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13/06/17

La Chiesa di Sant'Eustachio e il Patrizio Romano che diede il suo nome ad un intero rione di Roma.

La chiesa di Sant’Eustachio e il patrizio romano che diede il nome ad un intero rione.


L’ottavo rione di Roma, uno dei più piccoli e dei più centrali, porta il nome di Sant’Eustachio e sul suo stemma sono rappresentati (in oro su sfondo rosso) una testa di cervo e il busto di Gesù.

Una chiara allusione alla vicenda del santo, Eustachio, al quale è dedicata la Chiesa nella piazza omonima (frequentatissima dai romani anche per la presenza di due celebri caffè) e che ha finito per dare il nome all’intero quartiere. 

Lo stesso simbolo – la testa poderosa di un cervo, con il suo nobile palco di corna – si scorge proprio sulla sommità della chiesa di Sant'Eustachio. La cui vicenda non ha ispirato soltanto il genio di Athanasius Kircher, ma anche schiere di artisti. 


Raccogliendo più informazioni sulla vicenda di Eustachio (che fondamentalmente trova le sue fonti nel racconto di Iacopo da Varagine), si scopre che era un patrizio romano, di animo generoso, il suo nome era Placido. 

Nacque (a Roma ?) intorno all'anno 80. Sotto l'imperatore Traiano si distinse in battaglia in Asia Minore L'episodio della Visione avvenne durante una battuta di caccia nei boschi vicino a Tivoli, quando vide all'improvviso il magnifico cervo

Cercò di inseguirlo per catturalo, ma l'animale con agilità si arrampicò su di una ripida roccia e riapparve con una luminosissima croce fra le corna, e si udì una voce: "Perché mi perseguiti? Io sono Gesù,che tu senza conoscere, onori"

Davanti a questa immagine, il suo cavallo s'imbizzarrì e Placido fu rovesciato a terra (come San Paolo sulla via di Damasco) ma continuando ad ascoltare quella voce misteriosa. E allora pronunciò la sua fede: "Credo!". Sconvolto dalla apparizione, Placido tornò a casa dalla sua famiglia e raccontò l'episodio. Si convertì nelle mani del vescovo cristiano per farsi battezzare insieme ai suoi familiari, cambiando il suo nome di Eustachio, da eystachios e significa "che produce molte buone spighe". .

Eustachio fu perseguitato e perse tutti i suoi beni, fuggì in Egitto con la moglie Teopista (etimologia: fedele a Dio), ed i due figli Teopisto e Agapito (etimologia: diletto del Signore)

In Egitto gli furono rapiti la moglie ed i figli, che per anni Eustachio cercò invano nel deserto. 

Intanto, l'imperatore Traiano era impegnato a fronteggiare nuovamente i popoli dell'Asia minore che si ribellavano a Roma e pensò di rintracciarlo per dargli il comando delle milizie romane in quelle terre. Così fu, ed Eustachio vinse anche quest'altra dura impresa militare, entrando trionfante a Roma, dove ritrovò finalmente la sua famiglia.

Ma a causa delle accuse dirette ad Eustachio per la sua fede cristiana, l'imperatore Adriano, succeduto a Traiano, gli ordinò di onorare le divinità dei romani. Al suo netto rifiuto, (era l'anno 140) fu condannato, insieme alla moglie ed ai figli, a morire nell'arena tra i leoni, ma le fiere, racconta la leggenda, non li toccarono nemmeno. I romani allora li sottoposero ad una morte atroce: furono rinchiusi in un contenitore di bronzo (o rame) a forma di toro, sotto il quale fu dato fuoco per ben tre giorni. Il quarto giorno, davanti all'imperatore, i corpi dei martiri furono mostrati ai presenti, ed erano immobili, così come erano stati deposti, a significare la calma e la pazienza dei martiri cristiani, sorretti dalla forza della fede, anche nel momento del supplizio. 


Nell'anno 325, l'imperatore Costantino innalzò un oratorio sulla sua casa, proprio dove furono martirizzati e sepolti. Oggi, le loro spoglie sono conservate a Roma, sotto l'altare maggiore della Basilica di Sant'Eustachio in Campo Marzio eretta nello stesso luogo dell'oratorio, e sono custodite in un sarcofago di porfido. 

Nella chiesa gotica di Sant'Eustache a Parigi invece, sono conservate alcune importanti reliquie, oggetti ed indumenti appartenuti ai quattro santi martiri. 

Sant'Eustachio è uno dei quattordici santi ausiliatori, cioè coloro che vengono invocati in situazioni di grave necessità e durante le epidemie. Ecco perché a causa della peste, nel medioevo la devozione al santo si diffuse velocemente in tutta Europa. Abbiamo dunque il grano, il cervo(simbolo di purezza e carità), il deserto, la peste, il toro arroventato, la croce.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore

29/05/17

Lo straordinario Quartiere Coppedè, da progetto sperimentale a set per Dario Argento.




     C’è un luogo, in città, dove i romani vanno nelle sere grigie d’autunno, quando il vento raschia le foglie dall’asfalto, e le luci dei lampioni ondeggiano prima della tempesta,  quando vogliono assaporare il brivido insolito di un panorama urbano che sembra proprio non appartenere in nulla a quello consolidato e rassicurante di Roma,  ma che sembra piuttosto uscito dalla fantasia allucinata di un maestro dell’horror.

    Questo luogo è il quartiere Coppedè, che sorge quasi del tutto isolato in un piccolo quadrilatero di vie, nel più grande rione chiamato Trieste, non lontano dalla Via Nomentana.   Si tratta di una porzione di architetture omogenee, per l’esattezza ventisei palazzine e diciassette villini, ideati, progettati e realizzati tra il 1913 e il 1927 da un geniale architetto fiorentino, Gino Coppedè.

     Il suo cognome è rimasto talmente legato a questo luogo, che oggi si fa fatica perfino a trovare traccia fotografica del grande architetto,  nato il 26 settembre del 1866.   Le poche foto lo ritraggono con una folta barba e baffi dannunziani,  vestito sempre elegantemente, con sgargianti mocassini chiari, come lo sparato sopra  il papillon nero, il fisico prestante, lo sguardo fiero e penetrante.
     
       Coppedè, proveniente da una famiglia di architetti e di intagliatori,  mostrò da subito una spiccata propensione per il disegno eccentrico, sviluppando una personale interpretazione eclettica dello stile Liberty, che ebbe modo di esprimersi in diverse opere – come il castello Mackenzie a Genova, commissionato da Evan Mackenzie, fiduciario del Lloyds nel capoluogo ligure  e facoltoso collezionista d’arte -  ma soprattutto nel quartiere che prese il suo nome, a Roma e che gli fu invece commissionato dai finanzieri Cerruti, della Società Anonima Edilizia Moderna.  Qui, Coppedè pensò bene di provare a fondere in modo armonico elementi architettonici provenienti dal Barocco, dal medievale,  dal classicismo al più sfrenato manierismo. 

     Una impressione immediata di questo stile allucinato e straniante si ha appena varcato l’ingresso del quartiere di Via Tagliamento, passando sotto il possente arco che funge da ponte sospeso a tre piani  tra due palazzi chiamati degli Ambasciatori, dalla volta del quale pende un monumentale lampadario in ferro battuto, e oltrepassato il quale si giunge nella Piazza Mincio, ornata dalla celebre Fontana delle rane, doppio livello marmoreo dal quale si affacciano dodici rane che spruzzano acqua.  Voltando lo sguardo a 360 gradi, dal centro della piazza, si ha davvero la sensazione di essere inavvertitamente scivolati fuori dal tempo.  Sensazione che si rafforza non appena si iniziano a percorrere le vie del quartiere, che si dipanano a raggiera dalla piazza stessa e  sulle quali affacciano bizzarre costruzioni, come lo splendido Villino delle Fate, che sembra davvero uscito dalla fantasia di Lewis Carroll, con tutte le sue asimmetrie, le porte e le finestre, le scale,  i muri e i portici oscuri, tutti diversi uno dall’altro,  o come la Palazzina del Ragno che richiama le antiche costruzioni egizie.  
      Più che un quartiere, una scenografia. 

  Dichiaratamente a tal punto che lo stesso Coppedè stesso volle lasciare la sua ‘firma’ cinematografica proprio nell’ultimo palazzo del quale riuscì a seguire personalmente la realizzazione, e cioè quello che affaccia su Piazza Mincio, al civico numero 2 lasciando fra l’altro il suo blasone sul portone al fianco:  Artis praecepta recentis/ maiorum exempla ostendo.  Il portone di questo elegante villino – dallo strano effetto telescopico -  è infatti fotocopiato, per volere dell’architetto,  da una delle celebri scenografie del primo grande kolossal del cinema Italiano, Cabiria, realizzato da Giovanni Pastrone, nel 1914.
      
      Era perciò un destino che il quartiere Coppedè diventasse naturalmente, con gli anni, a sua volta, un ideale set cinematografico. Ed è anche comprensibile che lo diventasse -  a causa di questo suo fascino estroso, fantastico, gotico - di film terribilmente visionari come quelli girati dal regista Dario Argento, che scelse in diverse occasioni, proprio queste locations, per l’ambientazione dei suoi film.     
      Prima di lui, però, era stato Mario Bava, a intuire le potenzialità evocative di questo luogo come set cinematografico, nel film La ragazza che sapeva troppo, del 1962.  Mario Bava era considerato un maestro da Dario Argento, all’epoca in cui era ancora giornalista e critico cinematografico.
      Così,  per la sua  prima volta dietro la cinepresa, nel suo film d’esordio, L’uccello dalle piume di cristallo, girato nel 1969 e uscito nelle sale nel 1970, il regista romano scelse proprio il quartiere come ambientazione di alcune scene e implicito omaggio al suo maestro.   È la storia di uno scrittore americano, Sam Dalmas, interpretato da Tony Musante,  che di passaggio a Roma, assiste casualmente ad un tentativo di omicidio attraverso la vetrata di una galleria d'arte: un uomo sta accoltellando una donna.  La presenza e l'intervento di Sam mettono in fuga il colpevole, ma da quel momento in poi, una serie di omicidi sconvolgono la città e Sam si trova ad essere sospettato dalla polizia.  In una delle strade del Coppedè è ambientata la famosa scena in cui Sam/Tony Musante riesce miracolosamente a schivare la coltellata dell’assassino.

     Al quartiere poi, Dario Argento ritornerà con un altro film, dieci anni più tardi, Inferno, del 1980,  incentrato sulla storia di una giovane poetessa americana, Rose, che dopo aver acquistato un antico libro di alchimia, intitolato Le tre madri,  comincia a investigare sulle tre case costruite a Friburgo, Roma e New York,  dalle tre entità in questione, ovvero : Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, Mater Lacrimarum, la Madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre. È ovvio a questo punto che per la casa romana, Dario Argento immaginò proprio una delle case del Coppedè.
     Non solo,  nel quartiere sembra proprio che Dario Argento abbia finito per trovarsi così bene da sceglierlo come abitazione .

     Ed ecco così la strana conseguenza per la quale anche lo stesso Argento ha finito per diventare il fantasma  - non è facile incontrarlo – di un quartiere che molti, soprattutto per effetto dei suoi film, hanno creduto e credono popolato di strane presenze. 

17/05/17

La colossale Porta Maggiore, oggi sommersa dal traffico e la Tomba del Panettiere (sepolcro del fornaio Eurisace) .


la Tomba del Panettiere a Porta Maggiore nel 1895 (foto Roma Sparita)



La maestosa Porta Maggiore, oggi purtroppo davvero costretta in un gorgo di vie di scorrimento, piazze semaforiche, binari della linea tramviaria mostra però ancora i resti del suo antico splendore che le meritò nei secoli, da parte degli stessi cittadini l’appellativo Maggiore, proprio per le sue dimensioni: fu eretta dall’imperatore Claudio nel 52 d.C. – divenendo in seguito inglobata nel recinto delle Mura Aureliane - per sostenere i condotti dell’Acqua Claudia e dell’Aniene (Anio Novus)che passavano e passano nel suo attico, scavalcando le vie Prenestina e Labicana, che scorrevano al di sotto

E’ formata da due fornici (realizzata interamente in travertino), di dimensioni gigantesche - sei metri di larghezza per quattordici di altezza - uno ciascuno per le due vie che sormontava, dentro edicole con semicolonne corinzie e con timpani e da un arco nell’edicola centrale. 

Nell’attico, tripartito da cornici vi sono l’iscrizione di Claudio riguardante la costruzione della porta e quelle che ricordano i successivi restauri che furono operati da Vespasiano nel ’71 prima e da Tito nell’81 poi. 

Tre secoli più tardi, poi, nel 402 fu oggetto di fortificazione da parte dell’Imperatore Onorio che affidò i lavori al prefetto di Roma, Flavio Macrobio Lonigiano, risulta da un’altra iscrizione posta sulla estrema sinistra della Porta, sul Piazzale Labicano


All’esterno della porta, tra i due fornici che danno sul Piazzale Labicano, è posto il curioso e singolare sepolcro di Eurisace, chiamato Panarium, appellativo dovuto alla sua bizzarra forma (quella di un forno) che si riferiva al mestiere di colui per il quale fu costruito nel 30 a.C., un fornaio in grande, Marco Virgilio Eurisace (probabilmente un liberto che si era arricchito), che riforniva lo Stato con i suoi pani prodotti ogni giorno

Tra le varie curiosità di questo sepolcro, rinvenuto durante i lavori di scavi e di abbattimento delle due torri cilindriche che erano state costruite sotto Onorio, del 1838, c’è anche il fatto che al suo interno furono ritrovate anche le ceneri della moglie di Eurisace, Atistia, contenute in una meravigliosa urna artistica a forma di madia di pane, conservata oggi al Museo delle Terme

Anche Porta Maggiore poi, come successe ad altre porte delle Mura Aureliane, fu murata in diverse epoche, in particolare per difendere Roma dall’assedio dei Goti comandati dal Re Vitige tra il 537 e il 538. 

Dopo varie traversie, nel corso dei secoli, nell’Ottocento, sotto Papa Gregorio XVI si procedette ad un nuovo restauro dell’insigne monumento, cercando di appianarne uno dei difetti fondamentali strutturali: la porta infatti, nell’epoca del rifacimento sotto Onorio, era rimasta pericolosamente asimmetrica, probabilmente a causa del dislivello stradale esistente tra le due vie, Prenestina e Labicana e di conseguenza dei due fornici che le sovrastavano. 

Ma è soltanto nel Novecento che finalmente, durante i lavori urbanistici di sistemazione del piazzale Labicano, la porta fu restituita alle sue forme originarie, con il recupero dei tratti delle due antiche strade romane, con le lastre di basalto e perfino le impronte lasciate dai carri romani, come è possibile vedere lungo i tratti emersi della Via Appia.

12/05/17

La Palla di Cannone nella Fontana al Pincio - Le stranezze e la grandezza di Cristina di Svezia a Roma.



Il trofeo del Teatro Apollo sul Lungotevere, oggi scomparso, il primo teatro pubblico di Roma, il genio stravagante di Cristina di Svezia e la palla di cannone nel muro. 


Percorrendo il Lungotevere Tor di Nona che propone uno degli scorci panoramici più suggestivi sulla città, ci si imbatte ancora oggi, seminascosta dalle fronde degli antichi platani, nell’antico trofeo che ricorda l’esistenza di un celebre Teatro oggi scomparso.
Sulla iscrizione marmorea, sormontata da due maschere e da una lira e sovrastante un antico marmoreo che fungeva da vasca d’acqua, si legge:

Il Teatro Apollo / sulle pietre dell'antica Torre Orsina / a fasti e glorie d'arte musicale / aprì le dorate scene / e dove foscheggiò Torre di Nona / libera si diffuse la melodia d'Itala / del "Trovatore" il XIX gennaio MDCCCLIX / di "Un ballo in maschera" il VII febbraio MDCCCLIII / Qui dove sul teatro demolito / passa l'antica strada romana / il genio di Giuseppe Verdi / affida l'eterna melodia canora / all'aria al sole al cuore umano / a ricordanza della torre / del teatro del genio creatore / il Comune di Roma pose / Anno Domini MCMXXV.



L’eleganza di questa iscrizione dunque racconta già molto della importanza di quello che fu uno dei più prestigiosi teatri di Roma, vero tempio della lirica, con il palco per i reali che fu appositamente realizzato dopo l’unità d’Italia. 

Quello che però l’iscrizione non dice è che il Teatro Apollo fu in effetti il primo teatro aperto al pubblico a Roma, che sorse nel 1670 per iniziativa di una delle menti più brillanti ospitate dalla città eterna nella sua lunga storia: la regina Cristina di Svezia, che instaurò durante la sua vita, con Roma un sodalizio lungo e fecondo.

Cristina, che era rimasta orfana a sei anni, divenne regina assumendo la pienezza dei poteri all’età di ventiquattro, trasformando rapidamente la corte di Stoccolma in una sorta di Atene del Nord. Cristina infatti, anticonformista ed eccentrica, appassionata (si ricordano storie d’amore con un cugino e con una dama di corte) e colta, si sentiva attratta da ogni branca del sapere, da ogni materia di conoscenza, scientifica, teologica, letteraria.  Ma la vera svolta per lei arrivò con la conversione al cattolicesimo, a ventotto anni.  Da lì, la scelta di abdicare, e di trasferirsi in incognito in diversi paesi europei, per conoscere luoghi e costumi che le sono estranei, ma la  affascinano: prima i Paesi Bassi, poi la Francia e infine l’Italia e Roma, che la accoglie come una vera regina. 


Papa Alessandro VII le tributa un ingresso solenne davanti alla popolazione festante attraverso la Porta di Piazza del Popolo (sulla cui sommità una grande iscrizione ancora ricorda l’avvenimento), poi la riceve in Vaticano dove Cristina arriva, il 23 dicembre del 1654 a bordo di una meravigliosa lettiga disegnata appositamente per lei da GianLorenzo Bernini, per ricevere i sacramenti direttamente dalle mani del Papa nella Basilica di San Pietro.

La sovrana a Roma si stabilisce prima a Palazzo Farnese, poi direttamente al Bosco Parrasio, ai piedi del Gianicolo, dove crea quella fantastica Accademia dell’Arcadia che secondo le intenzioni della nobildonna doveva diventare la corte delle menti più illuminate di Roma e d’Europa

Cristina, che destava interesse morboso nelle cronache dell’epoca anche per i suoi modi disinvolti e per i suoi amori veri o presunti, ogni venerdì si predisponeva ad ascoltare ciò che avevano da raccontare i geni dell’arte, dell’architettura, ma anche della teologia, dell’alchimia, riguardo alle loro conoscenze e scoperte, in un cenacolo esclusivo, al quale era invitato a partecipare anche ogni ospite illustre che si trovasse in visita alla Città Eterna.

Le stranezze riferite a Cristina sono molte e anche divertenti: una di queste afferma che fu lei a far sparare quella palla di cannone che ancora oggi si trova, ben visibile, al centro della fontana di fronte all’Accademia di Francia, allo scopo di tirare giù dal letto il Cardinale Carlo de’ Medici che abitava nella villa di famiglia, al Pincio, il quale aveva promesso alla sovrana di portarla in quel giorno a caccia.

La palla sparata dai cannoni di Cristina, incastonata nella fontana di fronte all'Accademia di Francia a Villa Medici al Pincio 

Un bel modo di risvegliare un amico, si direbbe. Del resto di amici e di ammiratori Cristina ne aveva molti, compreso il cardinale Decio Azzolini, mecenate di artisti e letterati e così intimo della sovrana che il Papa gli vietò espressamente le visite. 

Nel 1667 Cristina fece ritorno per l’ultima volta in Svezia e in quell’anno morì anche Alessandro VII, con il quale i rapporti erano stati sempre tempestosi. 

La sovrana ricevette mentre era in viaggio, ad Amburgo, la notizia che sul Soglio di Pietro era stato ora eletto Giulio Rospigliosi, amico intimo e frequentatore della corte romana di Cristina, con il nome di Clemente IX, e Cristina, euforica, diede una festa in suo onore nella città tedesca.

Tornata a Roma, fu accolta calorosamente dal nuovo pontefice. A quarantadue anni, Cristina si sentiva ancora piena di energia.  Decise così di occuparsi della ex prigione di Tor di Nona, un luogo squallido e dalla pessima fama, che l’illuminata sovrana decise di trasformare in un teatro, anzi, nel primo teatro aperto al pubblico di tutta Roma.

Giacomo d’Alibert, segretario di Cristina, convinse Clemente IX a concedere le mura dell’edificio, che erano di proprietà degli Orsini e nel frattempo ospitavano una locanda, per la creazione di uno spettacolare teatro al quale si poteva accedere via terra o anche direttamente dal fiume.


Il sogno di Cristina però fu ben presto avversato, con il Papa che – preoccupato anche per la presenza di donne sul palcoscenico – lo fece ben presto chiudere con la motivazione di offese alla moralità, adibendolo a granaio.
Ma Cristina non si diede per vinta. Ottenne la licenza per poter eseguire almeno i concerti dei suoi amici compositori: Stradella, Pasquini, Corelli e perfino Alessandro Scarlatti.

Negli anni successivi vedrà la morte di Papa Rospigliosi, il cui pontificato durò appena due anni e l’insediamento di Clemente X e di Innocenzo XI fino alla morte che la colse all’età di sessantadue anni, dopo una malattia contratta durante una visita in Campania

La sua scomparsa scuote la città che ormai l’aveva adottata.  Innocenzo XI, dopo i quattro giorni di camera ardente, rivestita della splendida mantella di ermellino, vuole addirittura imbalsamarne il corpo

E così sarà. Coperta di vesti di broccato e con il volto coperto da una maschera d'argento, nelle mani uno scettro e sul capo una corona (solo gli intestini vengono posti in un'urna separata), la regina viene sistemata  in tre bare, una dentro l’altra, la prima di cipresso, una di piombo e l'ultima di quercia.

La processione del funerale accompagnata dalla folla si snoda dalla chiesa di Santa Maria in Vallicella sino alla Basilica di San Pietro, dove la regina viene  sepolta, per volontà del pontefice, nelle Grotte Vaticane, privilegio concesso nella storia soltanto a tre donne.

Tomba di Cristina di Svezia nelle Grotte Vaticane



Ancora oggi in onore della defunta regina  e a ricordo della sua prodigiosa conversione, si può ammirare nella Basilica Vaticana il Monumento funebre allestito nel 1702 sotto la supervisione di Carlo Fontana: Cristina vi è ritratta in un medaglione di bronzo dorato, sostenuto da un macabro scheletro coronato, poco distante dalla celebre tomba di Alessandro VII, con l’altro grande scheletro con il capo velato e la clessidra in mano. 


tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2014. 


29/04/17

La "Casa di Fiammetta" a Roma e le tombe delle prostitute.



La Casa di Fiammetta e le tombe delle prostitute.

Proprio alle spalle di Piazza Navona, all’angolo tra Piazza Fiammetta e via degli Acquasparta, si trova la celebre Casa di Fiammetta, quella cioè che la tradizione popolare associa a residenza di una celebre cortigiana fiorentina, Fiammetta Michaelis, vissuta a Roma nel Quattrocento.

Si tratta di un palazzetto medievale – a Roma non ne esistono molti -  sormontato da un torrione e sopravanzato da una loggia a tre archi, che fu nel corso dei secoli più volte rifatto fino agli inizi del Novecento quando fu acquistato dalla famiglia Bennicelli che gli conferì l’aspetto attuale.

Il Palazzo e la Piazza omonima, dunque, non hanno nulla a che fare con la Fiammetta (in realtà Giovanna) che era la figlia di Roberto d’Angiò, re di Napoli, che fu amata da Boccaccio, ma con la giovane e bellissima cortigiana di cui si occupò perfino Pietro l’Aretino nei suoi Ragionamenti.

Secondo studi più accurati sembra anche che la vera Fiammetta Michaelis non abbia abitato nella Piazza che porta il suo nome: questa casa però frequentò sicuramente e qui ricevette i suoi numerosi amanti, tra i quali quel brutale e potente Cesare Borgia, condottiero, cardinale e arcivescovo,  figlio di Alessandro VI, chiamato il Valentino perché investito da Luigi XII del titolo di Duca di Valentinois.


Ma il tracotante rampollo della famiglia Borgia era soltanto uno dei molti amanti ricevuti dalla bellissima donna, che alla sua morte, avvenuta il 19 febbraio del 1512, fu comunque omaggiata da tutta Roma anche per la fedeltà con cui si occupò di suo figlio illegittimo, Andrea, al quale con un espediente – riconoscendolo cioè come fratello e non come figlio – riuscì a lasciare in eredità due prestigiose case, quella in Via dei Coronari e quella nei pressi del Vaticano, con una estesa vigna, che le era stata donata da uno dei suoi amanti, Giacomo Ammannati Piccolomini, detto il Papiense, cardinale ed umanista.

Meriti che gli valsero di essere seppellita – nonostante il suo mestiere equivoco – nella Chiesa di Sant’Agostino, nella Cappella di Santa Monica (dove si venera anche il corpo della madre di Sant’Agostino, morta ad Ostia nel 387 d.C.) insieme ad altre celebri prostitute, le cosiddette onorate puttane, che godendo di alte protezioni e della rispettabilità popolare, potevano avere sepoltura ecclesiastica: tra di loro, Giulia Campana, Tullia d’Aragona e la giovane sorella di lei, Penelope e naturalmente anche Fiammetta, che  nel documento testamentario si firmò come Fiammetta del Duca di Valentino, un titolo che evidentemente la metteva e la mise al riparo da qualsiasi fastidio o compromissione.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore

12/03/17

Domenica a Roma : Il Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori - Fabrizio Falconi Racconta (Capitolium produzione - 3a puntata) - Youtube.



In questo breve video, oggi vi porto a conoscere la storia del Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori,  che dall'inizio ebbe vita controversa. 

"Fabrizio Falconi racconta #Roma": Il Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori.

Una produzione http://www.capitolivm.it

Blog di Fabrizio Falconi: http://fabriziofalconi.blogspot.it/
Uno speciale ringraziamento a Trastevere App.

05/02/17

Domenica a Roma : La Fontana delle Tartarughe - Fabrizio Falconi Racconta (Capitolium produzione - 1a puntata).





Comincia oggi, grazie a Capitolium, questa iniziativa - brevi video di 3 minuti in cui racconto luoghi di Roma  con bellissime immagini - che spero possa piacervi. 

Si comincia oggi con la celebre e amata Fontana delle Tartarughe in Piazza Mattei. 

Ogni settimana, ogni domenica seguirà un luogo del cuore di Roma.

Buona visione.

(trovate il video ANCHE sulla mia pagina Facebook, sulla pagina Facebook di Capitolium, Twitter e Google Plus. 


"Fabrizio Falconi racconta #Roma": Fontana delle Tartarughe in Piazza Mattei. 

Una produzione http://www.capitolivm.it 
Blog di Fabrizio Falconi: http://fabriziofalconi.blogspot.it/ 

Uno speciale ringraziamento a Trastevere App

Diritti riservati

21/01/17

Le Fontane di Roma - Conferenza di Fabrizio Falconi, Lunedì 23 gennaio.





Cari amici,

il prossimo lunedì, 23 gennaio 2017 alle ore 17, alla Sala Funzionale dell'Istituto San Gabriele, in Via Cortina d'Ampezzo numero 144, organizzata dal Gruppo L'Incontro, terrò una Conferenza su Le Fontane di Roma.

Con molte foto, racconterò storie, aneddoti, curiosità delle antiche fontane di Roma. La nostra città ha sempre avuto, grazie agli antichi progenitori romani, grande abbondanza di acqua e di acquedotti, sulla quale si è esercitato il genio dei più grandi architetti e artisti dell'Urbe.

Vi aspetto.

14/07/16

Dal 21 luglio riapre, dopo un lungo restauro, il Carcere Mamertino. Dagli scavi emergono 3 scheletri e il Limone più antico del Mediterraneo !



"La sensazione e' la stessa di alcuni luoghi della Terra Santa, importanti non solo per la storia o una religione. Ma per il genere umano". 

Cosi' Francesco Prosperetti, Soprintendente per l'Area archeologica di Roma, racconta il Carcer Tullianum, meta tra le piu' sacre al Cristianesimo perche' qui tradizione vuole che vennero incarcerati San Pietro e San Paolo, ma anche luogo piu' nero della storia di Roma, dove "per oltre un millennio si facevano sparire i nemici della citta"'. 

Grazie alla "grande collaborazione" con l'Opera RomanaPellegrinaggi (che gestisce il sito e che insieme alla Confraternita dei Falegnami e' tra i tre "padroni di casa"), il Carcer, noto anche come Carcere Mamertino, riaprira' al pubblico il 21 luglio dopo un anno di chiusura con un nuovo percorso museale, restaurato e soprattutto dopo tutte le scoperte dell'ultima di tre campagne di scavo, finanziata da Soprintendenza ("300 mila euro") e ORP ("800 mila") con il contributo di Intesa San Paolo e LSGI. 

La prima bellissima sorpresa e' la "piu' antica Madonna della Misericordia mai rinvenuta a Roma, per di piu' proprio nell'anno del Giubileo della Misericordia", racconta Monsignor Liberio Andreatta, vice presidente dell'ORP. 

E' venuta fuori da un affresco parietale di cui si scorgono ancora i colori e che gli studiosi datano al XIII secolo d.C. 

Ma andando "giu"' uno dopo l'altro ecco riemergere i tanti anelli di una storia lunga quasi 3 mila anni, per un'aera che nasce nell'VIII secolo sulla Rupe Tarpea con le mura di contenimento del Campidoglio, poi diventa luogo sacro nel V a.C sulle acque della fonte Tulliana (oggi ben visibile), cresce con i primi ambienti per recludere i nemici politici, viene monumentalizzata nella prima eta' imperiale, poi torna luogo di culto, questa volta cristiano, nell'VIII d.C, come testimoniano le "lampade e i resti della Chiesa di S. Pietro" ritrovati, racconta il direttore archeologo per l'Area di Roma, Patrizia Fortini

O la cattedra del IX secolo e gli affreschi in cui ancora si riconoscono tante mani di fedeli (XI-XIV secolo), fino alla Chiesa della congregazione dei Falegnami del 1540

Ma scavando "quasi per miracolo - racconta l'archeologa - in un'intercapedine tra il portico moderno e la facciata antica abbiamo trovato anche gli scheletri di tre corpi: un uomo, ucciso con un colpo in testa e le mani legate; una donna e una bambina. Le analisi dicono che sono del IX-VIII a.C". 

 E poi ecco le offerte di un rito votivo, "con il piu' antico limone mai ritrovato nel Mediterraneo - dice la Fortini - Semi e polpa fresca, che le analisi al radiocarbonio datano al 14 d.C." e che potrebbero finalmente fissare una data precisa per l'inizio dei lavori della nuova facciata, "non sotto Nerone, ma con Augusto".

 E ancora ecco "i resti delle ceramiche di una fornace del XIII, che a Roma non erano ancora mai state trovate". 

 Il nuovo allestimento ha ora restituito la forma circolare dell'ambiente assunta nel Medioevo. Il Museo raccoglie i reperti trovati e le nuove visite, con tanto di tablet, racconteranno le loro implicazioni storiche, con anche le ricostruzioni degli ambienti originali. Dal 21 luglio, poi, sara' attivo il nuovo varco per il Foro Romano dal lato del Campidoglio (disponibile un biglietto unico per Carcer e area archeologica) sottolineando "quanto tutta questa area fosse connessa". 

Ma le sorprese non sono finite. Ora, conclude la Fortini, "ci sarebbe da scavare tutto il lato verso le scale Gemonia. Li' sotto ci deve essere ancora il passaggio originario al Foro, con le scale volute da Augusto".

fonte Daniella Giammusso per ANSA

08/07/16

Beatrice Cenci, storia del fantasma più famoso di Roma.


Rappresentazione di Beatrice Cenci in una fotografia di Julia Margaret Cameron



Oggi, 8 luglio ricorre l'anniversario della nascita di Artemisa Gentileschi (8 luglio 1593), la grande pittrice romana. La ricordiamo con questo episodio poco conosciuto della sua vita, quando assistette in piazza alla esecuzione capitale di Lucrezia Borgia. 




La storia di Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma.


Il fantasma forse più famoso di Roma è quello di Beatrice Cenci, che con il tempo divenne una vera e propria eroina popolare, per tutti, ma che, prima di diventare un terrorizzante fantasma che si dice compaia ancora oggi portando la sua testa recisa tra le mani, fu la vittima sacrificale in un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti dell’intera storia della Capitale.

Di questo processo infatti, parlò tutta Roma, e per secoli interi la fama della intricata vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno, l’11 settembre (giorno non proprio fortunato, a giudicare dai corsi e ricorsi storici) del 1599 ad assistere, nella Piazza del Castel Sant’Angelo, alla terribile esecuzione della bella Beatrice, accusata di parricidio, e dei suoi complici.

Una folla incontenibile tanto che, nel caldo afoso in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono nel fiume.

Tra loro c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte, c’erano i più grandi avvocati dell’epoca, Molella e Farinacci, che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa, c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca, c’erano soldati e artisti: tra questi ultimi, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca.

È facile immaginare quale suggestione dovette suscitare l’esecuzione dei condannati. Prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.

Dopo di loro, Giacomo, il fratello più grande di Beatrice, fu squartato davanti alla folla, dopo che durante il tragitto fino al patibolo era stato torturato con tenaglie roventi.

Ma cosa avevano fatto costoro di così grave e imperdonabile per essere stati condannati a una fine pubblica così atroce? La vicenda umana di Beatrice, che visse soltanto ventidue anni, è tra le più tristi che si ricordi nella lunga storia di Roma.

Eppure la ragazza, quando era nata, il 12 febbraio del 1577, sembrava possedere tutte le caratteristiche del privilegio.

Beatrice era infatti nata dal matrimonio tra il Conte Francesco Cenci, che aveva ereditato una somma favolosa dal padre, dignitario e tesoriere della Camera Apostolica, ed Ersilia Santacroce. Come si usava spesso all’epoca, era un matrimonio consumato tra due adolescenti: gli sposi infatti avevano soltanto quindici anni.

Nei successivi venti, Ersilia diede al Conte ben dodici figli, tra cui due femmine, Antonina e Beatrice. Tutti i guai, nella vita di Beatrice, derivarono proprio dal padre, uomo terribilmente dispotico, collerico, violento con manie di persecuzione.

Quando Ersilia morì di parto, nel 1584, l’uomo mandò le figlie in un convento. Beatrice aveva allora soltanto sette anni. Restò per otto anni in clausura, finché, ormai adolescente, le fu permesso di rientrare in casa. Qui però trovò una situazione ancora più insostenibile. Il padre era ormai in preda a un vero delirio di dissoluzione: continuamente coinvolto in risse da strada, fatti di sangue, piccoli e grandi scandali (tra cui un’accusa di sodomia) stava minando il suo ingente patrimonio pagando avvocati senza scrupoli che lo liberavano dai guai a prezzo di spaventosi onorari.
La vita in famiglia, specialmente per le due figlie femmine, dovette molto presto tramutarsi in un inferno. E così quando Antonina, dopo aver scritto una supplica al papa, ottenne l’autorizzazione da Clemente VIII di sottrarsi alla autorità paterne e di convolare a nozze con il rampollo di una nobile casata di Gubbio, il padre, il conte Francesco, nel timore di perdere anche Beatrice, decise di segregarla.

La rinchiuse insieme a Lucrezia, la nuova moglie che aveva sposato nel 1593, in un remoto e lugubre castello, chiamato La Rocca, nella provincia del reatino, non distante dalla Valle del Salto.

Tutti i tentativi di Beatrice di evadere dalla prigione, anche con il ricorso a servitori o amici di famiglia, si rivelarono infruttuosi: non solo, per sfuggire ai debiti che stavano diventando insostenibili, ormai anche malato, il Conte pensò bene di trasferirsi lui stesso a La Rocca, portando con sé i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo.

 La vita in quel luogo desolato divenne ancora più dura. Beatrice doveva subire ogni tipo di angheria e assistere ai maltrattamenti che il vecchio despota imponeva alla matrigna e ai figli.

Quando il vaso fu colmo, i figli decisero di passare all’azione e di sbarazzarsi con ogni mezzo del terribile padre. I primi due tentativi – un’imboscata organizzata da briganti presi a tradimento, e un avvelenamento – andarono a vuoto. Ma il terzo, andato in scena con la complicità di due servitori di stanza a La Rocca (i quali anche loro non ne potevano più del padrone), Marzio da Fioran, detto il Catalano, e Olimpio Calvetti, riuscì, anche se non così perfettamente come si era sperato: il fratello maggiore, Giacomo, in visita al Castello, preparò la pozione con l’oppio che servì a stordire il vecchio. Quando si fu addormentato, Marzio, senza pietà gli spezzò le gambe con un tortore, e Olimpio lo finì con un chiodo nella gola.

Fatale, per la cattiva riuscita del crimine, fu la decisione di simulare, come causa di morte, la caduta da un ballatoio del castello.

Il cadavere fu ritrovato la mattina dopo, ai piedi delle mura, e figli e moglie piansero finte lacrime per indurre a credere che si fosse trattato di una semplice disgrazia. Sulle prime il depistaggio riuscì.

 Il Conte fu seppellito nella chiesa del posto, e i famigliari fecero ritorno a Roma, nel palazzo della famiglia Cenci, apparentemente liberi dall’ossessiva presenza del vecchio padre-padrone. Ben presto però, in città cominciarono a correre voci e maldicenze sulla fine del Conte. Furono ordinate due inchieste.

La prima senza apparenti risultati, la seconda, richiesta direttamente dal Viceré di Napoli e con il parere favorevole del papa stesso, portò invece alla riesumazione del cadavere, all’esame di tutte le ferite presenti sul corpo, e all’interrogatorio serrato di diversi testimoni, tra cui una lavandaia del castello che confessò di aver nascosto un lenzuolo macchiato di sangue «che la figlia, Beatrice, aveva detto essersi macchiato del suo liquido mestruale».

 I presunti colpevoli, i due servitori, i fratelli Giacomo, Beatrice e Bernardo, e la matrigna Lucrezia furono dunque arrestati e cominciò per loro il calvario delle torture, che venivano usate sistematicamente per ottenere la confessione.

Il primo a cedere fu Olimpio, che in cambio della delazione degli altri complici fu lasciato fuggire, salvo poi essere ucciso da prezzolati sicari al soldo della famiglia Cenci, che temeva nuove confessioni a danno di altri membri del casato.

Anche l’altro servitore, Marzio, morì durante i feroci interrogatori.

Alla sfortunata Beatrice, che inizialmente negò tutto attribuendo le colpe unicamente ai domestici del castello, toccò il terribile supplizio della corda: il condannato, sospeso a mezz’aria a una corda pendente dal soffitto, con le braccia legate dietro la schiena, non poteva resistere.

 Non conosciamo con certezza il ruolo che Beatrice ebbe nel complotto per uccidere il padre. Fatto sta che la sua ammissione bastò per farle meritare la massima condanna, insieme agli altri complici del delitto.

Gli imputati vennero rinchiusi nelle carceri di Tordinona e di Corte Savella e a nulla valsero i tentativi dell’avvocato difensore. Beatrice avrebbe dovuto, per discolparsi, denunciare di essere stata violentata dal padre, ma la ragazza si rifiutò di farlo e la condanna fu emessa, senza indugi, per lei, per madama Lucrezia e per Giacomo.

Il fratello più piccolo Bernardo, ancora minorenne, fu risparmiato, e la sua pena commutata in lavori forzati a bordo delle galere pontificie. Dalla sua cella della prigione di Corte Savella, che sorgeva nei pressi del giardino degli Aranci sull’Aventino, Beatrice cercò di sfruttare anche una occasione che il caso le mise a disposizione: la terribile alluvione dell’inverno del 1598 che, con lo straripamento del Tevere causò anche il definitivo crollo del celebre Ponte Rotto, il più antico di Roma, di cui restarono solo pochi ruderi, in mezzo al letto del fiume.

Tratto da Fabrizio Falconi, I fantasmi di Roma, Newton Compton, nuova edizione, 2015

07/06/16

La casa (scomparsa) di Michelangelo a Roma.



La casa di Michelangelo a Macel de’ Corvi (oggi Piazza Venezia)

Una delle curiosità romane meno conosciute è nascosta sulla facciata laterale di uno dei grandi palazzi che affacciano su Piazza Venezia, quello delle Assicurazioni Generali, che fronteggia, con i suoi merli e i suoi muri di mattoni chiari, il Palazzo Venezia. 

Sulla facciata sud del Palazzo delle Generali (costruito ai primi del Novecento su progetto di Giuseppe Sacconi), quella prospiciente l’Altare della Patria e la Colonna Traiana, è possibile scorgere ad una certa altezza, una targa con l’iscrizione: Qui era la casa/consacrata dalla dimora e dalla morte/ del divino Michelangelo/S.P.Q.R. 1871

E più sotto un’altra con la dicitura: Questa epigrafe apposta dal Comune di Roma nella casa demolita per la trasformazione edilizia è stata collocata nello stesso luogo per cura delle Assicurazioni Generali di Venezia. 

Si tratta dunque della importante memoria del luogo esatto in cui sorgeva la casa in cui visse i suoi anni romani e nella quale morì il grande Michelangelo: quella nel quartiere chiamato Macel de’ Corvi che fu interamente spazzato via durante i lavori che alla fine dell’Ottocento ridisegnarono l’urbanistica del centro della città con la realizzazione del gigantesco Altare della Patria e più tardi della trionfale Via dei Fori Imperiali. 

In quella casa in quel borgo che veniva definito dai visitatori stranieri sordido, Michelangelo visse per cinquant’anni. 

Gli era stata messa a disposizione dalla famiglia Della Rovere, per ospitare il grande artista che avrebbe dovuto completare la tomba del loro congiunto, il Papa Giulio II morto nel 1513 (progetto faraonico che non fu mai portato interamente a termine). Nelle sue lettere e nei suoi sonetti, Michelangelo descrive a forti tinte le vie del quartiere che lo ospitava e anche quella casa, piuttosto modesta, con due camere da letto e la bottega al pianterreno. Il quartiere era quasi una discarica a cielo aperto, maleodorante e colmo di ogni rifiuto proveniente dalla macellazione degli animali. Anche il nome, del resto, era piuttosto eloquente. Eppure, il grande artista non volle mai lasciare quella specie di colorato tugurio. 

In questa casa ideò, progettò tutti i lavori che lo resero immortale, ma le fortune accumulate non gli fecero mai cambiare stile di vita. Non fu solo questione di avarizia, come da più parti è stato sostenuto, quanto di misantropia. A Macel de’ Corvi Michelangelo visse da solo, circondato da uno stuolo di serve (che giudicava puttane e porche) e soprattutto del garzone fidato Urbino (Francesco di Bernardino) che lo accompagnò per ventisei anni, difendendolo dalla curiosità degli avventori e dai fastidi di una vasta parentela vera o presunta che cercavano continuamente di spillargli denaro. 

A Macel de’ Corvi andò in scena anche l’ultimo, misterioso atto, della vita di Michelangelo: quello della sua morte, quand’era ormai ottantottenne (una età per l’epoca piuttosto eccezionale) preceduta da quella specie di malessere o di demone che descrisse all’allievo Tiberio Calcagni quando questi lo sorprese a vagare sotto la pioggia: non ho requie in nessun luogo, disse il Maestro con un filo di voce, disperato. Riportato a casa, qualche tempo dopo morì dopo tre giorni di febbre alta, lasciando una casa vuota piena di vecchie cose e di arnesi consunti

La morte, il 18 febbraio del 1564, lo colse mentre lavorava alla sua opera ultima, più inquietante, la Pietà Rondanini, oggi conservata nel Castello Sforzesco di Milano. Pochi giorni prima della sua morte, ironia della sorte, la Congregazione del Concilio di Trento aveva disposto l’ordine di far coprire le parti scabrose dell’affresco del Giudizio Universale, al quale il Maestro aveva lavorato per vent’anni. Le solenni esequie furono celebrate parecchi giorni dopo a Firenze, con l’inumazione della Chiesa di Santa Croce. La Casa di Macel de’ Corvi, rimasta vuota, fu rapidamente spogliata dei beni e degli effetti personali del Maestro (primi fra tutti i sacchetti con le innumerevoli monete d’oro che teneva sempre con sé) fino poi ad essere cancellata e rasa al suolo per la realizzazione di quel pomposo edificio che oggi soltanto così marginalmente ricorda la vicenda di uno dei più grandi artisti nella storia dell’umanità.


Tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Newton Compton, 2013. 


16/05/16

La meravigliosa Villa Strohl-Fern, nel cuore di Villa Borghese, "invisibile" ai romani.



Resta uno dei luoghi più invisibili di Roma, più appartati e meno conosciuti dai romani: la Villa Strohl Fern, nella sua posizione defilata, sorge su una specie di sperone di roccia, ed estende il suo possedimento su un comprensorio boschivo all’interno di Villa Borghese (poco dopo oltrepassato l’ingresso da Piazzale Flaminio, sulla sinistra) imboccando Via di Villa Ruffo, protetta da una cancellata, oggi in parte occupata dal liceo francese Chateaubriand. 

Un tempo estendeva i suoi confini per ben ottantamila metri quadrati di verde, fino a Valle Giulia e a Villa Poniatowski, in un percorso che era chiamato Via dell’Arco Oscuro e che rispecchiava già dal nome l’impressione gotica che si ricavava da questo luogo

La villa fu fatta costruire da un erudito francese – musicista, pittore, letterato, poeta, scultore – Alfred Wilhelm Strohl che comprò l’appezzamento nel 1879, per costruirsi la sua dimora

Nato a Sainte Marie-aux-Mines nei pressi del Reno, Strohl era una alsaziano, di lingua tedesca e di nazionalità francese. Un vero e proprio cittadino del mondo, che dopo averlo a lungo girato, decise di fermarsi a Roma, stregato dal fascino della capitale e di edificarvi la sua residenza, in quella splendida porzione ai limiti di Villa Borghese.

A giudicare da una persistente leggenda, a parlare di Roma e del fascino della capitale a Strohl era stato Arnold Boecklin il grande pittore, autore dell’Isola dei morti, uno dei quadri più misteriosi al mondo, il dipinto che affascinò Sigmund Freud, Dalì, D’Annunzio, Rilke, Lenin e Adolf Hitler, che ne possedeva una copia: un’opera connotata da forti significati esoterici. Il profilo della Villa fu – secondo alcuni (1) – disegnato dallo stesso Strohl sull’ispirazione delle forme dei portali sepolcrali rappresentati sull’isola nel dipinto di Boecklin, il quale era stato a Roma nel 1870

Quel che desiderava Alfred Strohl era esattamente un distacco, una sorta di ritiro dal mondo, come si intuisce anche dall’aggettivo Fern, che egli volle aggiungere al suo casato e che in lingua tedesca significa lontano (cioè lontano dal mondo, come suggerisce Antonello Trombadori (2) )

Ancora oggi, visitando la villa (che è chiusa al pubblico, ma accessibile con visite prenotate in alcuni giorni del mese) si percepisce quel clima oscuro, misterioso che fu voluto dal suo proprietario: al centro della vasta tenuta, Strohl-Fern si era fatto costruire la sua dimora come se si trattasse di una sorta di città proibita, esclusa agli occhi degli estranei e delimitata da un alto muro e tre cancelli sui quali era imposto il simbolo della casata dai connotati evidentemente esoterici: un serpente con il motto éclair ne broye e cioè fulmine non colpisca. Ma tutto il giardino, circostante la villa, era un perfetto hortus conclusus, con ogni sorta di specie botanica, fontane, grotte, statue romane, resti archeologici, serbatoi di acqua corrente, e un famoso tunnel delle rose, che fu immortalato da diversi pittori ospitati nel Novecento nella foresteria della Villa che per volere del conte Strohl-Fern comprendeva decine di studi per artisti.

 Inoltre un vero e proprio laghetto artificiale navigabile con piccole imbarcazioni che potevano accedere alle oscure grotte, dove v’erano giochi di luce e intricati labirinti

 Strohl-Fern per la sua bizzarria, il suo vivere completamente appartato, il suo studio pieno di libri, fu soprannominato dagli abitanti del luogo, Mago Merlino, anche per via della sua lunga barba bianca che è ben visibile anche nelle foto d’epoca. 

 Nella villa terminò i suoi giorni fino al 1926 e a Roma volle essere seppellito – nel cimitero acattolico alla Piramide, dove la sua tomba è ancora oggi esposta. La presenza di un personaggio così originale, in un luogo per certi versi lugubre e lussureggiante, diede adito nel tempo alla leggenda di fantasmi che popolerebbero la villa, e i giardini di essa, uno dei quali avrebbe proprio le sembianze di quel Mago Merlino che Roma ancora oggi ricorda.

1. Il primo a parlare di una corrispondenza tra il profilo della Villa Strohl Fern e l’Isola dei morti di Boecklin fu Gianni Rodari in Quel pasticciaccio di Villa Strohl-Fern. La bistrattata isola di verde sopra Piazzale Flaminio, «Paese Sera» 23 settembre 1975.

 2. A.Trombadori, Villa Strohl Fern, Strenna dei Romanisti del 21 aprile 1982.

Tratto da Fabrizio Falconi, Roma esoterica e misteriosa, Newton Compton, Roma, 2016.

21/04/16

Roma compie 2769 anni ! Tutte le iniziative per il "Natale di Roma 2016.



Letture poetiche, concorsi di letteratura latina, concerti, installazioni d'arte, rievocazioni storiche, inaugurazione di spazi pubblici restaurati, musei gratis e visite guidate. E luce, molta luce su monumenti, musei, Fori. 

Questo e altro è il Natale di Roma 2016, 2769mo dalla data tradizionale della fondazione dell'Urbe (21 aprile del 753 avanti Cristo). 

Il programma, si legge sul sito del Comune di Roma, parte oggi per andare avanti fino al 6 maggio. 

Primo appuntamento di rilievo, oggi, maratona di lettura dei sonetti di Belli, dalle 16 alle 19 nella sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini. Recitano i versi 40 lettori selezionati tra cittadini: uomini e donne, professori, studenti, religiosi, laici e anche amministratori capitolini, romani e non. A cura della Sovrintendenza capitolina con l'Archivio storico capitolino e il Centro studi Giuseppe Gioachino Belli.

Domani, in Campidoglio, il cuore delle celebrazioni. Dalle 11 nell'aula Giulio Cesare si susseguono i consueti eventi del Natale di Roma: l'edizione annuale della Strenna dei Romanisti, i premi e i concorsi (Cultori di Roma, Certamen Capitolinum, Premio Urbis), la medaglia 2016 dedicata al gemellaggio Roma-Parigi. 

Poi, sulla piazza, il concerto della banda dei vigili, che fa da contrappunto a una serie di concerti mattina e pomeriggio in centro, con la banda di esercito, guardia di finanza, aeronautica, Marina, polizia, polizia penitenziaria e carabinieri

Il 21 aprile i musei civici di Roma Capitale sono aperti gratis: liberamente visitabili le collezioni e le mostre in corso. 

A seguire, la riapertura di due spazi storici restaurati: alle 12.30 il Giardino degli Aranci all'Aventino, alle 15 il giardino di piazza Cairoli. E al tramonto, alle 19.58, l'accensione della nuova illuminazione Acea del Foro Romano, da contemplare dalle pendici del Campidoglio

La giornata prosegue alle 20.30 sulla banchina destra del Tevere, all'altezza di Ponte Sisto, con una performance musicale e di danza al cospetto di 'Triumph and laments', il fregio di 500 metri realizzato dal sudafricano William Kentridge pulendo selettivamente la patina biologica del travertino dei muraglioni (il progetto è dell'onlus Tevereterno)

A conclusione, i Viaggi nell'antica Roma di Piero Angela ai Fori di Augusto, Cesare e Traiano, un'anteprima ad ingresso gratuito ad entrambi gli spettacoli fino ad esaurimento posti con prenotazione obbligatoria allo 060608 (è possibile prenotare al massimo 5 posti per ogni telefonata). Le repliche proseguiranno tutte le sere fino al 30 ottobre 2016.

Nei giorni successivi si segnala: venerdì 22 la riapertura di Villa Aldobrandini dopo i lavori di restauro (ore 12); domenica 24, al Circo Massimo, le rievocazioni in abiti storici a cura del Gruppo storico romano (dalle 10 in poi); venerdì 6 maggio in Campidoglio (sala della Protomoteca), un concerto cameristico tutto all'insegna della stagione fiorita: in programma una trascrizione de La primavera da Le quattro stagioni di Vivaldi e la Sonata per violino e pianoforte n. 5 in fa maggiore, opera n. 24 'la Primavera' di Beethoven. Lungo tutto il periodo, un ciclo di visite guidate ai musei civici e ad altri luoghi storici di Roma.

20/04/16

Roma Anni '50 - Storia di una foto 3.


Dopo le due precedenti puntate dedicate a foto di Henri Cartier-Bresson scattate a Roma negli anni '50, ci siamo cimentati con una nuova foto, quella che si vede qua sopra, scattata nei primi anni '50. 

In questo caso, la caccia era molto più semplice. 

E' stato abbastanza facile infatti individuare il celebre palazzo di Luciano Manilio, nel cuore del Ghetto ebraico di Roma, in Via Portico d'Ottavia 2 che oggi si presenta così: 



La cosa interessante è che il bar, è rimasto sempre allo stesso posto.  Si tratta infatti di uno dei caffé più antichi di Roma. 

E oggi si presenta così: 



All'interno del locale, diverse foto in bianco e nero, che ricordano la storia del bar e dei diversi proprietari. 




E infine, qui di seguito la storia di questo splendido palazzo Romano, tratta da Misteri e segreti dei Quartieri e dei Rioni di Roma (per chi vuole saperne di più): 

La casa di Lorenzo Manilio 

A Roma si sente spesso ripetere che non c’è un romano più vero, più verace, di quelli che abitano nel cosiddetto “ghetto ebraico”, notoriamente uno dei più antichi del mondo (per l’esattezza il secondo, dopo quello di Venezia, sorto quaranta anni prima) essendo stato istituito per volontà di papa Paolo IV nel 1555. 

Proprio gli ebrei abitatori del ghetto hanno mantenuto vive nel tempo molte delle tradizioni popolari di Roma, dimostrando un grande attaccamento alla storia della città. L’esempio forse più eclatante di questo vero e proprio amore è “stampato” in uno dei palazzi più importanti e centrali di quella zona, anche se il suo autore realizzò l’impresa parecchi anni prima dell’istituzione del ghetto e cioè nel 1468

 Il nobiluomo che abitava il palazzo all’epoca si chiamava Lorenzo Manili, e si sa poco di lui, se non che doveva pur avere qualche smania megalomane, visto che era solito romanizzare il proprio nome in Laurentius Manlius o Manilio, ricollegandolo alla gensManlia. 

La sua casa, che ancora oggi esiste in via di Santa Maria del pianto, riporta il suo nome per ben quattro volte sulle porte del pianterreno, mentre sulle finestre che affacciano su piazza Costaguti si legge il motto – che doveva esser di famiglia – “Have Roma”. 

Ma il motivo per cui questo palazzetto nel cuore del ghetto ebraico è diventato così famoso è la grande iscrizione, a caratteri di imitazione romana, che si legge sulla facciata del palazzo e che indica una data – quella in cui è stato realizzato il fregio – davvero singolare: ovvero l’anno 2221. 

 Ovviamente la cosa, nel corso dei secoli, ha suscitato curiosità, anche se la spiegazione è ben chiara: essendo infatti il Manili un vero e proprio estimatore di Roma, e della Roma antica, adottava il calcolo degli anni secondo il metodo dell’abUrbe condita, cioè dalla fondazione della città, nel 753 a.C. 

 Il calcolo esatto della data inscritta da Manili – 2221 anni dalla fondazione di Roma – riconduce al 1468 d.C., ovvero al primo periodo del “Rinascimento romano”. 

L’intraprendente possidente, nella lunga iscrizione in latino, riportò una specie di dichiarazione d’amore, che tradotta suona così: “Mentre Roma rinasce all’antico splendore Lorenzo Manili, in segno d’amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla piazza Giudea, in proporzione alle sue modeste fortune questa casa che dal suo cognome prende l’appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell’anno 2221 dalla fondazione di Roma, all’età di 50 anni, 3 mesi e 2 giorni; fondò la casa il giorno undicesimo prima delle calende di agosto.” 

 Un “ornamento” che ha resistito intatto per cinque secoli e mezzo e ancora oggi rinnova l’interesse e la curiosità sulla figura misconosciuta di questo protagonista della vita cittadina di allora.

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.