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26/09/24

Quando il sogno si spezzò: 1970, la dichiarazione di guerra di Lennon ai Beatles. Nel libro "La fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", presentato domenica prossima alla Libreria Eli

 



Qui di seguito un estratto (p. 162 e ss), de "La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", libro che verrà presentato domenica prossima, 22 settembre alla Libreria Eli di Roma. E' uno dei momenti cruciali della storia, quando Lennon pubblica un album immediatamente dopo l'annuncio dello scioglimento della band che ha cambiato il mondo. E' un regolamento di conti durissimo, principalmente tra i due fautori - John e Paul - della grande rivoluzione musicale (e non solo) del Novecento, e la definitiva rottura del loro "patto di sangue" siglato quando avevano quindici anni e mai violato sino ad allora.



La prima bordata contro Paul, ma contro la storia stessa dei Beatles, è una iniziativa di John– che del resto non si è mai fatto problemi a “lavare i panni sporchi in pubblico” – ed è contenuta in John Lennon/Plastic Ono Band, uscito pochi mesi dopo lo scioglimento: God, penultima traccia del LP, ballata dai toni ultimativi (da resa dei conti appunto), rappresenta il più esplicito “manifesto programmatico” di Lennon, all’indomani del divorzio dei/dai Beatles.

                    John mette le cose in chiaro: vuole esprimere in modo essenziale e definitivo, quello in cui egli crede – quello cioè che lui sostanzialmente è ora – ora che l’incantamento dei dieci anni sull’Helter Skelter è finito. Quella giostra si è fermata. Lui è sceso. Cosa è rimasto? Cosa è adesso John, appena oltrepassata la linea d’ombra dei suoi primi trent’anni di vita?

                   God lo afferma esplicitamente, ma nel tipico stile di John, cominciando dall’enunciazione di ciò in cui lui non crede. Di ciò che lui non è o non è più.

                   Anche God, come Mother, viene scritta durante il periodo della Primal Therapy, nella casa di Nimes Road, a Bel-Air. John ne incide una prima versione acustica, suonata alla chitarra, oggi presente in diversi bootleg bramati dai collezionisti, nella quale fa ironicamente precedere al testo vero e proprio, un proclama nello stile dei predicatori americani: “Ho una missione dall'alto. E sono qui per dirvi che questo messaggio riguarda il nostro amore. Gli angeli devono avermi mandato per consegnarvi questo messaggio. Ora ascoltatemi, fratelli e sorelle.” L’iconoclasta Lennon usa questo espediente per lanciarsi così, di seguito, in un radicale peana contro-religioso, il manifesto di un ateismo che sembra radicale e che viene affermato con forza già a partire dai primi versi:

 

God is a concept
By which we measure our pain
I'll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah
Pain
Yeah

                 Dio, dice Lennon, è semplicemente un concetto che gli uomini hanno inventato per dare un nome, o meglio, per misurare, il loro dolore. È una definizione filosofica lapidaria, che sembra provenire dal pensiero filosofico di Janov, dalle conversazioni fatte con il dottore, prima del rilascio delle urla del paziente, nella stanza insonorizzata.

                  A questo punto, sull’incalzare dello stesso tema, ribattuto in crescendo, ad ogni rima John elenca ciò in cui non crede, non ha mai creduto o non crede più. Anche questo è un elenco radicale, che non ammette discussioni, e che Lennon stila con tono perentorio, definitivo:


I don't believe in magic
I don't believe in I-Ching
I don't believe in Bible
I don't believe in Tarot
(cioè nei tarocchi)
I don't believe in Hitler
I don't believe in Jesus
I don't believe in Kennedy
I don't believe in Buddha
I don't believe in Mantra
I don't believe in Gita
I don't believe in Yoga
I don't believe in Kings
I don't believe in Elvis
I don't believe in Zimmerman
(cioè in Bob Dylan)

 

                  E qui, con un abile colpo di teatro, dopo una improvvisa pausa della sequenza, e un eloquente vuoto, arriva la voce dell’elenco più difficile da mandar giù, specie per le moltitudini di fans che avevano fatto del gruppo di Liverpool, i loro idoli:

 

I don't believe in Beatles

 

                  John, dunque, ha fatto finalmente a pezzi tutto: non solo non crede ad alcuna divinità – e Gesù e la Bibbia sono stati inseriti nell’elenco subito prima e dopo dei Tarocchi e di Hitler - ma non crede nemmeno in alcun idolo della musica, né Elvis (che pure fu un suo idolo giovanile), né in Dylan, né nei “suoi” Beatles, che sono, al pari delle altre voci in capitolo, puri idoli, simulacri, simboli rivestiti di un valore immaginario e inconsistente. Al dunque, inutili.

                  E dunque, cosa resta? In cosa crede l’uomo John, al termine di questa distruzione di miti, divinità e simboli? John crede alla realtà. E la realtà si restringe, con un cambio di passo drastico della melodia, all’improvviso fattasi dolce e malinconica, a “me” e a “Yoko e me”:

                   

I just believe in me
Yoko and me
And that's reality

 

                  Ogni sogno è dunque tramontato, continua John. Anche i Beatles erano fatti di quel sogno. Adesso che egli è rinato, tutto è più chiaro: il sogno era “Ieri”, con una velenosa allusione alla canzone di Paul, Yesterday (sempre considerata, da John, la sua migliore), e ai tempi dei Beatles. Che vengono ripudiati con i versi seguenti, di facile interpretazione per tutti i fans del gruppo: John non è più The Walrus (il “tricheco”), nel chiaro riferimento a una delle canzoni più celebri e autobiografiche di John (scritta sotto acido e ispirata a una poesia di Lewis Carroll, I’m the Walrus, contenuta nel Doppio Bianco). The Walrus, cioè il John-nei-Beatles, il dreamweaver (cioè il “tessitore di sogni”) è diventato ora, soltanto John, il ri-nato.

 

The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday
I was the dreamweaver
But now I'm reborn
I was the walrus
But now I'm John
And so dear friends
You'll just have to carry on

The dream is over

 

                  Il sogno è finito: ed è piuttosto singolare che a decretarlo sia proprio John che - con le sue utopie pacifiste, i bed-in, le tirate contro i potenti e il loro cinismo - tutto il mondo identifica come il sognatore per eccellenza. E lui stesso, del resto, così si definisce nella sua più famosa canzone, Imagine: You may say, i’m a dreamer, but i’m not the only one. Tu puoi chiamarmi un sognatore. Lui non lo nega, risponde soltanto che di certo non è l’unico.

                 Questa canzone, God, è allora un proclama nel più caratteristico stile provocatorio di John. La sua identità – se ne esiste una – è ora ciò che risulta da una serie di negazioni: “non posso affermare ciò che sono, posso soltanto dire ciò che non sono.”

                 Di sicuro, la canzone è uno shock per molti fan dei Beatles, con effetti potenziali imprevedibili e violenti, come vedremo tra poco.

                 Ma ciò che sta a cuore a John, al di là dei toni, è smontare il mito dei Beatles e ridimensionarlo, nel momento in cui sta “imparando a nuotare”. I Beatles andavano bene, ma non il loro mito. E lo ribadisce con chiarezza nella famosa intervista del 1980: “Se i Beatles hanno un messaggio, era quello. Con i Beatles, il punto sono i dischi, non i Beatles come individui. Non hai bisogno del pacchetto, così come non hai bisogno del pacchetto cristiano o del pacchetto marxista per ricevere il messaggio… Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno un messaggio, era imparare a nuotare. Punto. E una volta che impari a nuotare, nuoti. Le persone che sono attaccate al sogno dei Beatles e degli anni Sessanta hanno perso il punto, quando il sogno dei Beatles e degli anni Sessanta è diventato il punto. Portare in giro il sogno dei Beatles o degli anni Sessanta per tutta la vita è come portare in giro la Seconda Guerra Mondiale e Glenn Miller. Questo non vuol dire che non puoi goderti Glenn Miller o i Beatles, ma vivere in quel sogno è una zona crepuscolare. Non è vivere adesso. È un’illusione.” [1]

                   Sembra un discorso impeccabile, e in effetti lo è, ma c’è sicuramente di più, oltre a questo: la lunga intervista di Lennon – una sorta di bilancio, senza sapere che stava arrivando la sua morte – è in realtà una presa di distanza dalle biografie dei Beatles, non soltanto dal fenomeno musicale, culturale che essi hanno rappresentato. Perché ogni aspetto, in questa vicenda, parla prima di tutto di vite, traumi, mancanze, nevrosi, sogni, utopie, delusioni, malinconie, perdite, fallimenti. In primis, di John e Paul. Così, il mistero che resta – l’argomento che John scantona nell’intervista – è perché queste vicende personali, queste vite, si siano assemblate così stranamente e per quali cause – con potenza simbolica – esse abbiano collegato le anime di così tanta gente nel mondo, fino a oggi. Forse Lennon, morendo nel 1980, non ha fatto in tempo a constatare la durevolezza, la consistenza e l’autorevolezza nel tempo, del “mito” dei Beatles. E forse se fosse vivo ancora oggi, avrebbe una percezione parecchio diversa di quello che realizzò con i suoi compagni di allora.



[1] D. Sheff, Lennon Interview, op. cit.


Ogni diritto d'autore riservato. Testo tratto da: Fabrizio Falconi, La Fine del Sogno, Beatles, Manson, Polanski, Arcana Editore, Roma, 2024.

Presentazione del Libro: Domenica 29 settembre, con Noemi Serracini e l'autore, alla Libreria Eli di Roma, Viale Somalia 50/a (seguirà brindisi). 

Prenotazione qui





21/02/20

"Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi - La Mummia di Tollund



“Mi dica, allora”.
“Ecco: tutta la spiegazione si ricava da quel riferimento al ‘Borgo di Silke’. Vede, c’è già un accenno preciso quando, prima, nomina lo spirito di Amleto. La Danimarca… Io non ho fatto altro che inserire nel motore di ricerca la parola Silke, e poi la parola ‘mummia’, perché mi sembra che si parli di una mummia, che deve ‘consegnare il messaggio con la destra’.
Allora, è subito venuto fuori!”.
“Venuto fuori cosa?”.
Laura, prima di rispondere, estrasse dalla voluminosa borsa il computer portatile, divaricò lo schermo e spinse delicatamente il pulsante di accensione. Poi piantò i gomiti sul tavolo e guardò negli occhi il vecchio studioso: “In Danimarca esiste una mummia, chiamata L’uomo di Tollund. È stata scoperta nel 1950, in una torbiera, a pochi chilometri dalla città di Silkeborg, nello Jutland”.
“Non mi dica, ” borbottò Bonnard incredulo, “che la nostra sorgente di facezie pretenda ora di portarci davvero fino in Danimarca!”.
“Sembrerebbe proprio di sì, Bonnard”, disse Laura, perentoria, “il riferimento alla torba parla chiaro. È una mummia molto famosa. Il corpo fu ritrovato casualmente da due fratelli che erano andati a tagliare un po’ di torba in una zona di campagna. Mentre scavavano, affiorò dal terreno un cadavere, e loro, inorriditi, pensarono ad una recente sepoltura seguita a qualche fatto criminoso. Chiamarono la polizia. Ma una volta arrivati sul posto, gli inquirenti si resero conto che si trattava di un repertoarcheologico, straordinariamente conservato. Furono convocati studiosi, che prelevarono il corpo e lo portarono in un laboratorio per analizzarlo. E si scoprì così, dopo lunghi esami, che apparteneva ad un uomo vissuto circa 400 anni prima di Cristo!”.
Bonnard la interruppe: “Una mummia in Danimarca! Questa è bella. Ne è sicura?”.
“Sì, adesso il reperto è conservato nel museo di Silkeborg, un corpo intero ranicchiato in posizione fetale. L’uomo è stato impiccato e c’è ancora la corda al collo. Ma guardi qui, non è impressionante?”.
Finalmente sullo schermo del computer si materializzò una foto che Laura aveva trovato nel sito web del museo danese: ritraeva la testa di un uomo, con gli occhi chiusi, come dormiente, e i dettagli più minuti del volto straordinariamente realistici, come quelli di una maschera di cera perfettamente
disegnata.
“La nostra Ester non smette di sorprenderci!” esclamò Bonnard, avvicinandosi allo schermo per osservare meglio i particolari.
Dopo qualche secondo si alzò, armeggiò nel cassetto del secretaire, e tornò a sedersi, con la pipa in mano. 
“Le dispiace se fumo?”.
“No, certo”, rispose Laura ipnotizzata dalla faccia marrone dell’uomo di Tollund, pietrificato dopo la sua agonia. 
“Perché è stato impiccato?” chiese Bonnard.
“Non si sa, nessuno lo sa. È una mummia di più di duemila anni fa, come le ho detto. Ci sono diverse ipotesi, da quanto ho letto, su come sia stato ucciso. Nel suo stomaco sono state ritrovate diverse sementi e verdure, tra cui grani di segale cornuta, un particolare che ha fatto pensare ad un sacrificio. Tacito parla nel De Origine et situ Germanorum dei riti pagani germanici dedicati alla dea Nerthus, la dea della fertilità”. 
“Parliamo di quali Germani per l’esattezza?”.
“Non lo so bene, Reudigni, Eudosi…”. ribattè Laura, “non ho avuto il tempo di approfondire. Quel che è certo è che la nuova traccia porta lì. Gliela rileggo: Proviene dal borgo di Silke quel lamento. La bocca è chiusa, ma canta ugualmente. Guarda i suoi occhi: non dorme, riposa. Il messaggio consegna alla destra, e della mummia non resta che un pezzo di torba, la testa. Mi sembra piuttosto chiaro”.
Bonnard, piuttosto disorientato di fronte all’idea di una trasferta all’estero, alla quale non aveva proprio pensato, prese tempo, accendendo con calma il braciere della pipa. Aspirò diverse boccate del buon tabacco – per fatalità di produzione danese – che aveva estratto dalla scatolina d’argento,
regalo di Elena di tanti anni prima.
“Che intende fare, allora?” chiese alla fine, sorvegliando le mani di Laura, che trafficavano senza posa tra i fogli sparsi sul tavolo.
Lei lo guardò a lungo, prima di rispondere. Bonnard si accorse che le tremava leggermente la palpebra dell’occhio destro.
“Dovremo andare, mi sembra chiaro”.
“Ha già detto qualcosa a Montenegro?”.
“È per questo che sono venuta subito qui. L’ho trovato, uscendo di casa, fuori della porta, mi aspettava sull’altro lato del marciapiede”.
“Davvero? Era da solo?”.
“Sì”.
“Che le ha detto?”.
“Mi ha fatto paura, aveva uno sguardo diverso dal solito. Con un cenno mi ha fatto segno di avvicinarsi e di seguirlo. Camminava velocemente, non riuscivo a stargli dietro”.
“Che le ha detto?”.
“Che anche loro hanno decifrato la traccia”.
“Oh questa è proprio bella!” sghignazzò Bonnard, “e allora che ci pagano a fare?”.
“Mi ha detto che i tempi si stanno accorciando, e che vogliono fare in fretta. Perciò, senza aggiungere altro, e presupponendo che io, cioè noi, sapessimo già tutto, mi ha detto che domani mattina alle undici c’è un volo per Copenhagen. Torneremo già in serata. Ci sono due biglietti a nostro nome,
l’appuntamento è alle dieci in punto, al gate 323. Noi dovremo arrivare separatamente, ha detto”.
“Un momento! Un momento!” fece Bonnard, agitando la mano con la pipa, diradando la nube di fumo azzurro sospesa nell’aria, “un momento, Laura! Analizziamo per bene la cosa”.
“In che modo ancora?”.
Sembrava impaziente di convincerlo della necessità di quella partenza, e della necessità di non contravvenire agli ordini di Montenegro.
“Se le cose stanno così, non c’è alcuna necessità che venga anch’io fin laggiù!”.
Laura lo spiò per capire se stesse dicendo sul serio. 
“Ho una certa età”, aggiunse bonariamente Bonnard, “se si tratta soltanto di fare una visita in questo museo danese, di dare un’occhiata alla mummia in questione e prelevare l’ennesimo regalino in forma di biglietto, predisposto dal nostro misterioso tessitore di trame, non c’è alcuna necessità di andare in due”.
Laura, scrollò la testa:
“Non mi dirà che vuole lasciarmi da sola con Montenegro”.


Tratto da Fabrizio Falconi - Porpora e Nero - Edizioni Ponte Sisto, 2019
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