi.



Ma Antonioni e i suoi film ricordano un'età dell'oro in cui la finzione e la realtà giocavano amabilmente: Ennio Flaiano e Tonino Guerra a quel cocktail avrebbero potuto tranquillamente partecipare, ma invece preferirono restare dietro e scrivere la sceneggiatura di quel magico film. A futura memoria, si direbbe.

Fabrizio Falconi - 2023

08/05/23

"Il Sol dell'Avvenire" - RECENSIONE - Moretti vive, Nanni non tanto


"Il sol dell'Avvenire" è un ritorno, o meglio un tentativo di ritorno - dopo film piuttosto convenzionali culminati nel brutto "Tre piani" - al Nanni delle origini e della prima maturità (per intenderci, fino ad Aprile compreso).

Moretti celebra il Nanni che fu, con tutti i suoi topos - la coperta patchwork, la fissa sulle scarpe, Battiato, il giro in monopattino (al posto dello scooter), i calci al pallone - ma sarebbe meglio dire che ne celebra le rovine. Perché - come avviene a tutti - anche Moretti è invecchiato, e quel Nanni che fu, non può più essere lui, ma solo una nostalgia di quello.
Detto questo, il film è efficace e ben scritto, ma è opera sostanzialmente di un lavoro a tavolino, con ben tre sceneggiatrici che si sono affiancate a Moretti per scrivere il copione, fin troppo didascalico, dialogato (con dialoghi che appunto sembrano scritti e letti, parola per parola, non naturali), soppesato.
Ciò che manca qui, come mancava molto più drasticamente nei precedenti film a questo - quelli del dopo "Aprile" - è la vera ispirazione, cioè la poesia.
Moretti la tenta, ma non c'è più lo scatto folgorante di Nanni, l'invenzione folle, c'è solo la ripetizione dei già conosciuti cliché, che vanno bene per il suo pubblico, che lo ama da sempre, e che se ne sente consolato e rassicurato (e in fondo anche lui).
Ci sono le strizzate ai francesi, che lo adorano - dal personaggio di Pierre, alla comparsa di Renzo Piano, che ai cugini d'oltralpe ha regalato il Beaubourg. C'è il pieno omaggio a Fellini (vero riferimento di Nanni dai tempi di Ecce Bombo), con un circo dove però nulla è realmente felliniano, ma solo imitazione del felliniano, e con la citazione esplicita del finale di La Dolce Vita e il meraviglioso primo piano finale di Valeria Ciangottini, che è uno dei momenti più felici del Sol dell'Avvenire.
C'è un film nel film - anzi tre - sui fatti d'Ungheria visti dall'Italia, ci sono i soliti Silvio Orlando e Margherita Buy, bravi ma convenzionali (la migliore è di gran lunga Barbora Bobulova). Ci sono i soliti "giovani" che vanno per conto loro, con la figlia improbabilissima innamorata del grande Jerzy Stuhr che fa la parte dell'ambasciatore polacco. Ci sono troppe canzoni che strizzano l'occhio allo spettatore. C'è la sequenza imbarazzante del cast e Moretti che cominciano a roteare per un'ora come i dervisci tourner. C'è l'immancabile crisi matrimoniale di Moretti, uno psicologo da barzelletta, un finale nostalgico girato ai Fori Imperiali (il film non deve essere costato poco) con elefanti veri e corteo dove ricompaiono molte delle figure di attori dei film del vecchio Nanni.
Tutto fatto bene, tutto che scorre (anche se a tratti devo dire purtroppo di essermi anche annoiato), ma senza mai spiccare veramente il volo.
Ci sono almeno un paio di scene molto belle dove per qualche secondo si scorge dietro questo bel vestito compunto, il vero vecchio Nanni: la prima, il piano sequenza al termine della bellissima tirata di Moretti contro la violenza gratuita nei film, ormai dilagante. La macchina da presa lascia sullo sfondo l'orrenda esecuzione con la pistola e Nanni si allontana lentamente sulla musica di Franco Piersanti; la seconda è il monologo "suggerito" da Nanni dal finestrino della macchina a una bravissima giovane attrice - Blu Yoshimi che ho scoperto essere figlia d'arte e sembra un reale talento - che sta lasciando il suo fidanzato.
Insomma, Moretti vive (Nanni no, o poco). Il voto è 6.5. E tutto il bene per Nanni-Moretti resta immutato.

Fabrizio Falconi

02/11/22

2 Novembre: La Lettera d'Amore a Mastroianni sulla sua tomba al Verano a Roma

 

La Tomba di Mastroianni al Verano fotografata qualche giorno fa /foto Rashide Andrade

Oggi, il giorno dei morti, vorrei ricordare il grande Marcello Mastroianni (1924-1996) sepolto al Cimitero Monumentale di Roma al Verano. 

Proprio qualche giorno fa, abbiamo realizzato questa foto e quella che segue: ci sono infatti morti che continuano a parlare e a ricevere messaggi anche molto tempo dopo la loro morte, per quello che hanno lasciato artisticamente certo, ma anche per la persona che sono stati. E' così bellissimo questo bigliettino lasciato da una ammiratrice che si definisce "giovane" e che si firma Claudia. Un semplice bigliettino con l'inchiostro scolorito dalla pioggia. 

La lettera lasciata da una ammiratrice sulla Tomba di Mastroianni al Verano/foto di Rashide Andrade

Si scopre, avvicinandosi, che il biglietto contiene nient'altro che alcune delle frasi più famose nella storia del cinema: quelle pronunciate da Marcello Mastroianni (Guido Anselmi) nel suo monologo contenuto nel capolavoro di Fellini, 8 e Mezzo e che rappresenta pienamente lo spirito del film. 

Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita, saresti capace? 

Qui sotto il video.

E un ricordo oggi, per tutti i nostri morti.

Fabrizio Falconi - 2022


Fabrizio Falconi


31/10/22

L'incredibile storia della "Colonnina telefonica" sulla Tomba di Roberto Rossellini al cimitero del Verano a Roma

La colonnina della T.E.T.I al Verano (foto Stefania Giudice) 

Una delle curiosità più particolari - e commoventi - del Cimitero Monumentale del Verano, dove riposa il meglio della cultura e dello spettacolo italiano degli ultimi 150 anni, è la cosiddetta "Colonnina della Teti, recentemente restaurata", che si trova proprio al fianco della tomba di famiglia dove è sepolto il grande Roberto Rossellini insieme ai suoi più stretti familiari.

La colonnina della Teti o meglio della T.E.T.I. (l'allora compagnia telefonica nazionale), come si legge nella targa apposta sotto il mandato del sindaco Marino, ricorda quanto accaduto nel 1946 quando "fu installata per consentire al regista Roberto Rossellini di seguire la lavorazione del film 'Germania anno zero' mentre con la moglie Marcella de Marchis vegliava sulla tomba del primogenito romano, morto all'età di 9 anni"

La tomba della famiglia Rossellini al Verano (foto Stefania Giudice) 

La vicenda della colonnina telefonica è iniziata nel 1946. Era l'anno di '"Paisa" e Roberto Rossellini si accingeva a girare "Germania anno zero" quando una banale appendicite si portò via il figlio, Romano, di 9 anni. 

Una tragedia che ha stravolse Rossellini e la moglie Marcella de Marchis e gli fece mettere le radici su quella piccola tomba, da dove non riusciva a staccarsi

Perchè l'esigenza vitale fu, per Roberto e Marcella, vivere fino in fondo e condividere il dolore vegliando sul figlio perduto. Ma c'era il film da portare avanti e gli obblighi, che la nuova pellicola imponeva, da onorare. Per potere comunicare con il produttore e gli sceneggiatori del nuovo film, Rossellini si fece allora installare una linea telefonica della teti di fronte alla tomba di famiglia

Il telefono non esiste più, ma quella colonnina in ghisa è ancora lì, al cimitero monumentale del Verano.

Dopo 68 anni, la colonnina fu restaurata e in quella occasione il figlio di Roberto, Renzo, disse: "Le opere di mio padre le divido in quelle prima della morte di romano e in quelle successive, dove c'è una spiritualità non presente in quelle precedenti. 'Germania anno zero' mio padre l'ha organizzato da qui. Dopo i bombardamenti di San Lorenzo qui molte tombe erano aperte e io passavo ore e ore a giocare con le ossa, creavo trombette, sono stato allevato nel lutto e nel dolore dei miei genitori. Negli anni passati ho fotografato la colonnina e la tomba e l'ho mandate a tutti i sindaci di Roma, ma solo grazie alla sensibilità di Marino questo oggetto è entrato nella storia" 

Una storia che Roma fa bene a non dimenticare. 




20/09/22

La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione

 


Uno dei più bei libri italiani che siano stati scritti sul tema della depressione - che non minor valore di "Un'oscurità trasparente" del grande William Styron - è a mio avviso Vedere l'erba dalla parte delle radici, scritto da Davide Lajolo nel 1977, vincitore in quell'anno del Premio Viareggio, il romanzo autobiografico nel quale Lajolo raccontava scene della sua vita come metodo terapeutico per combattere la depressione psichica che lo aveva fortemente invalidato dopo un attacco di cuore.  

E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra. 

Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.  

Le parole di Gassman furono forti e profonde,  in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva  –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.

Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò,  "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”


Fabrizio Falconi - 2022 

16/09/22

L'incidente in cui perse la vita Alessandro Momo, che sarebbe diventato un grande attore del cinema italiano

 



Morì a 17 anni Alessandro Momo, in un tragico incidente che a Roma ancora in pochi ricordano. Solo 17 anni, che gli erano bastati per essere una delle promesse più concrete del cinema italiano dell'epoca. 

Al momento della sua morte, avvenuta il 19 novembre del 1974, Alessandro si era imposto con un film di tale successo popolare che la sua carriera sembrava realmente destinata a non fermarsi più: in Malizia di Salvatore Samperi, nel 1973, Momo era il quattordicenne figlio del commendator La Brocca (Turi Ferro), quello che perde la testa dietro alla splendida governante interpretata da Laura Antonelli. 

Alessandro all'epoca è ancora minorenne e così non lo fanno entrare all'anteprima di gala del film, che infatti è rigorosamente vietato ai 18. Deve accontentarsi di posare per i fotografi, nella hall del cinema, dopodiché tornarsene a casa. Ma il suo è un ruolo così azzeccato che il pubblico lo adora da subito, al punto che la Antonelli e Momo ormai sono due nomi in ditta, reclutati nuovamente da Samperi per una sorta di sequel ideale di Malizia. Cioè Peccato veniale, in cui si ripetono le atmosfere sensuali rese morbose, nell'Italia pruriginosa di allora, dalla differenza d'età dei due attori. 

Poi, una partecipazione in un poliziesco (La polizia è al servizio del cittadino?) ed eccoci nel 1974, l'anno in cui Alessandro compie il salto di qualità: è lui, infatti, il giovane attendente che, in Profumo di Donna di Dino Risi, recita alla perfezione al fianco di un solenne Vittorio Gassman nel ruolo del capitano Fausto Consolo, cieco e autodistruttivo Coppia di personaggicreati dalla penna di Giovanni Arpino nel romanzo Il buio e il miele. 

Gassman e Momo furono talmente bravi che, vent'anni dopo, Al Pacino e Chris O'Donnell torneranno in quei ruoli in Scent of Woman, di Martin Brest. Un film per il quale Pacino vinse l'Oscar. In quello stesso ruolo che a Gassman aveva portato la Palma d'oro a Cannes, nel 1975. Quando Alessandro putroppo non c'era già più da tanto tempo.

Il racconto del fatale incidente che stronca la vita e la carriera di Momo nella cronaca del quotidiano Il Tempo di Roma, di venerdì 20 e sabato 21 novembre 1974:

«L'Honda si è piegata sul fianco sinistro e ha invaso la corsia opposta andandosi a fermare contro il marciapiede. Il ragazzo, intanto, è stato sbalzato con violenza sull'asfalto, per oltre 10 metri, e viene confermato che la BMW straniera condotta dalla signora Maria Gloria Schmidlin, proveniente dal Foro Italico non lo ha investito prendendo, al contrario, in pieno e con violenza la sola motocicletta. Alessandro Momo è stato soccorso dai Vigili del Fuoco accorsi dalla caserma di Piazza Bainsizza, e subito trasportato all'ospedale. Alessandro Momo, l'adolescente acerbo e tenebroso cinematograficamente sedotto da Laura Antonelli, è morto ieri pomeriggio, schiantandosi con la propria super-moto prima contro un taxi e, successivamente, cadendo sull'asfalto. Avrebbe compiuto diciott'anni martedì prossimo, essendo nato il 26 novembre 1956 (...) Continuano intanto le indagini per fare piena luce sul tragico incidente avvenuto pochi minuti prima delle ore 15 sul Lungotevere Cadorna, all'altezza dell'Ostello della Gioventù. Momo stava rientrando a casa a bordo della sua "Honda 750" targata Roma 31..., dopo aver seguito le lezioni nella scuola privata sulla via Olimpica, che frequentava da quando l'attività cinematografica gli aveva praticamente impedito di seguire un normale corso di studi. 

Il giovane proveniva da piazza Maresciallo Giardino a velocità piuttosto sostenuta quando si è trovato davanti un taxi 1100 condotto dal 34enne Alfio M. e targato Roma A75... È stato a quel punto che, dopo una brusca frenata, Momo ha urtato con violenza contro il manubrio e il serbatoio della sua moto. 

Immediatamente è stato soccorso all'ospedale Santo Spirito, dove i sanitari gli hanno riscontrato la frattura della quinta costola, un enfisema sottocutaneo all'emitorace sinistro, un ematoma orbitario sinistro, escoriazioni al parietale destro, ecchimosi alle labbra e al naso, una contusione all'ipocondrio sinistro, contusioni escoriate agli arti superiori ed inferiori, lo spappolamento della milza e la lacerazione dello stomaco. Lesioni mortali che, dunque, sarebbero state provocate dal tamponamento con il taxi e non, come era stato ipotizzato inizialmente, dall'urto con la BMW. 

Al momento del ricovero, Alessandro Momo era in preda ad una vivissimo stato di agitazione psico-motoria. Prima che venisse sottoposto all'intervento chirurgico con il quale si è inutilmente tentato di strapparlo alla morte, Alessandro ha scambiato qualche frase con il padre. L'agonia si è protratta fino alle 23 e cinque minuti, quando il suo respiro ha taciuto per sempre. L'altra mattina, sul luogo dell'incidente, erano rimasti alcuni frammenti di vetro, qualche cromatura e, appena visibili, i segni col gesso fatti dalla Polstrada per i rilevamenti. Nel punto dove la moto aveva concluso la sua folle impennata c'era un mazzo di rose rosse, depositato forse da un amico o da qualche ammiratrice.» 

La sua fidanzata dell'epoca era Eleonora Giorgi, che all'epoca era famosa quanto lui. Era stata proprio lei a prestargli quella super-moto.La moto, una Honda CB 750 Four, gli era stata prestata dalla sua collega e fidanzata, Eleonora Giorgi, partita per un viaggio. L'attrice fu successivamente indagata per incauto affidamento, poiché Alessandro non aveva ancora compiuto i 18 anni di età e non era abilitato alla guida di maximoto, secondo le normative vigenti all'epoca, che prevedevano ancora la maggiore età a ventuno anni. È sepolto nel cimitero del Verano, a Roma. 

Così la Giorgi ricordò Alessandro: 

"E' stato appena il mio secondo ragazzo, dopo una storia lunghissima con Gabriele, che durava da quando avevo 13 anni. Quando ci penso, all'educanda che ero, mi viene sempre da ridere... perchè dopo aver girato Appassionata (film ormai di culto, in cui una Giorgi in sexy-erba seduce il maturo Gabriele Ferzetti, ndA) io ero ormai diventata per tutti la Lolita del cinema italiano. Un'immagine inverosimile già all'epoca, per quanto era lontana dalla mia realtà di ragazza borghese, dei Parioli, che ancora stava coi suoi, figurarsi! Come Sandro, con la sola differenza che la sua famiglia abitava alla Farnesina. Con lui, eravamo due solitudini. La nostra intesa era questa. Andavamo alla deriva, come una zattera, ma col motore nucleare. Fortissimi. Sani. Famosi. Giovani da far paura. Belli da fare invidia. Insieme, anche di più, perché moltiplicavamo per dieci le nostre energie. Sempre al massimo. Dopo la morte di Sandro, uno scenografo amico nostro mi disse che era fatale, che a uno dei due doveva accadere. "Andavate troppo veloci, troppo forte, si sentiva che vi sarebbe successo qualcosa". Ricordo che ci presentò Rino Petrosino, il fotografo, ma di Sandro mi aveva già parlato un mio amico, il costumista di Malizia: "Siete identici, avete mille cose in comune... dovete assolutamente conoscervi!". Era vero. Tra noi fu un'intesa immediata. Non so, forse abbiamo fatto anche delle foto insieme... Mi ricordo che poi ci incontrammo di nuovo. In uno di quei negozietti di usato americano che a Roma, in quel periodo, erano al top... Tra i due, la più scapigliata ero certamente io, mentre lui aveva verso di me un atteggiamento molto protettivo. Per noi, l'importante era che avevamo trovato l'uno nell'altra il rapporto che ci era mancato: quello della complicità tra ragazzini. Io con la mia storia già serissima alle spalle, convivenza compresa, lui con un passato abbastanza simile (un lungo flirt con Gloria, una compagna di scuola, ndA). Ma soprattutto tutti e due, con la celebrità avuta così giovani, avevamo perso il rapporto con la nostra generazione, con i nostri coetanei. Ecco perché questa sensazione di uguaglianza, di riconoscersi identici fra tanti altri. 

Ma la vita di Alessandro finì troppo presto, la carriera era appena iniziata. La celebrità soltanto sfiorata. La vita breve, con i diciott'anni che avrebbe compiuto una settimana dopo l'incidente. 



24/06/22

Jean-Louis Trintignant e il più grande dolore di un padre


Il grande Jean-Louis Trintignant con quella faccia "un po' così", bella, mite e triste, c'era nato e forse rappresentava anche un destino.

Visto che al cinema gli sono toccati spesso ruoli drammatici, o drammaticissimi.

Ma anche nella vita, Trintignant non è stato fortunato.

Il più grande dolore del mondo, quello di perdere una figlia, infatti l'attore francese lo provò, e nel peggiore dei modi.

Nella notte tra il 26 e 27 luglio 2003, mentre si trovava a Vilnius, in Lituania, per le riprese di un film che la vedeva protagonista, Marie Trintignant, la splendida e talentuosa figlia dell'attore, venne percossa brutalmente al viso e alla testa nel corso di un violento litigio dal suo compagno Bertrand Cantat, voce e leader del gruppo rock francese Noir Désir, che era sotto l'effetto di alcool. L'attrice venne soccorsa solo l'indomani intorno alle 7,30. La violenza dei colpi le causò un grave edema cerebrale, che le causò prima il coma e poi la morte, avvenuta il 1º agosto, dopo due interventi chirurgici alla testa.

Il racconto di quella notte aggravò ulteriormente la posizione di Cantat. Nonostante Marie fosse svenuta sul letto - e probabilmente già in coma - il suo assassino chiamò il fratello di Marie soltanto dopo qualche ora. E quando arrivò, lo convinse che "Marie stava solo dormendo" e che "con una aspirina tutto sarebbe passato il giorno dopo." Furono così perse ore preziose che compromisero definitivamente le condizioni della donna e causarono la sua morte.
Cantat fu condannato da un tribunale lituano a otto anni e rilasciato in libertà condizionata, dopo essere stato estradato in Francia, nel 2007, dopo soli quattro anni di carcere.
Sette anni più tardi, la seconda moglie di Cantat morì impiccata, ma la Procura di Bordeaux stabilì il non luogo a procedere nel 2013.
Marie Trintignant è sepolta nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi.
Dal 2011 Cantat è un uomo totalmente libero. Dal 2013 ha fondato un nuovo gruppo, i Détroit. Il loro primo album Horizons esce il 18 novembre del 2013 e dal 2014 il gruppo dà inizio a una tournée in tutta la Francia.

Somma ingiustizia. Colpo dal quale Jean-Louis Trintignant non si riprese mai veramente.

- Fabrizio Falconi 2022

20/06/22

Italo Calvino e l'allergia di Fellini per gli intellettuali



Italo Calvino fu incredibilmente lucido nel descrivere l'allergia che Fellini nutriva per l'intellettualismo e gli intellettuali.

Scrive Calvino: "Del resto il suo (di Fellini ndr) anti-intellettualismo programmatico non è mai venuto meno: l'intellettuale è per Fellini sempre un disperato, che nel migliore dei casi si impicca come in 8 e 1/2 e quando gli scappa la mano come nella Dolce Vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti.
(La stessa scelta in Roma viene compiuta in epoca di stoicismo classico).
Nelle intenzioni dichiarate di Fellini, all'arida lucidità intellettuale raziocinante si contrappone una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell'universo: ma sul piano dei risultati, né l'uno né l'altro termine mi pare abbiano un risalto cinematografico abbastanza forte.
Resta invece come costante difesa dall'intellettualismo la natura sanguigna del suo istinto spettacolare, la truculenza elementare da carnevale e da fine del mondo che la sua Roma dell'antichità o dei nostri giorni immancabilmente evoca."
Leggendo queste parole, Calvino sembra quasi sentirsi un po' parte in causa, in prima fila nella schiera dei blasonatissimi (e a ragione) intellettuali. La distanza di Fellini dagli intellettuali italiani fu pagata dal regista riminese in termini di incomprensioni e qualche volta di aperta ostilità.
Quello che è difficile condividere è però il fatto che entrambi quei "termini", come scrive Calvino, non abbiano avuto in Fellini "un risalto cinematografico abbastanza forte".
La più grande eredità linguistica lasciata dal cinema di Fellini è infatti, indubitabilmente, quella del mistero, della fantasia magica, dell'imprevedibile, dell'irrazionale e del grottesco. Che sono sempre state e restano la cifra stilistica inimitabile di Fellini. Talmente "forti" da essere oggi universalmente riconosciute e da aver fatto entrare il regista riminese in quell'Olimpo ristretto o ristrettissimo, dei maggiori e più influenti (e moderni) registi della intera storia del cinema.

28/05/22

Quella volta che Gigi Proietti recitò insieme a Gassman in un film di Robert Altman

 


Ho sempre pensato che un attore come Gigi Proietti, sia stato largamente sottovalutato, soprattutto dal cinema. Le sue apparizioni sono state poche e sempre in prodotti di qualità media o bassa.

Hanno contato diversi fattori: il primo, quello generazionale. Se Proietti fosse nato vent'anni prima, sicuramente sarebbe diventato anche lui un "mattatore" della cosiddetta commedia all'italiana o del cinema neorealistico, come furono Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi. 

Il secondo fattore è stato quello della lingua: Proietti non parlava una parola di inglese, e questo sicuramente lo penalizzò, anche quando qualcuno, come vedremo, oltreoceano, si accorse del suo talento. 

Il terzo fattore era certamente la sua indole piuttosto pigra (da vero romano) e la ritrosia - autarchica - di staccarsi dal suo teatro e dagli spettacoli one-man-show nei quali poteva dare il meglio di se stesso. 

Una bellissima eccezione fu comunque il film "Un matrimonio", "A Wedding", diretto da Robert Altman nel 1978, in cui un giovane Proietti si ritrovò insieme all'amico complice, Vittorio Gassman, in un duetto tutto italiano. 

Fu lo stesso Proietti a raccontare parecchi anni più tardi quella strana esperienza.

«Il mio mio inglese era anche peggio di quello di adesso. E al cinema non avevo mai fatto granché. Quella mia partecipazione, una particina, rimane il mio più importante exploit su grande schermo». 

Autoironico come sempre, Gigi Proietti si prendeva in giro, diminuendo i suoi meriti, nell'evocare, durante quella intervista che gli fece Gianni Amelio, l'incontro con Robert Altman.

«È un film del 1978: puro medioevo», rincarava l'attore «È cominciato tutto per caso, quando Altman è venuto a Roma dove dirigevo il doppiaggio del suo film "Tre Donne". Con mia grande apprensione vi ha voluto assistere, ma poi mi ha invitato in trattoria dove mi ha chiesto che cosa ne pensassi. Mi dà l'impressione di un film sognato, era stata la mia risposta, di cui lui è stato molto contento, perché, mi ha poi spiegato, molti dei suoi film sono nati così: da un suo sogno». 

Ed ecco l' attore qualche mese dopo interpretare il fratello minore di Gassman a Milwaukee, sulle rive del Michigan («un mare più che un lago»), ultimo arrivato alla festa di nozze, sempre più lugubre, in cui il cineasta esercita con ferocia la critica impietosa della middle class Usa. 

«La mia fortuna è stata che Altman lasciava molta libertà d' improvvisazione, per me abituale in teatro. Tanto più che non ho mai visto la sceneggiatura, ma solo l' elenco dei vari "characters", tra cui il mio. Le battute ci venivano date giorno per giorno. Perciò il mio primo dialogo con Gassman è stato un guazzabuglio in italiano, poi rimasto tale e quale nel film: "E Angelina come sta? - L'ho messa incinta - Stai sempre a scopà...". E così di seguito». 

Girare con Altman ricorda a Proietti i primi film di Tinto Brass, tipo "Drop Out": «Tanta tanta improvvisazione». 

Ma il regista Usa curava al millimetro la tessitura musicale: «Sul set si circondava di musicisti. Anche in "A Wedding" la musica ha un' importanza fondamentale. Per questo il suono, che nel nostro cinema spesso lascia a desiderare, in lui comportava un' attenzione maniacale, al punto che nei totali faceva ripetere con i soli gesti la stessa scena dai personaggi, che potevano essere una cinquantina».




15/04/22

Quando "Ultimo Tango a Parigi" di Bertolucci finì al rogo, e come il regista riuscì a salvare dalle fiamme i negativi


Iscritto obtorto collo a Giurisprudenza (mio padre e mia madre erano operai e mio zio, il sapiente della famiglia non vedeva di buon grado la scelta di iscriveri a Lettere "vai a fare il professore a scuola?") sopravvissi 4 anni laureandomi in tempo, ma cercai anche di infilare lì dentro la mia passione per il cinema.

Così per la tesi scelsi come argomento la legittimità costituzionale della censura cinematografica, vexata quaestio in diritto costituzionale. La costituzione italiana non sancisce all'Art.21 la libertà di manifestazione del pensiero? Il comune senso del pudore può limitarla? Dove sta scritto? E in che modo? E chi lo decide?
Studiai per nove mesi ogni udienza del processo penale contro Ultimo Tango a Parigi (1972-1974) dove Bertolucci, Marlon Brando e Maria Schneider sedevano fisicamente sul banco degli imputati; processo terminato con la condanna alla "distruzione fisica" (esattamente al rogo) delle copie in pellicola del film.
Come è noto il film si salvò soltanto perché Bertolucci riuscì - nascondendole nel cofano della macchina - a trafugare 5 pizze - negativi - della pellicola, passando il confine svizzero.
La storia dell'istituto della censura cinematografica è molto interessante perché riassume in modo simbolico la storia del nostro paese nel novecento, dalla retorica fascista del ventennio e dalle censure politiche del Minculpop, al tetro moralismo democristiano, provinciale e bigotto, che considerava i cittadini italiani come bambini da preservare, soprattutto dagli imbarazzi del sesso.
A partire dagli anni '70 la storia dell'istituto divenne grottesca: mentre cominciavano a nascere le sale "a luci rosse", dove si vedevano tranquillamente hard movie, con riprese ravvicinate delle 87 posizioni del Kamasutra, venivano perseguitati i film dei nostri più importanti autori, da Bertolucci a Pasolini, da Fellini a Petri, tagliuzzando i loro film perché potessero ottenere il famoso "visto".
Un'altra bellissima storia si potrebbe costruire sulla composizione di queste famose "commissioni" di Censura cinematografica, formate da eterogenei e strampalati "esperti" che in cambio di gettoni di presenza decidevano per tutti gli italiani cosa poteva essere visto e cosa andava assolutamente proibito.
L'annuncio dato qualche anno fa dal ministro della cultura Franceschini della soppressione dell'istituto della censura è dunque risuonato fuori tempo massimo, anacronistico e piuttosto inutile. Ormai da almeno tre decenni la censura in Italia non contava più nulla, anche se sono restate sempre le famose "commissioni", più che altro per stabilire i divieti ai 14 e ai 18 anni.
Resta invece agli atti la storia ingloriosa di questo istituto che fece parecchi danni e che fece soffrire terribilmente molti autori del nostro cinema, nei suoi anni più felici e creativi.

Fabrizio Falconi - 2022