02/12/16

Finisce all'asta la pistola con cui Verlaine sparò a Rimbaud, venduta per mezzo milione di Euro!


La pistola più famosa nella storia della letteratura francese, il revolver con cui Paul Verlaine cercò di uccidere l'amante e collega poeta Arthur Rimbaud, è stata venduta per 434.500 euro a un'asta a Parigi.

Il prezzo per questa 7 millimetri a sei colpi è stato sette volte superiore alle stime, ha annunciato la casa d'aste Christie's. 

Verlaine acquistò l'arma a Bruxelles la mattina del 10 luglio 1873, determinato a mettere fine alla sua relazione, che andava avanti da due anni, con il ragazzo 19enne.

Il 29enne poeta abbandonò la moglie e il figlio per Rimbaud, che sarebbe in seguito diventato il simbolo della gioventù ribelle, idolatrata dai cantanti degli anni Sessanta come Jim Morrison. 

Ma dopo un periodo trascorso a Londra, caratterizzato da oppio e abuso di alcol, che avrebbe ispirato "Una stagione all'inferno" di Rimbaud, Verlaine decise di tornare dalla moglie

Fuggì nella capitale belga per stare lontano da Rimbaud, che però lo seguì

In una stanza d'albergo nel pomeriggio, dopo litigi, grida e alcol a fiumi - secondo la versione di Rimbaud - Verlaine tirò fuori la pistola

"Ecco come ti insegnerò come andartene!", urlò prima di sparare a Rimbaud. Un proiettile lo colpì al polso, l'altro centrò il muro prima di rimbalzare verso il camino. Rimbaud però rimase fedele all'amante. Bendato in un ospedale pregò di nuovo l'autore di "Poemi saturnini" di non lasciarlo. 

Verlaine - che sarebbe stato tormentato da problemi di droga e alcolismo per tutta la vita - tirò fuori ancora una volta la pistola e lo minacciò in strada. 

Fu arrestato da un poliziotto che passava per strada e condannato a due anni di lavori forzati in carcere dove - ancora una volta per il disappunto di Rimbaud - si sarebbe convertito al cattolicesimo. 

 In carcere scrisse 32 poemi che sarebbero in seguito stati pubblicati nelle sue più famose raccolte, "Saggezza", "Allora e ora" e "Invecttive". 

La pistola fu confiscata e finì nelle mani di un privato, secondo Christie's.


Verlaine e Rimbaud

30/11/16

Il fascino di Monte Mario -Storie di Nobili e di ... Ufo




Sulla sommità del Monte Mario, così amato dai romani tanto da affibbiargli l’appellativo di monte anche se si tratta di una altura che nel punto culminante raggiunge i 139 metri di altezza, sembra esista il più forte legame della città con le stelle e con i misteri dell’universo. 

In particolare nel parco della Villa Mellini, dal quale si gode un panorama unico sulla città, ogni anno frequentato da migliaia di turisti

La splendida Villa che risale al ‘500 fu costruita dal cancelliere Mario Mellini, come residenza extraurbana per la sua famiglia e proprio questo sarebbe all’origine del nome – Monte Marioconsegnato alla storia alla collinetta che sovrasta Roma

Abitata da principi e frequentata dalle più illustri personalità durante le loro visite a Roma - basti pensare tra gli altri a Goethe, Stendhal, Henry James e William Wordsworth (che dedicò ad un pino di quel parco uno dei suoi più celebri sonetti) – Villa Mellini alla fine dell’Ottocento divenne sede della Sezione Fotografica dell’Esercito Regio, inaugurando così la sua destinazione scientifica che sarebbe durata fino ad oggi: dapprima come sede dei primi esperimenti di volo e di fotografia aerea, poi, dal 1923, a seguito della chiusura degli Osservatori storici di Roma, quello del Campidoglio e quello del Collegio Romano, divenendo la sede dell’Osservatorio astronomico di Monte Mario (inaugurato ufficialmente nel 1938 e comprendente anche un museo di Astronomia) con la realizzazione di due cupole principali e di una Torre Solare all’interno della quale si seguono studi di fisica solare


Attiguo alla Villa Mellini, però c’è anche un altro luogo molto amato dai romani e dal nome suggestivo: Zodiaco. Si tratta di un celebre ritrovo, originariamente un semplice chiosco, divenuto con il tempo un elegante caffè e ristorante all’aperto, fondato nel 1956 da un personaggio divenuto famoso nelle cronache cittadine per la molteplicità dei suoi interessi, Eufemio Del Buono

Nato a Cetona, in provincia di Siena nel 1928 e scomparso pochi anni fa, Del Buono scoprì quel luogo ameno sul finire degli anni ’40, su invito di alcuni amici, peregrinando per la città alla ricerca di un posto panoramico dove realizzare un chiosco sul modello di quello già esistente sul Piazzale del Pincio

Giunto sul limitare del Parco di Villa Mellini, già divenuta sede dell’Osservatorio, e incantato dal panorama che si godeva dal piccolo sentiero che collegava alcune case fatiscenti ad un maestoso leccio secolare, Del Buono decise che quello sarebbe stato il posto giusto e dopo aver chiesto le necessarie autorizzazioni comunali, realizzò il suo sogno

Sullo Zodiaco, da quel punto del tutto privilegiato, Del Buono cominciò ad osservare il cielo e negli anni ’60 avvenne il suo primo avvistamento: un grande oggetto a forma di disco – secondo la sua testimonianza - apparve e stazionò nel cielo della capitale, episodio che Eufemio raccontò in diverse interviste televisive, trasformandolo in uno dei primi ufologi militanti italiani

 Monte Mario era stato fra l’altro teatro di un altro famoso avvistamento romano, che aveva avuto come testimone un giornalista, Bruno Ghibaudi il quale era convinto di aver ripreso un Ufo con la sua cinepresa super-8.

 Eufemio Del Buono, dopo questi episodi si dedicò alla divulgazione della ufologia, con attività instancabile, organizzando convegni, incontri, serate internazionali e scrivendo una gran quantità di libri, di cui il più famoso, resta Noi e gli Extraterrestri, che incontrò un notevole interesse anche perché, con un piglio comunque scientifico o para-scientifico, l’autore sosteneva che i Fratelli dello Spazio, cioè gli alieni, avessero edificato i libri sacri di tutte le religioni della terra, in attesa che l’evoluzione del genere umano giungesse ad un livello sufficientemente alto per poter comprendere realtà così impensabili. 

Del Buono ancora oggi è un punto di riferimento della comunità ufologica italiana e molti dei suoi libri campeggiano ancora oggi dietro le vetrine del Caffè Zodiaco che per così tanti anni ha ospitato questo controverso e simpatico personaggio che ormai fa parte a tutti gli effetti della storia recente della città. 

Panorama di Roma da Monte Mario, 1861

29/11/16

La Morte di Fidel - le reazioni della Cultura.



La morte di Fidel Castro è occasione di bilancio anche per il mondo della cultura internazionale.

Giudizi, pareri e ricordi personali:

"Era un uomo elegante, con le lunghe mani affilate da aristocratico spagnolo. Anche di primo mattino fumava dei sigari Cohiba molto sottili che ne accentuavano il fascino. La sua voce era invece deludente: una tonalità molto alta, quasi effeminata, che contraddiceva le pose da macho", ricorda intervistata da Repubblica Inge Feltrinelli, moglie di Giangiacomo, con cui negli anni Sessanta si recò a Cuba proprio per incontrare Castro in vista della pubblicazione delle sue memorie. 

Il lider maximo, ricorda la giornalista ed editrice, non amava parlare di sé, anzi, "la sua vita era la revolución. Parlava di economia e di marxismo ma non era un comunista teorico: al contrario appariva superficiale e velleitario".

All'epoca dell'incontro, nel 1964, Inge spiega che Castro "non sapeva nulla di letteratura. Un ruolo istruttivo importante l'avrebbe svolto García Márquez, che gli fece conoscere la narrativa sudamericana".

Lo stesso Gabo (scomparso nel 2014) che, qualche anno fa, parlava di Fidel così: "La sua visione dell'America Latina nel futuro, è la stessa di Bolivar e Martí, una comunità integrale ed autonoma, capace di muovere il destino del mondo. Il paese del quale sa di più dopo Cuba, sono gli Stati Uniti".

Dal mondo del cinema sono risuonate le parole dell'attore Andy Garcia, cubano naturalizzato statunitense, da sempre critico nei confronti di Castro. "Ho sempre detto che Cuba è stata tradita, mistificata, usata da Fidel. Un dittatore. Non una icona rivoluzionaria", dice in un'intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera.

"Penso che per anni e anni - aggiunge - la mia splendida Cuba sia diventata un Paese amletico e ferito per colpa di due regimi, quello di Batista e quello di Castro".

Forti i contrasti anche nella letteratura sudamericana. Mario Vargas Llosa, peruviano, naturalizzato spagnolo, premio Nobel nel 2010, ha definito Castro una "persona che ha abbagliato" la sua generazione perché "era come un eroe di un romanzo d'avventura", ma è stato responsabile di aver "mantenuto più o meno immobile la struttura del Paese".

A suo avviso, non ci sarà nessuno in grado di "sostituire Fidel come mito, leggenda o eroe" ed è per questo motivo che "le strutture di dominio e di controllo cominceranno a sgretolarsi lentamente". 

Luis Sepulveda ha invece voluto ricordare i meriti del Fidel 'rivoluzionario'. "Oggi - ha scritto dopo la notizia della morte di Castro - è il giorno del dolore di coloro che hanno osato fare il passo necessario di rompere con l'esistenza docile e sottomessa, e si unirono al cammino senza ritorno della lotta rivoluzionaria".

Parole riprese in Italia dal giornalista Gianni Minà, grande esperto di America Latina, che trent'anni fa lo intervistò per 16 lunghe ore. "Non sorprende - ha scritto Minà su il manifesto - che, in quasi tutto il mondo, la notizia della sua dipartita è stata trattata con assoluto rispetto, tranne forse da alcuni gruppuscoli di Miami, quelli che hanno favorito il terrorismo organizzato in Florida e messo in atto a Cuba, come Posada Carriles che continua a passeggiare tranquillamente per Miami".

 E poi ci sono le voci di chi Cuba e i suoi miti li ha raccontati nei libri, come Paco Ignacio Taibo II, autore di 'Senza perdere la tenerezza', straordinario racconto della vita di Ernesto 'Che' Guevara, che proprio nel giorno in cui Castro moriva stava presentando per la prima volta a Cuba la sua opera. "Fidel - dice in un'intervista pubblicata oggi da La Stampa - ha vissuto molte vite. C'è il Comandante della Rivoluzione, c'è il 'líder' della vittoria, quello della Baia dei Porci, della crisi dei missili e via dicendo. È finalmente arrivato il momento di metterle in ordine".

Secondo lo scrittore "sono state eliminate le zone oscure della sua biografia e le interpretazioni più partigiane, come quelle sulla morte del Che. Credo che oggi andrebbe sottolineato qualcosa di poco noto, come la guerra in Angola: una piccola isola dei Caraibi volle sfidare il regime razzista sudafricano a migliaia di chilometri di distanza".

fonte Lapresse

28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

27/11/16

"La comparsa" di Abraham Yehoshua (Recensione).



Noga è una musicista particolare. Interprete di uno strumento raro, l'arpa. Pur essendo nata in Israele, dopo il divorzio è andata a vivere in Olanda, dove suona nella locale orchestra di Arnhem. 

Dopo molti anni di distacco, deve tornare al suo paese, richiamatavi da una decisione che deve prendere l'anziana madre: lasciare o meno il vecchio appartamento di Gerusalemme, ormai circondato da invadenti ortodossi e trasferirsi a Tel Aviv, la città dove vive il suo figlio maggiore, Honi, con la sua famiglia. 

Le clausole contrattuali del vecchio appartamento prevedono però che esso non possa essere lasciato disabitato nemmeno per brevi periodi, nemmeno per i tre mesi del periodo di prova in una casa di riposo a Tel Aviv, che Honi ha chiesto alla madre di sperimentare. 

Noga dovrà dunque impegnarsi a stare nell'appartamento materno nell'attesa che maturi la decisione. 

Durante queste lunghe settimane Noga ritrova il suo passato, accetta un piccolo lavoro di comparsa - procuratole dal fratello - per sostenersi nelle spese, finisce per rincontrare il marito Uriah, che non ha mai smesso di amarla e che non ha mai accettato la vera causa per cui Noga l'ha lasciato: quella di non volere un figlio, e anzi di aver abortito il loro figlio senza dir nulla al compagno. 

L'inquietudine di Noga si snoda attraverso lunghe passeggiate nella vecchia Gerusalemme, negli incontri con i personaggi che si trovano come lei a sopravvivere accettando il lavoro di comparsa, nella trasferta nel deserto dove finisce per ricoprire il ruolo di figurante in un allestimento della Carmen.

Passate le tre settimane, e maturata la decisione della madre, Noga fa ritorno, con una dose supplementare di amarezza, in Olanda, dove si trova a fare i conti con la preparazione del nuovo concerto e di un tour organizzato nel lontano Giappone. In questa trasferta si aprirà forse una luce inaspettata, che rimetterà tutto in gioco. 

Yehoshua, in questo ultimo romanzo del 2015, si conferma un maestro della narrazione, qui tutta giocata nella terza persona al tempo presente; e maestro della descrizione dell'animo femminile, del suo territorio umbratile e inaccessibile. 

Un romanzo moderno, perfettamente leggibile.  Dalla scrittura piana e avvolgente, dal quale ci si separa a malincuore. 

Fabrizio Falconi







23/11/16

23 novembre - "Fibonacci day", una giornata dedicata al grande genio matematico pisano.



Oggi, 23 novembre si celebra il Fibonacci day, una giornata dedicata a Leonardo da Pisa, detto Fibonacci,mercante e matematico, che nel 1202 con il suo Liber Abaci introdusse in Europa il sistema numerico decimale e i principali sistemi di computo. 

La data scelta non è casuale. 

Nella scrittura anglosassone si scrive 11.23 e questi quattro numeri sono l`inizio della celebre successione di Fibonacci, in cui ogni cifra, intera e positiva, è la somma dei due precedenti e il rapporto tra un numero e quello che lo precede è un numero irrazionale che tende a 1,618 che è lo stesso della sezione aurea.


La successione di Fibonacci ha trovato applicazioni in ogni ramo delle scienze umane, dalla matematica alla botanica, dall`economia all`arte. 

Alla vita e ai viaggi di Fibonacci, l`uomo che ha portato i numeri arabi in Occidente, è dedicato L`UOMO CHE CI REGALÒ I NUMERI, il nuovo libro di Paolo Ciampi (Mursia, pagg. 192, euro 17,00. In libreria). 

Una biografia in cui la matematica si incrocia con la Storia e le vicende dei mercanti del Medioevo con una riflessione sulla diffusione delle idee e la magia dei numeri, linguaggio segreto della natura e della vita. 

 Paolo Ciampi, scrittore e giornalista, si muove tra le poche e frammentarie notizie sulla vita di Fibonacci, del quale per secoli si è perso il ricordo e restituisce al lettore non solo il ritratto di un uomo ma l`affresco di un`epoca, quella a cavallo tra il XII e il XIII secolo, in cui le idee viaggiavano insieme alle merci seguendo itinerari imprevedibili come quello che portò il giovane Fibonacci in Cabilia dove vide un maestro che tracciava nella sabbia alcuni strani segni: erano i numeri che arrivavano dall`India e che un giorno noi avremmo chiamato arabi.



22/11/16

Decalogo giapponese dell'amore.





Decalogo giapponese dell'amore
(mia libera traduzione)


1. L'amore perfetto non si raggiunge mai attraverso il possesso. Il sesso perfetto non arriva mai attraverso il possesso.

2. L'amore perfetto non arriva mai attraverso uno sfogo o una frustrazione. Il sesso perfetto non viene mai per la via di uno sfogo o di una frustrazione.

3. Mai cercare l'amore perfetto per trovare il sesso perfetto.

4. Mai cercare il sesso perfetto per trovare l'amore perfetto.

5. L'amore perfetto non chiede nulla.

6. Il sesso perfetto non chiede nulla.

7. L'amore perfetto è come un fiore che si apre al mattino.

8. Il sesso perfetto è come un fiore già aperto che riceve la luce perché è aperto.

9. Il sesso perfetto è l'immobilità del torrente che trova il mare.

10. L'amore perfetto è il mare che tu sei. E dentro di te, tutto.



21/11/16

100 anni dalla morte di Jack London - Le celebrazioni in Italia.


La vita breve ma intensa, il vitalismo incontenibile, rivoluzionario, di Jack London rimangono, a cent'anni dalla morte dello scrittore, "un monito a non darsi mai per vinti o sconfitti"

E i suoi scritti, dei quali non c'e' ancora certezza sul numero esatto, da 'Zanna Bianca' a 'Il richiamo della foresta' a 'Martin Eden' a 'Il tallone di ferro' hanno ancora molto da dirci sul rapporto tra uomo e natura, sulle conseguenze del capitalismo e il futuro della società. 

 A tutto questo e molto di piu' rende omaggio il Jack LondonTribute, tre giornate, dal 22 al 24 novembre a Trieste, di racconti, aneddoti, omaggi e testimonianze, a cura del regista e autore Massimo Navone e dello scrittore Davide Sapienza, tra i principali esperti e traduttore italiano di London

E arrivano in libreria per Chiarelettere 'Il senso della vita (secondo me)', con introduzione di Mario Maffi e per Orecchio Acerbo tornano 'L'ombra e il bagliore' con le illustrazioni di Fabian Negrin, il racconto prediletto da Borges e 'Il richiamo della foresta' in grande formato con le illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello. 

Nato il 12 giugno 1876 a San Francisco e morto il 22 novembre 1916 a Glen Ellen, London resta ancora una figura da esplorare

Figlio di un astrologo ambulante che si rifiuta di riconoscerlo, con un padre adottivo che passava da un fallimento commerciale all'altro, London e' cresciuto insieme a compagnie poco raccomandabili. 

Leggendario scrittore di inizio Novecento, si e' misurato in mille mestieri. "Prima che mi dessero tutti questi titoli, ho lavorato in una fabbrica di conserve, in una di sottaceti, sono stato marinaio, ho trascorso mesi fra le schiere di disoccupati a cercar lavoro; ed e' questo lato della mia vita che io venero di piu', e a cui voglio restare attaccato finche' vivo" spiega London ne 'Il senso della vita'. 

 Il tributo si apre il 22 novembre al Teatro Miele di Trieste all'insegna di "Jack London, l'uomo venuto dal futuro" dove e' atteso un intervento in video realizzato per l'occasione dall'attore Marco Paolini, che con il suo "Ballata di uomini e cani" ha portato in scena con grande successo in questi ultimi anni alcuni racconti brevi di London sul rapporto uomo-natura. 

Fra gli altri contributi quelli di Claudio Bisio, Marco D'Amore, Paolo Pierobon, Gigio Alberti, Antonio Catania, Massimo Cirri, Giampiero Solari, Matteo Caccia, Nuzzo Di Biase, Cristina Dona' ed Eleonora Giovanardi. 

Al centro della seconda serata invece lo spettacolo ideato e firmato da Massimo Navone, 'Come il cane sono anch'io un animale socievole', ispirato a 'La peste scarlatta' con cui nel 1912 London sperimenta uno dei primi prototipi di narrativa 'post-apocalittica' e 'La forza dei Forti'.

 Lo spettacolo coinvolge gli spettatori in una 'performance letteraria interattiva'. In chiusura del Jack London Tribute, l'affabulazione/spettacolo 'Il Richiamo di Zanna bianca' di e con Davide Sapienza per la regia di Umberto Zanoletti e le canzoni di Francesco Garolfi. 

 E, all'ora dell'aperitivo, ogni giorno il Jack London Drink, reading di brani da 'John Barleycorn, memorie alcoliche' e altri racconti sorseggiando alcuni dei cocktail preferiti da London. Come dice Maffi nell'introduzione a 'Il senso della vita': "In un panorama editoriale che sembra continuare a privilegiare il ripiegamento su se stessi, il narcisismo e l'individualismo, le piccole tempeste nella tazzina da te', il rifiuto dell'impegno e dello schierarsi, l'accettazione del 'come e" e l'ossessiva ricerca in esso d'una piccola (e illusoria) nicchia personale, ben venga l'aria pura, piena d'ossigeno e di vita, che spira ormai da cent'anni da questi testi, da queste parole". 

20/11/16

La poesia della domenica - "Sotto un abietto salice" di W.H.Auden




Sotto un abietto salice

Sotto un abietto salice
non ti affliggere più, innamorato:
segua al pensiero rapida azione.
A che serve pensare?
La tua incessante prostrazione
mostra quanto sei freddo;
alzati, su, e ripiega
la tua mappa di desolazione.

I rintocchi che scorrono sui prati
da quella fosca guglia
suonan per queste ombre senza amore
che all'amore non servono.
Ciò che è vivo può amare: perché ancora
piegarsi alla sconfitta
con le braccia incrociate?
Attacca e vincerai.

Stormi di anatre in volo sul tuo capo
e sanno dove andare,
freddi ruscelli in corsa ai tuoi piedi
e vanno verso l'oceano.
Cupa e opaca è la tua costernazione:
cammina, dunque, vieni,
non più così tarpato
in preda alla tua soddisfazione.


Underneath an Abject Willow

Underneath an abject willow,
Lover, sulk no more:
Act from thought should quickly follow.
What is thinking for?
Your unique and moping station
Proves you cold;
Stand up and fold
Your map of desolation.

Bells that toll across the meadows
From the sombre spire
Toll for these unloving shadows
Love does not require.
All that lives may love; why longer
Bow to loss
With arms across?
Strike and you shall conquer.

Geese in flocks above you flying.
Their direction know,
Icy brooks beneath you flowing,
To their ocean go.
Dark and dull is your distraction:
Walk then, come,
No longer numb
Into your satisfaction.


traduzione di Gilberto Forti

tratto da W.H.Auden 
La verità, vi prego, sull'amore
Adelphi, 1994.

19/11/16

"L'universo senza parole" di Dana Mackenzie (Recensione).



Una riprova della propensione divulgativa degli studiosi anglosassoni è questa fornita da Dana Mackenzie che dopo la laurea in matematica alla Princeton University è stato a lungo professore, per poi dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. 

Collaborando con importanti riviste di divulgazione-scientifica come Science, Discover e New Scientist, Dana Mackenzie ha sviluppato questo talento fino al tentativo quasi disperato rappresentato da questo volume: quello di spiegare la fortuna e la storia della matematica in 24 fondamentali equazioni che hanno cambiato la nostra percezione del mondo e la storia dell'umanità. 

Edito per la prima volta negli Stati Uniti nel 2012, L’universo senza parole è stato tradotto in varie lingue ed è divenuto in Francia un vero e proprio caso editoriale. 

Una sfida quasi disperata perché se la maggior parte dei libri di divulgazione sulla scienza, persino sulla matematica, evita le equazioni come se fossero qualcosa da risparmiare ai delicati occhi dei lettori, Dana Mackenzie fa esattamente il contrario concentrandosi proprio sulla magia della matematica che si riassume nella sintesi elegante e geniale delle equazioni.

Si snodano dunque, nel rapido succedersi dei 24 capitoli, altrettanto celebri formule, dalla più elementare di tutte: 1+1=2, attraverso la scoperta del Pigreco,  delle equazioni di Archimede, Pitagora, Galileo, Poincaré e Dirac fino alla più sofisticata (la formula di Black-Scholes sui derivati finanziari); dalla più famosa (E = mc2) alla più arcana (l'equazione dei quaternioni di Hamilton).

In questo lungo passaggio millenario il libro di Dana Mackenzie mette in evidenza come la funzione della matematica si sia radicalmente trasformata: dalla funzione di spiegare la realtà cioè di interpretare e rendere ragione della esistenza dei fenomeni del mondo: dalle figure geometriche al movimento dei pianeti, alla funzione di immaginarla e prevederla: il mondo della matematica infatti oggi è in grado, con le sue presunte astrazioni, di immaginare quello che la fisica scoprirà solo in un secondo momento, con le prove empiriche, come è successo ad esempio di recente, con il Bosone di Higgs, previsto da studi matematici con venti anni d'anticipo prima che l'acceleratore di particelle del CERN di Ginevra ne dimostrasse l'effettiva esistenza. 

L'esperimento di Mackenzie però funziona soltanto a metà. Il libro non è per niente chiaro e originale nelle illustrazioni scelte e nella esposizione dei diversi capitoli e la parte strettamente matematica - con lo sviluppo delle singole equazioni -  è molto tecnico e arduo per chi non abbia una preparazione specifica.

Resta così oscuro molto di quanto viene raccontato nei capitoli - specie gli ultimi che descrivono una matematica sempre più sofisticata  complessa e astratta -  anche se è godibile il quadro d'insieme che spinge a riflettere sulla perfezione misteriosa e matematica del nostro universo.

Dana Mackenzie
L'universo senza parole
Rizzoli 2016 Pagine: 224


Fabrizio Falconi


17/11/16

Dopo 7 anni di lavori apre al pubblico l'Area archeologica del Circo Massimo, piena di sorprese.




Finalmente una buona notizia per Roma. Ha riaperto ieri, dopo 7 anni di lavoro, l'area archeologica del più grande edificio per lo spettacoli dell'antichità, il Circo Massimo, che finalmente apre i suoi tesori al pubblico.

"Finora era un parco pubblico ma la struttura architettonica originaria di fatto non si vedeva - sottolinea il sovrintendente capitolino ai Beni culturali Claudio Parisi Presicce - Ora l'area archeologica dell'emiciclo sud è percorribile con illuminazione specifica e pannelli che illustrano sia la storia del circo sia la vita di tutte quelle persone che vi si accostavano ogni giorno". 

Lo stadio più grande dell'antichità apre in una nuova veste, e mostra la sua parte originaria. Lungo il percorso è possibile scorgere non solo i resti dell'imponente architettura risalente a duemila anni fa, ma anche i segni di secoli di gare e feste, come i graffiti degli spettatori 'tifosi' ancora visibili in alcuni ambienti.

I visitatori accedono alle gallerie che un tempo conducevano alle gradinate della cavea (i senatori al piano terra e la plebe al piano superiore)

Nelle gallerie, che si possono percorrere per un tratto di circa 100 metri ciascuna, si osservano anche i resti delle latrine antiche

Si prosegue sulla strada basolata esterna ritrovata durante gli scavi, in cui spicca una grande vasca-abbeveratoio in lastre di travertino. 

Qui è possibile visitare anche alcune stanze che venivano utilizzate come botteghe (tabernae) per soddisfare le necessità del numeroso pubblico dei giochi: locande, negozi per la vendita di generi alimentari, magazzini, lupanari, lavanderie, ma anche uffici di cambiavalute necessari per assecondare il giro di scommesse sulle corse dei cavalli. 

 Nella zona centrale dell'emiciclo sono visibili le basi dell'Arco di Tito, uno dei più grandi archi trionfali di Roma, a lui dedicato in occasione della vittoria giudaica

Le indagini hanno consentito di rimettere in luce le basi delle colonne frontali e alcuni importanti frammenti architettonici che hanno permesso agli archeologi di stabilire le sue dimensioni originarie (le colonne erano alte almeno 10 metri) grazie anche all'anastilosi virtuale del monumento realizzata in collaborazione con l'Università Roma Tre - Dipartimento di Architettura. 

Nel corso degli scavi sono state rinvenute anche parti della grande iscrizione, rimarcata con lettere bronzee, su cui era incisa la dedica da parte del Senato e Popolo Romano all'imperatore

L'intervento di riqualificazione dell'area ha interessato anche la medievale Torre della Moletta (realizzata nel XII secolo) su cui si è intervenuti con il restauro delle murature antiche ed un impegnativo progetto di consolidamento statico.

Una scala interna consente di arrivare fino al piano superiore, uno splendido punto panoramico sull'area archeologica, che permette di apprezzare in pieno le dimensioni del Circo. I numerosi frammenti lapidei presenti nell'area sono stati in parte anche sistemati ad arredo dello spazio aperto. 

In particolare ai piedi dell'emiciclo palatino sono stati collocati, da un lato, alcuni elementi provenienti dall'edificio antico (gradini, cornici, capitelli, le soglie delle botteghe, etc.), mentre sull'altro versante sono state collocate una serie di colonne in marmi colorati rinvenute negli scavi archeologici. 

Infine, nello spazio antistante la torre sono stati posizionati i frammenti architettonici di marmo lunense provenienti dallo scavo dell'arco di Tito.

 Situato nella valle che separa due dei sette colli di Roma, Aventino e Palatino, il Circo Massimo è stato sede di giochi e corse dei cavalli fin dall'inizio della storia della città. Era qui che gli antichi romani assistevano agli 'spettacoli' tipici dell'epoca

L'ampio spazio pianeggiante della valle e la sua vicinanza con il fiume Tevere, fondamentale approdo commerciale, fecero del luogo, fin dalla fondazione della città, lo spazio ideale non solo per attività di mercato e di scambi con altre popolazioni, ma anche di socializzazione e svago. 

 Fin dall'età regia vi si sono svolte manifestazioni pubbliche di ogni genere: competizioni ippiche, cacce con animali esotici, rappresentazioni teatrali, esecuzioni pubbliche, ma anche processioni religiose e trionfali. 

Le prime installazioni in legno, probabilmente in gran parte mobili, risalirebbero all'epoca di Tarquinio Prisco, nella prima metà del VI secolo a.C. e la costruzione di primi impianti stabili risalirebbe al 329 a.C. 

Le prime strutture in muratura, soprattutto legate alle attrezzature per le gare, si ebbero probabilmente solo nel II secolo a.C. e fu Gaio Giulio Cesare a costruire i primi sedili in muratura e a dare la forma definitiva all'edificio, a partire dal 46 a.C

Con i suoi 600 metri di lunghezza e 140 di larghezza, è considerato una delle più grandi strutture per spettacoli mai costruite dall'uomo. 

Lo stadio poteva ospitare circa 250.000 spettatori sulle gradinate.


La facciata esterna aveva tre ordini: solo quello inferiore, di altezza doppia, era ad arcate

La cavea poggiava su strutture in muratura, che ospitavano i passaggi e le scale per raggiungere i diversi settori dei sedili, ambienti di servizio interni e piccole botteghe aperte verso l'esterno (di alcune delle quali restano tracce ben visibili anche su via dei Cerchi). 

 Il circo fu utilizzato fino alle ultime gare organizzate nel Sesto secolo

In seguito l'area è divenuta luogo di passaggio dell'acqua Mariana, ha ospitato coltivazioni agricole e mulini, è divenuta proprietà privata della famiglia Frangipane, cimitero degli Ebrei per poi ospitare, a partire dal XIX secolo, gli impianti del Gazometro, magazzini, manifatture, imprese artigianali e abitazioni. 

 In epoca contemporanea l'area è stata utilizzata per manifestazioni e concerti. 

Di recente il Circo Massimo è stato lo scenario di concerti come quello di Bruce Springsteen, l'estate scorsa, e dei Rolling Stones, nel 2014. 

 L'accesso all'area archeologica è da piazza di Porta Capena, tutti i giorni dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 16, fino all'11 dicembre.

 Dal 12 dicembre resta l'apertura nel weekend mentre sarà su prenotazione (allo 060608) quella nei giorni feriali. Il costo del biglietto va dai 3 ai 5 euro.

16/11/16

Archeologia: dalla tomba dei Guinigi a Lucca spunta fuori una dentiera di 4 secoli fa.




Durante la pulizia e il restauro dei resti scheletrici rinvenuti all'interno della tomba collettiva dei Guinigi, a Lucca, e' venuta alla luce una protesi dentaria in oro di particolare interesse, sia per le modalita' di esecuzione, sia per la rarita' del ritrovamento

Lo studio del prezioso reperto e' stato effettuato da un team di paleopatologi dell'Universita' di Pisa.

"Lo studio del contesto archeologico - spiega la paleopatologa, Simona Minozzi - non ha permesso una datazione precisa per la protesi che comunque si colloca tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XVII secolo, e malgrado esistano descrizioni di apparecchi simili nei testi del periodo, non sono conosciute altre evidenze archeologiche. La protesi dentaria ritrovata nella tomba dei Guinigi e' la prima testimonianza di protesi dentale di questo periodo storico e un prezioso tassello per la storia dell'odontoiatria". 

La protesi e' formata da cinque denti mandibolari umani tenuti assieme da una lamina metallica in oro: la forma e le dimensioni la rendono adatta alla sostituzione dell'arcata anteriore mandibolare. 



I denti, canini e incisivi disposti senza rispettare la corretta sequenza anatomica, appartengono a individui diversi. 

Per la realizzazione dell'apparecchio la radice di ciascun dente e' stata limata e tagliata longitudinalmente e all'interno del taglio e' stata inserita una sottile lamina d'oro alla quale i denti sono stati assicurati attraverso piccoli perni. 

La lamina fuoriesce ai due lati della protesi con due alette piegate ad S, sulle quali sono presenti due piccoli fori che garantivano l'ancoraggio ai denti ancora in situ nella mandibola, di cui non e' pero' stata trovata traccia. 

Infatti, i tentativi di associazione con le numerose mandibole rinvenute nella tomba collettiva che raccoglieva i resti di quasi un centinaio di individui, sepolti assieme alla protesi, non hanno dato esito positivo. In ogni caso, la presenza di un deposito di tartaro sulla superficie dei denti dimostra che l'apparecchio fu portato a lungo.



15/11/16

La cura - di Fabrizio Falconi.





Cura è una parola ambivalente. Significa infatti non soltanto curare qualcuno o qualcosa che sta male, portandolo alla guarigione, ma anche permettere a qualcosa o a qualcuno - che è già sano -  di crescere, di svilupparsi, di fiorire come fioriscono le piante. 

E non sembra un caso che la parola derivi dal latino cura che a sua volta deriva dalla radice ku-/kav- che significa osservare

Chi ha a cuore qualcosa o qualcuno infatti, per prima cosa osserva. Meravigliandosi di quella bellezza unica - non riconosciuta e non vista da alcuno, nei suoi propri termini tranne da chi osserva, e osservando cura.  

Ti curo perché ti amo e ti voglio proteggere e preservare. Ti voglio far crescere. Non voglio che tu cresca secondo i miei desideri, perché questo sarebbe forzare, piegare, stridere.  Voglio che tu cresca per come sei, voglio che tu esprima la potenzialità piena che è in te. 

Io ti osserverò, ti guarderò da lontano, senza co-stringerti. Ti lascerò libera. Ma ti aiuterò ogni volta che tu lo vorrai e ogni volta che ne avrai bisogno. 

Lo farò non per ottenere riconoscenza, ma solo perché il tuo stesso sbocciare è per me la ricompensa. 

Dunque la mia cura non ti verrà data perché tu sei malata, ma proprio perché sei piena di bellezza. 

Diventerò forse saggio, in questo modo.  La stessa radice in sanscrito dice che kavi è il saggio. Il saggio è colui che osserva.

Questo mio osservarti sarà fatto fino alla fine.  Ovvero finché tu non ne avrai più bisogno. E se tu avrai sempre bisogno di me, io sarò sempre qui a curarti. 

Nel tempo sospeso e breve di una esistenza, questa cura salverà dai tuoni e dalla tempesta.  Rimarrà indelebile anche dopo il turbinio della pioggia e delle foglie. Tornerà a splendere ad ogni nuova stagione.  Sarà la mia luce. Sarà la tua luce. 

Fabrizio Falconi




14/11/16

L'incredibile storia del sarcofago perduto dell'Imperatore Adriano.



Certe volte i percorsi della storia si perdono nel mistero, e questo accade anche ai reperti più preziosi che hanno accompagnato le vite dei personaggi più illustri. Ciò è accaduto spesso nella infinita storia di Roma, che affonda nella notte dei tempi.

E uno strano destino ha accompagnato l’ultima dimora di uno dei più grandi imperatori romani, Adriano, il quale aveva pensato per sé ad una sepoltura in un maestoso tempio di pietra che non aveva eguali. 

L’Hadrianeum o Mole di Adriano è infatti uno dei più grandi monumenti dell’antichità romana, voluta e probabilmente ideata dallo stesso imperatore come propria tomba e per i suoi famigliari, commissionata all’architetto Demetriano: un’opera così imponente che, iniziata nel 130 d.C. fu ultimata solo dopo la morte dell’imperatore, dal suo successore Antonio Pio nel 139. 

Era formato da un basamento quadrato (ben ottantaquattro metri per lato) rivestito in marmo, sormontato da un tamburo cilindrico di sessantaquattro metri di diametro

Sopra a quest’ultimo un altro tamburo più piccolo su cui si elevava un tumulo di terra alberato di cipressi. 

In cima, un altare con una statua raffigurante l’imperatore nelle vesti del dio Sole oppure, come sembra più probabile, una quadriga in bronzo, guidata dall’imperatore con gli abiti della divinità solare



 All’interno del grandioso monumento una rampa elicoidale (in parte ancora esistente) ascendeva fino alla cella in cui fu deposto il corpo di Adriano, di sua moglie Sabina, e di tutti i suoi successori fino a Settimio Severo e i componenti delle loro famiglie. 

Il Mausoleo fu costruito davanti al Campo Marzio, sull’altro lato del fiume, collegato ad esso dal Ponte Elio, oggi Ponte Sant’Angelo, nella zona dell’ager vaticanus, fuori dalle mura cittadine, antico luogo utilizzato per le sepolture.

In cima all’Hadrianeum c’era come abbiamo visto la cella sepolcrale dell’imperatore, il cui corpo, come afferma una tradizione consolidata, era conservato in un sarcofago il porfido rosso – il più grande dell’antichità, scolpito  – andato purtroppo distrutto, dopo essere stato smembrato insieme agli altri pezzi pregiati del Mausoleo, come la quadriga bronzea che sarebbe stata portata a Costantinopoli (per adornare l’Ippodromo) e poi riconquistata dai Veneziani e posta sulla facciata della Basilica di San Marco, dove è rimasta fino agli ’80 del XX secolo, prima di essere messi al riparo nel Museo rimpiazzandoli con copie identiche

vasca in granito grigio proveniente dal Mausoleo di Adriano, oggi ai Musei Vaticani

Il sarcofago dell’illuminato imperatore (che ha ispirato fra l’altro il grande romanzo di Marguerite Yourcenar) subì davvero una strana sorte: esso infatti finì, insieme ad altri preziosi reperti romani, sulla piazza Lateranense, che costituì a lungo una sorta di museo all’aperto destinato a rivaleggiare con i tesori custoditi in San Pietro.

Le cronache dell’anno Mille danno il sarcofago ancora presente sulla piazza, ante fulloniam, ovvero dinnanzi a quello che era il lavatoio pubblico dei panni

Più precisamente del colossale prezioso sarcofago, esattamente quello nel quale era stato sepolto Adriano nella sala circolare in cima alla torre del Mausoleo, oggi Castel Sant’Angelo, è tradizione che il coperchio fosse deposto nel quadriportico di San Pietro, mentre la vasca di porfido finì al Laterano. 

Lo smembramento risale probabilmente all’epoca di papa Bonifacio IV (608-615) che fu l’artefice della dedica del Mausoleo all’Arcangelo. Il sarcofago di Adriano, però, non restò inutilizzato a lungo, in quel di San Pietro. 

Un altro Papa, Innocenzo II (Gregorio Papareschi, 1130-1143), evidentemente non immune da megalomania, decise di usarlo come sua sepoltura. 

Ma il corpo di Innocenzo II e il prezioso sarcofago andarono presto perduti, in un crollo parziale della Basilica Petrina che si ebbe il 6 maggio dell’anno 1308 a seguito di un furioso incendio

Anche il coperchio ebbe uno strano destino: servì dapprima come sepoltura dell’imperatore Ottone II (morto nel 983) e poi del Prefetto di Roma, fin quando non fu adattato a fonte battesimale nella Basilica Vaticana da Carlo Fontana nel 1698. 

 Fabrizio Falconi per CAPITOLIVM - riproduzione riservata

Castel Sant'Angelo in una celebre stampa di Piranesi

13/11/16

Poesia della Domenica - Il libro della misericordia di Leonard Cohen.





in memoriam Leonard Cohen (21 settembre 1934 - 7 novembre 2016)

Mi hai lasciato cantare, mi hai sollevato, hai dato alla mia anima un raggio su cui viaggiare. Hai ripiegato la tua distanza nel mio cuore. Hai riportato le lacrime ai miei occhi. Mi hai nascosto nella montagna della tua parola. Hai dato alla ferita una lingua per risanarsi. Mi hai coperto la testa con le attenzioni del mio maestro, hai dotato il mio braccio della forza di mio nonno. O amore che parli, o conforto che sussurra nel terrore, indicibile spiegazione del fumo e della crudeltà, dissolvi quest'autocospirazione, lasciami osare l'ardimento della gioia.


Leonard Cohen, Dal Libro della misericordia (19),  Traduzione di Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni, Minimum Fax, Roma, 2013.

11/11/16

La Tolleranza - di Pier Paolo Pasolini (dalle Lettere Luterane).





Vorrei aggiungere ancora qualcosa a ciò che ti ho detto nell’altro paragrafo intitolato “Come devi immaginarmi”.

Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro discorso, e non perderò certo occasioni di dirti, in proposito, delle verità, sia pure semplici che tuttavia scandalizzeranno molto, al solito, i lettori italiani, sempre così pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al reprobo.

Ebbene: in tal senso io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante

Sono, cioè, un “tollerato”. 

La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che si "condanni". 

La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. 

Infatti al “tollerato” – mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua “diversità” o meglio “la sua colpa di essere diverso”- resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerala, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla

Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della “diversità” delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal “ghetto” fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.

Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì.

Egli può uscire da li solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè dalla maggioranza.

Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere “tinta” dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.

Pier Paolo Pasolini - Da Lettere luterane.