31/10/13
L'esistenza (Bugge Wesseltoft).
A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono.
Simone Weil
30/10/13
Goffredo Parise: "Gli italiani non hanno mai amato l'idea dello Stato, è estranea al loro cuore e al loro cervello."
«La mia ragione e il mio sentimento sono condotti da un'idea estremamente elementare: l'enorme difficoltà di molti italiani a concepire non soltanto l'idea dello Stato ma soprattutto l'idea della democrazia».
Così scriveva Goffredo Parise nella rubrica di corrispondenza con i lettori del Corriere della Sera tenuta tra il 1974 e il 1975. Alcune di quelle risposte sono raccolte da Adelphi in Dobbiamo disobbedire (76 pagine, 7 euro a cura e con una postfazione di Silvio Perrella).
Negli anni in cui con i Sillabari, Parise aveva deciso di tornare ai sentimenti primari e a una scrittura quasi trasparente nella sua limpidezza, anche il suo sentimento civico si volgeva ai "fondamentali". Con la sensibilità rabdomantica del grande artista percepiva esattamente cosa stava cambiando e cosa permaneva nello spirito degli italiani. Individuando quelle costanti di fondo che restano vere ancora oggi.
«L'Italia non vuole più essere l'Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere "paesani", "paisà", perché l'unità d'Italia, che del resto non c¿è mai stata, oggi c'è meno che mai. Oggi l'Italia è spezzata non in staterelli, ma in "lotti", in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico.
Per gli italiani di oggi, non di ieri, l'Italia è il "lotto", il proprio terreno, la propria villetta, il proprio "bicamere e servizi", costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l'illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell'assenza non soltanto dello Stato ma dell'idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono».
29/10/13
The Circle Game - il Gioco della vita.
E' secondo me una delle più belle canzone che siano mai state scritte. Anche da un punto strettamente letterario. Joni Mitchell la scrisse nel 1968 per Tom Rush, e solo successivamente la inserì nel suo album Ladies of the Canion (1970). Questa versione, invece, arrangiata per l'orchestra (e con il tenor sax del grandioso Wayne Shorter è tratta da Travelogue, album del 2002.
E' una canzone misteriosa. Dall'incedere sinuoso, che cattura ipnoticamente. C'è dentro l'intero senso della vita. Sul passaggio del tempo, delle stagioni, sul nostro essere qui, incantati e soggiogati da un enigma molto più grande della nostra biologia. E' un viaggio che non stanca e non riposa. E' la nostra avventura, il nostro gioco del cerchio.
Yesterday a child came out to wonder,
Caught a dragonfly inside a jar. Fearful when the sky is full of thunder, And tearful at the falling of a star. |
28/10/13
Il distacco (e il Senso).
Ieri sera ho sentito in televisione Eugenio Scalfari, che ormai da parecchio tempo, ama rivestire i panni del teologo (disquisisce di questioni cattoliche con la competenza di un vescovo), parlare della morte e del senso della vita. Senza molti problemi ha affermato che "il senso della vita è la vita". E che l'unica difficoltà, in fondo, è il distacco.
Anni fa ho letto uno straordinario libretto di Michel Serres, intitolato Distacco.
Cosa è esattamente il distacco ? E perché le diverse tradizioni mistiche fanno riferimento a questo ?
Il termine mistico deriva dal greco myo. Che significa letteralmente chiudere (le labbra, gli occhi, lo stesso chiudersi, ad esempio, delle ferite).
Dalla stessa radice my , d’altronde, provengono sia il greco mysterion , sia il latino mutus.
La mistica nasce dunque dalla necessità – per l’uomo – di convivere con il chiudere, cioè con il finire, che è connaturale alla vita stessa.
La cosa più difficile per un uomo, per ogni uomo è accettare il distacco.
Il distacco che è al termine di ogni vita. Distacco dalle cose che abbiamo amato su questa terra: beni, cose, immagini, ma soprattutto persone amate, sentimenti, emozioni, ricordi.
Le religioni propongono approcci diversi per governare questo distacco, che all’uomo risulta doloroso, inaccettabile: una specie di dittatura della morte, che porta a privarsi di tutto ciò che si è sperimentato in vita.
Se l’uomo religioso, soprattutto in ambito cristiano, tenta di abbandonarsi al distacco rispetto al mondo, al fine di giungere a un rapporto più puro con quel Dio con il quale, in realtà, egli si sente o si vuol sentire già in rapporto, il buddhista, invece, si distacca dalle cose, dalla sfera dell’apparenza, per trovare il vero sé: per giungere, in altre parole, all’illuminazione.
In un certo senso, il buddhista si esercita – nella vita – si prepara al grande distacco della morte, sperimentandolo qui in vita.
Ma anche molte delle parole pronunciate da Cristo nei Vangeli spingono assai chiaramente nella direzione del non attaccamento:
In verità, in verità vi dico: Se il grano di frumento caduto per terra non muore esso resta solo. Ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. (Gv,12,24)
Più esplicito (o più duro) di così..
Tutto quello che passiamo in questa vita (anche il sorriso dei nostri figli, anche i nostri amori, le nostre albe, e i nostri tramonti) dovrebbe dunque avere una prospettiva diversa da quella che noi immaginiamo qui.
Che non può essere goduta appieno, se non distaccandosene.
27/10/13
La poesia della domenica - "Da questo luogo ho preso spesso congedo" di Henrik Nordbrandt
Da questo luogo ho preso spesso congedo.
A questo luogo sono spesso tornato.
Qui si vede il buio accendendo la lampada.
Qui il vento e il dolore sono ugualmente alti.
Qui sento il peso della terra che ho spostato
e vedo l'ombra della terra nel cielo di tarda estate.
Con questo luogo condivido alcuni nomi:
una selva di bambù, una danza di lucciole, la morte e l'alba.
Le mie labbra ripetono mute le parole che ha plasmato
e che hanno plasmato le mie labbra.
Da questo luogo ho preso spesso congedo.
Henrik Nordbrandt, da Il nostro amore è come Bisanzio, a cura di Bruno Berni, Donzelli, 2000.
26/10/13
Il declino culturale in Italia. L'eloquenza dei numeri.
Parliamo spesso di declino, in Italia.
Credo che, senza nessuna nota apocalittica, ma con semplice realismo, molto si può dedurre da questi semplici numeri che riporto.
Copie di libri stampate in Italia per abitante ogni anno: 3.5
Percentuale di italiani che in un anno ha letto almeno un libro: 46%.
Dal raffronto di questi due numeri è piuttosto semplice concludere che quasi DUE copie di libri per ogni abitante che vengono stampate in Italia (ovvero 120.000 MILIONI DI COPIE DI LIBRI = 2 libri per abitante x 60 milioni di abitanti), NON vengono lette da nessuno.
Il secondo dato riguarda la percentuale dei laureati sul totale della popolazione (compresa tra 25 e 64 anni nell'anno 2O11):
Regno Unito 37%.
Belgio 34.6%.
Spagna 31.6%.
Francia 29.8%.
Germania 27.6%.
Grecia 25.4%.
Slovenia 25.1%.
Italia: 14.9%.
Credo che non ci sia bisogno di aggiungere altro, se non ricordarsi del famoso adagio che recita: più un popolo è privo di conoscenza, più è facile controllarlo.
Fabrizio Falconi
25/10/13
'Il giorno più bello per incontrarti" di Fabrizio Falconi - L'e-book e la storia del libro.
Da poco tempo è disponibile on line la versione e-book de Il giorno più bello per incontrarti. (scaricabile su Kindle)
Ho scritto questo romanzo nel 2000 (pubblicato con l'editore Fazi), dopo che per la radio mi ero interessato della storia di un ragazzo veneto - si chiamava Tiziano - il quale, sofferente per disturbi della personalità - s'era più volte allontanato da casa e alla fine era stato creduto morto. Abitava infatti con la sua famiglia, poverissima, sull'isola di Pellestrina, nella laguna veneta. Un giorno, dopo molte settimane che Tiziano era sparito nel nulla, la risacca portò sulla riva dell'isolotto un corpo in decomposizione. L'autopsia, frettolosamente concluse che si trattava del ragazzo e furono celebrati i funerali.
Ben cinque anni più tardi, però, la madre di Tiziano ricevette una cartolina da un ospedale di Padova, dove il figlio risultava ricoverato.
Si scoprì così che il ragazzo si era allontanato e in stato di confusione mentale aveva vagato per lunghi mesi nell'entroterra veneto, fino ad essere accolto nell'istituto di salute mentale.
La madre recuperò il figlio risorto, lo riportò a Pellestrina, ma senza restituirlo alla vita. Tiziano si ammalò gravemente, rifiutando il cibo e morendo pochi mesi dopo.
La madre recuperò il figlio risorto, lo riportò a Pellestrina, ma senza restituirlo alla vita. Tiziano si ammalò gravemente, rifiutando il cibo e morendo pochi mesi dopo.
Questa tragica storia ispirò il libro. Il vagabondo diventò il padre di Giovanni, il protagonista del libro.
Per tutto il tempo nel quale scrissi il romanzo e anche dopo, non pensai mai a Il fu Mattia Pascal, che pure avevo letto molti anni prima. E fu il mio amico Robert P. Harrison, quando lesse il libro, a sottolinearmene la vicinanza di temi e di storia.
Anche il titolo del romanzo ha una radice molto personale: è una frase, l'ultima, pronunciata da mio padre, prima di morire. Ed è veramente singolare che in sede di editing finale, questa frase finì per essere prescelta come titolo ideale del romanzo (in effetti lo era).
Come sempre finzione e realtà hanno scelto un modo (e moto) proprio per dialogare nella forma di questa storia, che ad un certo punto della mia vicenda, ha chiesto di essere raccontata.
(Versione e-book scaricabile QUI)
24/10/13
Racconto italiano di un paese che muore. Una lettera a Roberto Napoletano de Il Sole 24 ore.
Credo che in questa lettera pubblicata domenica scorsa sul Supplemento del Sole 24 ore e indirizzata al direttore Roberto Napoletano, vi sia più di un motivo per riflettere sullo stato delle cose nel nostro paese, e sulla radice di molti dei mali che ci paralizzano. Purtroppo non sono riuscito a trovare una versione trascrivibile del testo della lettera, e ve la propongo nella versione jpeg. Si può scaricare la foto e ingrandirla, se si hanno difficoltà.
23/10/13
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)
Sul
tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda
Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai
giunto al termine della sua vita - e
quello divino del Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista,
che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come
scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.
Sono anche le considerazioni che
concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il
suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (20) . Nelle
ultime pagine di Scolpire il Tempo,
scrive:
Il
nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il
pragmatismo. Il nostro mondo umano è
costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha
costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non
crede nello Spirito e rifiuta Dio.
C’è una speranza che l’uomo sopravviva,
nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza
dei fatti ? La risposta a questo
interrogativo, forse, è contenuta
nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi
vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia
artistica (21).
Un
monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e
innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di
quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella
forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo:
una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma
questo è forse un miracolo ? E’ soltanto
la verità. (22)
Non ci sono forse parole migliori di
queste per raccontare cosa sono state la vita e il percorso artistico di
Tarkovskij. Il miracolo della pienezza
espressiva, creativa dei suoi film è sotto gli occhi di vecchie e nuove
generazioni. Il suo cinema è senza tempo, come la bellezza è senza tempo.
La fiducia, la fede nella vita – e nel
suo ispiratore – pur nelle traversie di una esistenza obiettivamente molto
difficile, a tratti penosa, hanno compiuto questo miracolo.
Forse meglio di ogni altro, Tarkovskij è
stato colui che con la sua arte – ma anche con il resoconto della sua vita – è
riuscito a tradurre, già in questo tempo terrestre, l’aforisma di Lao-tse, che
lo stesso regista aveva posto tra i suoi preferiti: Quel che v’è di più potente al mondo è quel che non si vede, non si
ode, e non si tocca.
(6. - fine)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
20.
Scolpire il Tempo, di Andrej Tarkovskij è pubblicato in
Italia da Ubulibri, 2002, a
cura di Vittorio Nadai.
21.
Il film a cui si riferisce è l’ultimo, Sacrificio.
22.
Scolpire il Tempo, cit. pag. 211
22/10/13
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5./)
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5)
La malattia incurabile di Tarkovskij
ottiene almeno questo effetto. L’interessamento personale del presidente
francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario
Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la
vicenda dei familiari del regista concedendo finalmente al figlio di uscire
dalla Russia e ricongiungersi al padre.
Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna
! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e
questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e
figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente, Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto,
gli occhiali sulla federa, un libro (la Bibbia ?) accanto al
cuscino. Scrive: Se avessi incontrato Andrjusa per la strada non l’avrei riconosciuto.
E’ cresciuto molto, ha raggiunto 1 metro e 80 centimetri di
altezza e ha solo 15 anni ! Un dolce, buon ragazzo dai grandi denti. Tutto
questo ha del miracoloso !
Gli ultimi mesi di vita di Tarkovskij trascorrono a Parigi,
tra pause di momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film - un Amleto,
una pellicola su Sant’Antonio, un
progetto sul Vangelo – e ancora fitte
note nei Diari, sempre più rivolte a un dialogo ultimo con Dio: Dobbiamo
abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci
insegna ad amare il nostro prossimo. L’amore trionfa su tutto. E in ciò Dio si
manifesta. Senz’amore crolla tutto. (16)
L’11 aprile, quando la malattia si è
fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di
vomito causati dalla chemioterapia, scrive:
Un’immensa
speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente
come felicità. La speranza che la
felicità sia possibile. Fin da
stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. Ma la
felicità non dipende da questo: ecco, è il Signore !
Un
mese dopo, Sacrificio viene
presentato al Festival di Cannes. La
giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le
polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria. Il figlio,
Andrei, va a ritirare il premio
sulla Croisette al posto del padre.
Nelle settimane successive, che gli
restano da vivere, Tarkovskij continua a
riflettere e a scrivere, febbrilmente, sul progettato film sui Vangeli. Torna sul tema del sacrificio, e di quello
che gli appare come il Sacrificio del
Cristo, che gli altri, tutti contiene e riassume.
L’amore
è sempre un donarsi agli altri, scrive. E
nonostante il termine sacrificio, sacrificale, comporti un significato quasi
negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio
parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di
quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)
E
ancora: Ma perché esiste Giuda Iscariota ?
A che è servito il suo bacio ? Perché Giuda ? Evidentemente per spiegare
con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini. L’unico personaggio che porta un
inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere
la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove l’uomo può arrivare
nella sua caduta. Qui bisogna scavare
più in profondità ! (19) .
(segue -5./)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
15. Op.cit. pag. 653.
16. Op. cit. pag. 663.
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois
Mitterrand a definire uno ‘scandalo’ la mancata assegnazione del massimo
riconoscimento al film di Tarkovskij.
18. Op.cit. pag. 682
19. Op. cit. pag. 686
20/10/13
La poesia della domenica - "Sonetto dell'amore totale" - di Vinicius de Moraes, tradotto e letto da Giuseppe Ungaretti.
E' una rara registrazione della voce di Giuseppe Ungaretti che legge una poesia di Vinicius De Moraes, tradotta da lui stesso. Ungaretti e De Moraes si conobbero in Brasile negli anni '50. Ne nacque una amicizia poetica e anche una collaborazione, testimoniata anche da un album Lp, fino a pochi anni fa introvabile ed ora ristampato come CD dalla Warner, in cui si alternano le meravigliose canzoni di De Moraes cantate da Sergio Endrigo e da Moraes stesso insieme a Toquinho e brani di Ungaretti letti da lui stesso.
(Sonetto dell'amore totale Da La vita, amico, è l'arte dell'incontro con Vinicius De Moraes, Sergio Endrigo e Giuseppe Ungaretti)
SONETTO DELL’AMORE TOTALE
Vinícius de Moraes
Ti amo tanto, amore mio... non canta
Il cuore umano con più verità...
Amo te come amico e come amante
In una sempre diversa realtà.
Ti amo affine, di calmo amore pronto,
E da oltre ti amo, presente in nostalgia.
Ti amo, insomma, con grande libertà
Dentro l’eterno ed in ogni momento.
Come ama l’animale ti amo semplicemente,
D’amore privo di mistero e privo di virtù
Con un desiderio massiccio e permanente.
E di amarti talmente e di frequente,
Un giorno nel corpo tuo di repente
Avrò da morire di amarti più che uno possa.
(Traduzione di Giuseppe Ungaretti)
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (4./)
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (4.)
Nei
taccuini di Tarkovskij cominciano ad intensificarsi citazioni dalle Scritture,
dall’Ecclesiaste, dai Vangeli, soprattutto, ma anche da Lao-tse, Seneca, Dostoevskij,
Montaigne.
E la radicalità nei confronti di
quella che Tarkovskij chiama falsa conoscenza, ritorna in forme sempre più
definitive e apparentemente arbitrarie. La
vera poesia si accompagna alla religiosità, scrive, un non credente non può essere un poeta. (11)
Ma essere poeta, di qua come di là
dalla Cortina di Ferro continua ad essere sempre più difficile. Spero quando si
ha a che fare con mancanze primarie. A Larisa, la moglie di Tarkovskij viene
concesso alla fine del 1982 un permesso per raggiungere il marito a Roma. Ma
con lei non c’è l’adorato figlio, adesso dodicenne, al quale le autorità non
permettono l’espatrio. Andrej ha il cuore spezzato: ha la moglie, ma non il
figlio. Vorrebbe lasciar tornare la
moglie in Russia, ma ha paura che una volta rientrata non le permettano più di
uscire. Si svolgono accorate telefonate
tra Roma e Mosca.
Scrive: Con quanta tristezza Tjapa (il figlio, NDA) parla al telefono ! Che nostalgia che ha… Come deve essere disumana una società per arrivare a dividere le famiglie senza nessuna pietà, con il solo scopo di avere degli ostaggi. E sarà sempre peggio, questo è chiaro. Ma è anche chiaro che Dio ci guida. (12) E più avanti: Penso continuamente a quanto abbiano ragione coloro che ritengono che la creatività sia una condizione dello spirito. Donde viene? .. Il nostro dovere dinanzi al Creatore impiegando il libero arbitrio di cui Egli ci ha fatto dono, combattendo il male che è in noi, di superare gli ostacoli sul nostro cammino verso di Lui, di crescere in senso spirituale, combattere tutto ciò che c’è in noi di turpe. Dobbiamo purificarci. Allora non avremo nulla da temere. Aiutami Signore ! Mandami un Maestro! Sono stanco di aspettarlo… (13)
Scrive: Con quanta tristezza Tjapa (il figlio, NDA) parla al telefono ! Che nostalgia che ha… Come deve essere disumana una società per arrivare a dividere le famiglie senza nessuna pietà, con il solo scopo di avere degli ostaggi. E sarà sempre peggio, questo è chiaro. Ma è anche chiaro che Dio ci guida. (12) E più avanti: Penso continuamente a quanto abbiano ragione coloro che ritengono che la creatività sia una condizione dello spirito. Donde viene? .. Il nostro dovere dinanzi al Creatore impiegando il libero arbitrio di cui Egli ci ha fatto dono, combattendo il male che è in noi, di superare gli ostacoli sul nostro cammino verso di Lui, di crescere in senso spirituale, combattere tutto ciò che c’è in noi di turpe. Dobbiamo purificarci. Allora non avremo nulla da temere. Aiutami Signore ! Mandami un Maestro! Sono stanco di aspettarlo… (13)
Nel 1983, intanto esce sugli schermi Nostalghia. Che ottiene
favori non unanimi. C’è anzi già chi è disposto a scommettere che il grande
autore russo abbia perso brillantezza e ispirazione, lontano dal suo paese
d’origine. Il film vince il Gran Premio della Giuria a Cannes, nonostante l’ostruzionismo di Sergej
Bondarciuk, il regista ‘ortodosso’ sovietico, che fa parte della Giuria.
Nello stesso anno va in scena una
memorabile rappresentazione del Boris
Godunov al Covent Garden di Londra che ottiene un successo trionfale.
Tarkovskij si rende conto che ormai non può più tornare indietro. L’ostracismo delle autorità sovietiche, anzi,
gli rendono necessario alzare i toni, nella speranza di smuovere le cose e
riunificare la sua famiglia, e nel 1984
chiede e ottiene asilo politico dagli Stati Uniti, con un annuncio che viene
dato in una affollatissima conferenza stampa a Milano.
Ma il regime di Mosca non è disposto
ancora a cedere.
Nel 1985 Tarkovskij è impegnato nella
realizzazione del suo ultimo film, Sacrificio
(Offret), che rappresenta una sorta di testamento spirituale del grande
regista, con la storia di Alexander, un uomo che assiste al crollo di ogni cosa
in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, e
che disperato prega Dio di salvare il
mondo, facendo voto di rinunciare a tutto ciò che possiede, se questa sua
preghiera si dovesse realizzare.
Tarkovskij fa appena in tempo a
terminare le riprese del film. Il 6
dicembre del 1985, a
Parigi, si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel
polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore
incurabile.
I Diari registrano la reazione umana di
Tarkovskij, il dolore profondo, anche la disperazione, che però si rivolge
subito ad altro, agli altri, a coloro che ama:
L’uomo
nel corso della propria vita sa che prima o poi dovrà morire. Non sa però
quando morrà, perciò sposta questa scadenza lontano nel futuro. E questo lo
aiuta a vivere. Ora, invece, io lo so. E niente mi può aiutare a sopravvivere.
E questo è molto duro. Però ora la cosa
importante è Lara. Come potrò dirglielo ?! Come potrò infliggerle un colpo
tanto tremendo con le mie stesse mani ?!
Come reagirà ? Come farà in
futuro per Andrjusa e la mamma ? (14)
Bisogna continuare a combattere
per ottenere il loro espatrio. Andrjusa ha bisogno di vivere libero, non deve
vivere in prigione. Visto che abbiamo cominciato su questa strada, bisognerà
andare fino in fondo. (15)
(segue -4./)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
11.
Op.
cit. pag.486
12. Op.
cit. pag. 550
13. Op.
cit. pag. 556
14. La “mamma” a cui si riferisce qui è Anna
Semenovna, madre di Larisa, cioè la suocera di Tarkovskij, che è colei che per
tutti gli anni dell’esilio di Tarkovskij si è occupata del nipotino, Andrej, e
che riuscirà a lasciare la
Russia , proprio a causa della malattia di Tarkovskij, insieme
al bambino, un mese dopo questa nota scritta dal regista.
15.
Op.cit. pag. 653.
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19/10/13
Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (3./)
Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (3)
Tarkovskij
si sente a un bivio, e sa che sta per arrivare l’ora di una difficile scelta,
che appare però inevitabile. Sono
divenute sempre più frequenti le visite, in Russia, di Tonino Guerra, uno dei
maggiori sceneggiatori italiani. Guerra parla il russo, è un poeta, come il
padre di Andrej. Nasce una grande
amicizia, un rapporto profondo e creativo, il progetto di lavorare insieme ad
un nuovo film (7) . Ogni nuova visita di
Tonino Guerra a Mosca, rappresenta una tentazione per Tarkovskij, il quale
capisce che si tratta forse dell’occasione che il destino gli ha messo davanti
per abbandonare definitivamente il suo paese, e lavorare finalmente senza più
pressioni, senza più censure, liberamente all’estero, dove il suo lavoro è
apprezzato e pienamente riconosciuto.
Il 5 gennaio del 1979, scrive nei Diari:
Larisa
(8) e io stiamo pensando molto seriamente
a Tonino. Non si può continuare così.
Come farò a restituire i debiti che abbiamo ? Non so come riuscirò a consegnare
Stalker. Che non accetteranno senza
che io apporti cambiamenti radicali al film, cambiamenti che io, in ogni caso,
mi rifiuto di introdurre. Solo un vero miracolo mi può aiutare.
E se me ne andassi sull’onda di un
grosso scandalo ? Questo significherebbe almeno due anni di tormenti: per
Andrjuska a scuola, per Marina, la mamma, mio padre. Sarebbero sottoposti a
continue vessazioni. Cosa posso fare ?!
Non mi resta che pregare! E avere fede.
E la cosa più importante è che questo (quello della croce) è un simbolo
che non bisogna capire, ma soltanto sentire, capire… Nonostante tutto, credere… Siamo crocefissi in una sola dimensione,
mentre il mondo è pluridimensionale. E noi questo lo sentiamo e soffriamo per
l’impossibilità di conoscere la verità…. Ma non serve conoscere ! Bisogna
amare. E credere. Perché la fede è conoscere tramite l’amore. (9).
E’ un passaggio molto importante questo,
per Tarkovskij.
La fuga dalla Russia si concretizzerà
prima con il permesso ottenuto nel 1979 per raggiungere Roma e contattare i
dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con
Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo
distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfrutta l’invito del premio David
di Donatello - Lo Specchio ha ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per
raggiungere nuovamente l’Italia.
Gli anni dell’esilio significano per
Tarkovskij una ulteriore chiusura in se stesso. L’isolamento a cui lo costringe
la lingua – non parla inglese, soltanto russo e poco francese – le difficoltà
continue con le autorità del suo Paese, che negano l’espatrio con ogni pretesto
a Larisa e al figlio, la frequentazione
di ambienti estranei e completamente diversi (molto più disinvolti,
superficiali, mondani) da quelli che è stato abituato a frequentare nel suo paese,
lo portano a intensificare le note dei suoi Diari, e a spingere la sua ricerca
spirituale a una radicalità estrema.
Sono anni di viaggi continui, di
esplorazioni – insieme a Tonino Guerra girano in lungo e in largo l’Italia
alla ricerca di locations per Nostalghia – di partecipazioni a
festival e cerimonie in suo onore, a salotti borghesi nei quali egli
rappresenta l’ospite esotico, l’intellettuale russo in esilio, che lo fanno
sentire sempre più un pesce fuor d’acqua.
Si fa più profondo, in quest’uomo
troppo intelligente e introverso, un rifiuto delle inutili apparenze. Una
continua ricerca della vera sostanza.
Nel
mondo si possono riscontrare in assoluto un numero assai maggiore di squarci
verso l’Assoluto di quanto possa sembrare a prima vista. Solo che non li sappiamo
vedere e riconoscere, scrive nel luglio del 1981, la nostra conoscenza non è che sudore, secrezione organica, prodotto
delle funzioni naturali dell’organismo inseparabili dall’esistenza, che non ha
nessun rapporto con la Verità. L ’unica funzione della nostra coscienza è
quelle di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima.
(10)
(segue -3./)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
1. Sarà
Nostalghia, che uscirà quattro anni
dopo, nel 1983, verrà scritto a quattro mani da Guerra e Tarkovskij e sarà
girato interamente in Italia, prodotto dalla RAI.
2. Larisa
Pavlova Egorkina è la moglie di Tarkovskij, sposata in seconde nozze nel 1969 e
da cui l’anno seguente il regista ha il suo secondo figlio, Andrej Andreevic.
Larisa resterà fedelmente – nonostante i
sette anni di forzata separazione – al fianco di Tarkovskij fino all’ultimo
giorno della sua vita.
3. Op.cit.
pag.237
4. Op.cit.
pag. 400
18/10/13
Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (2./)
2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (2)
Il fatto di scegliere come titolo Martirologio, per questi diari, è già un
segnale molto chiaro: per Tarkovskij la vita è un percorso di conoscenza che
non può essere disgiunto dal percorso terreno
dell’uomo, tormentato tra la carne e lo spirito, la vita e la morte. Ed è lo stesso figlio Andrej, curatore oggi
dei Diari, a riferire una frase che il
padre gli ripeteva spesso: l’uomo non è
stato creato per essere felice, vi sono cose ben più importanti della felicità.
(2)
Per capire quali fossero queste cose,
basta sfogliare le tormentate pagine dei diari, composte di vere illuminazioni, riflessioni profondissime, citazioni dei libri e dei maestri preferiti,
preghiere, promemoria, sottolineature,
progetti, invocazioni, confessioni.
Un cahier umano, molto umano,
che documenta il prezzo pagato alla creazione artistica, e soprattutto
all’auto-conoscenza.
Ciò che interessa Tarkovskij è
principalmente lo scopo della vita, che non può essere soltanto il
soddisfacimento dei bisogni. Per l’uomo, scrive
il 5 settembre del 1970, perché possa
vivere senza tormentare gli altri, deve esistere un ideale. L’ideale in quanto concezione spirituale e
morale della legge. La moralità è dentro
l’uomo. Là dove non c’è moralità, regna
una misera e insignificante legge morale. Dove c’è morale, la legge morale non
è più necessaria. (3)
Ma quel che vede intorno Tarkovskij,
specie nella notte senza fine in cui il suo Paese appare precipitato, è un
rifiuto di dare voce a questa moralità che è dentro l’uomo, e che ha a che fare
con lo spirito. Iddio a che punto arriveremo ! - scrive pochi giorni dopo, il 20
settembre del 1970 - Mai prima d’ora l’incultura aveva raggiunto
un tale livello. Questo rifiuto di ciò che è spirituale può solo generare dei
mostri. Oggi come non mai bisogna difendere tutto ciò che ha anche un solo
minimo rapporto con il mondo spirituale ! Quanto rapidamente l’uomo rinuncia all’immortalità,
possibile che la sua condizione naturale sia quella della bestia ? (4).
Difendere tutto ciò che è spirituale. E’
quello che Tarkovskij cercherà di fare strenuamente, con i suoi film. Il più misterioso dei quali, forse resta
proprio Lo Specchio (titolo originale
Zerkalo), girato nel 1975, e
infarcito di immagini simboliche e di citazioni di versi del padre del regista,
il poeta Arsenij. Nei Diari del periodo, Tarkovskij, riferisce anche delle
critiche e degli insulti ricevuti e commenta: Lo specchio è un film antiborghese e perciò non può non avere una gran
quantità di nemici. Lo specchio è un
film religioso. Naturalmente quindi, incomprensibile per la massa, abituata al
cinema da quattro soldi e incapace di leggere libri, di ascoltare musica, di
osservare un dipinto. Alle masse in
genere serve qualcosa di divertente, di distensivo, di spettacolare, sullo
sfondo di una “storiella” edificante… il mio compito è di occuparmi di quello
che Dio mi ha dato senza badare alla invettive di chicchessia. Non è che io
pensi di me cose molto esaltanti, è solo che ognuno deve portare la sua
croce. E sarà il tempo a dire se è stata
una meritata beffa, o se avevo ragione io.
Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj. (5).
Temi che torneranno anche nel film
seguente, Stalker, nel 1979, a proposito del quale Tarkovskij scrive: Il film parla della presenza di Dio
nell’uomo e della rinuncia alla spiritualità per l’acquisizione di una falsa
conoscenza. (6)
E’ abbastanza semplice intuire quanto
questi argomenti potessero sembrare sospetti alle autorità sovietiche dello
spettacolo e ai produttori della Mosfilm. Tarkovskij è riconosciuto come un grande
regista di talento. Ma perché, invece che ad astratti sofismi di natura
spirituale, non dedica il suo genio a raccontare storie di gente comune, magari
esaltando il modello di vita e i sani
valori della civiltà sovietica ?
(segue -2./)
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note
2.
E’
quanto scrive il figlio di Tarkovskij, Andrej A. , nella prefazione al volume
stesso, intitolata Il Martirologio
(op. cit. pag.5).
3.
Op. Cit. p.37
4.
Op. cit.
pag.52
5.
Op.
cit. pag. 191
6.
Op.
cit. pag. 232.
17/10/13
Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (1./)
2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (1)
Per
una di quelle circostanze che decidono i destini degli uomini – in questo caso
l’essere nato in un periodo storico di feroci opposizioni e blocchi
contrapposti – il corpo del grande Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi autori
della storia del cinema, riposa lontano dal suo paese, il paese dove è nato e
dove hanno vissuto i suoi predecessori.
La tomba di Tarkovskij non è infatti a Zavraz’e, il piccolo villaggio
sulle rive del Volga dove il regista nacque il 4 aprile del 1932 e nemmeno in nessun’altro cimitero della
sconfinata Russia, ma al cimitero ortodosso di Saint-Géneviève-des-Bois, nei
pressi di Parigi.
Se Tarkovskij fu seppellito in Francia e
non nel suo paese, fu dovuto alla decisione della moglie Larisa, che rifiutò
l’offerta da parte delle autorità sovietiche di far rimpatriare il corpo del
grande regista perché fosse sepolto a Mosca.
La decisione era del tutto conseguente a una estenuante guerra,
cominciata molti anni prima, con le autorità sovietiche che – da sempre,
dall’inizio, da L’infanzia di Ivan, girato
nel 1962 – avevano mal sopportato i contenuti dei film di Tarkovskij,
l’ermetismo e il forte simbolismo delle immagini, e soprattutto i
riconoscimenti tributati all’estero ad un autore considerato genialmente
innovativo. Il conflitto con le
autorità di controllo dello spettacolo sale, pellicola dopo pellicola, fino
alla decisione di Tarkovskij, inevitabile, di usufruire nel luglio del 1979 di
un permesso di espatrio, per raggiungere l’Italia e lavorare finalmente
liberamente ad un nuovo progetto.
Decisione, alla quale il regime sovietico darà una risposta durissima,
impedendo alla moglie del regista Larisa, e al figlio Andrej – che all’epoca ha
solo nove anni – di raggiungere Tarkovskij.
I tre – marito da una parte, moglie e figlio dall’altra – resteranno
separati per sette lunghi anni, fino a
pochi mesi prima della morte del regista, avvenuta appunto nel dicembre del 1986 a Parigi.
Una testimonianza irripetibile di questi
anni, ma anche di quello che accade prima, nella mente e nell’anima del
regista, costretto a fare i conti con una realtà limitante – che diventerà poi
soffocante – è contenuta nei diari che Tarkovskij inizia a scrivere il 30
aprile del 1970, a
trentotto anni, quando è già un regista affermato che ha vinto il Leone d’Oro a
Venezia con L’infanzia di Ivan nel
1963 e stupito il mondo con Andrei Rublev terminato nel 1966 ma presentato al Festival
di Cannes soltanto tre anni dopo nel 1969, e distribuito in patria addirittura
cinque anni dopo, nel 1971.
Nel 1970, quando comincia a scrivere i
suoi Diari, Tarkovskij è già un uomo disilluso.
Il potere sovietico lo boicotta. I suoi progetti vengono quasi sempre bocciati,
osteggiati, boicottati. Il regista è isolato dall’invidia dei
colleghi, dalla ottusità della burocrazia,
dall’arroganza dei dirigenti statali.
Rivive su di sé la stessa amara frustrazione del padre Arsenij, grande
poeta insignito dell’Ordine della Stella Rossa, la più alta onorificenza
sovietica, per il suo eroismo durante la guerra contro i nazisti, che si vede
rifiutare la pubblicazione del primo volume, nel 1946, con la motivazione che i
versi tanto più sono talentuosi, tanto più “sono nocivi e pericolosi.”
E’ forse anche per sublimare questa
frustrazione, e non soccombervi, che Andrej comincia dunque a stilare questi
diari, che copriranno un arco di vita di sedici anni. Si tratta di sette quaderni autografi,
scritti in lingua russa, rilegati dallo stesso autore, che contengono anche
schizzi e disegni, ma che soprattutto rappresentano una importantissima
testimonianza del processo creativo, dei tormenti, delle crisi e della vita
spirituale del grande regista. (1)
(segue -1./)
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1.
I
Diari di Andrej Tarkovskij sono stati pubblicati finalmente in forma completa
nella accurata e meritevole edizione italiana con il titolo di Diari – Martirologio (1970-1986), da Edizioni della Meridiana di Firenze,2002, curati dal figlio del grande
regista, Andrej A. Tarkovskij, tradotti da Norman Mozzato, sfruttando la
imponente documentazione custodita dall’Istituto Internazionale Andrej
Tarkovskij che ha sede a Firenze, e con la collaborazione della Sovrintendenza
Archivistica per la Toscana
e dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
Le citazioni contenute nel testo, tratte dai Diari di Tarkovskij, fanno
riferimento a questa edizione.
16/10/13
Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.
Dopo La vista da Castle Rock aveva giurato che non avrebbe scritto più. E il suo editore italiano, per consolarci di non poter più contare sull’atteso periodico appuntamento con i bellissimi racconti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrittrici di questi due secoli, ha pensato bene di pubblicare una intensa, freschissima raccolta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, traduzione sempre impeccabile di Susanna Basso).ù
Racconti acuti, dolorosi, su gente vera e normale, su frammenti di vita impeccabilmente ricreati. Ma, dice ora maliziosa e rilassata la bella signora con i capelli bianchi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E perché ha mentito, signora? «Pensavo che fosse una buona idea. Pensavo che la gente mi potesse essere grata per questo». E Alice Munro, canadese, anni settantasette portati con grazia estrema («ma se mi penso mi penso a quaranta, quando sei ancora capace di esercitare un’attrazione sessuale e hai tempo davanti a te»), autrice di un corpus relativamente piccolo e molto acclamato di opere, sorride, beve vino bianco e ricorda.
«Sono nata nel 1931, durante la depressione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disastrosa. Non eravamo disperatamente poveri. Eravamo mentalmente poveri. Coltivavamo il nostro cibo, le nostre verdure. E nostro padre allevava volpi argentate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le fotografie di Eleanor Roosevelt aveva sempre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diventare ricco con questa attività, ma non ha avuto mai abbastanza soldi per investire, e non ci è riuscito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pellicce è passato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavorare in una fabbrica, in una fonderia. Mia madre si è ammalata molto gravemente di Parkinson ed è vissuta per quasi vent’anni in questa condizione disperata. E io, io ero la figlia più grande. E immagino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rimasta a casa, con mia madre e mio fratello e mia sorella più piccoli. Invece ho vinto una borsa di studio e me ne sono andata. All’ università. Per la verità non avevo abbastanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quattro. Dovevo trovare qualche forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non bastavano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era sposarmi».
Scherza? Sposarsi per sopravvivere?
«No, ero anche innamorata. Sa, ai ragazzi della mia città non piacevo affatto, perché ero così strana, una che leggeva sempre. Ma è successo che all’ università ho incontrato un ragazzo capace di accettare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non potevano sopportare che le loro donne si impegnassero seriamente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era felicissimo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto perché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bambina Sheila, poi una seconda bambina Catherine, che è morta subito, poi una terza, Jeannie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vivevamo a Vancouver, nei sobborghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle piccole riviste e una radio che promuoveva la letteratura nazionale. Ho cominciato a vendere qualche racconto, ad essere conosciuta nei giri che si occupavano di letteratura…».
La leggenda di Alice Munro vuole che per le short stories si sia ispirata alla Sirenetta di Andersen e per i romanzi a Cime tempestose.
«Non oserei mai di scrivere sul modello di Cime tempestose, è un libro unico. Ma è vero che La sirenetta ha avuto un influsso molto profondo su di me. Si è condannata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tragedia. In genere si pensa che una scrittrice donna debba scrivere come Jane Austen. E Jane Austen è bravissima. Ma per qualcuna della mia classe sociale non è interessante come le Bronte. Io non sono mai stata interessata alla società ben educata. Volevo che la gente avesse dei destini tragici e grandi emozioni. Quando i bambini erano piccoli ho letto come una disperata, tutto, ma non sono mai stata influenzata dai classici del ventesimo secolo come Proust, Mann, la letteratura nobile, sa, perché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scrivere sono Flannery O’ Connor, Carson McCullers, Eudora Welthy, scrittrici che raccontano le piccole città, la povera gente. Il mio territorio. Perché non solo ho avuto la fortuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità».
Ci sono state anche altre influenze.
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come cameriera, presso una famiglia, durante le vacanze su un lago. Eravamo in un posto molto isolato. Il padrone di casa mi ha dato da leggere le Sette storie gotiche di Karen Blixen. E le ho amate moltissimo, anche se poi più tardi ho pensato che non mi piaceva il suo punto di vista - quello di un’ aristocratica, e non solo, una che pensava che all’ aristocrazia vanno riservati trattamenti speciali. Quando leggo una scrittrice così penso sempre che nei suoi racconti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche grazie a lei se ho scoperto la bellezza della forma racconto - senza tuttavia mai cercare di imitare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la parodia del bello stile».
Ma lei fa dello stile: la lingua che usa è ricca, precisa, a volte persino preziosa nella scelta lessicale. «E’ un fatto canadese. La lingua è rimasta protetta in una capsula che non è tanto cambiata».
Difficile, per una donna, scrivere nel suo paese?
«Non difficile, quasi impossibile. Ero una giovane moglie e madre. Gli uomini non mi prendevano sul serio. Be’, veramente, alcuni sì. Per esempio Robert Weaver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Dirigeva una rivista, e non ha mai smesso di incoraggiarmi. Ma quando andavo agli incontri con gli altri scrittori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sopportavano».
Perché era troppo bella?
«Non mi sono mai considerata bella. No. Perché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o ornamenti. Nessuno mi prendeva sul serio come scrittrice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai margini. Scrivevo sulle cose sbagliate, non scrivevo di guerra, di politica - ed era ancora l’ epoca Hemingway».
Ed è uno stupendo contrappasso che lei oggi sia il nome più grande della letteratura canadese. «Sì. Una stupenda vendetta». Perché si è esercitata soprattutto la forma della short story?
«Per via del mio lavoro da casalinga. Non ho mai avuto un anno in cui lavorare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sempre interrotto. Non potevo nemmeno lontanamente pensare a un romanzo».
Cinque racconti di Le lune di Giove sono in prima persona. Siamo autorizzati a pensare che sono molto personali?
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto autobiografico: cose che ho vissuto, perché non puoi scrivere d’ amore senza aver avuto una certa quantità di esperienze d’ amore. O di sofferenza».
O, come in L’incidente, dell’ azione del caso, del suo potere di sconvolgere e ridisegnare le vite. «Non ho mai avuto un’ esperienza del genere, ma era importante scrivere quella storia. E se in passato ho capitalizzato sulla mia vita, ora mi guardo maggiormente in giro. Per esempio, sto lavorando adesso su una vecchia signora che ho visto andare a farsi tingere i capelli di viola e di blu, ma che non ha neanche un filo di trucco. Mi sono chiesta: che cosa sta cercando, che cosa vuol provare? E la mia fantasia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo. Da qualche anno sono tornata a vivere con il mio secondo marito in una piccola città, a trenta miglia da quella in cui sono cresciuta. Non scrivo direttamente sulla vita dei miei cocittadini, ma mi incuriosisce come la organizzano - e la vita è sempre molto difficile, è difficile attraversarla ed essere felici».
Accetterebbe la definizione di pietas per il suo modo di guardare ai personaggi dei suoi racconti?
«O di comprensione. O di capacità di perdonare i torti degli altri. Sì, se è pietas sapermi identificare nella condizione degli altri, nei loro comportamenti. Non scrivo così perché io sia particolarmente buona. Ma perché posso immaginare che io stessa, in certe condizioni, potrei comportarmi in maniera disonorevole».
Lei è molto amata e letta, ma i suoi racconti non sono certo consolatori o tranquillizzanti, scavano, fanno soffrire.
«Credo che la gente legga le mie storie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Perché non cerco lo happy ending, perché scrivo per un momento di choc, di stupore, di rivelazione - ciò che rende la vita appassionante per me. E se riesco a suscitare negli altri questo effetto, è meraviglioso. Lo so, parlo di cose difficili, di sofferenza, di come si sopravvive alla sofferenza». Di Le lune di Giove, il racconto che dà il titolo alla raccolta e che ha al centro la figura di suo padre, colpisce il suo rapporto con la vecchiaia. «Non ho mai avuto paura della vecchiaia, ma ora, a settantasette anni, sento che il tempo si sta chiudendo. E ho un po’ paura delle cose che possono succedere. Di quello che ho visto succedere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in passato a come uso il tempo che mi è concesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sorride - per scrivere».
Intervista di Irene Bignardi, Repubblica 5 marzo 2005
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