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15/05/24

"Storia di mia moglie" di Ildikó Enyedi, storia di una ossessione amorosa - Recensione


"Storia di Mia Moglie" - visibile su Amazon Prime Video e anche su Raiplay (ma qui solo in versione doppiata in italiano) - (A feleségem története) è un film del 2021 scritto e diretto dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, già vincitrice della Camera d'Or al Festival di Cannes del 1989 per "Il mio XXo secolo" e Orso d'Oro a Berlino per "Corpo e Anima" nel 2017 e qui al suo esordio in un lungometraggio in lingua inglese.

Si tratta dell'adattamento cinematografico del romanzo "La storia di mia moglie" (1942) del misconosciuto scrittore ungherese Milán Füst - pubblicato in Italia da Adelphi - frutto di una coproduzione ungherese, tedesca, francese e italiana, interpretato da Léa Seydoux, Gijs Naber, Louis Garrel (e, in ruoli secondari anche gli italiani Sergio Rubini e Jasmine Trinca) e presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, nel 2021.
E' la storia di uno "strano" matrimonio, negli anni '20, nato quasi per caso, quando il capitano di fregata olandese Jakob Störr scommette con un amico che sposerà la prima donna che entrerà nel locale: la sua scelta ricade quindi su Lizzy, un'enigmatica giovane donna francese.
Trasferitisi e sposati in fretta a Parigi, comincia tra i due una relazione ambigua: Jakob è spesso in mare, per il suo lavoro. Ad ogni ritorno, ritrova Lizzy, di cui lo spettatore sa ben poco (e anche lo stesso Jakob), una donna che sembra non avere un passato o un origine.
Il legame tra i due è forte, passionale. Ma c'è qualcosa che manca. Lizzy appare sfuggente. Forse ha un'amante? Forse invece è fedele e vorrebbe da Jakob qualcosa di diverso?
Si innescano meccanismi di controllo, gelosia, manipolazione, sofferenza: slanci passionali seguiti da fredda distanza, fino alle rivelazioni finali.
La lunghezza eccessiva del film - quasi 3 ore - penalizza forse un film visivamente bellissimo, giocato su lunghi silenzi, sguardi, scene di intimità e di nostalgia.
Lea Seydoux è carnale e sensuale quanto mai. L'emblema della femminilità inseguita da Storr, che sembra avere una conoscenza di se stesso, dei suoi sentimenti, e dell'amore, piuttosto primitiva. E' però leale, onesto fino in fondo. Ama, o crede di amare, sua moglie disperatamente. Allo stesso tempo, ne è soggiogato e arriverebbe anche a tradirla (cosa di cui lei sembra perfino incoraggiare) per suscitare una sua considerazione diversa.
Il personaggio di Lizzy è il concentrato di quella femminilità sfuggente che desidera da un uomo, qualcosa di più e qualcosa di diverso che non sia semplicemente la sua sottomissione o dipendenza.
Storr non ne è all'altezza. Anche se farebbe di tutto per esserlo. Sulla scena c'è anche un presunto amante di Lizzy, il fatuo e giovane Dedin, sul quale si concentrano i sospetti del capitano.
"Storia di mia moglie" è dunque la storia di un ossessione, di una relazione passionale, scambiata per "amore" per l'incapacità dei due protagonisti - e soprattutto di Storr - di essere consapevole dei propri sentimenti. La passione erotica/amorosa infatti, come si sa, non basta da sola, a garantire un "amore". L'amore ha - avrebbe - bisogno di altro, cioè di cura. La cura, la dedizione di Storr però assomiglia a quello di chi innaffia una pianta troppe volte al giorno rischiando di farla subito deperire.
Non ha pazienza, non ha la giusta distanza: dubita di sè stesso, prima di lei. E Lizzy lo sa e lo sente.
E' un amore incompleto: sterile, che non dà frutti.
In questo senso, e da questo punto di vista psicologico, il film è molto bello, come del resto lo è la regia, ogni inquadratura, il commento delle immagini e della musica.
C'è però, a tratti, la sensazione che la Enyedi si arrovelli intorno a questa inconcludenza amorosa, e che essa stessa finisca per contagiare la riuscita del film.
Un'inerzia che finisce sul binario previsto, con un amaro finale che fa venire in mente Zivago.
Bravissimi gli attori, in primis la Seydoux e il roccioso Gijs Naber nei panni del Capitano. E' un non protagonista Luis Garrel, che comunque presta la sua faccia perfetta al vacuo Dedin.
Sergio Rubini è nella parte di un bizzarro traffichino che nel film si chiama Kodor, ma parla italiano, mentre quella di Jasmine Trinca è una semplice apparizione di pochi secondi.

Fabrizio Falconi - 2024

01/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)

Non ha avuto forse abbastanza considerazione il maestro ungherese Istvàn Szàbo, di origini ebraiche (classe 1938),  nonostante alcuni suoi film siano arrivati anche al grande pubblico internazionale.

Come è stato il caso di Mephisto, uscito nel 1981, che fu candidato alla Palma d'Oro al Festival di Cannes di quell'anno (vincendo il Premio per la migliore sceneggiatura) e vinse l'Oscar per il miglior film straniero l'anno seguente (1982). 

Il film è notoriamente ispirato all'omonimo romanzo di Klaus Mann (figlio del grande Thomas e morto suicida nel 1949), scritto fra il '35 e il '36 dopo che la sua famiglia aveva lasciato la Germania subito dopo l'avvento del nazismo. 

Il romanzo - e il film - raccontano l'irresistibile ascesa del protagonista, l'eclettico attore Henrik H - sotto i panni del quale Mann aveva celato quelli del celebre attore Gustav Gründgens (marito, fra l'altro, di sua sorella Erika), suo ex amico carissimo, talento straordinario ma anche straordinariamente ambizioso, o meglio arrivista: determinato cioè a qualunque compromesso pur di arrivare al successo.

Il film mostra con una impeccabile sceneggiatura - e la prova monumentale di un grandissimo attore austriaco, Klaus Maria Brandauer - i turbamenti personali di Höfgen dopo l'ascesa di Hitler al potere, nel 1933.

Höfgen, nel pieno della sua scalata al successo, teme che tutto svanisca.  Deve oltretutto nascondere la relazione con Juliette, una ragazza mulatta, che ama e con la quale si esercita nella danza. In breve però, si decide a lasciarsi ogni responsabilità alle spalle, e assetato di successo, scende a patti con i nazisti, diventando presto anzi un favorito di Göering e un esponente di primo piano del teatro di regime.

Il film non si dimentica per la carica trascinante di Brandauer (irresistibile) nel tracciare il suo percorso faustiano: quello che molti intellettuali tedeschi decisero di intraprendere vendendo l'anima, sfruttando i gangli e la macchina di propaganda del regime nazista.

Ma Mephisto è anche una potente meditazione sul ruolo tra creatività e potere.  Tra ambizione personale e arte.  Gusto estetico e responsabilità morale. 

Un dilemma morale che Klaus Mann visse in prima persona, assistendo alla mutazione genetica del cognato, convertitosi al nazismo, contro cui si vendicò scrivendo questo romanzo; e che Szàbo deve aver sentito molto attuale anche nei decenni di Cortina di Ferro, oltre la quale scrisse e diresse questo film, nella Ungheria dei primi anni '80.

Fabrizio Falconi

Mephisto
di István Szabó 
Ungheria, 1981
durata: 144 minuti