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24/05/24

I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma


I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati

La meravigliosa Basilica a pochi passi dal Pantheon è uno dei casi in cui il nome dell’edificio chiarisce da se stesso la sua origine, le sue fondamenta. La Chiesa di Santa Maria sopra Minerva è una delle più straordinarie di Roma.  Fondata nel secolo VIII sui resti di un tempio di Minerva Calcidica e rifatta in forme gotiche nel 1280, deve il suo fascino anche a questo: il sorgere sullo stesso luogo esatto dell'antico Tempio di Iside al Campo Marzio  (o Iseo Campense o Iseum et Serapeum) che i Romani avevano dedicato al culto delle due divinità orientali, Iside e Serapide e che nel corso dei secoli, dopo la caduta dell’impero, ha restituito preziosissimi reperti, in gran provenienti dall'Egitto e trasportati a Roma dopo che quella provincia fu acquisita da Augusto dopo la morte di Cleopatra imperatrice. Non solo: nella stessa zona dell’Iseo Campense, sorgeva anche il Tempio di Minerva Chalcidica, costruita dall’imperatore Domiziano, l’ultimo della dinastia Flavia, alla fine del I secolo d.C. L’appellativo di Chalcidica significava letteralmente “guardiana” o “portiera” e si riferiva al fatto che il tempio in onore della dea (chiamato anche in seguito Minerveum),  era stato costruito proprio di fronte al Porticus Divorum, la grande area porticata voluta dallo stesso Domiziano, dedicata al padre Vespasiano e al fratello Tito.

             L’esistenza di una chiesa cristiana, edificata sopra i resti di questi edifici è testimoniata già nel 700 d.C. ed era stata affidata alle suore basiliane provenienti da Costantinopoli, ma fu rifatta completamente in forme gotiche intorno al 1280 da architetti toscani, quando il possesso dell’oratorio era passato nelle meni dei frati domenicani. È dunque particolarmente importante in una città come Roma dove sono piuttosto rari gli esempi del puro gotico.

             Modificata poi con vari interventi nei secoli scorsi, la basilica è una delle più importanti di Roma per i tesori d'arte che contiene e per contenere le tombe della Santa patrona d’Italia, di quattro pontefici e di innumerevoli altre personalità.

             La splendida facciata – quasi minimalista – della chiesa, fu dovuta al conte Francesco Orsini che ne finanziò la costruzione nel 1453. Sopraggiunti problemi economici però, evidentemente, ne bloccarono il completamento ed essa rimase incompiuta fino al 1725, fino a quando non intervenne papa Benedetto XIII. La facciata resta ancora oggi semplicissima, nuda e disadorna abbellita però da due portali rinascimentali (i laterali) e uno ottecentesco (il centrale), sovrastati da tre rosoni. La facciata, nitida e bianca fa da sfondo alla piazza antistante, al centro della quale si erge il celebre Elefantino (o Pulcino) della Minerva, opera dello scultore Ercole Ferrata su progetto del Bernini, che sorregge uno dei tredici, vetusti obelischi originali egizi romani, il più piccolo di tutti (proveniente proprio dall’Iseum et Serapeum).

                L’interno della basilica è imponente, a tre navate, separate da massicci pilastri e offre al visitatore il colpo d’occhio di uno sterminato cielo stellato che fa pensare ai simili soffitti medievali a crociera della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o del duomo di Siena o di San Gimignano, ma invece è di fattura moderna: risale infatti al XIX secolo, quando si scelse una decorazione più in linea con le linee gotiche antiche dell’edificio. Nel pavimento sono invece incastonate moltissime e importanti iscrizioni e sepolture. Nelle due navate laterali si aprono invece diverse cappelle che contengono numerosi tesori. Cominciando dalla navata di destra, nel primo pilastro si ammira la tomba e il busto di Antonio Castalio, una delle più belle sculture del rinascimento romano. Più avanti, nella quinta cappella, la tomba seicentesca firmata dal Maderno, di Papa Urbano VII, il pontefice che detiene il record di minor durata del pontificato: soltanto tredici giorni in tutto, dal 15 al 27 settembre del 1590. Subito dopo la sua elezione, infatti, il papa fu colto da violente febbri malariche, che ne impedirono anche la cerimonia di incoronazione. Venne sepolto in San Pietro, ma fu poi trasferito qui per la sua generosità nei confronti della Arciconfraternita dell’Annunziata che si dedicava all’assistenza delle zitelle bisognose e che aveva sede vicino a Santa Maria sopra Minerva.  Sull’altare di questa cappella, una bellissima Annunciazione di Antoniazzo Romano, del 1460. Nella settima cappella, un affresco di Melozzo da Forlì – Cristo giudice tra due angeli - che adorna una delle tombe rinascimentali.

             Nella navata di sinistra, invece, la terza cappella conserva un piccolo olio su tavola, che dopo una dubbia attribuzione al Pinturicchio, è oggi unanimemente considerato opera di Pietro di Cristoforo Vannucci, più famoso con il nome di Perugino (1448-1523), il maestro di Raffaello. Perugino (o allievi della sua stretta scuola) lo realizzò negli anni successivi al 1479, quando fu chiamato da Papa Sisto IV per decorare l'abside della Cappella della Concezione nel coro della Basilica Vaticana. È un ritratto, quello del Salvatore del Perugino, estremamente affascinante. Per l'uso dei colori (il verde intenso del mantello sul rosso pompeiano della tunica), per l'effige del volto, in espressione dolcissima, con il capo debolmente reclinato sulla destra, il viso incorniciato dai capelli castani, le guance rosee, lo sguardo penetrante. Perugino usò la tecnica dello sguardo animato (comune ad altri celebri ritratti rinascimentali, tra cui La Gioconda): grazie ad un sapiente uso della prospettiva, lo sguardo del Cristo, infatti, sembra seguire quello dell'osservatore. Lo si sperimenta davanti al dipinto, spostandosi lentamente da destra verso sinistra e al contrario: lo sguardo del Cristo sembra continuare ad osservare direttamente negli occhi, colui che guarda.

               Passando ora al transetto, alla fine della navata di destra, eccoci davanti alla meravigliosa Cappella Carafa, uno dei capolavori assoluti del Quattrocento, con gli straordinari affreschi di Filippino Lippi, su commissione del cardinale Oliviero Carafa. Nelle quattro vele della volta, sono rappresentate quattro Sibille. Lo stemma al centro è quello della famiglia Carafa. La parete centrale inserisce all’interno della scena dell’Annunciazione la figura di san Tommaso che presenta alla Vergine Maria il cardinale Carafa, inginocchiato. Nella parte alta c’è l’Assunzione della Vergine e una corona di angeli che le danzano intorno, ciascuno con in mano uno strumento musicale diverso, un vero e proprio inventario di strumenti musicali dell’epoca. Nella parete destra, scene della vita di san Tommaso, mentre sulla lunetta, verso sinistra è raffigurato il miracolo del Crocifisso che parlando al Santo gli dice: “hai scritto bene di me Tommaso, che ricompensa vuoi?”. E sembra lui abbia risposto: “Nient’altro che te Signore”.  In basso, è raffigurato invece il Santo in cattedra che tiene in mano un libro con la scritta: "Sapientiam sapientum perdam", che significa "Distruggerò la sapienza del sapiente", frase tratta dagli scritti di san Paolo. Davanti a lui una figura con un volto inquietante, raffigurante il peccato con un cartiglio che dice "Sapientia vincit malitiam", "La sapienza vince la malizia”, chiara allusione alla spiritualità domenicana da sempre caratterizzata da una ricerca della Verità e una lotta al vizio e all’errore. Tommaso è circondato da quattro figure femminili che rappresentano la filosofia, la teologia, la dialettica e la grammatica. I molti personaggi in primo piano sono per lo più eretici (identificati anche da iscrizioni dorate sui loro indumenti), tra cui il profeta persiano Mani, fondatore del manicheismo , con un dito sulle labbra, Eutiche con un orecchino di perla, Sabellio, Ario e altri. I libri per terra sono quelli eretici, che stanno per essere bruciati. All’interno della Cappella anche la grande tomba di papa Paolo IV Carafa, opera di Pirro Ligorio.  

            Proseguendo a sinistra del presbiterio, una statua molto particolare: pochi sanno infatti che la basilica di Santa Maria sopra Minerva, oltre ai molti tesori custodisce anche un’opera di Michelangelo, il Cristo Portacroce, che fu realizzata tra il 1519 e il 1520 con l’intervento di allievi del maestro. Originariamente il Cristo era interamente nudo, cosa che ovviamente urtò la suscettibilità di qualche notabile o cardinale, che ordinò di ricoprirne i fianchi con una fascia di bronzo dorato. Con lo stesso metallo fu realizzata anche una calzatura per il piede destro, sporgente, proprio per prevenirne la consunzione ad opera dei fedeli, come è avvenuto per il piede della statua dell’Apostolo, in San Pietro.

            Al di sotto dell’altare maggiore, realizzato in stile neogotico, riposano i resti del corpo di Santa Caterina da Siena, contenuti in un sarcofago del Quattrocento. La Santa, patrona d’Italia e compatrona d’Europa morì a Roma il 29 aprile del 1380 e fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva. Il teschio e un dito sono invece conservati e venerati nella basilica di San Domenico, a Siena, città di nascita della Santa. Il sarcofago, che si vede attraverso i vetri, sotto l’altare è assai suggestivo, perché raffigura la santa, giacente.

            L’abside della Basilica conserva poi le tombe di due papi, opere di Antonio da Sangallo il giovane: Clemente VII e Leone X, entrambi appartenenti alla famiglia dei Medici. Sempre nel transetto sinistro, nel passaggio che viene comunemente usato per l’uscita secondaria dall’edificio, un’altra importante sepoltura: quella del Beato Angelico, al secolo Guido di Pietro. Il sommo pittore morì a Roma il 18 febbraio del 1455 e fu qui sepolto.  La lapide interrata mostra il rilievo del corpo del pittore con indosso l’abito domenicano, entro una nicchia rinascimentale e una iscrizione che recita: “Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell'Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. la città di Firenze dette a me, Giovanni, i natali.”

 

         Tornando a Santa Caterina, nella sagrestia della Basilica si venera il piccolo Oratorio di Santa Caterina, con la camera dove morì la Santa, ornata da affreschi del Quattrocento. Tra le molte altre sepolture, nella Basilica, ricordiamo quelle di altri due papi, oltre ai tre già citati: Urbano VII (morto nel 1590) e Benedetto XIII (1730); quella del poeta, umanista e cardinale Pietro Bembo, del vescovo Guglielmo Durand e dello scultore Andrea Bregno. Tra le molte vicende storiche di cui la Basilica fu testimone, vanno annoverati anche due conclavi, da cui uscirono eletti Eugenio IV nel 1431 e Nicolò V nel 1455. Quest’ultimo, come raccontano le cronache dell’epoca, “fu posto a sedere sopra l’altare maggiore della chiesa e vi ricevette l’obbedienza.”

           La Basilica, ogni 25 marzo ospitava la caratteristica cerimonia in occasione della festività dell’Annunziata, alla presenza del papa: si trattava dell’elargizione dei sussidi dotali alle zitelle che venivano prescelte tra tutti i rioni della città e che si riunivano nella piazza Santa Chiara, dov’era la sede della Arciconfraternita dell’Annunziata, fondata nel 1460. Da qui, le donne, a due a due, vestite di bianco (dovevano essere vergini e di buona reputazione) e con una candela in mano, procedevano in processione fino a Santa Maria sopra Minerva per assistere alla messa solenne, al termine della quale, ricevevano dalle mani del papa un sacchetto contenente la dote che variava da un minimo di trentacinque a un massimo di ottanta scudi, oltre alle vesti e a un fiorino per le scarpe.

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati




09/12/18

Il tunnel segreto del potere nelle viscere di Roma.




Per molti è soltanto una leggenda metropolitana, eppure sono tanti i riscontri che si sono susseguiti negli anni riguardo all’esistenza di una galleria lunga chilometri che collegherebbe tra di loro tutti i palazzi del potere di Roma, per finalità segrete

Non è un mistero del resto, che negli anni della guerra fredda si lavorò in diverse capitali europee alla realizzazione di bunker antiatomici, strutture sotterranee, a prova di interferenze dei controspionaggi dei paesi oltre la Cortina di Ferro. Ma a Roma non si è mai capito se sia stato realizzato un vero e proprio tunnel segreto oppure se a questo scopo sia stato sfruttato un collegamento tra i numerosi cunicoli preesistenti, medievali o paleocristiani che irrorano come un tessuto sanguigno gran parte del territorio dell’Urbe. 

Quel che è certo è che già all’epoca delle indagini a riguardo del cosiddetto Golpe Borghese, il tentativo di colpo di stato dei neofascisti che andò in scena nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, emerse negli atti di come gli aspiranti golpisti avessero sfruttato un tunnel, la cui apertura era situata nei dintorni di Montecitorio e che aveva permesso loro di raggiungere in breve tempo l’armeria sotterranea del Viminale, prima che arrivasse l’ordine da parte di Junio Valerio Borghese di sospendere le operazioni

Del misterioso tunnel si è tornato poi a parlare qualche anno più tardi proprio a seguito del rapimento di Aldo Moro. 

Nel punto infatti dove questo passaggio segreto intersecava la Via Cassia, il 16 marzo del 1978, giorno del blitz delle Brigate Rosse, furono notati, proprio da un’auto dei Carabinieri uscire da un cunicolo quattro uomini che indossavano divise dell’Aeronautica i quali sostenevano un quinto uomo, probabilmente ferito. Erano parte del commando che aveva agito in Via Fani ? Ma ancora, del tunnel fantasma non si seppe nulla, fino al settembre 1997 , quando dopo la notizia pubblicata da alcuni giornali secondo cui operai impegnati nel cantiere di scavo di un sottopasso tra la Via Trionfale e la via Pineta Sacchetti si erano imbattuti in un sottopasso e dopo averlo iniziato a percorrere s’erano trovati faccia a faccia con militari armati che gli avevano intimato di tornare indietro, si aprì addirittura una interrogazione parlamentare da parte dell’allora responsabile della sicurezza di Montecitorio Alfredo Biondi, insieme ad altri deputati.

In effetti la testimonianza – poi confutata – degli operai confermava il tracciato ipotizzato del tunnel, il quale si diceva collegasse il Forte Trionfale e il Forte Braschi, passando nei pressi del grande Policlinico Gemelli, e il Forte Boccea, per poi tagliare in due la città e raggiungere il Viminale, il Quirinale, Palazzo Chigi, Montecitorio e il Ministero della Marina. 

Il passaggio sotterraneo dunque avrebbe rappresentato una specie di via di fuga per gli esponenti politici di primo piano in caso di “eventi estremi” che avrebbe permesso loro di fuggire e trovare ricovero sicuro all’interno delle costruzioni militari. 

I bene informati sostenevano che il tunnel risalisse agli anni della guerra, e che fosse stato ristrutturato proprio durante gli anni ’60 e ’70 all’epoca della Guerra Fredda, e degli Anni di Piombo. Un’altra vulgata riguardante il misterioso cunicolo vuole invece che nuovi e più recenti lavori siano stati realizzati sul finire degli anni ’80 sfruttando i cantieri per la costruzione del famoso anello ferroviario promesso per i Mondiali di Italia ’90 e mai completato a Roma, con le stazioni di Vigna Clara e Farneto rimaste per sempre chiuse. 

Il tunnel sotterraneo dunque avrebbe sfruttato le nuove opere per integrare i collegamenti già esistenti e migliorarli, per un costo complessivo di centinaia di miliardi, diviso tra i diversi ministeri. Bufala o no che sia, oggi sono ancora in tanti, anche in ambito parlamentare a dirsi sicura dell’esistenza di questi camminamenti e bunker sotterranei la cui esistenza sarebbe dunque garantita e protetta dai servizi segreti e mantenuta segreta per ragioni militari.

01/08/17

Torna in Libreria "Misteri dei Rioni e Quartieri di Roma" di Fabrizio Falconi - L'introduzione.







Introduzione 


 Rione è ormai una parola consolidata, entrata nell’uso comune del linguaggio a Roma, anche se la modernizzazione della città l’ha sostituita negli ultimi anni, impropriamente, con la parola Quartiere. Il termine antico di Rione deriva – come è evidente dalla etimologia – dalla parola regione e rimanda immediatamente alle quattordici celebri regioni in cui era suddivisa Roma all’epoca di Augusto, tredici delle quali erano poste sulla sponda sinistra del Tevere (dove del resto la città era sorta) e una soltanto – Trastevere – sulla sponda destra.

Ma i Rioni che si sono poi consolidati nella storia cittadina hanno poco a che vedere con le regioni originarie di epoca imperiale. Se infatti esiste una certa continuità, fino al VII secolo, dopo la caduta dell’Impero, a partire dal 600 d.C., tutto cambia nella storia e anche nella topografia cittadina: Roma si svuota di popolazione – un crollo verticale – la città si cristianizza definitivamente con la trasformazione di quasi tutti gli edifici dell’età classica in luoghi cristiani, si assiste a un progressivo svuotamento del territorio urbano: le rovine della Roma di un tempo, cadute nell’oblio, vengono letteralmente ingoiate dalla campagna incolta, e dentro l’incredibile recinto murario costruito sotto Aureliano (diciotto chilometri di cinta fortificata per millequattrocento ettari di territorio !) si aprono enormi spazi vuoti, con nuclei abitati divisi tra di loro da considerevoli distanze, che rendono necessarie nuove fortificazioni parcellizzate – visto anche che la cinta muraria originale è ormai fatiscente e passibile di attacchi e invasioni – com’è il caso della cosiddetta Città Leonina, innalzata da Leone IV (847-855 d.C.), che creò una efficace protezione alla zona dell’ager vaticanus e della Basilica di San Pietro.

 Tra l’VIII e il IX si spezza dunque definitivamente quella continuità territoriale con la vecchia Roma imperiale: la Città viene ripensata secondo nuovi criteri, che sono fondamentalmente quelli cristiani, quelli che si ispirano all’uso che della città viene fatto dai molti pellegrini che da ogni parte d’Europa si mobilitano per venire a visitare i celebri Mirabilia Urbis – quel che ne resta – e i sepolcri dove sono conservate le ossa degli Apostoli del Cristianesimo in Occidente, Pietro e Paolo.

A partire dall’anno mille, la popolazione in città ricomincia a crescere, le zone abitate lentamente iniziano nuovamente ad espandersi. Ed è proprio in questo periodo che i romani ritornano ad usare il termine Regio – prodromo di quello di Rione – per indicare le zone abitate della città (ad esempio Regio que vocatur Clivus Argentarii, ovvero la zona sotto il Campidoglio, che oggi è identificabile con il Velabro e il cosiddetto Arco di Giano bifronte).

Regio o Rione iniziano ad essere usati indifferentemente per indicare alcune zone della città, per l’esattezza dodici (anche se nei documenti notarili dell’epoca si arriva a trenta) dei quali ignoriamo l’estensione e i confini precisi, anche se sappiamo che molto probabilmente non avevano nulla a che vedere né con le quattordici regioni augustee, né con le sette regioni ecclesiastiche del III secolo d.C. e nemmeno con le dodici regioni militari di età bizantina. 

All’inizio del milleduecento, in un codice viennese, repertorio dei Mirabilia Urbis, appare una lista di rioni romani, suddivisi in dodici principali e ventisei secondari; è soltanto una lista provvisoria che tenta di fotografare una realtà magmatica, in continuo movimento: il tessuto urbano di Roma, infatti, in questo periodo medievale, sta letteralmente rinascendo e riassestandosi sulle stesse modifiche geologiche intercorse in lunghi anni di abbandono, come ad esempio l’innalzamento del livello del calpestio stradale di diversi metri, in tutte le zone del centro.

Fino alla fine del 1500 il numero dei rioni rimarrà consolidato in tredici (dodici sulla sponda sinistra più Trastevere sulla sponda destra), ma nel Rinascimento, a partire dalla prima metà del Quattrocento, si assiste ad una profonda trasformazione del tessuto urbano di Roma, dovuto sostanzialmente a due fattori: l’incremento demografico, che rende sempre più densamente costruite le zone già abitate e l’interventismo dei pontefici che a partire da Papa Niccolò V (1447-1455) iniziano diversi interventi edilizi e viari, che modificano costantemente la topografia cittadina, ristabiliscono i confini, determinano nuove vie di collegamento e nuove suddivisioni.

La cittadella vaticana diventa la residenza dei papi, vengono restaurati gli antichi ponti (Milvio, Nomentano), risanati i vecchi acquedotti, ristrutturate e ripavimentate le piazze, aperte nuovi assi viari, iniziate nuove costruzioni negli spazi non edificati (ancora molto estesi) tra una contrada e l’altra all’interno del vecchio immenso recinto delle Mura Aureliane, facilitati i collegamenti tra una sponda e l’altra del fiume, si consolida l’esistenza e il nome dei più antichi rioni rivieraschi (Sant’Angelo, Ripa, Campitelli), crescono e si sviluppano i rioni interni, S.Eustachio, Parione, Ponte, Borgo, che diventa – quest’ultimo – non un vero e proprio rione a sé stante, ma un’entità territoriale a parte vista la sua vicinanza al nucleo Vaticano, vengono aperte nuove, fondamentali vie molto lunghe, che attraversano diversi rioni e li mettono in collegamento tra di loro: la Via Alessandrina, Via della Lungara e Via della Lungaretta, Via Giulia.

Questa grandiosa opera verrà poi completata principalmente sotto Sisto V (fautore del più grande e complesso progetto urbanistico della città, passato alla storia come Piano Sistino) e sotto i suoi successori, in secoli in cui – nel Cinquecento, Seicento e Settecento, Roma conoscerà i fasti di una rinascita archeologica, artistica e politica che la rimetteranno per molti versi, al centro del mondo.

Nel frattempo, all’interno dei rioni, che si vanno consolidando, si iniziano a stabilire anche le linee amministrative e gerarchiche: ad ogni rione è proposto infatti un caporione, contrassegnato dalle bandiere e dalle insegne rionali che porta e che per questo motivo è definito spesso anche banderese. Tra di essi, cioè tra i caporioni, comincia ad emergere la figura del Priore, che le normative comunali stabiliscono essere il caporione del rione Monti, il più vasto e popoloso della città.

Un potere – antesignano dei moderni municipi e del moderno ruolo di sindaco – che verrà guardato spesso con sospetto dalle autorità papali e apertamente combattuto per limitarne l’espansione, anche se il ruolo dei caporioni – dapprima eletti a sorte, poi nominati direttamente dal Papa – rimarrà a lungo, fino alla loro definitiva eliminazione da parte di Papa Pio VII (1800-1823).

Al termine di questa lunga cavalcata nei secoli e nella storia, il numero dei Rioni di Roma si stabilizzò, fino alla Unità d’Italia, nel numero di quattordici: il nucleo storico dei Rioni era dunque formato da Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio, Pigna, Campitelli, Sant’Angelo, Ripa, Trastevere e Borgo. Nel 1874, subito dopo la Presa di Roma, a questi si aggiunse l’Esquilino, il quindicesimo Rione, ritagliato da una parte del rione Monti, che per molto tempo era stato considerato un luogo miserando (o maledetto) per il fatto che nell’antichità fu adibito a sepolcreto per gli schiavi, le meretrici e i condannati a morte. Ma alla fine dell’Ottocento conobbe un rapido sviluppo e divenne il rione piemontese di Roma.

 Proseguendo nello sviluppo urbanistico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vi furono altre suddivisioni dei Rioni esistenti. Nacque il sedicesimo rione, Ludovisi, nato dallo smembramento della meravigliosa Villa Ludovisi, che per secoli aveva esteso i suoi rigogliosi giardini dentro il tracciato cittadino in una amplissima zona che lasciò così il posto ad un nuovo rione; il diciassettesimo, ovvero il Sallustiano, scaturito dallo sviluppo edilizio seguito alla breccia di Porta Pia, che riscrisse la topografia della zona; il Castro Pretorio, decretato dal Comune nel 1871 e urbanizzato in larghe zone dove erano esistite vigne e terreni coltivati; il Celio, nato nel 1872 dopo gli intensi interventi nella zona del Colosseo, in pieno centro archeologico, ritagliato nel rione Monti; il Testaccio, costruito tra il 1873 e il 1883 come quartiere operaio, primo industrializzato della Capitale d’Italia; il San Saba, nato nel 1906 e completato nel 1923 sugli sviluppi edilizi della piccola altura tra l’Aventino e Caracalla; e infine il Prati, l’ultimo arrivato dei Rioni, che prese il nome dai Prata Neronis, diventati nel Medioevo Prata Sancta Petri, istituito a partire dal piano regolatore del 1873 che gli attribuì la qualifica di Rione, non senza polemiche, visto che mancavano in questa zona monumenti importanti, Rione che viene impropriamente associato al confinante Della Vittoria, il quale invece è il quindicesimo quartiere di Roma (chiamato già Milvio, dal 1921 al 1935).

 Fin qui, succintamente, la storia dei Rioni di Roma. A partire invece da Novecento, ed in particolare dai primi sessant’anni di questo secolo, nasce la vicenda dei Quartieri e dei Suburbi della Città, che dopo l’unificazione d’Italia e l’industrializzazione, si popola velocemente al pari delle altre capitali europee fino a raggiungere la tentacolare espansione di oggi, con una popolazione ormai stimata tra i tre e i quattro milioni di abitanti (compreso l’hinterland).

La distinzione tra Rioni e Quartieri è più che altro di natura teorica, essendo i Quartieri tendenzialmente legati alle zone più esterne della città rispetto ai Rioni, anche se in gran parte legata – in fatto di storia e tradizione – a quelli, cioè ai Rioni di cui sono confinanti.

 La mappa dei Quartieri è presto saltata per via del rapidissimo processo di speculazione edilizia, che in particolare nel dopoguerra ha cambiato spesso i confini teorici dei quartieri con l’inglobamento di nuovi territori che una volta erano considerati Suburbi, cioè la vera e propria periferia della città.

 Il cemento ha invaso una gran parte della cosiddetta campagna romana, che per gli ultimi due millenni si era mantenuta quasi del tutto incontaminata, occupando l’Agro Romano e anche i cosiddetti Quartieri Marini. I quartieri tradizionali di Roma – Appio, Casilino, Tuscolano, Cassio, Flaminio, Salario, Aurelio, Portuense – prendono il nome dalle vie consolari aperte nell’antichità.

Ad essi se ne sono aggiunti altri, più recenti, come il Della Vittoria e il Trieste, legati ad avvenimenti della Prima Guerra Mondiale o come l’Eur, o Europa, in omaggio all’ideale europeo che diede vita al Mercato Economico nel 1957. Non tutti i Quartieri, che sono secondo un censimento completo, trentadue e non tutti i Suburbi, oltre ovviamente alle cinquantasei zone dell’Agro Romano e dei tre Quartieri Marini hanno trovato posto sulle pagine di questo testo.

L’intento di Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma è infatti principalmente quello di raccontare gli aspetti meno noti, caratteristici – misteriosi appunto – della città, localizzando i luoghi e quindi le storie ad esse collegate, nei diversi rioni e quartieri, esposti secondo l’ordine tradizionale, in base ad un criterio personale che per forza di cose ha dovuto operare una selezione nel vastissimo materiale possibile.

E’ pur vero infatti che Roma è una materia che non si finisce mai di studiare e di imparare. La sua storia, trimillenaria, non ha eguali al mondo. Ogni volta, Roma è rinata dalle sue ceneri e anche nei suoi periodi bui o di oblio ha continuato a produrre incredibili quantità di storie, di vita, di patrimonio culturale che solo in parte sono oggi memoria collettiva e che invece possono essere riscoperti da chi oggi vi abita e da chi ama questa città e vuole visitarla.

 Il lato misterioso e segreto di Roma è preponderante: come è noto, esso ha affascinato nei secoli le menti più illustri d’Europa e spesso – paradossalmente – meno chi vi risiedeva ed era abituato a convivervi, forse proprio per quella caratteristica antropologica che sembra appartenere ai romani da sempre, come notò e raccontò, tra gli altri, nei suoi diari Stendhal, quando arrivò nell’Urbe nel 1810. 

Proprio la forzata convivenza tra il mare di rovine di un’epoca grandiosa e irripetibile, durata un intero millennio e il succedersi di una storia più recente edificata sui dogmi della cristianità e sull’altro potere bi millenario del papato ha creato a Roma molto più che in ogni altra parte del mondo, la fioritura di leggende, di curiosità, di tradizioni, misteri e segreti, codici, intrighi molto ramificati e complessi, affondanti le radici nei primordi fondativi della città e giungenti fino ai giorni nostri, al Novecento e agli anni Duemila, di fronte ai quali la vecchia Roma si presenta con il suo bagaglio carico e forse perfino ingombrante a fare i conti con le sfide della modernità. Eppure conoscere Roma, e conoscere i misteri e i segreti di Roma, ci appare come l’unico e più prezioso viatico possibile, per affrontare queste sfide con la sicurezza di poterle vincere.

Fabrizio Falconi, tratto da: Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editori, Roma, Roma rist.2017. 

27/02/17

La terribile Mannaja Romana e il Carnevale Romano: Il Conte di Montecristo.


La mannaja romana e il Conte di Montecristo

L’invenzione di una macchina per la decapitazione, cioè del taglio della testa per i condannati dei reati più gravi, affonda nella notte dei tempi. Macchine simili alla ghigliottina erano già in uso in Gran Bretagna a partire dal 1300 d.C. e ben prima che il dottor Joseph-Ignace Guillotin mettesse la sua egida e il suo nome sulla macchina taglia-teste (fu introdotta con un progetto di legge in sei articoli all’Assemblea Nazionale il 9 ottobre del 1789 alla vigilia della Rivoluzione), pochi sanno che un efficace e macabro precursore della Ghigliottina francese era già usato a Roma, nella Roma papalina, da molto tempo, da almeno due secoli prima, da quando nel Cinquecento si dava la morte ai rei confessi e agli omicidi con la cosiddetta Mannaja romana il cui uso restò in vigore fino alla conquista della città da parte del Regno d’Italia, nel 1870.

Per molto tempo le esecuzioni a Roma furono organizzate proprio all’inizio del celebre Carnevale Romano, erano pubbliche – vi assisteva una grandissima folla – ed erano accompagnate spesso da torture, come quella della frusta: i ladri venivano caricati su somari, con le mani legate sulla schiena e un cartello appeso al collo che descriveva con minuzia il delitto commesso. Il macabro corteo attraversava le vie cittadine capeggiato da un subalterno del boia (in genere vestito con l’abito da Pulcinella) che conduceva il corteo, chiuso dal boia in persona, la faccia coperta da un cappuccio bianco. Al cosiddetto cavalletto, situato all’inizio della Via del Babuino, tra le urla di scherno della folla, il condannato veniva frustato a sangue con il nervo di bue.  Oppure, sempre a Via del Corso, all’angolo con Via della Frezza, nello slargo che viene chiamato Piazzetta della Corda, si praticava un'altra spaventosa tortura che era appunto quella della corda: il condannato veniva appeso ad una specie di carrucola e legato ad un’asta per i piedi, e quindi veniva sollevato e tirato per l’alto finché non si arrivava a slogargli del tutto le giunture. Ma era nell’anfiteatro classico di Piazza del Popolo che si celebrava invece il rito più cruento, quello riservato ai delitti più gravi: la decapitazione.
Della Mannaja e del suo funzionamento si ha una fedele e accurata descrizione nel celebre capolavoro di Dumas, Il Conte di Montecristo, che il romanziere ambientò tra Italia e Francia tra il 1815 e il 1838.

A Roma Dumas era giunto una prima volta nell’estate del 1835 e qui era rimasto per tre settimane, prendendo affitto nell’Hotel de Londres, una locanda famosa in quei tempi, in Piazza di Spagna, che il romanziere trovò il modo di riprodurre fedelmente nel suo romanzo, compreso l’eccentrico proprietario Pastrini, che finì anche lui nel libro come personaggio di contorno, tenutario dello stesso albergo nel quale Dumas fece scendere i principali protagonisti della storia, in visita a Roma. 
A Roma Dumas si fermò anche sei mesi più tardi, nel viaggio di ritorno, quando conobbe la nobildonna Teresa Guiccioli (che era stata l’amante di Byron), di cui si innamorò. Le circostanze dei due soggiorni offrirono al romanziere la possibilità di documentarsi con esattezza sui luoghi e sulle usanze romane, specialmente quelle del grandioso carnevale e delle brutali esecuzioni che avvenivano nella Capitale.
Nella celebre scena del carnevale romano, nel Montecristo, a Franz d’Epinay, in compagnia del Conte, capita di assistere ad una cruenta decapitazione in Piazza del Popolo.  Dumas, che era sempre scrupoloso nelle sue ricostruzioni attinse a testimonianze dirette. Il passo in questione recita:

Franz non intese che imperfettamente le parole del conte, e forse non apprezzò al giusto valore questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua attenzione era rivolta allo spettacolo che rappresentava la piazza del Popolo ed allo strumento terribile che ne formava in quell'ora il principale ornamento. Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la falce romana è presso a poco della stessa forma del nostro strumento di morte. La falce ha la forma di una mezza luna, taglia dalla parte convessa cade da minore altezza: ecco tutta la diversità! Due uomini, seduti sulla tavola ad altalena, dove viene steso il condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz, del pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l'asse, e ne estrasse un fiasco di vino, ne bevve e passo il fiasco al suo compagno: erano gli aiutanti del carnefice!
A questa sola vista, Franz aveva sentito venirgli il sudore fino alla radice dei capelli. I condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle carceri nuove alla chiesa di Santa Maria del Popolo, ed avevano passata tutta la notte assistiti ciascuno da due preti in una cappella chiusa da un cancello, davanti al quale passeggiavano le sentinelle cambiate d'ora in ora. Una doppia fila di gendarmi posti da ciascun lato della chiesa si estendeva fino al patibolo, intorno al quale formava un circolo di dieci piedi di spazio fra la ghigliottina ed il popolo. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d'uomini e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad aver la testa al di sopra delle altre... Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è di più curioso nella vita è lo spettacolo della morte.

L’evidenza che la mannaja romana cioè un prototipo della ghigliottina fosse usata a Roma da molto tempo, e anche alcuni secoli prima della decapitazione raccontata da Dumas, c’è nel resoconto della esecuzione pubblica forse più famosa che si sia mai svolta nella Capitale, quella di Beatrice Cenci, accusata di parricidio, e della sua matrigna Lucrezia Petroni, decapitate nella piazza antistante il Castel Sant’Angelo l’11 settembre del 1599.  Nella relazione del supplizio della Cenci si legge che Lucrezia – la prima ad essere giustiziata – anche a causa della sua mole, della sua corporatura, faticò non poco a cavalcare la tavoletta del ceppo – come gli comandò il boia - e accomodarsi con il corpo sotto la mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era capace per l’appoggio delle mammelle. E quando toccò a Beatrice, essa cavalcò senza indugi la tavola e pose il collo sotto la mannaia, affrettando questo suo ultimo atto, circostanza che causò la tardanza del colpo.  E se il colpo non poteva affrettarsi come aveva fatto la condannata, è chiaro che questo non poteva venire dal braccio del boia, ma dal congegno di una macchina, la mannaja romana, per l’appunto, predisposta per fare giustizia dei condannati con la freddezza chirurgica del taglio della testa.


Al supplizio di Beatrice fra l’altro, si ispirò direttamente proprio Alexandre Dumas che alla celebre donzella romana e alla sua sfortunata vicenda umana dedicò una serie di racconti: Les crimes celebres: Les Borgia; La marquise de Ganges; Les Cenci.

tratto da: 


22/09/14

Lo spaventoso "Pozzo del Merro", alle porte di Roma, l'abisso più profondo del mondo.





Tra le storie di fantasmi contemporanei a Roma ci sono quelle che riguardano le incredibili cavità sotterranee che soggiacciono non solo al territorio urbano, ma anche a quello immediatamente extra-urbano. 

Si tratta di luoghi spaventosi e affascinanti, come il Pozzo del Merro, un pozzo naturale noto sin dai tempi della Roma Antica, simile per morfologia ai cenotes messicani, sito nella campagna del Lazio, nel comune di Sant'Angelo Romano.

In mezzo ad una fitta vegetazione compare quasi dal nulla questa cavità che si presenta come un cratere, sul fondo del quale la proliferazione di alghe superficiali nasconde l’esistenza di un laghetto. 

La particolarità, davvero incredibile è che, si tratta realmente di un pozzo senza fondo: le più recenti esplorazioni, dapprima da parte di speleologi subacquei (che ha permesso il recupero di reperti risalenti al Giurassico), poi con l’ausilio di sofisticati robot, ha stabilito che la profondità del Pozzo del Merro eguaglia e supera l’equivalente dell’altezza della Torre Eiffel: le rivelazioni compiute dai tecnici dell'Università di Tor Vergata, infatti, parlano di circa 400 metri (392 metri per l’esattezza), che è il limite massimo a cui le misurazioni sono giunte, il che ne fa la cavità naturale più profonda del mondo.

Il fondo, però, sottolineano gli esperti, non è stato ancora raggiunto. Ovvio che un luogo così affascini geologi e speleologi di mezzo mondo, e i naturalisti che hanno l’occasione di scoprire e analizzare le forme di vita che riescono a vivere a profondità così assolute.

Di cavità così, anche se non con profondità record come quella del Merro, ne esistono molte a Roma.

Una delle più famose, nel tessuto urbano, è il cosiddetto Abisso Charlie, scoperto dallo speleologo Carlo Pavia nel 1992 (2), che si trova al di sotto della collinetta tufacea di Villa Glori, dove esiste un grande pozzo nel quale gli antichi romani gettavano degli ex voto, dal cui stretto ingresso nascosto tra le sterpaglie vicino ai resti di un tempio si accede ad una cavità, per gran parte occupata da acqua, che scende fino a 50 metri e oltre di profondità.

L’esistenza di questi cenotes romani ha partorito o giustificato la presenza di numerosi racconti di fantasmi fioriti intorno al mito di luoghi che sembrerebbero mettere in comunicazione direttamente con il mondo dei morti o degli inferes.   





Fabrizio Falconi  (C) - riproduzione riservata - materiale  tratto da I Fantasmi di Roma. 

01/12/13

Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma - dal 5 dicembre in libreria.






Dal 5 dicembre sarà in libreria Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, che ho scritto per l'editore Newton Compton.  

Si tratta di un volume (416 pagine) nel quale ho raccontato le storie poco conosciute su molti luoghi di Roma, frutto del mio lavoro personale di ricerca degli ultimi anni (parte di questo materiale è il frutto degli articoli pubblicati nel tempo su questo e su altri blog). 

Qui sotto trovate l'indice dei luoghi che ho trattato nel libro, nella divisione per gli antichi ventidue rioni di Roma e dei quartieri periferici. 


I – Monti

1. Il sacello della Papessa Giovanna
2. L’antichissimo ritratto del Salvatore nel mosaico della Basilica di San Giovanni in Laterano.
3. Villa Aldobrandini, la Villa nascosta e il dipinto più bello del mondo
4. Il Quadrato Magico e il palindromo nei sotterranei di Santa Maria Maggiore.
5. L’immagine acheropita conservata nel Sancta Sanctorum della Scala Santa al Laterano e il Velo di Camulia.
6. La Torre delle Milizie, la più alta di Roma.
7. La Chiesa dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, e i Papi morti di morte violenta.

II- Trevi

1. La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Lorenzo.
2. La strana storia del Vicolo Scannabecchi
3. Il palazzo Mengarini al Quirinale e la leggenda dell’avvocato Agnelli
4. La  basilica dei Santi Apostoli, le reliquie di Filippo e Giacomo, le più sicure della cristianità.
5. L’Asso di coppe nella Fontana di Trevi.
6. Il palazzo Maccarani – Brazzà, dove nacque il più grande esploratore italiano.
7. Palazzo Barberini e il prodigio del sole nell’uovo.

08/06/13

La Mole Antonelliana e la pazzia di Nietzsche.




Nell'ultimo libro che ho scritto, Monumenti Esoterici d'Italia, mi sono occupato, tra i 30 luoghi, anche della splendida Mole Antonelliana di Torino, monumento al quale sono attribuite misteriose proprietà. 

Ne era convinto lo stesso Friedrich Nietzsche che – come racconta il suo biografo Anacleto Verrocchia – negli anni della sua permanenza a Torino, dal 1888, amava pranzare nei dintorni della Mole, per goderne quelli che lui chiamava benefici influssi. 

Nella Mole, Nietzsche, a quanto pare, vedeva l’immagine stessa, simbolica, della personalità dello Zarathustra, scritto qualche anno prima. 

In una sua lettera, scritta da Torino, dice di averla ribattezzata Ecce Homo, come il libro che stava scrivendo in quel periodo, e di averla circondata nello spirito con un immenso spazio.  

E fa davvero impressione considerare che proprio a Torino, mentre si trovava a passeggiare a Piazza Carignano, distante appena un chilometro dalla Mole, il filosofo fu colto da quello spaventoso attacco inconsulto che lo portò rapidamente alla follia: nei pressi della sua casa torinese, scorgendo il cavallo di una carrozza che veniva fustigato a sangue dal cocchiere, abbracciò l'animale e pianse, baciandolo, stramazzando poi a terra urlando in preda a spasmi. 


Fu l’inizio di quella lunga malattia mentale – durata 12 anni – che colpì una delle menti più geniali e straordinarie del nostro tempo, e sulla cui autentica natura ancora oggi molto si discute. 

Nietzsche, che con i tratti di un vero profeta, nei suoi scritti vaticinava una forma di follia volontaria come anticamera verso una ascesi superiore, aveva dunque raggiunto alterati e più profondi e interiori stati di coscienza ? 

E nel raggiungimento di questa misteriosa diversa elevazione aveva avuto rilievo anche quella poderosa antenna sotto la quale amava passeggiare ? 

E’ una ipotesi che certamente, per molti cultori dell’esoterico, resta piuttosto affascinante.

Fabrizio Falconi   ©  tratto da Monumenti Esoterici d'Italia, Newton Compton editori, 2013.