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29/04/24

"La Zona d'Interesse" NON è un film sulla "banalità del male", ma sulla "banalità di CHI COMPIE il male" !


A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".

Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.

Fabrizio Falconi - 2024

15/01/24

"Koba il Terribile" di Martin Amis e la rimozione collettiva del massacro di 20 milioni di uomini

 


Koba il Terribile è un altro meraviglioso libro di Martin Amis, pubblicato per la prima volta nel 2003. Un libro terribile da leggere, come Terribile è l'appellativo che Amis attribuisce a Josif Stalin, mutuandolo da quello con cui è passato alla storia il "Terribile" zar Ivan IV.
In 286 pagine Amis ricostruisce la carriera purtroppo irresistibile di uno dei più grandi sanguinari della storia, responsabile del genocidio di almeno venti milioni di persone: carriera irresistibile di un uomo rozzo, incolto, volgare e di personalità completamente border line (si direbbe oggi) capace di instaurare dal 1937 al 1953 una (non perfetta come quella nazista, ma altrettanto efficace) fabbrica del terrore, inducendo con la carestia imposta, alla miseria più assoluta un intero popolo, in particolare la secolare stirpe dei contadini russi, costretti a morire di fame o a mangiarsi tra di loro per sopravvivere.
Il massacro dei milioni di contadini russi si è accompagnato alle fucilazioni di massa, alle deportazioni nei gulag siberiani, alle torture sistematiche non solo dei dissidenti, ma anche di tutti quelli che per i motivi più diversi potevano anche lontanamente essere sospettati (la delazione era anch'essa di massa) di poter essere d'ostacolo al programma stalinista.
Leggere questo documentatissimo libro oggi è importante, perché a Stalin riuscì anche il miracolo, nonostante (o grazie a) i genocidi e alle deportazioni, di riuscire a rimanere una sorta di semidio per una buona parte dei russi, sovietici e non (la memoria di Stalin è ancora oggi, in patria, a partire da Putin, difesa e vezzeggiata).
Fa bene leggerlo perché, con il suo tono dolente e lucido, Amis parla a tutti, anche e soprattutto alle generazioni che in Inghilterra come in Italia, sono cresciute rimuovendo sistematicamente e sostanzialmente, l'immagine di Stalin e dei suoi aberranti crimini.
Generazioni, le nostre, che sapevano tutto di Treblinka e Dachau ma niente (e non volevano saperne niente) di Solovetskij e Belomorsko.
Generazioni che infatuate di John Reed e dell'Ottobre, si erano specializzate nell'arte dei distinguo, e praticavano l'oblio a riguardo del terrore sovietico, preferendo credere alla favola della controinformazione inventata dagli americani.
Fu forse il fatto che senza il sacrificio immane del POPOLO russo (non di Stalin e dei suoi inetti generali) nessuno probabilmente sarebbe riuscito a piegare e fermare l'avanzata nazista e la catastrofe mondiale, che generò anche una particolare condiscendenza, fatta in sostanza di silenzio, su quello che dal 1937 in poi successe in Russia, fino alla morte di Stalin.
Oggi la storia non ha buchi. E' particolarmente toccante l'ultimo capitolo del libro, quello nel quale con diverse lettere, Amis si rivolge al padre (il grande scrittore Kingsley Amis) e all'amico del cuore, Christopher Hitchens (grande scrittore e saggista), chiedendo loro come abbiano potuto - anche loro, così intelligenti, così colti e sensibili - giustificare Koba il Terribile e il suo "terrificante terrore". Uno strabismo imbarazzante (e colpevole), perché anche allora, chi avesse veramente voluto, avrebbe potuto guardare in faccia la semplice realtà.
Si preferì non farlo, anche in Occidente, con il risultato che la Russia è ancora oggi, nei metodi e nella concezione del potere assoluto, non così distante da quella dell'impunito Koba (che morì tranquillamente nel suo letto, probabilmente nemmeno consapevole dell'eredità di sangue, dolore e terrore lasciata in dono all'umanità).

Fabrizio Falconi - 2024

05/12/23

Il capolavoro di Martin Amis: "La storia da dentro", un libro che si vorrebbe non finisse mai

 



Ho chiuso oggi pag. 680 e il libro è finito.

Mi sono accorto di rallentare, mano a mano che procedevo, perché questo è uno di quei rari libri che vorresti non finissero mai per davvero e continuassero ancora, con quel rumore di fondo e quelle continue sollecitazioni che danno corpo alle tue giornate, restano dentro, non smettono di parlarti come una bella conversazione.
Martin Amis, un paio d'anni prima di morire a 73 anni - ci ha lasciato il 23 maggio di quest'anno - della stessa identica malattia di due dei 3 amici dei quali questo libro parla: cancro all'esofago, ha scritto l'ultimo libro e il più bello.
E' un libro che è memoriale, romanzo, saggio sulla letteratura, cronaca, autobiografia, confessione e l'insieme di queste cose, quello che una volta si sarebbe chiamato "testamento spirituale" e che in questo caso non può andare bene perché Amis era - come il suo più grande amico Christopher Hitchens, uno dei tre protagonisti del libro, oltre all'autore - convintamente ateo e rigorosamente refrattario ad ogni forma di credenza spirituale o sovrannaturale.
Ho pensato spesso che in questo personalissimo amalgama, la scrittura di Amis ricorda, con alcune sostanziali differenze, quella di Carrère. Differenze evidenti: Amis è formalmente più "alto", la sua è letteratura concentrata e distesa, ma sempre di altissimo livello, in ogni riga. Carrère è, da francese, più ironico e narrativo, innamorato della storia che vuole raccontare, senza cambi di direzione, fino alla fine. Amis è più (apparentemente) sommesso; Carrère è più ostentato (quando serve): entrambi sono scrittori che non se ne restano dietro, e vogliono stare sulla scena con quello che scrivono e con quello che vivono.
Il fuoriclasse Amis imbastisce dunque un lungo (il SUO lungo) commiato della vita, quasi presentendo (e lo scrive espressamente) che presto andrà a far compagnia ai 3 amici morti prima di lui: il poeta Philip Larkin, il romanziere e premio Nobel Saul Bellow e il saggista e polemista Christopher Hitchens.
Scorrono lungo il racconto di queste meravigliose pagine, il senso umano della vita, l'amicizia più profonda, la sofferenza lacerante e l'amore, la gioia della sessualità e delle donne e degli amori, la bellezza sconfinata della vera letteratura, capace di trasformare tutto e di rendere sopportabile perfino le più grandi infamie della storia.
La storia di Amis è (anche) quella del mondo contemporaneo, gli argomenti della storia, che Hitchens, l'amico ribelle e iconoclasta, amava cavalcare e vivere sulla pelle (come quando decide di sottoporsi alle tecniche di tortura per annegamento utilizzate a Guantanamo): l'11 settembre, il fondamentalismo islamico, l'elezione di Trump in America, la Brexit, la furia ideologica del Novecento, il comunismo sovietico, il declino occidentale. E naturalmente l'eterna questione ebraica, l'antisemitismo, le guerre in medio oriente, i palestinesi (come sempre di strettissima attualità). La storia che sembra diventare sempre più incomprensibile e che pure bisogna cercare di comprendere, perché noi ci siamo dentro tutti. Il punto di vista di Amis, i brani delle sue conversazioni su tutto questo con Hitchens e con Saul Bellow, sono di livello assoluto.
Ma è la storia anche di uomini e soprattutto di letteratura. Amis, che nella letteratura e dalla letteratura è nato - il padre era Kingsley Amis, la matrigna Elizabeth Jane Howard, due enormi scrittori - ha questo da offrire e da lasciare al mondo.
I capitoli del libro, infatti, specie nella terza parte, sono alternati a "lezioni di scrittura" che vengono impartiti a un misterioso e (si suppone) giovane ospite.
Su tutto quanto, aleggia la morte. Una morte priva di senso - perché come Amis ripete spesso: "la morte è il nulla" - eppure che apre crepe di senso nel sentimento che ci lega misteriosamente agli amici, alle loro sofferenze e alla loro leale esistenza, alle donne, ai figli, alla celebrazione di una avventura esistenziale che vogliamo vivere sempre e fino al fondo, perché forse non esiste qualcuno di più fortemente legato alla vita di Amis stesso (e di Saul Bellow, gigante di vita e di scrittura, e di Hitchens, attaccato in modo furibondo alla vita e alle passioni che la vita dipana).
E' un libro vitale, vivo, creaturale. Perché è di questo che è fatta la vita. E nessuna cosa più della letteratura - quando è come "questa" letteratura - è capace di restituirne la materia e la sostanza (visibile e invisibile).
Il libro più bello degli ultimi anni.

Fabrizio Falconi - 2023

11/11/23

La questione ebraica: da cosa dipende il loro eccezionale talento (causa di discriminazione e odio razziale)? Martin Amis, Saul Bellow e Einstein


Martin Amis, nel suo meraviglioso La storia da dentro, che è anche in diversi aspetti, il suo testamento spirituale, riferisce in una nota nel capitolo su Saul Bellow che la percentuale di ebrei che ha vinto il Premio Nobel da quando è stato istituito, nel 1902 è più del 22%. Cioè più del 22% dei vincitori di un Nobel sono ebrei. Questo, se raffrontato alla percentuale della popolazione ebrea su scala mondiale - che dice lui è del 2% - è molto eloquente (e sorprendente).

Di questo chiede ragione a Bellow. Ma è un errore o una svista piuttosto grave e mi sorprende che Amis o uno dei suoi editors, inglesi o italiani, non se ne siano accorti: perché la percentuale della popolazione ebrea su quella mondiale non è del 2%, ma del 2 x 1000 (ovvero lo 0,2%, ovvero 14 milioni su circa 7 miliardi), il che rende il dato ancora più sorprendente.
Comunque, errore a parte, Bellow commenta questo dato citando Einstein, che nel 1938 rispose che questo fatto "non andava spiegato con il fatto che queste doti siano innate, perché così c'è il pericolo di cadere nell'antisemitismo."
E si capisce piuttosto bene perché Einstein, nel 1938, dica questo.
Einstein - e Bellow che lo riferisce - avanzano invece l'ipotesi che questa eccellenza dipenda dal fatto che "tutti i bambini ebrei sanno che per ottenere il plauso degli adulti, devono applicarsi, applicarsi nell'apprendimento e negli studi."
Questa cosa mi ha dato molto da pensare. Del resto questa eccellenza è stata ed è indubbiamente una delle cause scatenanti di un certo orrendo antisemitismo. Ma l'abitudine, la frequentazione, la familiarità con l'apprendimento e la conoscenza; e il desiderio del plauso dei propri genitori non è e non dovrebbe essere una esclusiva o una prerogativa degli ebrei. Insomma, da sola, mi pare che non basti a spiegare. La curiosità di studiare e capire il mondo dovrebbe riguardare tutti, sempre. E farebbe un gran bene a tutti e al mondo stesso.

Fabrizio Falconi - 2023

26/08/14

"Il lungo sguardo" di Elizabeth Jane Howard, un grande romanzo sull'interiorità.




E' davvero una gran bella sorpresa la pubblicazione italiana di Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard, da Fazi Editore che con questo romanzo può ripetere il grande e imprevisto successo di Stoner, diventato per propagazione via passaparola, un caso editoriale.  

Elizabeth Jane Howard è infatti, come l'americano John Williams, un autore quasi del tutto sconosciuto in Italia, anche se a lei si debbono quindici romanzi di successo, offuscati da un profilo biografico seducente (era una donna molto bella) e disastroso.

Nata a Londra 1923 e morta da pochi mesi a  Bungay, la Howard  veniva da una famiglia benestante (suo padre era un mercante di legname e sua madre una ballerina russa) e da una infanzia infelicitata da molestie sessuali subite dal padre e da una depressione cronica della madre.

Prima di sposarsi giovanissima - a diciannove anni, una via di fuga dalla famiglia - studiò recitazione e fece anche l’indossatrice.

Ma anche il resto della vita della Howard non fu semplice: una figlia, due matrimoni, una terza unione ventennale con lo scrittore Kingsley Amis, il padre di Martin, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei. 

Alla infelicità personale la Howard tentò di porre rimedio con una incessante attività di scrittore, culminata nella saga familiare The Cazalet Chronicles, che le guadagnò un enorme successo (oltre un milione di copie). 

L'eco della vita della Howard risuona fin troppo incessantemente in questo che viene considerato il suo capolavoro.  Il lungo sguardo (traduzione non proprio felice dell'originale The Long View), pubblicato nel 1956 è la cronaca di una infelicità: quella di coppia, dei coniugi Antonia e Conrad, Mrs. e Mr. Fleming, e quella personale di Antonia, alle cui radici si risale attraverso una narrazione - a ritroso - che comincia negli anni '50 e torna indietro fino al 1924.

Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità.  Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano. 

I personaggi maschili del romanzo della Howard sono tutti orribili.  Cinici come Mr. Fleming, perso nella sua presunzione di dirigere il mondo delle cose, distaccato ed efferato; patetici come il marinaio che viene a riscaldare brevemente la dispersione di vita di Antonia; terrificante come il Geoffrey che abusa della ingenuità e dell'incanto della diciannovenne (come all'epoca in cui si è sposata l'autrice) Antonia. 


Ma è il personaggio di Antonia quello che resta sempre al centro, in una sorta di sofferta e consapevole auto-biografia.
Una biografia costruita intorno ad un vuoto che niente e nessuno sembra capace di riempire veramente. Perché è la vita, la vita vera - e in definitiva l'amore, che della vita è la massima e la più efficace espressione - che manca, anche in una vita esteriormente, apparentemente, superficialmente, inutilmente scintillante come quella di Antonia. ...O di Elizabeth ?


Elizabeth Jane Howard negli anni '50.


09/11/11

La nostalgia del tempo presente. Goffredo Parise.



Un giorno di fine inverno in montagna un gruppo di persone che si conoscevano poco e si erano trovati per caso su una vetta gelida e piena di vento decisero di fare con gli sci una pista molto lunga e solitaria che portava a una valle lontana. Erano dieci, per una coincidenza felice nessuno di loro era veramente "adulto", anzi, erano tutti più o meno timidi e questo li rese subito fiduciosi uno dell'altro.


Credo che raramente una forma artistica abbia raggiunto la perfezione come è il caso di un piccolo racconto - appena una pagina e mezza - di Goffredo Parise contenuto nei Sillabari e che si intitola 'Amicizia'. 

Ciascuno di noi conosce sin da quando è bambino - ed è una esperienza pienamente umana - quella sensazione del tempo vissuto insieme ad altri, che scorre e si materializza scorrendo, semplicemente perché quelle persone che abbiamo incontrato e che abbiamo amato anche fuggevolmente incontrare, in quel determinato tempo, sono già volate via, e forse mai più, anzi certamente mai più le incontreremo nelle stesse forme, nello stesso modo di quella volta lì, speciale, unica. 

Il tempo è una freccia, scriveva Martin Amis, e lo sperimentiamo in ogni momento della vita. Sembrerebbe la più insostenibile delle crudeltà.  Esser condannati a non poter tornare indietro mai.

Eppure quale fato, quale mistero, quale incanto si cela dietro questi grani di clessidra che scendono e non possono mai risalire da soli nella stessa ampolla.

Qualcuno, in una dimensione che non è la nostra, forse si diverte a girare l'ampolla.

Ma a noi, qui è concessa soltanto la distillazione di questo tempo che viviamo. E che, un po' per condanna un po' per libero godimento, siamo obbligati a vivere con altri.

La magia di quel giorno vissuto, di quelle risa e di quella luce, non tornerà.

Epperò noi saremo diversi da allora.

Il fiume non è mai lo stesso. E nemmeno noi mai lo saremo. Qualcosa di diverso, saremo. Forse fatti di un'anima diversa, che il tempo - il tempo che noi conosciamo - non riesce mai pienamente ad afferrare.

Un giorno di fine inverno in montagna.... 

qui si legge l'intero racconto di G.Parise.