16/07/24

Perché la politica oggi è di così pessima qualità?


Uno degli aspetti più gravi della crisi della politica - tragicamente messa in rilievo in questi annii dalla incapacità dei governanti di affrontare l'emergenza globale - riguarda la vita priva di senso che vivono i politici. 

Nessuno di loro legge un libro, nessuno ha un quarto d'ora di tempo per meditare su se stesso e sul mondo, per cercare di ascoltare il proprio animo. Tutti vivono vite frenetiche ed esaltate che si consumano in vuoti riti, perennemente davanti alle telecamere. 

Dag  Hammarskjold che aveva compreso questo dramma, aveva creato nel proprio ufficio una stanza della meditazione e del silenzio dove nessuno era ammesso e dove si ritirava a leggere e riflettere. Anche per questo gli misero una bomba sull'aereo.

Era l'unico modo per fermarlo e per tentare di silenziare (senza riuscirvi) la sua grande anima.

Fabrizio Falconi - 2024

15/07/24

Perché troviamo così rassicurante la ripetizione, il ripetere le stesse cose?


 La ripetizione è una magia, è quel che rende magica la vita, ma è anche al contempo un mistero e una ossessione, come lo fu per Kierkegaard.

Il mistero della ripetizione - che sceglie da sé quando perpetuarsi - è quel che Handke chiamava 'durata': l'uomo può predisporre qualunque cosa, qualunque piano o artificio perché la ripetizione (amorosa o non) abbia luogo, ma essa sceglierà sempre autonomamente se ripetersi o no.

E' come quando torniamo in un luogo dove siamo stati grandemente felici e ci predisponiamo e predisponiamo perché tutto sia esattamente come la prima volta; eppure già sappiamo che forse non sarà così e che forse quella illusione si sceglierà come neve al sole, e che in quello stesso luogo e nelle stesse condizioni, troveremo invece il negativo della infelicità.


Fabrizio Falconi - 2024

13/07/24

Cosa vuol dire essere un vero attore?


Come è noto, soltanto qualcosa che è vuoto può essere riempito, mentre nulla che è già pieno può esserlo.

Vale anche per la recitazione. Il campione dello svuotamento era Mastroianni: che era sempre vuoto. Per questo riusciva a interpretare qualunque personaggio, cioè ad esserlo per davvero. Perché il vero Mastroianni restava in disparte, non avresti mai saputo dire veramente chi fosse.
Molti attori invece, pur tecnicamente bravissimi, sono troppo pieni per essere davvero qualcun altro. Servillo è troppo Servillo per essere davvero qualcun altro: è sempre "Servillo che fa qualcuno."
L'arte della recitazione più difficile è quella della sottrazione [Laurence Olivier]: non è istrionismo, ammiccamento, fuochi d'artificio. È capacità di scomparire.

Fabrizio Falconi 2024

12/07/24

Da dove viene la parola "Arena"? I Romani.....

 





La storia delle parole è affascinante quanto quella della archeologia. 

Nel romanesco antico e anche molto più raramente in quello moderno, il termine "rena" era ed è usato per indicare la sabbia (del mare), anche in altre parti d'Italia anche se "sabbia" è ovviamente molto più diffuso.

Ma la cosa interessante è che la parola italiana "Arena", di origine latina, era strettamente legata a "rena" avendo la stessa radice etimologica e significando: "luogo dove c'è la sabbia".

La sabbia infatti costituiva il fondo che veniva diffuso nelle "arene" o "circhi" della Antica Roma, trasportandolo dalla vicina Ostia. 

Il maestoso Circo di Massenzio sulla Via Appia, per dire, ha rivelato agli archeologi, proprio dal fatto che non è stata trovata sabbia negli scavi dell'arena, che probabilmente esso non fu mai usato

Il che si deve al fatto che era stato voluto dall'Imperatore per intitolarlo al figlio Romolo, il quale però morì giovanissimo - a 9 anni - probabilmente annegato nelle acque del Tevere nel 309, preconizzando in modo incredibile la stessa morte che toccò al Padre, Massenzio, 3 anni dopo, al termine della Battaglia di Ponte Milvio.

Fabrizio Falconi

23/06/24

Esce domani, 24 giugno, il nuovo libro: "Passeggiate Letterarie a Roma" - Palombi Editore

 




Esce domani in tutte le librerie, edito da Palombi Editori il nuovo libro di Fabrizio Falconi, "Passeggiate Letterarie a Roma". 

Dalle note di copertina:

Essendo Roma una città speciale, anche camminare a Roma è cosa speciale. La grande bellezza della Città Eterna, infatti, non è tanto in quello che tutti vedono con chiarezza – e che non può non manifestarsi, visto lo splendore monumentale, ovunque – ma in quello che si nasconde: che è sepolto, che è custodito nella penombra, nei cortili, nei vicoli, nelle viscere, nei particolari, nelle catacombe, negli anfratti vicino ai quali si passa con noncuranza, inevitabilmente distratti dalla grandezza di ciò che si incontra poco oltre. È proprio questa stratigrafia, questo continuo accostamento di elementi diversi e apparentemente inconciliabili, a conferire alla città un contenuto e un aspetto così diverso e affascinante. È ciò che l’autore sperimenta nelle sue Passeggiate Letterarie a Roma da molti anni e ciò che racconta in questo libro, in dodici selezionate e splendide camminate nei mille luoghi che hanno attraversato il tempo. 

Fabrizio Falconi, scrittore e giornalista romano, ha pubblicato opere di narrativa, poesia e saggi.

Alla storia e alle storie di Roma ha dedicato diversi volumi: I fantasmi di Roma, 2010, saggio; In hoc vinces (con B. Carboniero), 2011; Monumenti esoterici d'Italia, 2013; Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, 2013; Roma segreta e misteriosa, 2015; il romanzo Porpora e Nero, 2019; La Storia di Roma in 501 domande e risposte, 2020; Le Basiliche di Roma, 2022.


Fabrizio Falconi 

12/06/24

ERIC - Una serie che riflette sul dolore (RECENSIONE)


 

Aprendosi sulle note di I'm Not in Love (10cc, 1975), "Eric" non può non essere una serie che ha per oggetto il dolore o la sofferenza. E com'è evidente ugualmente dalla scelta del brano d'apertura, siamo alla fine degli anni '70-primi '80 anche se la data non è specificata: quando non esistevano i cellulari, esistevano invece le segreterie telefoniche e soprattutto in ogni casa c'era un videoregistratore o lettore di cassette VHS.
E' una storia ambientata dunque a New York, che porta una firma pesantissima: quella di Abi(gail) Morgan, sceneggiatrice e scrittrice gallese che ha fatto diventare oro tutto ciò che toccato (o meglio, scritto), a teatro, al cinema (The Iron Lady con Meryl Streep, la Donna Invisibile, con Ralph Fiennes, Suffragette, del 2015), alla televisione (The Hour, vincitrice di una quantità infinita di premi, River, 2015, The Split.. e molte altre).
La Morgan fra l'altro si è guadagnata sul campo, purtroppo per lei, i gradi di esperta nel campo del dolore personale: figlia di due attori che divorziarono quando era adolescente, girò la Gran Bretagna al seguito della madre; sposata a sua volta con l'attore Jacob Krichefski, ha avuto due figli, ma poco dopo il marito si è ammalato di sclerosi multipla e ha sviluppato un'encefalite anti-recettore NMDA nel 2018 dopo aver partecipato a uno studio clinico; dopo sei mesi di coma farmacologico ebbe l'illusione di Capgras e non riuscì a riconoscere più la moglie. Che poi ha scritto un libro, This Is Not a Pity Memoir , descrivendo queste esperienze. A sua volta anche la Morgan si è poi ammalata cancro al seno.
Forse questo è il motivo per cui, prima di decidermi a vederla, avevo letto commenti su siti specializzati, che mettevano in guardia sulla materia "forte" della trama, sul clima depressivo che vi si respirava, sulle tragedie intime che racconta.
In realtà, dopo averla terminata, raccolgo l'ennesima conferma che evidentemente questa nostra società attuale non sembra più capace di fare minimamente fronte al dolore e alla sofferenza. Non sa affrontarle, non vuole vederle. E' del resto, come scrivono in tanti, una società anestetizzata, la nostra, rimbambita dai social e dall'apparenza che sembra voler edificare una civiltà di adulti-adolescenti, in gravi difficoltà di fronte all'elaborazione dei lati d'ombra della vita. Perché la serie non fa altro che raccontare questo. Cioè ciò di cui è (anche) fatta la vita.
Vincent e Cassie, i due protagonisti della miniserie (6 puntate targata Netflix), di guai e dolori ne hanno a bizzeffe. Un matrimonio infelice, intossicato dalle dipendenze di lui (un creatore di marionette televisive - è del resto il periodo dei Muppet's) e dalle frustrazioni di lei. L'unico figlio, il piccolo Edgar, sogna di scappare via da quell'inferno e appena può lo fa, mettendosi in guai ancora più seri.
Finisce rapito da un graffitaro nero che vive, insieme a una marea di diseredati, nei sotterranei della metropolitana.
Intanto, in superfice, seguiamo le indagini, condotte da un altro dolentissimo personaggio: il detective Ledroit, solo al mondo, emarginato perché nero e perché gay, con un compagno malato di aids.
Le indagini sulla scomparsa di Edgar si intrecciano con quelle di un altro ragazzo scomparso nel nulla tempo prima, un nero finito nel giro della prostituzione maschile; e con quelle di un losco locale, il Lux, dove avvengono abusi e transitano anche notabili e politici.
Ovviamente la scomparsa del bambino fa da detonatore ai problemi di Vincent e Cassie che ora hanno la giusta disperazione per separarsi.
Le sei puntate sono scritte con grande maestria e non ci si annoia mai. Benedict Cumberbatch è come sempre stra-ordinario (è nei 5 migliori attori oggi in circolazione in assoluto, insieme a Gary Oldman, Christian Bale e pochi altri), ben sostenuto dall'ottima Gaby Hoffman.
Notevole anche la compostezza e il segreto carisma che McKinley Belcher III dà al suo personaggio, il detective Ledroit.
Purtroppo, senza fare spoiler, la bella serie - che rende credibile e accettabile anche il fantasma di un mega-burattino che come l'armadillo di Zerocalcare è la cattiva coscienza di Vincent - scivola nell'ultima puntata, quando vira su toni marcatamente hollywoodiani/spielberghiani, perdendo un po' della sua dura misura, sempre efficacemente rispettata nelle precedenti puntate.
E' comunque un ottimo prodotto che merita il successo ricevuto.

Fabrizio Falconi - 2024

06/06/24

"Sugar", su Apple Tv, una serie riuscita (e appassionante) con Colin Farrell


Partono le prime note della sigla e riconosci al volo l'inconfondibile Kamasi Washington e il suo sax.

Non potrebbe esserci miglior prologo.

Già dopo i primi 10 minuti hai chiaro che "Sugar" non è una serie come le altre.
Siamo, qualitativamente, molto più in alto.
Targata AppleTv, Sugar (2024) si presenta come un tipico hard boiled. John Steven Sugar è un detective privato specializzato nella ricerca di persone scomparse.
Ha la faccia di Colin Farrell, attore capace di fare tutto o quasi e forse anche per via della sua faccia, si pensa quasi subito a True Detective (visto che Farrell era il co-protagonista della seconda, bellissima stagione, ovviamente non all'altezza della prima, ma questa è un'altra faccenda).
Il detective Sugar riceve l'incarico di ritrovare Olivia, nipote di un magnate ebreo di Hollywood, potente e ricchissimo. Olivia è scomparsa nel nulla. Il nonno è preoccupato, il padre no, perché la ragazza vive border line, e già più volte si è allontanata e poi è tornata.
Sugar però percepisce subito che c'è di più. Nel rapido sviluppo di 8 puntate - ciascuna molto breve, poco più di 30 minuti l'una - veniamo a scoprire che il detective fa parte di una rete, in cui ciascuno ha un compito speciale, coordinati dalla misteriosa Ruby.
L'intreccio noir si complica, ma noi, più che dalla trama siamo ammaliati dal monologo, interiore, continuo di Sugar, che accompagna i fatti. Considerazioni, paure, un sottofondo filosofico intessuto strettamente con l'azione: Sugar è un detective sui generis, contrario alla violenza, fa discorsi strani ai criminali con cui ha a che fare, li sconcerta con toni quasi naif.
E tutto, insieme alla narrazione di Sugar, si muove insieme a mille flash di pellicole famose. Sugar è un cinefilo, ha nella testa le scene di quello che vive e di quello che ha visto, al cinema. Il montaggio è prodigioso. La regia è per cinque delle otto puntate di Fernando Meirelles, uno dei registi più talentuosi in attività (premio Oscar per City of god) e per le restanti tre di Adam Arkin, figlio del mitologico Alan, uno dei più grandi attori caratteristi della storia di Hollywood.
Alla fine della 6a punta si teme che l'incanto si rompa e vada in mille pezzi: c'è infatti un colpo di scena che improvvisamente mette la vicenda - e la serie - su un binario parallelo di scie-fi.
Ma per fortuna, il delicato equilibrio resta in piedi fino alla fine. Nessun effettaccio e nessuna scorciatoia ridicola o ridicolizzante. Resta invece il tono dolente della narrazione, la singolare caratterizzazione dei personaggi, a partire dal protagonista.
E' una delle rarissime volte in cui ai titoli finali ho sentito il desiderio di vedere una seconda stagione - se e quando sarà disponibile.
Colin Farrel è magnifico, insieme ad Amy Ryan, splendida attrice, che regge una parte da quasi co-protagonista.
Altamente raccomandato.

Fabrizio Falconi - 2024

24/05/24

I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma


I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati

La meravigliosa Basilica a pochi passi dal Pantheon è uno dei casi in cui il nome dell’edificio chiarisce da se stesso la sua origine, le sue fondamenta. La Chiesa di Santa Maria sopra Minerva è una delle più straordinarie di Roma.  Fondata nel secolo VIII sui resti di un tempio di Minerva Calcidica e rifatta in forme gotiche nel 1280, deve il suo fascino anche a questo: il sorgere sullo stesso luogo esatto dell'antico Tempio di Iside al Campo Marzio  (o Iseo Campense o Iseum et Serapeum) che i Romani avevano dedicato al culto delle due divinità orientali, Iside e Serapide e che nel corso dei secoli, dopo la caduta dell’impero, ha restituito preziosissimi reperti, in gran provenienti dall'Egitto e trasportati a Roma dopo che quella provincia fu acquisita da Augusto dopo la morte di Cleopatra imperatrice. Non solo: nella stessa zona dell’Iseo Campense, sorgeva anche il Tempio di Minerva Chalcidica, costruita dall’imperatore Domiziano, l’ultimo della dinastia Flavia, alla fine del I secolo d.C. L’appellativo di Chalcidica significava letteralmente “guardiana” o “portiera” e si riferiva al fatto che il tempio in onore della dea (chiamato anche in seguito Minerveum),  era stato costruito proprio di fronte al Porticus Divorum, la grande area porticata voluta dallo stesso Domiziano, dedicata al padre Vespasiano e al fratello Tito.

             L’esistenza di una chiesa cristiana, edificata sopra i resti di questi edifici è testimoniata già nel 700 d.C. ed era stata affidata alle suore basiliane provenienti da Costantinopoli, ma fu rifatta completamente in forme gotiche intorno al 1280 da architetti toscani, quando il possesso dell’oratorio era passato nelle meni dei frati domenicani. È dunque particolarmente importante in una città come Roma dove sono piuttosto rari gli esempi del puro gotico.

             Modificata poi con vari interventi nei secoli scorsi, la basilica è una delle più importanti di Roma per i tesori d'arte che contiene e per contenere le tombe della Santa patrona d’Italia, di quattro pontefici e di innumerevoli altre personalità.

             La splendida facciata – quasi minimalista – della chiesa, fu dovuta al conte Francesco Orsini che ne finanziò la costruzione nel 1453. Sopraggiunti problemi economici però, evidentemente, ne bloccarono il completamento ed essa rimase incompiuta fino al 1725, fino a quando non intervenne papa Benedetto XIII. La facciata resta ancora oggi semplicissima, nuda e disadorna abbellita però da due portali rinascimentali (i laterali) e uno ottecentesco (il centrale), sovrastati da tre rosoni. La facciata, nitida e bianca fa da sfondo alla piazza antistante, al centro della quale si erge il celebre Elefantino (o Pulcino) della Minerva, opera dello scultore Ercole Ferrata su progetto del Bernini, che sorregge uno dei tredici, vetusti obelischi originali egizi romani, il più piccolo di tutti (proveniente proprio dall’Iseum et Serapeum).

                L’interno della basilica è imponente, a tre navate, separate da massicci pilastri e offre al visitatore il colpo d’occhio di uno sterminato cielo stellato che fa pensare ai simili soffitti medievali a crociera della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o del duomo di Siena o di San Gimignano, ma invece è di fattura moderna: risale infatti al XIX secolo, quando si scelse una decorazione più in linea con le linee gotiche antiche dell’edificio. Nel pavimento sono invece incastonate moltissime e importanti iscrizioni e sepolture. Nelle due navate laterali si aprono invece diverse cappelle che contengono numerosi tesori. Cominciando dalla navata di destra, nel primo pilastro si ammira la tomba e il busto di Antonio Castalio, una delle più belle sculture del rinascimento romano. Più avanti, nella quinta cappella, la tomba seicentesca firmata dal Maderno, di Papa Urbano VII, il pontefice che detiene il record di minor durata del pontificato: soltanto tredici giorni in tutto, dal 15 al 27 settembre del 1590. Subito dopo la sua elezione, infatti, il papa fu colto da violente febbri malariche, che ne impedirono anche la cerimonia di incoronazione. Venne sepolto in San Pietro, ma fu poi trasferito qui per la sua generosità nei confronti della Arciconfraternita dell’Annunziata che si dedicava all’assistenza delle zitelle bisognose e che aveva sede vicino a Santa Maria sopra Minerva.  Sull’altare di questa cappella, una bellissima Annunciazione di Antoniazzo Romano, del 1460. Nella settima cappella, un affresco di Melozzo da Forlì – Cristo giudice tra due angeli - che adorna una delle tombe rinascimentali.

             Nella navata di sinistra, invece, la terza cappella conserva un piccolo olio su tavola, che dopo una dubbia attribuzione al Pinturicchio, è oggi unanimemente considerato opera di Pietro di Cristoforo Vannucci, più famoso con il nome di Perugino (1448-1523), il maestro di Raffaello. Perugino (o allievi della sua stretta scuola) lo realizzò negli anni successivi al 1479, quando fu chiamato da Papa Sisto IV per decorare l'abside della Cappella della Concezione nel coro della Basilica Vaticana. È un ritratto, quello del Salvatore del Perugino, estremamente affascinante. Per l'uso dei colori (il verde intenso del mantello sul rosso pompeiano della tunica), per l'effige del volto, in espressione dolcissima, con il capo debolmente reclinato sulla destra, il viso incorniciato dai capelli castani, le guance rosee, lo sguardo penetrante. Perugino usò la tecnica dello sguardo animato (comune ad altri celebri ritratti rinascimentali, tra cui La Gioconda): grazie ad un sapiente uso della prospettiva, lo sguardo del Cristo, infatti, sembra seguire quello dell'osservatore. Lo si sperimenta davanti al dipinto, spostandosi lentamente da destra verso sinistra e al contrario: lo sguardo del Cristo sembra continuare ad osservare direttamente negli occhi, colui che guarda.

               Passando ora al transetto, alla fine della navata di destra, eccoci davanti alla meravigliosa Cappella Carafa, uno dei capolavori assoluti del Quattrocento, con gli straordinari affreschi di Filippino Lippi, su commissione del cardinale Oliviero Carafa. Nelle quattro vele della volta, sono rappresentate quattro Sibille. Lo stemma al centro è quello della famiglia Carafa. La parete centrale inserisce all’interno della scena dell’Annunciazione la figura di san Tommaso che presenta alla Vergine Maria il cardinale Carafa, inginocchiato. Nella parte alta c’è l’Assunzione della Vergine e una corona di angeli che le danzano intorno, ciascuno con in mano uno strumento musicale diverso, un vero e proprio inventario di strumenti musicali dell’epoca. Nella parete destra, scene della vita di san Tommaso, mentre sulla lunetta, verso sinistra è raffigurato il miracolo del Crocifisso che parlando al Santo gli dice: “hai scritto bene di me Tommaso, che ricompensa vuoi?”. E sembra lui abbia risposto: “Nient’altro che te Signore”.  In basso, è raffigurato invece il Santo in cattedra che tiene in mano un libro con la scritta: "Sapientiam sapientum perdam", che significa "Distruggerò la sapienza del sapiente", frase tratta dagli scritti di san Paolo. Davanti a lui una figura con un volto inquietante, raffigurante il peccato con un cartiglio che dice "Sapientia vincit malitiam", "La sapienza vince la malizia”, chiara allusione alla spiritualità domenicana da sempre caratterizzata da una ricerca della Verità e una lotta al vizio e all’errore. Tommaso è circondato da quattro figure femminili che rappresentano la filosofia, la teologia, la dialettica e la grammatica. I molti personaggi in primo piano sono per lo più eretici (identificati anche da iscrizioni dorate sui loro indumenti), tra cui il profeta persiano Mani, fondatore del manicheismo , con un dito sulle labbra, Eutiche con un orecchino di perla, Sabellio, Ario e altri. I libri per terra sono quelli eretici, che stanno per essere bruciati. All’interno della Cappella anche la grande tomba di papa Paolo IV Carafa, opera di Pirro Ligorio.  

            Proseguendo a sinistra del presbiterio, una statua molto particolare: pochi sanno infatti che la basilica di Santa Maria sopra Minerva, oltre ai molti tesori custodisce anche un’opera di Michelangelo, il Cristo Portacroce, che fu realizzata tra il 1519 e il 1520 con l’intervento di allievi del maestro. Originariamente il Cristo era interamente nudo, cosa che ovviamente urtò la suscettibilità di qualche notabile o cardinale, che ordinò di ricoprirne i fianchi con una fascia di bronzo dorato. Con lo stesso metallo fu realizzata anche una calzatura per il piede destro, sporgente, proprio per prevenirne la consunzione ad opera dei fedeli, come è avvenuto per il piede della statua dell’Apostolo, in San Pietro.

            Al di sotto dell’altare maggiore, realizzato in stile neogotico, riposano i resti del corpo di Santa Caterina da Siena, contenuti in un sarcofago del Quattrocento. La Santa, patrona d’Italia e compatrona d’Europa morì a Roma il 29 aprile del 1380 e fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva. Il teschio e un dito sono invece conservati e venerati nella basilica di San Domenico, a Siena, città di nascita della Santa. Il sarcofago, che si vede attraverso i vetri, sotto l’altare è assai suggestivo, perché raffigura la santa, giacente.

            L’abside della Basilica conserva poi le tombe di due papi, opere di Antonio da Sangallo il giovane: Clemente VII e Leone X, entrambi appartenenti alla famiglia dei Medici. Sempre nel transetto sinistro, nel passaggio che viene comunemente usato per l’uscita secondaria dall’edificio, un’altra importante sepoltura: quella del Beato Angelico, al secolo Guido di Pietro. Il sommo pittore morì a Roma il 18 febbraio del 1455 e fu qui sepolto.  La lapide interrata mostra il rilievo del corpo del pittore con indosso l’abito domenicano, entro una nicchia rinascimentale e una iscrizione che recita: “Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell'Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. la città di Firenze dette a me, Giovanni, i natali.”

 

         Tornando a Santa Caterina, nella sagrestia della Basilica si venera il piccolo Oratorio di Santa Caterina, con la camera dove morì la Santa, ornata da affreschi del Quattrocento. Tra le molte altre sepolture, nella Basilica, ricordiamo quelle di altri due papi, oltre ai tre già citati: Urbano VII (morto nel 1590) e Benedetto XIII (1730); quella del poeta, umanista e cardinale Pietro Bembo, del vescovo Guglielmo Durand e dello scultore Andrea Bregno. Tra le molte vicende storiche di cui la Basilica fu testimone, vanno annoverati anche due conclavi, da cui uscirono eletti Eugenio IV nel 1431 e Nicolò V nel 1455. Quest’ultimo, come raccontano le cronache dell’epoca, “fu posto a sedere sopra l’altare maggiore della chiesa e vi ricevette l’obbedienza.”

           La Basilica, ogni 25 marzo ospitava la caratteristica cerimonia in occasione della festività dell’Annunziata, alla presenza del papa: si trattava dell’elargizione dei sussidi dotali alle zitelle che venivano prescelte tra tutti i rioni della città e che si riunivano nella piazza Santa Chiara, dov’era la sede della Arciconfraternita dell’Annunziata, fondata nel 1460. Da qui, le donne, a due a due, vestite di bianco (dovevano essere vergini e di buona reputazione) e con una candela in mano, procedevano in processione fino a Santa Maria sopra Minerva per assistere alla messa solenne, al termine della quale, ricevevano dalle mani del papa un sacchetto contenente la dote che variava da un minimo di trentacinque a un massimo di ottanta scudi, oltre alle vesti e a un fiorino per le scarpe.

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati




15/05/24

"Storia di mia moglie" di Ildikó Enyedi, storia di una ossessione amorosa - Recensione


"Storia di Mia Moglie" - visibile su Amazon Prime Video e anche su Raiplay (ma qui solo in versione doppiata in italiano) - (A feleségem története) è un film del 2021 scritto e diretto dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, già vincitrice della Camera d'Or al Festival di Cannes del 1989 per "Il mio XXo secolo" e Orso d'Oro a Berlino per "Corpo e Anima" nel 2017 e qui al suo esordio in un lungometraggio in lingua inglese.

Si tratta dell'adattamento cinematografico del romanzo "La storia di mia moglie" (1942) del misconosciuto scrittore ungherese Milán Füst - pubblicato in Italia da Adelphi - frutto di una coproduzione ungherese, tedesca, francese e italiana, interpretato da Léa Seydoux, Gijs Naber, Louis Garrel (e, in ruoli secondari anche gli italiani Sergio Rubini e Jasmine Trinca) e presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, nel 2021.
E' la storia di uno "strano" matrimonio, negli anni '20, nato quasi per caso, quando il capitano di fregata olandese Jakob Störr scommette con un amico che sposerà la prima donna che entrerà nel locale: la sua scelta ricade quindi su Lizzy, un'enigmatica giovane donna francese.
Trasferitisi e sposati in fretta a Parigi, comincia tra i due una relazione ambigua: Jakob è spesso in mare, per il suo lavoro. Ad ogni ritorno, ritrova Lizzy, di cui lo spettatore sa ben poco (e anche lo stesso Jakob), una donna che sembra non avere un passato o un origine.
Il legame tra i due è forte, passionale. Ma c'è qualcosa che manca. Lizzy appare sfuggente. Forse ha un'amante? Forse invece è fedele e vorrebbe da Jakob qualcosa di diverso?
Si innescano meccanismi di controllo, gelosia, manipolazione, sofferenza: slanci passionali seguiti da fredda distanza, fino alle rivelazioni finali.
La lunghezza eccessiva del film - quasi 3 ore - penalizza forse un film visivamente bellissimo, giocato su lunghi silenzi, sguardi, scene di intimità e di nostalgia.
Lea Seydoux è carnale e sensuale quanto mai. L'emblema della femminilità inseguita da Storr, che sembra avere una conoscenza di se stesso, dei suoi sentimenti, e dell'amore, piuttosto primitiva. E' però leale, onesto fino in fondo. Ama, o crede di amare, sua moglie disperatamente. Allo stesso tempo, ne è soggiogato e arriverebbe anche a tradirla (cosa di cui lei sembra perfino incoraggiare) per suscitare una sua considerazione diversa.
Il personaggio di Lizzy è il concentrato di quella femminilità sfuggente che desidera da un uomo, qualcosa di più e qualcosa di diverso che non sia semplicemente la sua sottomissione o dipendenza.
Storr non ne è all'altezza. Anche se farebbe di tutto per esserlo. Sulla scena c'è anche un presunto amante di Lizzy, il fatuo e giovane Dedin, sul quale si concentrano i sospetti del capitano.
"Storia di mia moglie" è dunque la storia di un ossessione, di una relazione passionale, scambiata per "amore" per l'incapacità dei due protagonisti - e soprattutto di Storr - di essere consapevole dei propri sentimenti. La passione erotica/amorosa infatti, come si sa, non basta da sola, a garantire un "amore". L'amore ha - avrebbe - bisogno di altro, cioè di cura. La cura, la dedizione di Storr però assomiglia a quello di chi innaffia una pianta troppe volte al giorno rischiando di farla subito deperire.
Non ha pazienza, non ha la giusta distanza: dubita di sè stesso, prima di lei. E Lizzy lo sa e lo sente.
E' un amore incompleto: sterile, che non dà frutti.
In questo senso, e da questo punto di vista psicologico, il film è molto bello, come del resto lo è la regia, ogni inquadratura, il commento delle immagini e della musica.
C'è però, a tratti, la sensazione che la Enyedi si arrovelli intorno a questa inconcludenza amorosa, e che essa stessa finisca per contagiare la riuscita del film.
Un'inerzia che finisce sul binario previsto, con un amaro finale che fa venire in mente Zivago.
Bravissimi gli attori, in primis la Seydoux e il roccioso Gijs Naber nei panni del Capitano. E' un non protagonista Luis Garrel, che comunque presta la sua faccia perfetta al vacuo Dedin.
Sergio Rubini è nella parte di un bizzarro traffichino che nel film si chiama Kodor, ma parla italiano, mentre quella di Jasmine Trinca è una semplice apparizione di pochi secondi.

Fabrizio Falconi - 2024

13/05/24

Tornano gli attori di "Shtisel" in una nuova serie sull'Olocausto, "We Were The Lucky Ones", bella e commovente


E' assai bella la serie "We Were The Lucky Ones", una delle migliori girate sull'Olocausto, dal punto di vista particolare di una famiglia di ebrei polacchi, che vivono a Radom, i cui destini saranno investiti in pieno dall'occupazione nazista, la soluzione finale e la seconda guerra mondiale.


La serie, presentata da Hulu, è stata messa in onda nell'ultimo mese e mezzo (aprile-maggio 2024) negli USA con grandissimo successo.

Regia e ricostruzione sono di primo livello, e il prodotto risulta emotivamente molto coinvolgente, senza bisogno di enfatizzare crudeltà, martirii, dolori. Ma servendo il racconto per quello che è.

All'opera si presta un buon numero di ottimi attori israeliani che hanno fatto la fortuna di "Shtisel" (una delle migliori serie tv di sempre), in particolare Michael Aloni che in quella serie era il protagonista, Kive.

8 puntate di un'ora ciascuna, molto concentrate, serrate, che si vedono con grande partecipazione.

Fabrizio Falconi - 2024 

07/05/24

L'incredibile caso di due dei boia nazisti delle Fosse Ardeatine, che nel dopoguerra diventarono attori a Cinecittà, in un libro di Mario Tedeschini Lalli


Questo è un libro molto interessante.

Lo ha scritto Mario Tedeschini Lalli, giornalista romano e storico contemporaneista di formazione e racconta una storia veramente incredibile.
Nazisti a Cinecittà racconta dunque, la storia di Karl Hass e Borante Domizlaff, due ufficiali nazisti, che spararono alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944, sulle teste di innocenti, i quali, nel dopoguerra italiano, non solo rimasero sostanzialmente impuniti, ma finirono per lavorare nel cinema - Hass sotto falso nome, Domizlaff addirittura con il suo vero nome - come comparse e comprimari (con battute) in film importanti o importantissimi del cinema italiano come Una vita difficile di Dino Risi (1961) o La Caduta degli Dei di Luchino Visconti (1969) e in diversi altri film, quasi sempre impersonando se stessi, cioè crudeli nazisti all'opera.
Come ciò sia potuto accadere - e soprattutto rimanere sconosciuto a tutti - è per l'appunto oggetto del minuzioso lavoro di Tedeschini Lalli che per Nutrimenti ha messo insieme una lunghissima ricerca che in alcuni momenti assume i toni di una spy-story.
E in effetti Karl Hass, per esempio, riuscì per molti anni a vivere liberamente e in una certa agiatezza, sempre in Italia, grazie al lavoro di spia per gli americani e i servizi occidentali che lo utilizzavano per avere informazioni - da lui fornite col contagocce - riguardanti altri camerati cui si dava la caccia.
Ma ancora molto più importante che la protezione dei servizi stranieri, per Hass, Domizlaff e l'altro camerata nero Anton Bossi Fedrigotti, loro sodale, fu la rete messa in piedi dal neofascismo italiano post-liberazione e dagli ex repubblichini di Salò, ben organizzata, e con livelli di complicità nel mondo della destra cattolica romana, dei giornali, delle ambasciate, rete di cui Mina Magri Fanti era la coordinatrice e il generale Herbert Kappler - riuscito a fuggire dall'ospedale militare del Celio dentro una valigia - una specie di nume tutelare.
Ciò nonostante, come abbiano fatto registi come Luchino Visconti o Risi o sceneggiatori come Rodolfo Sonego, o attori come Alberto Sordi a non sapere che stavano recitando insieme a vere SS, a veri membri della Gestapo, impuniti per i loro crimini, e ben remunerati dalle case di produzioni cinematografiche resta un mistero, spiegabile in parte soltanto col clima disinvolto e iperproduttivo della Cinecittà di quegli anni, in cui anche i semplici controlli anagrafici (per le comparse ad esempio) erano quasi del tutto assenti.
Tra le pagine del saggio di Tedeschini Lalli riaffiorano tutti i fantasmi del neofascismo italiano del dopoguerra, tra cui quel Junio Valerio Borghese, autore del famoso tentativo di golpe militare da operetta, scoperto prima che fosse realmente tentato.
L'autore ha sentito personalmente tutti i testimoni ancora vivi, i figli, le mogli, i nipoti, ha setacciato gli archivi di stato e le pellicole incriminate, fotogramma per fotogramma, ricostruendo una storia destinata a restare nell'oblio.
Oblio che del resto Karl Hass, ad esempio avrebbe mantenuto con la tranquilla impunità - mai un moto di coscienza, se non di pentimento - fino alla fine, se il suo nome non fosse riemerso dal buio, subito dopo la cattura di Erich Priebke (anche lui ha vissuto a piede libero per decenni, continuando tranquillamente a viaggiare tra l'Argentina e l'Italia).
Il clamore intorno alla vicenda di Priebke portò a indagare su che fine avessero fatto i suoi colleghi ancora vivi. Fu così che si arrivò a Hass, il quale prima partecipò in aula come testimone, e poi si ritrovò sul banco degli imputati, condannato.
Ma era già troppo anziano per scontare una vera condanna: uscì dopo pochi anni e concluse tranquillamente la sua esistenza in una villa ai Castelli Romani, a 82 anni.
Insomma, questa potrebbe essere chiamata senza sbagliare, la "Zona d'interesse italiana" e bisogna ringraziare l'autore e l'editore per averla resa viva, perché qualcuno o tutti continuino a ricordarla.
N.B.: per la cronaca, sulla copertina del libro la foto della scena in cui Alberto Sordi ne "Una vita difficile" viene minacciato dal "vero" nazista Borante Domizlaff (uno degli assassini delle Fosse Ardeatine), comparsa e comprimario nel film.

Fabrizio Falconi - 2024

29/04/24

"La Zona d'Interesse" NON è un film sulla "banalità del male", ma sulla "banalità di CHI COMPIE il male" !


A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".

Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.

Fabrizio Falconi - 2024