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24/05/24

I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma


I tesori di Santa Maria Sopra Minerva, una delle più belle chiese di Roma

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati

La meravigliosa Basilica a pochi passi dal Pantheon è uno dei casi in cui il nome dell’edificio chiarisce da se stesso la sua origine, le sue fondamenta. La Chiesa di Santa Maria sopra Minerva è una delle più straordinarie di Roma.  Fondata nel secolo VIII sui resti di un tempio di Minerva Calcidica e rifatta in forme gotiche nel 1280, deve il suo fascino anche a questo: il sorgere sullo stesso luogo esatto dell'antico Tempio di Iside al Campo Marzio  (o Iseo Campense o Iseum et Serapeum) che i Romani avevano dedicato al culto delle due divinità orientali, Iside e Serapide e che nel corso dei secoli, dopo la caduta dell’impero, ha restituito preziosissimi reperti, in gran provenienti dall'Egitto e trasportati a Roma dopo che quella provincia fu acquisita da Augusto dopo la morte di Cleopatra imperatrice. Non solo: nella stessa zona dell’Iseo Campense, sorgeva anche il Tempio di Minerva Chalcidica, costruita dall’imperatore Domiziano, l’ultimo della dinastia Flavia, alla fine del I secolo d.C. L’appellativo di Chalcidica significava letteralmente “guardiana” o “portiera” e si riferiva al fatto che il tempio in onore della dea (chiamato anche in seguito Minerveum),  era stato costruito proprio di fronte al Porticus Divorum, la grande area porticata voluta dallo stesso Domiziano, dedicata al padre Vespasiano e al fratello Tito.

             L’esistenza di una chiesa cristiana, edificata sopra i resti di questi edifici è testimoniata già nel 700 d.C. ed era stata affidata alle suore basiliane provenienti da Costantinopoli, ma fu rifatta completamente in forme gotiche intorno al 1280 da architetti toscani, quando il possesso dell’oratorio era passato nelle meni dei frati domenicani. È dunque particolarmente importante in una città come Roma dove sono piuttosto rari gli esempi del puro gotico.

             Modificata poi con vari interventi nei secoli scorsi, la basilica è una delle più importanti di Roma per i tesori d'arte che contiene e per contenere le tombe della Santa patrona d’Italia, di quattro pontefici e di innumerevoli altre personalità.

             La splendida facciata – quasi minimalista – della chiesa, fu dovuta al conte Francesco Orsini che ne finanziò la costruzione nel 1453. Sopraggiunti problemi economici però, evidentemente, ne bloccarono il completamento ed essa rimase incompiuta fino al 1725, fino a quando non intervenne papa Benedetto XIII. La facciata resta ancora oggi semplicissima, nuda e disadorna abbellita però da due portali rinascimentali (i laterali) e uno ottecentesco (il centrale), sovrastati da tre rosoni. La facciata, nitida e bianca fa da sfondo alla piazza antistante, al centro della quale si erge il celebre Elefantino (o Pulcino) della Minerva, opera dello scultore Ercole Ferrata su progetto del Bernini, che sorregge uno dei tredici, vetusti obelischi originali egizi romani, il più piccolo di tutti (proveniente proprio dall’Iseum et Serapeum).

                L’interno della basilica è imponente, a tre navate, separate da massicci pilastri e offre al visitatore il colpo d’occhio di uno sterminato cielo stellato che fa pensare ai simili soffitti medievali a crociera della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o del duomo di Siena o di San Gimignano, ma invece è di fattura moderna: risale infatti al XIX secolo, quando si scelse una decorazione più in linea con le linee gotiche antiche dell’edificio. Nel pavimento sono invece incastonate moltissime e importanti iscrizioni e sepolture. Nelle due navate laterali si aprono invece diverse cappelle che contengono numerosi tesori. Cominciando dalla navata di destra, nel primo pilastro si ammira la tomba e il busto di Antonio Castalio, una delle più belle sculture del rinascimento romano. Più avanti, nella quinta cappella, la tomba seicentesca firmata dal Maderno, di Papa Urbano VII, il pontefice che detiene il record di minor durata del pontificato: soltanto tredici giorni in tutto, dal 15 al 27 settembre del 1590. Subito dopo la sua elezione, infatti, il papa fu colto da violente febbri malariche, che ne impedirono anche la cerimonia di incoronazione. Venne sepolto in San Pietro, ma fu poi trasferito qui per la sua generosità nei confronti della Arciconfraternita dell’Annunziata che si dedicava all’assistenza delle zitelle bisognose e che aveva sede vicino a Santa Maria sopra Minerva.  Sull’altare di questa cappella, una bellissima Annunciazione di Antoniazzo Romano, del 1460. Nella settima cappella, un affresco di Melozzo da Forlì – Cristo giudice tra due angeli - che adorna una delle tombe rinascimentali.

             Nella navata di sinistra, invece, la terza cappella conserva un piccolo olio su tavola, che dopo una dubbia attribuzione al Pinturicchio, è oggi unanimemente considerato opera di Pietro di Cristoforo Vannucci, più famoso con il nome di Perugino (1448-1523), il maestro di Raffaello. Perugino (o allievi della sua stretta scuola) lo realizzò negli anni successivi al 1479, quando fu chiamato da Papa Sisto IV per decorare l'abside della Cappella della Concezione nel coro della Basilica Vaticana. È un ritratto, quello del Salvatore del Perugino, estremamente affascinante. Per l'uso dei colori (il verde intenso del mantello sul rosso pompeiano della tunica), per l'effige del volto, in espressione dolcissima, con il capo debolmente reclinato sulla destra, il viso incorniciato dai capelli castani, le guance rosee, lo sguardo penetrante. Perugino usò la tecnica dello sguardo animato (comune ad altri celebri ritratti rinascimentali, tra cui La Gioconda): grazie ad un sapiente uso della prospettiva, lo sguardo del Cristo, infatti, sembra seguire quello dell'osservatore. Lo si sperimenta davanti al dipinto, spostandosi lentamente da destra verso sinistra e al contrario: lo sguardo del Cristo sembra continuare ad osservare direttamente negli occhi, colui che guarda.

               Passando ora al transetto, alla fine della navata di destra, eccoci davanti alla meravigliosa Cappella Carafa, uno dei capolavori assoluti del Quattrocento, con gli straordinari affreschi di Filippino Lippi, su commissione del cardinale Oliviero Carafa. Nelle quattro vele della volta, sono rappresentate quattro Sibille. Lo stemma al centro è quello della famiglia Carafa. La parete centrale inserisce all’interno della scena dell’Annunciazione la figura di san Tommaso che presenta alla Vergine Maria il cardinale Carafa, inginocchiato. Nella parte alta c’è l’Assunzione della Vergine e una corona di angeli che le danzano intorno, ciascuno con in mano uno strumento musicale diverso, un vero e proprio inventario di strumenti musicali dell’epoca. Nella parete destra, scene della vita di san Tommaso, mentre sulla lunetta, verso sinistra è raffigurato il miracolo del Crocifisso che parlando al Santo gli dice: “hai scritto bene di me Tommaso, che ricompensa vuoi?”. E sembra lui abbia risposto: “Nient’altro che te Signore”.  In basso, è raffigurato invece il Santo in cattedra che tiene in mano un libro con la scritta: "Sapientiam sapientum perdam", che significa "Distruggerò la sapienza del sapiente", frase tratta dagli scritti di san Paolo. Davanti a lui una figura con un volto inquietante, raffigurante il peccato con un cartiglio che dice "Sapientia vincit malitiam", "La sapienza vince la malizia”, chiara allusione alla spiritualità domenicana da sempre caratterizzata da una ricerca della Verità e una lotta al vizio e all’errore. Tommaso è circondato da quattro figure femminili che rappresentano la filosofia, la teologia, la dialettica e la grammatica. I molti personaggi in primo piano sono per lo più eretici (identificati anche da iscrizioni dorate sui loro indumenti), tra cui il profeta persiano Mani, fondatore del manicheismo , con un dito sulle labbra, Eutiche con un orecchino di perla, Sabellio, Ario e altri. I libri per terra sono quelli eretici, che stanno per essere bruciati. All’interno della Cappella anche la grande tomba di papa Paolo IV Carafa, opera di Pirro Ligorio.  

            Proseguendo a sinistra del presbiterio, una statua molto particolare: pochi sanno infatti che la basilica di Santa Maria sopra Minerva, oltre ai molti tesori custodisce anche un’opera di Michelangelo, il Cristo Portacroce, che fu realizzata tra il 1519 e il 1520 con l’intervento di allievi del maestro. Originariamente il Cristo era interamente nudo, cosa che ovviamente urtò la suscettibilità di qualche notabile o cardinale, che ordinò di ricoprirne i fianchi con una fascia di bronzo dorato. Con lo stesso metallo fu realizzata anche una calzatura per il piede destro, sporgente, proprio per prevenirne la consunzione ad opera dei fedeli, come è avvenuto per il piede della statua dell’Apostolo, in San Pietro.

            Al di sotto dell’altare maggiore, realizzato in stile neogotico, riposano i resti del corpo di Santa Caterina da Siena, contenuti in un sarcofago del Quattrocento. La Santa, patrona d’Italia e compatrona d’Europa morì a Roma il 29 aprile del 1380 e fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva. Il teschio e un dito sono invece conservati e venerati nella basilica di San Domenico, a Siena, città di nascita della Santa. Il sarcofago, che si vede attraverso i vetri, sotto l’altare è assai suggestivo, perché raffigura la santa, giacente.

            L’abside della Basilica conserva poi le tombe di due papi, opere di Antonio da Sangallo il giovane: Clemente VII e Leone X, entrambi appartenenti alla famiglia dei Medici. Sempre nel transetto sinistro, nel passaggio che viene comunemente usato per l’uscita secondaria dall’edificio, un’altra importante sepoltura: quella del Beato Angelico, al secolo Guido di Pietro. Il sommo pittore morì a Roma il 18 febbraio del 1455 e fu qui sepolto.  La lapide interrata mostra il rilievo del corpo del pittore con indosso l’abito domenicano, entro una nicchia rinascimentale e una iscrizione che recita: “Qui giace il venerabile pittore Fra Giovanni dell'Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. la città di Firenze dette a me, Giovanni, i natali.”

 

         Tornando a Santa Caterina, nella sagrestia della Basilica si venera il piccolo Oratorio di Santa Caterina, con la camera dove morì la Santa, ornata da affreschi del Quattrocento. Tra le molte altre sepolture, nella Basilica, ricordiamo quelle di altri due papi, oltre ai tre già citati: Urbano VII (morto nel 1590) e Benedetto XIII (1730); quella del poeta, umanista e cardinale Pietro Bembo, del vescovo Guglielmo Durand e dello scultore Andrea Bregno. Tra le molte vicende storiche di cui la Basilica fu testimone, vanno annoverati anche due conclavi, da cui uscirono eletti Eugenio IV nel 1431 e Nicolò V nel 1455. Quest’ultimo, come raccontano le cronache dell’epoca, “fu posto a sedere sopra l’altare maggiore della chiesa e vi ricevette l’obbedienza.”

           La Basilica, ogni 25 marzo ospitava la caratteristica cerimonia in occasione della festività dell’Annunziata, alla presenza del papa: si trattava dell’elargizione dei sussidi dotali alle zitelle che venivano prescelte tra tutti i rioni della città e che si riunivano nella piazza Santa Chiara, dov’era la sede della Arciconfraternita dell’Annunziata, fondata nel 1460. Da qui, le donne, a due a due, vestite di bianco (dovevano essere vergini e di buona reputazione) e con una candela in mano, procedevano in processione fino a Santa Maria sopra Minerva per assistere alla messa solenne, al termine della quale, ricevevano dalle mani del papa un sacchetto contenente la dote che variava da un minimo di trentacinque a un massimo di ottanta scudi, oltre alle vesti e a un fiorino per le scarpe.

Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati




14/03/24

Domenica 17 Marzo alle 17,30 alla Libreria Eli "Roma nel Seicento" , sesto incontro con la magia di Roma

 



Le radici della Grande Bellezza nel Seicento Romano, nel sesto incontro alla Libreria Eli

Dalla fine del '500 con la rivoluzione urbanistica di Sisto V, a Beatrice Cenci, Giordano Bruno, Galileo, la Pimpaccia, Pasquino, la Roma Papalina e i grandi geni, Borromini e Bernini che si sfidano sulla quinta teatrale della città più bella al mondo. 

Mille storie, segreti e curiosità, tantissime immagini. Roma Domenica 17 marzo alle ore 17,30.

28/09/23

"STORIE DI ROMA" - Un nuovo ciclo di incontri tematici su Roma e le sue infinite storie presso la Libreria Eli - Domenica 1 ottobre ore 11

 


STORIE DI ROMA - Una nuova bella iniziativa che ho il piacere di presentare, Domenica prossima, 1 ottobre alle ore 11 alla bellissima Libreria Eli (con ingresso gratuito), per chi ama Roma e le sue infinite Storie.


Il ciclo d’incontri:



Il corso/seminario da tenersi da ottobre 2023 a maggio 2024 affronterà in percorsi di circa due ore ciascuno, le tappe significative della storia trimillenaria di Roma mediante l’attraversamento dei luoghi conosciuti e meno conosciuti e degli aneddoti, curiosità, letture, citazioni, ecc.. con l’uso di slides e il coinvolgimento totale dei partecipanti, alla conoscenza dei molti segreti e misteri della Città Eterna.

In ogni incontro la Passeggiata virtuale consentirà di conoscere meglio i luoghi, la storia le infinite curiosità su Roma, come di solito non si vedono mai.

Quando:

MERCOLEDI'  1 ottobre 2023  Ore 11:00

Il piano degli incontri:

  • Ottobre: Le origini della Città – I Luoghi e le leggende della Fondazione, i Re di Roma.
  • Novembre: L’età antica – La Roma Repubblicana
  • Dicembre: L’età antica – La Roma Imperiale
  • Gennaio: Dalla Caduta dell’Impero Romano d’Occidente all’Anno Mille
  • Febbraio: La Roma Medievale
  • Marzo: Il Rinascimento a Roma
  • Aprile: Il Risorgimento a Roma e l’Ottocento
  • Maggio: Dai primi del Novecento ai giorni nostri

06/06/23

L'oscura Via del Mandrione, a Roma, amata da Pasolini


Fa una certa impressione immaginare che dalla costruzione dell’ultimo dei grandi maestosi acquedotti romani (i cui resti ancora giganteggiano per l’Italia) trascorsero ben tredici secoli prima che si sentisse la necessità a Roma di realizzarne uno nuovo

L’impresa fu voluta da Papa Sisto V a cui si deve la completa ristrutturazione urbanistica di Roma (con il celebre Piano Sistino), il quale la commissionò nel 1585 all’architetto Matteo Bortolani. 

Tanto per comprendere quale fosse la grandezza dei romani, Bortolani commise degli errori di progettazione del nuovo acquedotto, e il Papa dovette ricorrere a Giovanni Fontana (lo stesso architetto che aveva spostato l’obelisco di Piazza San Pietro) per rimediare e correggere il difettoso deflusso delle acque. 

In onore di Sisto V (che la secolo si chiamava Felice Peretti) il nuovo acquedotto fu chiamato Felice e aveva il compito di utilizzare le antiche sorgenti dell’Aqua Alexandrina, per approvvigionare le zone del Viminale e del Quirinale. 

Il tracciato originale del nuovo acquedotto superava la Via Tuscolana all’altezza della Porta Furba e giungeva fino nel cuore di Roma con il trionfo finale della Mostra della Fontana del Mosè, in Piazza San Bernardo. 

Oggi una gran parte del circuito cittadino dell’Acquedotto Felice è affiancata dalla lunga Via del Mandrione, che dà il nome ad un quartiere, o meglio, ad una porzione del quartiere Tuscolano

In questa Via, una specie di tortuoso serpente che si snodava e in parte si snoda ancora sul confine tra la periferia della città e la campagna, furono trovati i resti di una splendida villa romana e parte di un lastricato. 

Il nome, Mandrione, deriva proprio dal fatto che qui, nella campagna sotto gli archi del vecchio acquedotto, venivano portate le mandrie a pascolare

Era però, già anticamente, una zona di scorribande, adatta agli agguati da parte di briganti e di sabotatori e per questo motivo, lungo questa via transitavano i sorveglianti degli acquedotti, arruolati dalle autorità pontificie. 

I solenni archi divennero però con il passare dei secoli anche un ideale rifugio: dapprima in tempo di guerra quando sotto l’Acquedotto Felice trovarono riparo gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943, che costruirono le prime baracche, e poi, nel dopoguerra comunità di nomadi e prostitute. 

Ben presto dunque la zona del Mandrione divenne malfamata e territorio di studio per le condizioni abitative di disagio in città, che richiamarono nel dopoguerra l’interesse di personalità come Pier Paolo Pasolini, Gian Giacomo Feltrinelli, Elsa Morante, Goffredo Parise. 

Da qui partirono però anche progetti rivoluzionari (come quelli della pedagogista Angelina Linda Zammataro) di integrazione delle comunità nomadi e di recupero della zona archeologica con lo sgombero delle baracche e l’assegnazione di alloggi popolari alle numerose famiglie che vi abitavano

Oggi l’oscura Via del Mandrione ha – come altre parti della periferia romana – cambiato pelle, ospitando locali, botteghe artigiane e vita notturna.


Fabrizio Falconi, tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013 


24/02/23

Presentazione de "Le Basiliche di Roma" di Fabrizio Falconi a Via Panisperna, il 3 marzo !

 



Nella bellissima Libreria Panisperna (Via Panisperna 220), ci incontriamo, Venerdì 3 marzo alle ore 18 per parlare - con Luigi Galluzzo - della meraviglia di Roma, delle sue antiche o antichissime basiliche, partendo da quelle imperiali romane alle cristiane. Curiosità, storie, che abbiamo sotto i piedi ogni giorno.
E quindi del nuovo Libro appena uscito, Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi da Newton Compton, in tutte le librerie,

28/01/23

L'intervista a RadioUno: Le Basiliche di Roma, Il nuovo libro di Fabrizio Falconi




Un viaggio avventuroso nella storia bimillenaria delle meravigliose Basiliche di Roma. Dalle Basiliche antiche del Foro Romano, ancora superstiti, alle quattro patriarcali, alle tre minori, alle oltre venti paleocristiane, piene di storia.

Questo è Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi, appena uscito in tutte le librerie. 

E ordinabile su Amazon e su tutte le librerie online.

Del Libro e delle Basiliche di Roma ho parlato nella intervista a Alessandra Rauti di Radio Rai nella intervista andata in onda a Incontri d'Autore su RadioUno domenica 23 gennaio 2023.

L'intervista è ascoltabile su Rayplaysound:

CLICCA QUI

05/11/22

Esce il 25 novembre "Le Basiliche di Roma", il nuovo Libro di Fabrizio Falconi

 



Esce in tutte le librerie (e su quelle online) il prossimo 25 novembre "Le Basiliche di Roma", il nuovo Libro di Fabrizio Falconi.

Sinossi

Dalle costruzioni pagane e paleocristiane fino a San Pietro e San Giovanni in Laterano

La storia bimillenaria di Roma è indissolubilmente legata a quella delle numerose basiliche che punteggiano la città. Che si tratti delle grandi chiese della cristianità o degli edifici pubblici pagani superstiti, questi luoghi sono diventati iconici della grandezza di Roma, e non mancano mai di stupire e affascinare i milioni di turisti che visitano la Città Eterna. In questo prezioso libro, Fabrizio Falconi illustra la nascita e il significato originale delle basiliche, per poi condurre il lettore in un percorso che tocca tutte quelle presenti nell’Urbe. Si raccontano aneddoti e curiosità sulla costruzione e la storia di questi magnifici luoghi, spaziando dalle quattro basiliche apostoliche ai ruderi di quelle di Roma antica, fino ad arrivare alle basiliche minori e a numerose chiese di fondazione paleocristiana. Da San Pietro in Vaticano alla Ulpia, da San Giovanni in Laterano a Santa Croce in Gerusalemme fino a Santa Cecilia in Trastevere e San Martino ai Monti: uno straordinario viaggio all’interno della storia della Capitale.

La storia di intere generazioni racchiusa in monumenti eterni

La basilica di San Paolo fuori le mura
Santa Maria Maggiore
Santa Croce in Gerusalemme
San Sebastiano fuori le mura
San Lorenzo fuori le mura
Santa Prassede
Santa Maria degli Angeli e dei Martiri
Santi Dodici Apostoli
Santa Maria sopra Minerva
Santa Maria in Domnica
San Clemente

e tante altre...

  • ISBN: 8822767179
  • Casa Editrice: Newton Compton
  • Pagine: 288
  • Data di uscita: 25-11-2022

TUTTE LE INFORMAZIONI QUI







03/05/22

A Roma esisteva una "Via Tiradiavoli" - una storia di apparizioni e bizzarrie

 


Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.

Del resto questa consolare fu una delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura al XII secolo a.C.

L’Aurelia Vetus – questo primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno, che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna, Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano durante la costruzione (come i temibili Apuani).

Una costruzione che durò per tre secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle popolazioni alpine.

Ma a noi interessa qui il circuito cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio, anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via Aurelia, intorno al 241 a.C.

La Via Aurelia poi, si inerpicava sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare dal litorale.

Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato, rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.

E proprio lungo questo itinerario c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa nell’Aurelia Antica.

Come nacque la leggenda è opportuno brevemente narrare.

A Donna Olimpia Maldaichini, che il popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a Roma una importante via e una piazza.

La gente di Roma la chiamava anche Papessa,  per le sue frequentazioni importanti oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il Cardinal padrone.

Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia »,  che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta)  pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).

Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva  sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj,  fratello di quel cardinale, Giovanni Battista Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di  Innocenzo X. 

Grazie alla sua sottile intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro, contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj. 

Innocenzo X, avvalendosi dell’opera dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano,  edificando la sontuosa Villa Pamphilj, organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali, dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.

Dopo la morte di Panfilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata  nel 1639 libera dall’assolvere i doveri coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato, alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio dalle pasquinate)  secondo le quali i due erano stati amanti, ed era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli nel sonno un potente veleno.

Cinque anni dopo, l’ascesa di Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il  cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare importante  che a Roma potesse essere deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo avallo.  Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.

Questo potere smisurato attirò però su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la proliferazione  di rumorosi scandali, che ne aumentarono la fama controversa.  

Un ultimo episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di Innocenzo X,  che morì il 7 gennaio del 1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora caldo del Pontefice,   Olimpia non si fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto,  due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi  ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper nulla, né di esequie, né di sepoltura  o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che  la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi  maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale dell’austera Olimpia.

Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al Cimino, nel viterbese,  Olimpia sopravvisse due anni, prima di morire.

Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano portare con loro l’anima avida della signora.

Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto, esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013 


19/04/22

La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943


 

San Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.

 

Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc  inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.  

La pioggia di bombe del 19 luglio smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo, scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.

Oltre ad aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri cristiani. 

E anche se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il 26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano, tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al 36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.

A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme,  assiste anche Paolo, che ancora non si è convertito (dunque prima del  40 d.C.).            .

Pio XII a San Lorenzo il giorno dopo il bombardamento

In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.

Essendo poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in disparati angoli d'Europa.

L'episodio più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono solennemente portate dal vescovo Giovanni II.

Qualche anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide, dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura 

La reliquia della testa di Santo Stefano, invece,  si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del cardinale Scipione Cobelluzi.

Tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton 2013-2017


29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


30/12/21

Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi

 



La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le sue inquietanti presenze, le sue figure spettrali

Lo spirito di Messalina, le ombre che frequentano le catacombe cristiane, i celebri spettri di Beatrice Cenci e Lucrezia Borgia; altri meno conosciuti come la bella Costanza De Cupis, il fantasma dalle mani mozze o l'infelice Emmeline che abitò la splendida Villa Stuart, e poi i fantasmi di Shelley e Keats fino alle ossessioni di Dario Argento: questo libro ripercorre la storia millenaria della città dei papi e degli imperatori da un punto di vista insolito, attraverso i racconti dei suoi fantasmi e delle sue presenze occulte. Ne emerge una Roma dai tratti magici, legata alle religioni e ai riti misterici del passato, alla tradizione etrusca, ai culti orientali, ai primi riti cristiani. Si parte dai fantasmi che si dice infestino i teatri della città antica e imperiale, per passare a quelli creati dai roghi e dai processi della Santa Inquisizione, e arrivare infine ad alcune presenze più vicine a noi: una finestra su una Roma esoterica misteriosa, inquietante e dal fascino sorprendente.

Tra i fantasmi di Roma:

Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito, e del suo fantasma
Il Pantheon, monumento esoterico per eccellenza, e i suoi abitanti misteriosi
La notte delle streghe e il fantasma di Salomè al Laterano
Le geometrie di Athanasius Kircher e il suo spaventoso museo del Collegio Romano
Il fantasma di Donna Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia, la donna più temuta di Roma
Piazza Vittorio e la porta magica degli alchimisti
Il terribile fantasma di Lorenza, moglie del Conte di Cagliostro
I fantasmi del Museo delle Anime del Purgatorio
Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma
I Borgia a Roma, una storia di fantasmi
Costanza de Cupis, la nobildonna dalle mani mozze
Il fantasma della chiesa dei Cappuccini e il racconto gotico di Hawthorne
Shelley e Keats, fantasmi a Roma
I fantasmi di Emmeline e di Lord Allen e Villa Stuart
Il Quartiere Coppedè, set per Dario Argento


Fabrizio Falconi

Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'animaIn Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questoPer dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di RomaI monumenti esoterici d'ItaliaMisteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.


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29/10/21

Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?

 



Quando fu costruito il primo teatro a Roma?

 

Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana. 

Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C. 

Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio. 

Il teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri – e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della città di Roma.


Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020