Gabriele
D’Annunzio e il cuore messo a nudo
Il
Notturno
di Fabrizio Falconi
1. D’Annunzio e le prose memoriali.
C’è da sempre una
dicotomia nella valutazione critica dell’opera di Gabriele D’Annunzio come
figura cardine della letteratura italiana di inizio Novecento. E’ quella che
riguarda la differenza, il contrasto di toni e di sostanza tra il lirismo
decadente dei cinque libri delle Laudi – che ne decretarono l’affermazione e la
fortuna di poeta – scritte tra il 1903 e il 1912, e la riflessione solitaria e
pensosa, l’introversione oscura, meditativa e dolente contenuta nelle
cosiddette ‘prose memoriali’, delle quali il Notturno è il caso più
emblematico.
Se infatti il
‘rimprovero’ che è sempre stato mosso al D’Annunzio vate, al D’Annunzio lirico,
per gran parte del Novecento post bellico, fu quello di una mancanza di
essenzialità, e di un compiacimento stantìo di una lingua artificiosamente elaborata, ai limiti del barocco, tesa
unicamente alla costruzione di un mito personale tutto risolto al
raggiungimento di un orizzonte da Ubermensch
nietzschiano, una parte della critica ha sempre puntato il
dito sul rovescio della medaglia della personalità artistica di D’Annunzio,
emergente quando il delirio personalistico e avventuriero dell’anima che
visse come diecimila si spegneva per cause contingenti, e casuali, che
costringevano il grande pescarese a intro-vertersi, a guardarsi dentro, a dare
spazio sincero alle molte zone d’ombra e di solitudine di una psicologia
ipertrofica e non equilibrata.