08/10/22
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05/10/22
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04/10/22
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03/10/22
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30/09/22
La Rovina del Gioco (o Ludopatia) - Dostoevskij e Puskin
Interrompere l’illusione, fermarsi in tempo,
ragionare, essere prudenti: virtù sconosciute agli amanti del rischio del
gioco. Sicuri lasciapassare per la rovina.
«Domani,
domani tutto finirà», è il mantra che ripete Aleksej Ivanovic il
giovane precettore protagonista de Il
giocatore (1866). Nel teatro popolato da ludopatici seriali messo in scena da Dostoevskij il domani è
l’opzione, la vera scommessa.
Aristocratici e poveri, inebriati dalla fede
nel dèmone del Caso, credono di poterne cavalcare la soma imbizzarrita. Perdere è oggi. Vincere è domani. C’è un
domani in cui si vincerà, e tutto finirà.
E anche se si vincesse oggi, c’è ancora un altro domani da sfidare.
Il virus è contagioso e quasi mai si
guarisce.
Lo spirito russo, così profondamente
incardinato sull’eterna sfida alla minaccia incombente del Destino e del Caso
aveva già trovato un analogo eroe ne La
dama di picche di Puskin (1834), con l’apparentemente imperturbabile protagonista Hermann, giovane ufficiale che si
sente immune – per pura fede nella volontà, essendone infatti potentemente
attratto – dal vizio del gioco e che finisce per diventarne succube nel modo
più imprevedibile: un commilitone gli rivela infatti che una nobildonna, sua
nonna, conosce il segreto per vincere infallibilmente al gioco delle tre carte
(arcano trasmessole nientemeno che dal Conte di Saint-Germain in persona).
Hermann viene introdotto con il favore della
dama di compagnia nell’appartamento della duchessa, ma questa spaventata
dall’irruzione, dalle insistenze e dalle minacce, muore sul colpo prima di rivelare il mistero.
Sarebbe la salvezza di Hermann, se non fosse
che la rovina si ripresenta sotto forma di sogno prima e di un fantasma poi:
sotto queste sembianze la nobildonna promette al giovane di svelargli la
combinazione vincente – tre, sette e asso – ad una condizione: che esso sposi
la sua prediletta dama di compagnia.
L’ossessione è irresistibile. Hermann vi
soggiace.
Si decide finalmente a vincere la prudenza
del raziocinio e sfida la sorte, ma senza ottemperare alla richiesta del
matrimonio preventivo. E se il sette e il tre si confermano vincenti, al posto
dell’asso, il mazzo sfodera la donna di picche, sotto l’effige della quale si
riconoscono i lineamenti beffardi della vecchia contessa. La rovina ingoia così
anche il povero Hermann, che diventa pazzo.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Le Rovine e l'Ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017
29/09/22
Quando furono costruiti i Muraglioni del Tevere ? La disastrosa piena del 1598
La natura alluvionale del Tevere è ben nota dall’antichità, ed ha accompagnato la storia del fiume e della città per molti secoli, a partire dalla sua fondazione, se è vero che scaturisce proprio da una piena del fiume la nascita della leggenda di Romolo e Remo, i due fratelli trasportati da una cesta fino all’argine ai piedi del colle Palatino.
Gli allagamenti del Tevere, dunque, sono testimoniati
dall’età più antica (almeno sin dalla fine del V secolo a.C.) e anche nella Roma
Imperiale la cura del fiume e il problema delle inondazioni, impegnarono non
poco prefetti, consoli e senatori, tutti coloro che dovevano amministrare la
cosa pubblica.
Con una certa regolarità, dunque, più o meno ogni
venticinque anni, con periodi più intensi e altri meno, i disastri provocati da
piene del Tevere furono protagonisti della vita cittadina, aggravati da due
fattori, la minima pendenza dell’alveo del fiume, che in alcuni punti della
città è appena dodici metri più in alto rispetto al livello del mare, e la
costruzione dei ponti, in particolare di Ponte Milvio e di Ponte Sant’Angelo
che hanno creato barriere artificiali al libero scorrimento delle acque.
La memoria storica romana si è dunque formata sul
ricordo di questi eventi eccezionali, che sono testimoniati da lapide e
iscrizioni (le cosiddette manine) su
molti degli edifici del centro storico e che ancora oggi è possibile notare,
per esempio sulla fiancata destra della chiesa di Santa Maria Sopra Minerva.
Perché una piena fosse davvero
eccezionale e particolarmente catastrofica, il livello delle acque, misurato
dagli idrometri, in particolare quello del Porto di Ripetta, doveva superare il
livello di sedici metri. Questo evento,
dall’anno 1000 all’anno 1870 è stato superato ventuno volte, con una
particolare concentrazione nel corso di due secoli e mezzo, dal 1450 al 1700,
quando si sono contate ben tredici delle ventuno piene catastrofiche.
Il Cinquecento fu il secolo più
devastante, con ben cinque piene eccezionali, di cui quattro oltre i diciotto
metri e una, quella della vigilia di Natale, 24 dicembre 1598, che con 19,56 m di altezza
idrometrica a Ripetta, costituisce il massimo storico mai registrato a Roma,
con una portata di circa quattromila metri cubi al secondo.
Questa piena fu davvero qualcosa di
impensabile. In quella occasione, le
acque fuoriuscite dall’alveo del Tevere raggiunsero una altezza di cinque
metri, sommergendo perfino le colonne del Pantheon (il punto del centro di Roma
più basso rispetto al livello del mare) di ben sei metri.
Le lapidi della spaventosa piena del
1598 testimoniano il livello record delle acque del Tevere a Roma sono ancora
ben visibili a Roma, e in particolare come abbiamo detto sulla facciata della
Chiesa della Minerva, vicino al Pantheon, dove è possibile rendersi conto della
altezza che avevano raggiunto le acque e confrontare questo livello con le altre piene (quelle del 1422, 1495,
1530, 1557 e 1870).
Oltre a quella della Minerva, ben 11
lapidi in memoria di quella inondazione sono giunte fino a noi, tra le quali
quella di via S. Maria de’ Calderari quasi alla congiunzione con via Arenula.
I dati sulla piena del 1598, di cui disponiamo, sono molto dettagliati e derivano dalla cronaca dalla cronaca di Jacopo Castiglione, da dove si apprende che il Tevere inondò la città a partire dalle ore 23 circa del giorno 23 dicembre e fino alle ore 10 del giorno 25 dicembre, quando il livello dell’acqua cominciò a calare. L’acqua del Tevere era dunque fuoriuscita dagli argini per trentacinque ore consecutive, seminando il panico tra la popolazione, che non aveva avuto nemmeno il tempo di mettersi al riparo. Le case furono sommerse fino al terzo piano. I morti furono quasi quattromila, il recupero dei corpi avvenne solo parzialmente e con molti giorni di ritardo. Decine, centinaia di corpi furono tumulati in fosse comuni e ricoperti di calce, per scongiurare il rischio altissimo di epidemie.
Il conto dei morti infatti continuò
per molto tempo dopo l’alluvione, a causa delle malattie causate dal ristagno
delle acque, rigurgitate dalle fogne e dell’umidità.
Con un’altezza idrometrica di 19,56 m
a Ripetta, cui corrisponde una portata al colmo di circa 4000 m3/s,
l’inondazione del 1598 divenne dunque -
ed è a tutt’oggi - la maggiore piena del
Tevere conosciuta, a coronamento di un anno veramente eccezionale visto che, come riporta la cronaca del Castiglione, il Tevere era già più volte
uscito dal suo letto (con piene già notevoli il 2 febbraio e il 7 marzo)
allagando la zona dell’attuale lungotevere Marzio, ed uscì nuovamente anche
pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1599. Castiglione così commenta: “Quest’anno
del 1598 è stato quasi tutto si humido, che la maggior parte di giugno si passò
con pioggia e freddo, né per questo havemo avuto l’Autunno asciutto. Anzi in
detta stagione non ha mai fatto altro, che piovere quasi continuamente”.
Gli effetti dell’alluvione furono
devastanti anche sulle cose, oltre che sulle persone. La città storica rimase
sotto metri d’acqua per parecchie ore e la corrente impetuosa del fiume fece crollare
due piloni (e quindi tre arcate) del Ponte Senatorio (cioè del cosiddetto Ponte
Rotto) dalla parte della riva sinistra, con il vantaggio che il ponte mai più
ricostruito liberò l'alveo del fiume da un pesante ingombro che durante le
inondazioni si trasformava in una pericolosissima diga.
La situazione cominciò quindi a
migliorare dopo la piena del 1598 anche a causa di ragioni propriamente
tecniche come ad esempio la diminuzione di circa mille chilometri quadrati di
bacino della Val di Chiana che passarono all’Arno; la deviazione dei torrenti
Tresa e Rio Maggiore; la costruzione del ponte Regolatore sul Velino, ultimata
nel 1602.
Per arrivare però ad una risoluzione definitiva delle
alluvioni del Tevere in città, bisognò aspettare fino alla fine dell’Ottocento.
Come un presagio, fu proprio poche settimane dopo la presa di Roma, il 28
dicembre del 1870, che Roma subì una nuova, grande inondazione, con ben 17,22
metri di altezza, la seconda in assoluto più alta dal 1637. Una piena che
avrebbe raggiunto e superato i livelli di quella del 1598 se nel frattempo,
come abbiamo detto, una parte del bacino del fiume non fosse stata deviata sul
corso dell’Arno.
Fu però proprio sulla spinta emotiva di questa nuova
disastrosa piena, che si decise finalmente di mettere mano ai progetti di
difesa degli argini del fiume, che già da diverso tempo giacevano nelle
segreterie parlamentari.
Tra i molti e diversi progetti – ve n’era anche uno
“sponsorizzato” da Giuseppe Garibaldi che prevedeva una monumentale opera di
deviazione del corso delle acque del Tevere e dell’Aniene, per evitare il
tratto cittadino – prevalse quello di rinforzare gli argini del fiume con alti
e poderosi muraglioni in travertino, in grado di resistere ad una piena anche
più alta di quella del 1870.
Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton editore, Roma, 2015
28/09/22
50 anni di "Solaris" il capolavoro di Tarkovskij che fu interpretato come la risposta russa a "2001 Odissea nello Spazio"
27/09/22
Arriva il nuovo libro di Emmanuel Carrère sul processo del secolo, a Parigi, contro i terroristi del Bataclan
Parigi. V13. Il processo del secolo al terrorismo islamico. V come venerdì, 13 come 13 novembre 2015, il giorno in cui Parigi fu attaccata dal commando jihadista di Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto di quella notte maledetta: 130 morti e 350 feriti tra il Bataclan, lo Stade de France e alcuni bistrot della capitale.
26/09/22
Una storia veramente misteriosa: L'anello di Grace scomparso e la Biga di Monteleone
25/09/22
La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère
24/09/22
La vera storia di "Mocha Dick" la Balena Albina che fu l'ispirazione del Moby Dick di Melville
21/09/22
La migliore sorpresa della stagione per quanto riguarda le serie: "Kleo"
20/09/22
La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione
E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra.
Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.
Le parole di Gassman furono forti e profonde, in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.
Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò, "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”
Fabrizio Falconi - 2022
16/09/22
L'incidente in cui perse la vita Alessandro Momo, che sarebbe diventato un grande attore del cinema italiano