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23/11/24

"Nowhere Special" un bellissimo film di Uberto Pasolini, da vedere


Uberto Pasolini è un autore e regista (e produttore) italiano notevole e poco apprezzato e conosciuto in patria. Non parente di PPP, ovviamente, ha origini nobilissime di famiglia e casata, e una vita avventurosa e piena di cose.
Vive e lavora da molti in anni in Inghilterra, e il successo incredibile (come produttore) del film "Full Monty" (1997) gli ha aperto le possibilità di fare vero cinema d'autore, che è quel che gli interessa.
Dopo il sorprendente "Still Life", acclamato dalla critica e dal pubblico (2013), due anni fa ha firmato questo film, "Nowhere Special" ("Niente di speciale") ora disponibile su diverse piattaforme (Raiplay, gratuito, ma solo doppiato - Amazon Prime video in versione originale con sottotitoli al costo di 2.99 euro).
E' un film molto bello, poetico, stravolgente, soprattutto per chi è padre o genitore, ma anche per chi non lo è: perché parla della morte (argomento sempre più tabù in ogni contesto sociale), e della morte inaccettabile di un giovane uomo, già duramente colpito dalla sorte.
E' per di più, una storia vera. Il cui vero significato si esprime nella volontà e degli sforzi di lasciare in eredità il bene a qualcun (altro) che proseguirà il cammino dopo di noi e che dovremo lasciare a malincuore, con grande dolore.
Il film vede l'esordio di uno straordinario bambino attore che si chiama Daniel Lamont.
Il film è particolarmente raccomandabile perché rifugge da ogni sentimentalismo (nel film non c'è nessuna scena madre e nemmeno una di pianto).
Tutto viene vissuto sul volto di James Norton, che si conferma uno dei migliori attori in circolazione (e dei più intelligenti e coraggiosi, encomiabile per scegliere di fare film come questi) e sull'interiorità.
Un film che meriterebbe di essere visto dalle ampie platee che arridono di solito a film più facili o suadenti.

Fabrizio Falconi - 2024

20/11/24

"Presunto innocente" - una bella serie (legal thriller) targata Warner, su AppleTv


"Presunto innocente"
è ora anche una (bella) serie in 8 puntate su AppleTv.

Ricordando la felice impressione che mi fece l'omonimo film, tratto dal romanzone legal-thriller di Scott Turow (ti credo io, "felice": la regia di quel film è di Alan J. Pakula), sono andato a verificare che uscì nel 1990, quindi la bellezza di 34 anni fa (ahia, come passa il tempo).
Non avendolo mai rivisto e non ricordando quindi assolutamente nulla della trama/intrigo, mi sono messo alla visione, apprezzando la scelta degli attori e la confezione del prodotto firmato Warner Bros.
Il ruolo del carismatico procuratore distrettuale, accusato di aver ammazzato brutalmente la sua amante (nonché collega procuratore), che nel 1990 era ricoperto da Harrison Ford è qui felicemente affidato a Jake Gyllenlhaal, mentre altri ottimi attori sono arruolati nei diversi ruoli: Peter Skarsgaard è l'infido e frustrato rivale di Rusty, Tommy Molto; lo straordinario Bill Camp (uno dei migliori caratteristi di Hollywood) è l'amico e difensore di Rusty, Raymond Hogan; Ruth Negga la moglie e la norvegese Renate Hansen (ex modella e vincitrice della Palma d'Oro per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes del 2021) la conturbante amante e vittima, Carolyn Polhemus (nel ruolo che fu di Greta Scacchi).
Non racconto nulla della trama, per evitare spoilers e contumelie, ma invito alla visione perché come ogni buon thriller, anche questo si "risolve" soltanto all'ultimissima inquadratura e con molte differenze rispetto al film. La serie (che era partita per essere "miniserie", quindi conclusa), ha avuto così tanto successo da aver convinto la Warner ad annunciare una seconda stagione (che a questo punto dovrà essere scritta ex novo, visto che la 1a era tratta da un romanzo "chiuso").

Fabrizio Falconi - 2024

02/10/24

Al via il più importante progetto mai tentato sui Beatles: un grande Bio-pic formato da quattro differenti film, uno per ogni membro del leggendario Quartetto di Liverpool


 Prende forma uno dei progetti cinematografici più ambiziosi e difficili di sempre: portare sul grande schermo la storia dei Beatles attraverso quattro differenti biopic, uno per ogni membro della leggendaria band di Liverpool.

Secondo quanto riportato da ScreenRantVogue sarebbe stato scelto il cast delle quattro pellicole e in questi giorni si sarebbe riunito per le prime fasi della preproduzione. 

Secondo il portale InSneider a interpretare Paul McCartney dovrebbe essere Paul Mescal (NapoleOn, Il Gladiatore 2, All Of Us Strangers, Normal People), John Lennon il giovane Harris Dickinson (A Murder at the End of the World), il talentuoso Barry Keoghan (The Batman, Saltburn, Dunkirk, Eternals, Gli Spiriti Dell'Isola) dovrebbe prendere il ruolo di Ringo Starr e Charlie Rowe (Rocketman, I Love Radio Rock, La Bussola D'Oro) in quello di George Harrison

Al momento le indiscrezioni pubblicate dai magazine sopra citati non sono state confermate né smentite dalla Sony Pictures, che distribuirà i quattro film di Sam Mendes.


Per la realizzazione del progetto e la scrittura della sceneggiatura la Apple Corps Ltd. e i Beatles (Paul McCartney, Ringo Starr e le famiglie di John Lennon e George Harrison) concederanno i diritti completi sulla storia della vita dei componenti della band e i diritti musicali.


Come concepito da Mendes che dirigerà i quattro lungometraggi cinematografici, uno dal punto di vista di ciascun membro della band, le quattro pellicole si intersecheranno per raccontare "la sorprendente storia della più grande band mai esistita".


Sempre dal sito ufficiale dei Beatles si apprende che la SPE finanzierà e distribuirà le pellicole in tutto il mondo nel 2027. La modalità del rilascio dei film, i cui dettagli saranno condivisi in prossimità dell'uscita, sarà innovativa e rivoluzionaria.


Mendes dirigerà tutti e quattro i film e li produrrà insieme alla sua partner della Neal Street Productions Pippa Harris e Julie Pastor. Jeff Jones sarà il produttore esecutivo per conto della Apple Corps Ltd.


Sono onorato di raccontare la storia della più grande rock band di tutti i tempi ed entusiasta di sfidare il concetto di ciò che costituisce un viaggio al cinema”, ha affermato Sam Mendes.


"Vogliamo che questa sia un'esperienza cinematografica unica, elettrizzante ed epica: quattro film, raccontati da quattro diverse prospettive che raccontano un'unica storia sulla band più celebre di tutti i tempi", ha affermato Pippa Harris. “Avere la benedizione dei Beatles e della Apple Corps per fare tutto questo è un immenso privilegio. Dal nostro primo incontro con Tom Rothman ed Elizabeth Gabler, è stato chiaro che condividevano sia la nostra passione che l’ambizione per questo progetto, e non possiamo pensare a una casa più perfetta di Sony Pictures”.

La Apple Corps è lieta di collaborare con Sam, Pippa e Julie per esplorare la storia unica di ogni Beatle e riunirli in un modo adeguatamente accattivante e innovativo”, ha affermato Jeff Jones, CEO di Apple Corps Ltd.. 


Fonte Virgin Radio

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Non perdere il nuovo libro sui Beatles appena uscito: "La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", Arcana Editore, 2024 





13/09/24

"La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski" presentazione a Roma, alla Libreria Eli, Domenica 29 Settembre

 


Un libro costato un lungo lavoro di documentazione e ricerca. Per raccontare la storia incredibile del Sogno degli anni '60 e della musica dei Beatles, che immaginava un nuovo mondo, una nuova Età dell'Acquario. 

Infrantosi sull'eco di uno dei più efferati crimini di sempre: la strage di Cielo Alto, a Los Angeles, la mattanza di vittime innocenti, tra cui Sharon Tate, moglie di Roman Polanski (al nono mese di gravidanza) e dei suoi amici, da parte di Charles Manson, transfigurazione del mito hippie di quegli anni nel suo esatto contrario (insieme ai suoi volenterosi carnefici adepti). 

La cronaca di due anni cruciali: dal ritiro spirituale dei quattro di Liverpool nell'ashram di Maharishi, ai piedi dell'Himalaya, allo scioglimento del gruppo che spezzò il sogno dei milioni di fans in tutto il mondo. I quattro che per un decennio erano stati una cosa sola e avevano cambiato (per sempre) la storia della musica e del costume, tornavano a essere quattro, uno contro l'altro. 

Una storia incredibile di intrecci, casualità, segni del destino, provocazioni, sogni e incubi, ricostruita minuziosamente e scritta come un romanzo. 

Si presenta alla Libreria Eli, con Noemi Sarracini e l'autore, e molte foto dell'epoca, rare o rarissime. 

Domenica 29 settembre ore 17,30
Libreria Eli
Viale Somalia 50/a Roma
ingresso libero 

30/07/24

Ecco la lista dei 100 film più belli della storia del Cinema, secondo Spike Lee !

 Spike Lee è uno degli autori più importanti del cinema americano e da sempre un grande cinéphile, grande conoscitore del cinema.

Questa è la sua lista dei 100 migliori films della storia. Opinabile come tutte le selezioni, ma molto molto interessante.






29/07/24

"Le notti di Cabiria" - Perché il film di Fellini è meraviglioso


Il successo, la riuscita di "Cabiria" (il più chapliniano dei film di Fellini) è dovuta anche allo straordinario talento di Fellini nella scelta delle facce che fece la differenza già a partire dai primi film. 

La scelta di un attore francese, Francois Periér per il ruolo dell'orrido ragionier d'Onofrio è decisiva, ai fini della storia, tralasciando per un attimo il ruolo di mattatrice assoluta che spetta alla Masina, sul cui volto corpo e movimenti, è costruito il film.

Periér presta la sua faccia all'ambiguo d'Onofrio, che seduce la povera Cabiria, illudendola nel modo più crudele immaginabile.  

Ma per buona parte della vicenda, ogni spettatore della storia - non solo l'innocente Cabiria, che pure vorrebbe mantenersi diffidente visti i suoi precedenti in materia (la scena iniziale del film è l'anticipazione di ciò che succederà ancora, in una sorta di eterno ritorno) - è convinto della perfetta buona fede dell'uomo. Che appare appunto "un santo", come lo definisce Cabiria. Anche lo spettatore fin troppo smaliziato del 2020, finisce per crederci.

La bontà incarnata si disegna sul volto di Periér ed è solo parecchio più tardi, nella scena al ristorante sul lago, che l'ombra che comincia ad allungarsi sulla faccia dell'uomo, facendo rapidamente virare il film dai toni della commedia (Cabiria segna per molti versi l'inizio della commedia (all')italiana a quelli della tragedia. 

L'importanza delle facce era per Fellini tutto, o quasi. 

E la faccia di Periér, la sua figura, definita dall'impermeabile stazzonato, dalle movenze prima premurose, accudenti, soccorrevoli, e poi brutali, è di quelle che non si dimentica più.

Fabrizio Falconi 2024 

26/07/24

"Le Onde del Destino" il capolavoro di Lars Von Trier che ebbe vicende travagliatissime


 Le Onde del Destino (Breaking the Waves) - qui in una foto durante le riprese, Lars Von Trier con i due protagonisti, Stellan Skarsgard e Emily Watson - ebbe vicende travagliatissime. 


In omaggio alle ferree regole del movimento DOGMA, fondato dallo stesso Von Trier e da Thomas Vinterberg, il film fu girato interamente con fotocamere Super35mm ​​portatili ed è il primo della "trilogia Golden Heart" di von Trier, dedicato a protagonisti buoni e fragili sottoposti a prove cruciali dal destino e dalla cattiveria degli uomini

Von Trier Voleva fare un film naturalistico che fosse anche un film religioso senza miracoli. Impiegò cinque lunghissimi anni per scrivere il film e soprattutto per riuscire a ottenere i finanziamenti e un sostegno finanziario produttivo, dopo gli innumerevoli rifiuti ricevuti.

L'inglese Helena Bonham Carter, che all'epoca la prima scelta di von Trier per interpretare il ruolo di Bess, abbandonò il progetto poco prima dell'inizio delle riprese, a causa della grande quantità di nudità e sessualità richieste dal ruolo. Ciò comportò nuovi ritardi, e nuovi problemi da parte dei produttori che volevano annullare il film.

Per cercare di venirne fuori, Von Trier prese in considerazione diverse altre attrici famose, sperando che la presenza di una "star" convincesse definitivamente i produttori, ma nessuna delle interpreti prescelte era a suo agio con l'argomento. Von Trier alla fine fu conquistato dall'audizione di Emily Watson , anche se all'epoca era una completa sconosciuta nell'industria cinematografica. La scelta della Watson, che fu conquistata dal genio creativo di Von Trier, ebbe la meglio sugli ultimi dubbi dei finanziatori.

Nel frattempo Von Trier, che era ateo, si era convertito al cattolicesimo prima di cominciare a girare il film

Mentre la Watson pagò personalmente l'aver interpretato (magistralmente) il ruolo di Bess, che a causa della scabrosità dell'argomento, le procurò l'espulsione dalla Facoltà di Filosofia e Scienze Economiche che aveva frequentato fino all'inizio delle riprese.

Fabrizio Falconi - 2024


13/07/24

Cosa vuol dire essere un vero attore?


Come è noto, soltanto qualcosa che è vuoto può essere riempito, mentre nulla che è già pieno può esserlo.

Vale anche per la recitazione. Il campione dello svuotamento era Mastroianni: che era sempre vuoto. Per questo riusciva a interpretare qualunque personaggio, cioè ad esserlo per davvero. Perché il vero Mastroianni restava in disparte, non avresti mai saputo dire veramente chi fosse.
Molti attori invece, pur tecnicamente bravissimi, sono troppo pieni per essere davvero qualcun altro. Servillo è troppo Servillo per essere davvero qualcun altro: è sempre "Servillo che fa qualcuno."
L'arte della recitazione più difficile è quella della sottrazione [Laurence Olivier]: non è istrionismo, ammiccamento, fuochi d'artificio. È capacità di scomparire.

Fabrizio Falconi 2024

15/05/24

"Storia di mia moglie" di Ildikó Enyedi, storia di una ossessione amorosa - Recensione


"Storia di Mia Moglie" - visibile su Amazon Prime Video e anche su Raiplay (ma qui solo in versione doppiata in italiano) - (A feleségem története) è un film del 2021 scritto e diretto dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, già vincitrice della Camera d'Or al Festival di Cannes del 1989 per "Il mio XXo secolo" e Orso d'Oro a Berlino per "Corpo e Anima" nel 2017 e qui al suo esordio in un lungometraggio in lingua inglese.

Si tratta dell'adattamento cinematografico del romanzo "La storia di mia moglie" (1942) del misconosciuto scrittore ungherese Milán Füst - pubblicato in Italia da Adelphi - frutto di una coproduzione ungherese, tedesca, francese e italiana, interpretato da Léa Seydoux, Gijs Naber, Louis Garrel (e, in ruoli secondari anche gli italiani Sergio Rubini e Jasmine Trinca) e presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, nel 2021.
E' la storia di uno "strano" matrimonio, negli anni '20, nato quasi per caso, quando il capitano di fregata olandese Jakob Störr scommette con un amico che sposerà la prima donna che entrerà nel locale: la sua scelta ricade quindi su Lizzy, un'enigmatica giovane donna francese.
Trasferitisi e sposati in fretta a Parigi, comincia tra i due una relazione ambigua: Jakob è spesso in mare, per il suo lavoro. Ad ogni ritorno, ritrova Lizzy, di cui lo spettatore sa ben poco (e anche lo stesso Jakob), una donna che sembra non avere un passato o un origine.
Il legame tra i due è forte, passionale. Ma c'è qualcosa che manca. Lizzy appare sfuggente. Forse ha un'amante? Forse invece è fedele e vorrebbe da Jakob qualcosa di diverso?
Si innescano meccanismi di controllo, gelosia, manipolazione, sofferenza: slanci passionali seguiti da fredda distanza, fino alle rivelazioni finali.
La lunghezza eccessiva del film - quasi 3 ore - penalizza forse un film visivamente bellissimo, giocato su lunghi silenzi, sguardi, scene di intimità e di nostalgia.
Lea Seydoux è carnale e sensuale quanto mai. L'emblema della femminilità inseguita da Storr, che sembra avere una conoscenza di se stesso, dei suoi sentimenti, e dell'amore, piuttosto primitiva. E' però leale, onesto fino in fondo. Ama, o crede di amare, sua moglie disperatamente. Allo stesso tempo, ne è soggiogato e arriverebbe anche a tradirla (cosa di cui lei sembra perfino incoraggiare) per suscitare una sua considerazione diversa.
Il personaggio di Lizzy è il concentrato di quella femminilità sfuggente che desidera da un uomo, qualcosa di più e qualcosa di diverso che non sia semplicemente la sua sottomissione o dipendenza.
Storr non ne è all'altezza. Anche se farebbe di tutto per esserlo. Sulla scena c'è anche un presunto amante di Lizzy, il fatuo e giovane Dedin, sul quale si concentrano i sospetti del capitano.
"Storia di mia moglie" è dunque la storia di un ossessione, di una relazione passionale, scambiata per "amore" per l'incapacità dei due protagonisti - e soprattutto di Storr - di essere consapevole dei propri sentimenti. La passione erotica/amorosa infatti, come si sa, non basta da sola, a garantire un "amore". L'amore ha - avrebbe - bisogno di altro, cioè di cura. La cura, la dedizione di Storr però assomiglia a quello di chi innaffia una pianta troppe volte al giorno rischiando di farla subito deperire.
Non ha pazienza, non ha la giusta distanza: dubita di sè stesso, prima di lei. E Lizzy lo sa e lo sente.
E' un amore incompleto: sterile, che non dà frutti.
In questo senso, e da questo punto di vista psicologico, il film è molto bello, come del resto lo è la regia, ogni inquadratura, il commento delle immagini e della musica.
C'è però, a tratti, la sensazione che la Enyedi si arrovelli intorno a questa inconcludenza amorosa, e che essa stessa finisca per contagiare la riuscita del film.
Un'inerzia che finisce sul binario previsto, con un amaro finale che fa venire in mente Zivago.
Bravissimi gli attori, in primis la Seydoux e il roccioso Gijs Naber nei panni del Capitano. E' un non protagonista Luis Garrel, che comunque presta la sua faccia perfetta al vacuo Dedin.
Sergio Rubini è nella parte di un bizzarro traffichino che nel film si chiama Kodor, ma parla italiano, mentre quella di Jasmine Trinca è una semplice apparizione di pochi secondi.

Fabrizio Falconi - 2024

29/04/24

"La Zona d'Interesse" NON è un film sulla "banalità del male", ma sulla "banalità di CHI COMPIE il male" !


A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".

Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.

Fabrizio Falconi - 2024

09/04/24

Appunti a margine della lettura de "Il dottor Živago" di Boris Pasternàk


 Appunti a margine della lettura de Il Dottor Zivago

Pur non appartenendo al periodo d'oro tra il 1850 e il 1910, ed essendo invece stato scritto più avanti e completato soltanto nel 1957, Zivago risente della grande tradizione russa, innanzitutto perché Pasternak cominciò a lavorarvi quando aveva 20 anni, e alcune parti risalgono dunque al 1910 e al 1920.
Forse anche per questo lunghissimo periodo di gestazione, Zivago è uno strano romanzo, poco organico nelle diverse parti e nella intensità del racconto.
Il fatto che nel pieno degli anni Sessanta, grazie anche all'incredibile spy story che permise al romanzo di arrivare in Italia (per opera di Giangiacomo Feltrinelli) e poi di essere tradotto in tutti i paesi occidentali, sicuramente ne ampliò a dismisura l'impatto sui lettori di allora.
Si era in piena Guerra Fredda. Ciò che filtrava dalla Cortina di Ferro, di quella vita, di quel mondo, era poco e incerto. La Russia Sovietica una specie di mondo a parte, di cui si sapeva quasi niente, lontano e minaccioso.
Quando arrivò Zivago, dunque, fu subito clamore. Amplificato dalla riduzione per il cinema che subito ne fece David Lean (1965), con il kolossal divenuto fenomeno di massa sopra ogni previsione (nell'intera storia del cinema in sala italiana, Zivago è ancora oggi il film più visto in assoluto, con circa 23 milioni di spettatori - quasi il doppio di "Titanic").
Eppure Zivago è un romanzo di difficile lettura. Quanti, all'epoca, lo lessero veramente? Quanti di quelli che lo comprarono? Quanti di quelli che poi corsero a vedere il film? Credo una piccola parte.
Il film di Lean è poi una riduzione molto molto libera del romanzo. La storia d'amore, che nel film è centrale, in tutto il libro di Pasternàk occupa non più di 120 pagine (sulle 600 del romanzo). Lara Fedorovna, la "protagonista", compare in ancora meno pagine di queste:
l'incontro di Zivago e Lara descritto nel romanzo, che si svolge in un modo quasi del tutto casuale (il colpo di pistola di Lara a Komarovskij) ed è lungo soltanto due pagine, i giorni in cui la rivede al fronte- lei crocerossina alla ricerca del marito Pasa, lui arruolato come medico - e poi nelle due incantate settimane che trascorrono insieme alla fine della guerra civile, quando Tonja, la moglie, e i figli sono scappati all'estero, a Parigi, e il marito di Lara, Strelnikov è diventato il capo dei rossi.



Per questo Lean decise di inserire, nella sceneggiatura, altre occasioni di incontri, che nel romanzo non ci sono, come quello di Zivago come assistente del professore, per soccorrere l'amante di Komarovskij in fin di vita, al termine del quale Zivago e Lara intercettano i loro sguardi attraverso un vetro.
Per il resto, il vero protagonista del romanzo è l'incomprensibile - specie per chi non è russo - mondo russo, nel suo periodo più caotico, dalla rivoluzione d'ottobre alla terribile guerra civile che ne seguì.
Il romanzo è popolato da almeno un centinaio di personaggi, ciascuno con un suo limitato spazio, però molto spesso ricorrente, ciascuno con i classici nomi russi resi ostici per via della presenza del patronimico (il dizionario finale della edizione Feltrinelli, che è lungo quindici pagine, è poco utile, perché non inserendo l'ordine alfabetico dei patronimici risulta di difficile consultazione).
La lettura è resa impervia oltre che dall'affollarsi di mille personaggi, anche da descrizioni lunghissime (ma spesso stupende) dei luoghi, degli ambienti, delle vicende, dei viaggi estenuanti, degli incontri casuali, che non generano conseguenze.
Carmelo Bene raccontava di aver lasciato il romanzo a metà. Per un lettore di oggi questo è ancora più facile, e con i criteri editoriali di oggi - specialmente in Italia - nessuno dei famosi "editor" pubblicherebbe oggi, temo, un romanzo così poco strutturato sui violenti parametri imposti oggi dalla legge "commerciale".
Detto questo, Zivago è un romanzo straordinario. Forse l'ultimo grande romanzo "umanista": Juri Andreevic è l'eroe passionale, vittima e testimone della follia del mondo degli uomini, che si ammazzano e si scannano per assurdità e non sanno nulla della vera vita, perché non ne riconoscono nulla della sua poesia e dell'incanto.
Ogni pagina di questo romanzo, è una sofferente lezione di vita.
Leggerlo o ri-leggerlo oggi è altamente consigliabile: un puro antidoto alla superficialità (non "leggerezza") inane del mondo contemporaneo.

Fabrizio Falconi - 2024

02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

29/12/23

IL NASO SOMIGLIANTE, MA RIGIDO DI BRADLEY COOPER E' COME IL SUO FILM


Non mi ha coinvolto "Maestro" di Bradley Cooper, 2023, uscito in première mondiale sotto Natale (presumo per poter gareggiare per gli Oscar di quest'anno, e probabilmente farne man bassa).

E' un film di sforzo produttivo notevolissimo (c'è un esercito di produttori tra cui spiccano Martin Scorsese e Steven Spielberg) e tutti sappiamo - dalle molte interviste rilasciate per il lancio del film - che Bradley Cooper, anche regista, ha realizzato uno sforzo titanico, durato 5 anni, per rendere e rendersi il più somigliante possibile a Leonard Bernstein, curandone maniacalmente ogni aspetto: gestualità, voce, modo di fumare (la sigaretta è qui una sorta di protesi attaccata alla sua mano), tic, impeti durante la direzione d'orchestra, modo di sorridere, ecc..
E però, alla fine, è proprio questo il punto: è un film davvero TROPPO costruito, troppo perfetto, troppo studiato, preparato. E come è noto, dalla perfezione è raro che nasca qualcosa di realmente coinvolgente ("dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior..." cantava Fabrizio De André).
Il simbolo di questa perfezione è il naso "alla Bernstein" che Cooper si è fatto installare sul volto. E' perfetto, è il naso "DI" Bernstein, ma è terribilmente rigido (essendo di lattice, presumibilmente): quindi quando parla, nei rari primi piani, ci si accorge del trucco, perché sembra di gesso e non fa una minima piega che segua le espressioni del volto.
Insomma, Cooper ha realizzato un ottimo e bel film, ma senza anima, come il suo naso. Perché anche la sua prestazione-monstre di attore a tutto campo, mentre dirige, fa parte di quel modo di recitare che appartiene più al tipo di recitazione da Museo delle Cere, che all'arte del Cinema.
Ricorda, fatte le debite proporzioni, il Craxi di Favino di qualche anno fa: anch'esso mostruosamente somigliante (migliaia di ore di trucco, come qui in "Maestro"), ma non una vera grande "prova d'attore", perché l'arte della recitazione non è imitazione, ma interpretazione: è inventare, rielaborare, fornire nuovi contributi per la comprensione di un essere umano o dei sentimenti umani, non pedissequa ricostruzione: quella è un'altra arte, è l'arte del documentario, del racconto biografico.
Ma il Biopic va sempre alla grande, ed è la strada più sicura, per raggiungere il massimo del plauso e dei riconoscimenti (primariamente, Oscar).
Detto questo, il pregio encomiabile del film è nella regia: qui Cooper ha cercato coraggiosamente strade originali, con l'utilizzo di molti (forse troppi) campi lunghi, molte inquadrature fisse, molti piani sequenza. Perfino nella scena madre del film, quella del litigio tra i coniugi che, potendo contare su due attori straordinari come Cooper e la Mulligan, si svolge INTERAMENTE in campo lungo, senza mai mostrare l'espressione in primo piano, del volto di uno di loro.
Tutto questo confeziona una veste di grande eleganza al film (comunque indeciso tra diversi stili, perché nella prima parte sembra orientarsi al musical, mentre nel prosieguo diventa racconto intimista), una eleganza però fredda, priva di vero coinvolgimento.
E' chiaro che a Cooper interessava soprattutto tessere l'elogio di una relazione amorosa - quella tra Bernstein e la moglie Felicia - difficile e anticonformista, basata sull'eroico senso di tolleranza di lei, che accetta di vivere con un uomo-artista diviso a metà, diviso cioè tra la moglie e i figli, e i suoi continui e sempre più importanti amori maschili.
In questo, Carey Mulligan si conferma forse la migliore attrice oggi in circolazione, e regala grazia e commozione al suo personaggio, anche se nei continui dialoghi quasi sempre circonvoluti, di cui è disseminato il film, quasi mai si riesce a cogliere il pieno senso di questo "patto" esistente tra i due e il vero, misterioso, legame che li unisce.
Ultima notazione: la musica NON è l'elemento più importante del film, e sembra rimanere piuttosto in sottofondo, con l'unica eccezione del lunghissimo piano sequenza della esecuzione in chiesa del finale della Sinfonia n. 2 di Mahler, che è anche la scena dove Cooper quasi si supera nel gioco di vero-simiglianza con il Maestro.

Fabrizio Falconi - 2023