"Ripley" (su Netflix) va a diventare la serie dell'anno, ma perché tutti quegli errori?
22/04/24
Ma perché così tanti errori in "Ripley", la serie Netflix di Steven Zaillian ?
"Ripley" (su Netflix) va a diventare la serie dell'anno, ma perché tutti quegli errori?
24/10/22
Umberto Galimberti: La fede cristiana non è "la fede nei miracoli"
In un suo recente intervento su La Repubblica - D del 15 ottobre - Umberto Galimberti torna a riflettere sulla Fede e in particolare sulla fede miracolistica, la fede nei miracoli, quella che secondo il filosofo, "sottrae ai credenti la qualità spirituale alimentando le parti più infantili di noi."
E' un intervento come sempre stimolante, su cui si può discutere. Mi preme però riportare qui un passo particolarmente interessante sul quale tutti - anche i cristiani - riflettono spesso molto poco.
"Vorrei spostare l'attenzione sulla devozione, peraltro molto diffusa, che riduce la fede cristiana a fede nei miracoli.
Guai se una fede trova nel miracolo il sigillo della verità, adunando le folle intorno a un santuario costruito a seguito di una apparizione o di un evento considerato miracoloso, perché questo significa contravvenire al monito che Gesù rivolge all'apostolo Tommaso che dubita della sua resurrezione: "Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto."(Giovanni, 20,29)
Se Gesù ha mostrato a tutto il popolo di Gerusalemme lo strazio della sua passione e a pochissimi il miracolo della resurrezione, ciò forse significa che non intendeva consegnare la fede, che da allora si sarebbe detta "cristiana", allo stupore del miracolo, ma intendeva affidarla alla sua partecipazione al dolore del mondo, che da quel giorno, nella religione cristiana, acquistò un senso, peraltro testimoniato dal fatto che il simbolo di quella religione divenne il crocefisso."
Parole su cui è bene meditare.
Fabrizio Falconi - 2022
08/04/21
Spunta a Madrid un possibile Caravaggio perduto - stava per andare all'asta per 1500 euro
Il ministro della Cultura spagnolo, Jose' Manuel Rodríguez Uribes, ha confermato su Twitter che un quadro su quale sono state avanzate ipotesi di una possibile attribuzione a Caravaggio è stato dichiarato non esportabile.
"Il quadro e' di valore", ha detto Uribe ai media iberici, "siamo stati rapidi". Si tratta del dipinto "La Coronación de espinas", attribuito al circolo di Jose' de Ribera (secolo XVII), ritirato dall'asta della Casa Ansorena.
La presenza dell'opera era prevista in una vendita in programma per oggi alle 18 a Madrid, con una base d'asta di 1.500 euro.
Fonti ministeriali spiegano che serve "uno studio tecnico e scientifico approfondito" per valutare se il dipinto messo all'asta a Madrid e poi ritirato e' davvero un'opera originale di Caravaggio.
Le stesse fonti hanno spiegato che il ministero della cultura e' stato avvertito martedi' dal Museo del Prado dell'esistenza del quadro, messo all'asta dalla Casa Ansorena a un prezzo base di 1.500 euro.
A questo punto, e' stata convocata una riunione d'urgenza della Giunta di qualificazione, valutazione ed esportazione dei beni del patrimonio storico spagnolo, tenutasi mercoledi'.
Da qui, la decisione di dichiarare il dipinto non esportabile come "misura cautelare".
Il ministero ha chiesto alla Comunita' Autonoma di Madrid di dichiarare il quadro come Bene d'Interesse Culturale, una misura che permetterebbe di proteggere l'opera mentre viene analizzata. L'amministrazione regionale non ha ancora risposto a una richiesta di informazioni a riguardo.
26/10/20
Il "Bacchino Malato" del Caravaggio alla Galleria Borghese di Roma, un capolavoro e la sua storia
Il cosiddetto "Bacchino Malato" è un autoritratto del grande pittore ed è anche il primo quadro che conosciamo di lui e il primo che dipinse a Roma, dove arrivò "senza recapito e senza provvedimento", anche se studi più recenti dicono che si appoggiò a conoscenti della famiglia della madre.
E' un quadro piccolo, di quelli fatti per vendere.
Caravaggio ebbe una vita turbolenta, con risse e ferimenti: il nome "Bacchino Malato" fu dato da Roberto Longhi (grande storico e critico d'arte, 1890-1970), e le labbra violacee, il colorito grigiastro, l'aria emaciata, fanno pensare che l'autore si sia ritratto, convalescente, dopo uno di questi episodi.
Fonte: "Entrate nei musei, vi farà sempre bene!" - Intervista a Francesca Cappelletti, nuovo direttore della Galleria Borghese di Roma, di Ambra Radaelli, D- Repubbblica, 17 ottobre 2020, p. 75
16/06/20
Arriva Caravaggio ai Musei Capitolini - Fino al 13 settembre
13/03/19
La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Silvestro a Roma.
Fabrizio Falconi
tratto da:
MISTERI E SEGRETI DEI RIONI E DEI QUARTIERI DI ROMA
Newton Compton Editore
Roma, 2014-2017
29/05/18
La Natività del Caravaggio rubata dalla Mafia nel 1969, non fu distrutta !
11/04/17
Apre Venerdì la Mostra di Pasqua: "Da Caravaggio a Bernini", alle Scuderie del Quirinale.
Ad arricchire le raccolte d’arte della dinastia asburgica contribuirono i frequenti doni diplomatici da parte dei governanti italiani, determinati a guadagnarsi il favore dei sovrani di Spagna che con i loro possedimenti – il Viceregno di Napoli e lo Stato di Milano – condizionarono dalla metà del Cinquecento l’evoluzione della complessa situazione politica italiana.
È questo il caso di due tra i dipinti più spettacolari in mostra, Lot e le figlie di Guercino e La conversione di Saulo di Guido Reni, donati a Filippo IV dal principe Ludovisi allo scopo di garantire la protezione spagnola sul minuscolo Stato di Piombino.
Moltissime altre opere d’arte, tra le quali il magnifico Crocifisso del Bernini proveniente dal Monastero di San Lorenzo del Escorial, opera raramente accessibile al grande pubblico, vennero commissionate o acquistate da mandatari del re; altre ancora vennero ordinate o comprate, come nel caso della Salomè di Caravaggio, dai rappresentanti della monarchia spagnola in Italia (ambasciatori e viceré) inviati presso la corte pontificia o a Napoli, alla morte dei quali le opere andarono ad accrescere le collezioni reali.
L’interesse per la cultura italiana da parte dei sovrani spagnoli si riflette inoltre negli inviti a lavorare a corte rivolti a maestri quali il napoletano Luca Giordano, attivo in Spagna per un decennio.
Ed è testimoniato infine dai viaggi in Italia di alcuni artisti spagnoli, come José de Ribera, che giunse a Roma nel 1606 e trascorse la maggior parte della sua vita a Napoli.
Di questo artista la mostra espone cinque capolavori tra cui il celebre Giacobbe e il gregge di Labano.
Il primo soggiorno di Velázquez in Italia, tra il 1629 e il 1630, si rivelò fondamentale per la sua pittura, come dimostra l’eccezionale Tunica di Giuseppe, tra i maggiori raggiungimenti della sua intera opera, mentre il suo trionfo come ritrattista presso la corte pontificia avvenne in occasione del suo secondo viaggio italiano tra il 1649-1650.
Nel 1819, per volere del re Ferdinando VII, venne creato il Museo Real – in seguito Museo del Prado – in cui furono raccolte opere provenienti per la maggior parte dalle Collezioni Reali. Quelle che non vennero trasferite nel museo rimasero presso le residenze a disposizione dei monarchi, i cosiddetti Reales Sitios.
Nel 1865 la regina Isabella II rinunciò alla proprietà personale dei beni ereditati dai propri antenati e ne cedette la gestione allo Stato, ponendo le basi di quello che oggi è Patrimonio Nacional.
E’ da questo straordinario fondo collezionistico, a tutt’oggi sottoposto alla tutela di Patrimonio Nacional, che i capolavori oggi presentati a Roma sono stati selezionati sulla base del loro eccezionale valore artistico e storico.
Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni reali di Spagna
Scuderie del Quirinale
14 aprile – 30 luglio 2017
a cura di Gonzalo Redín Michaus
Immagine: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Salomé con la testa del Battista, 1607Madrid, Patrimonio Nacional. Palazzo Reale di Madrid
09/12/16
Una grande mostra alla Galleria Borghese, "L'origine della Natura Morta. Caravaggio e il Maestro di Hartford" fino al 19 febbraio, con aperture straordinarie.
La mostra è curata da Anna Coliva, storica dell’arte e direttrice della Galleria Borghese e da Davide Dotti, storico e critico d’arte che si occupa di barocco italiano e in particolare dei temi del vedutismo e della natura morta.
Da alcuni anni la Galleria Borghese porta avanti un programma di mostre, varie per argomento e approccio ma tutte orientate sulla sua natura, sulla sua perfetta e intensa storicità di edificio e di collezione. In ogni mostra la Galleria non è la location ma la protagonista indispensabile allo svolgimento del tema delle mostre stesse.
Quella che si inaugura oggi è l’occasione, prettamente storiografica e filologica, per inserirsi nei percorsi della Galleria narrando il tema dell’origine del genere pittorico che solo molto più tardi verrà chiamato “natura morta”. La critica d’arte seicentesca infatti denominava tali quadri come “oggetti di ferma”, con l’esatto moderno significato di “modelli immobili”, al pari della locuzione anglosassone still life.
08/07/16
Beatrice Cenci, storia del fantasma più famoso di Roma.
Oggi, 8 luglio ricorre l'anniversario della nascita di Artemisa Gentileschi (8 luglio 1593), la grande pittrice romana. La ricordiamo con questo episodio poco conosciuto della sua vita, quando assistette in piazza alla esecuzione capitale di Lucrezia Borgia.
La storia di Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma.
Di questo processo infatti, parlò tutta Roma, e per secoli interi la fama della intricata vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.
E c’era tutta Roma quel giorno, l’11 settembre (giorno non proprio fortunato, a giudicare dai corsi e ricorsi storici) del 1599 ad assistere, nella Piazza del Castel Sant’Angelo, alla terribile esecuzione della bella Beatrice, accusata di parricidio, e dei suoi complici.
Una folla incontenibile tanto che, nel caldo afoso in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono nel fiume.
Tra loro c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte, c’erano i più grandi avvocati dell’epoca, Molella e Farinacci, che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca, c’erano soldati e artisti: tra questi ultimi, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca.
È facile immaginare quale suggestione dovette suscitare l’esecuzione dei condannati. Prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.
Dopo di loro, Giacomo, il fratello più grande di Beatrice, fu squartato davanti alla folla, dopo che durante il tragitto fino al patibolo era stato torturato con tenaglie roventi.
Ma cosa avevano fatto costoro di così grave e imperdonabile per essere stati condannati a una fine pubblica così atroce? La vicenda umana di Beatrice, che visse soltanto ventidue anni, è tra le più tristi che si ricordi nella lunga storia di Roma.
Eppure la ragazza, quando era nata, il 12 febbraio del 1577, sembrava possedere tutte le caratteristiche del privilegio.
Beatrice era infatti nata dal matrimonio tra il Conte Francesco Cenci, che aveva ereditato una somma favolosa dal padre, dignitario e tesoriere della Camera Apostolica, ed Ersilia Santacroce. Come si usava spesso all’epoca, era un matrimonio consumato tra due adolescenti: gli sposi infatti avevano soltanto quindici anni.
Nei successivi venti, Ersilia diede al Conte ben dodici figli, tra cui due femmine, Antonina e Beatrice. Tutti i guai, nella vita di Beatrice, derivarono proprio dal padre, uomo terribilmente dispotico, collerico, violento con manie di persecuzione.
Quando Ersilia morì di parto, nel 1584, l’uomo mandò le figlie in un convento. Beatrice aveva allora soltanto sette anni. Restò per otto anni in clausura, finché, ormai adolescente, le fu permesso di rientrare in casa. Qui però trovò una situazione ancora più insostenibile. Il padre era ormai in preda a un vero delirio di dissoluzione: continuamente coinvolto in risse da strada, fatti di sangue, piccoli e grandi scandali (tra cui un’accusa di sodomia) stava minando il suo ingente patrimonio pagando avvocati senza scrupoli che lo liberavano dai guai a prezzo di spaventosi onorari.
La vita in famiglia, specialmente per le due figlie femmine, dovette molto presto tramutarsi in un inferno. E così quando Antonina, dopo aver scritto una supplica al papa, ottenne l’autorizzazione da Clemente VIII di sottrarsi alla autorità paterne e di convolare a nozze con il rampollo di una nobile casata di Gubbio, il padre, il conte Francesco, nel timore di perdere anche Beatrice, decise di segregarla.
La rinchiuse insieme a Lucrezia, la nuova moglie che aveva sposato nel 1593, in un remoto e lugubre castello, chiamato La Rocca, nella provincia del reatino, non distante dalla Valle del Salto.
Tutti i tentativi di Beatrice di evadere dalla prigione, anche con il ricorso a servitori o amici di famiglia, si rivelarono infruttuosi: non solo, per sfuggire ai debiti che stavano diventando insostenibili, ormai anche malato, il Conte pensò bene di trasferirsi lui stesso a La Rocca, portando con sé i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo.
La vita in quel luogo desolato divenne ancora più dura. Beatrice doveva subire ogni tipo di angheria e assistere ai maltrattamenti che il vecchio despota imponeva alla matrigna e ai figli.
Quando il vaso fu colmo, i figli decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi con ogni mezzo del terribile padre. I primi due tentativi – un’imboscata organizzata da briganti presi a tradimento, e un avvelenamento – andarono a vuoto. Ma il terzo, andato in scena con la complicità di due servitori di stanza a La Rocca (i quali anche loro non ne potevano più del padrone), Marzio da Fioran, detto il Catalano, e Olimpio Calvetti, riuscì, anche se non così perfettamente come si era sperato: il fratello maggiore, Giacomo, in visita al Castello, preparò la pozione con l’oppio che servì a stordire il vecchio. Quando si fu addormentato, Marzio, senza pietà gli spezzò le gambe con un tortore, e Olimpio lo finì con un chiodo nella gola.
Fatale, per la cattiva riuscita del crimine, fu la decisione di simulare, come causa di morte, la caduta da un ballatoio del castello.
Il cadavere fu ritrovato la mattina dopo, ai piedi delle mura, e figli e moglie piansero finte lacrime per indurre a credere che si fosse trattato di una semplice disgrazia. Sulle prime il depistaggio riuscì.
Il Conte fu seppellito nella chiesa del posto, e i famigliari fecero ritorno a Roma, nel palazzo della famiglia Cenci, apparentemente liberi dall’ossessiva presenza del vecchio padre-padrone. Ben presto però, in città cominciarono a correre voci e maldicenze sulla fine del Conte. Furono ordinate due inchieste.
La prima senza apparenti risultati, la seconda, richiesta direttamente dal Viceré di Napoli e con il parere favorevole del papa stesso, portò invece alla riesumazione del cadavere, all’esame di tutte le ferite presenti sul corpo, e all’interrogatorio serrato di diversi testimoni, tra cui una lavandaia del castello che confessò di aver nascosto un lenzuolo macchiato di sangue «che la figlia, Beatrice, aveva detto essersi macchiato del suo liquido mestruale».
I presunti colpevoli, i due servitori, i fratelli Giacomo, Beatrice e Bernardo, e la matrigna Lucrezia furono dunque arrestati e cominciò per loro il calvario delle torture, che venivano usate sistematicamente per ottenere la confessione.
Il primo a cedere fu Olimpio, che in cambio della delazione degli altri complici fu lasciato fuggire, salvo poi essere ucciso da prezzolati sicari al soldo della famiglia Cenci, che temeva nuove confessioni a danno di altri membri del casato.
Anche l’altro servitore, Marzio, morì durante i feroci interrogatori.
Alla sfortunata Beatrice, che inizialmente negò tutto attribuendo le colpe unicamente ai domestici del castello, toccò il terribile supplizio della corda: il condannato, sospeso a mezz’aria a una corda pendente dal soffitto, con le braccia legate dietro la schiena, non poteva resistere.
Non conosciamo con certezza il ruolo che Beatrice ebbe nel complotto per uccidere il padre. Fatto sta che la sua ammissione bastò per farle meritare la massima condanna, insieme agli altri complici del delitto.
Gli imputati vennero rinchiusi nelle carceri di Tordinona e di Corte Savella e a nulla valsero i tentativi dell’avvocato difensore. Beatrice avrebbe dovuto, per discolparsi, denunciare di essere stata violentata dal padre, ma la ragazza si rifiutò di farlo e la condanna fu emessa, senza indugi, per lei, per madama Lucrezia e per Giacomo.
Il fratello più piccolo Bernardo, ancora minorenne, fu risparmiato, e la sua pena commutata in lavori forzati a bordo delle galere pontificie. Dalla sua cella della prigione di Corte Savella, che sorgeva nei pressi del giardino degli Aranci sull’Aventino, Beatrice cercò di sfruttare anche una occasione che il caso le mise a disposizione: la terribile alluvione dell’inverno del 1598 che, con lo straripamento del Tevere causò anche il definitivo crollo del celebre Ponte Rotto, il più antico di Roma, di cui restarono solo pochi ruderi, in mezzo al letto del fiume.
Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015
12/04/16
Trovare un quadro in soffitta e scoprire che è (forse) di Caravaggio.
10/03/16
"Francesco nell'arte, da Cimabue a Caravaggio", una splendida mostra a Ascoli Piceno.
Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica
12 marzo / 30 giugno 2016
a cura di Giovanni Morello e Stefano Papetti
01/05/15
Il ritratto del Doge Loredan, uno dei 5 dipinti più belli al mondo.
24/03/14
Dürer, Schiele, Mapplethorpe, l'arte di mettersi a nudo.
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata
12/07/13
Mirabilia Urbis - V. Sant'Agostino di Fabrizio Falconi
Mirabilia Urbis
V. Sant'Agostino
Quanti occhi di madonne
vivono con taglienti raggi di sole
e cuori di palma,
sulle scale dovrà pur egli venire.
Testi per la mostra Petrology (dipinti di Justin Bradshaw) - Chiostro del Bramante, 15 novembre/4 dicembre 2005. Da Fabrizio Falconi, Il respiro di oggi, Terre Sommerse, Roma 2009.
Su Sant'Agostino qui.