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26/11/18

E' morto Bernardo Bertolucci - Un ricordo personale.




Qualcuno scrive giustamente che è morto oggi l'ultimo dei grandi registi italiani. Bernardo Bertolucci ci ha lasciati a 77 anni, dopo che una malattia lo ha penalizzato pesantemente nel fisico negli ultimi anni. 

In queste ore mi torna alla mente un ricordo personale, che nella sua semplicità racconta molto di chi fosse Bertolucci, di quale fosse la sua passione per il cinema.

Era l'estate del 1989, un giorno di luglio. La bellissima, oggi così rimpianta, Estate Romana di quegli anni bellissimi a Roma, figlia del talento geniale ed estroverso di Renato Nicolini. 

Nel programma di quell'anno - ricchissimo come sempre -  c'era anche un evento da ricordare: la proiezione all'aperto, nella immensa arena del Circo Massimo, gratuita de L'Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, il kolossal italiano (ah, che tempi!) e co-prodotto da Cina e Regno Unito, che l'anno precedente aveva sbancato agli Oscar.

Il film infatti  raccolse addirittura 9 statuette alla Cerimonia di quell'anno - tra cui quelle per il miglior film, la miglior regia, la miglior fotografia di Vittorio Storaro e la migliore colonna sonora firmata da Ryuichi Sakamoto e David Byrne.

Grazie alla messe di premi ricevuti e soprattutto dei notevoli incassi in tutto il mondo, il film di Bertolucci segnò, dopo molto tempo, una sorta di riscatto dei film storici, o del cinema-spettacolo nella tradizione di Cecil B. DeMille.

Il film era uscito in Italia il 23 ottobre 1987 e negli Usa il 18 novembre e gli incassi furono enormi: la pellicola raggiunse quasi 44 milioni di dollari negli Stati Uniti, per un totale di oltre 78 milioni di dollari. In Italia fu il 1° film per incassi della stagione 1987-88.

In quella estate del 1989, dunque, Nicolini decise di invitare Bertolucci per una proiezione su uno schermo enorme - probabilmente il più grande su quale sia mai stato proiettato quel film - che fosse un vero godimento per la gente di Roma. 

Risposero in tanti e io fra loro.  Lo schermo era posizionato dalla parte del Palazzo dell'Anagrafe, mentre i posti a sedere davanti allo schermo erano limitati. Si supponeva che molti avrebbero scelto di vedere il lungo film, comodamente sdraiati sul prato del Circo (che allora ancora esisteva e non si era ridotto ad una landa desertica come oggi).  

Insieme ad alcuni amici, ero seduto sul prato, alla destra della spina centrale, pronto a godermi il film.

Subito dopo i titoli di testa, mi accorsi di uno che completamente sdraiato sul prato, a pochi passi da noi, seguiva la proiezione con la testa sul palmo della mano. Era Bertolucci. 

Rimase in quella posizione solo per pochi secondi. Si alzò poco dopo in piedi, cominciando a muovere passi a destra e sinistra. Era da solo. Si avvicinò con discrezione a noi. Ci chiese, sottovoce, come secondo noi si vedeva il suo film. Ci sembrava che l'immagine fosse distorta, un po' allungata verso l'alto ?  Le immagini erano bene a fuoco ?

Rispondemmo che sembrava tutto perfetto e lo ringraziammo.

Ma lui non sembrava soddisfatto.

Lo seguimmo con lo sguardo mentre attraversava il prato da una parte all'altra, senza mai staccare gli occhi dall'enorme schermo, fermandosi di tanto in tanto a parlare con qualcuno degli spettatori.

Era fatto così. Era un perfezionista che amava visceralmente il suo lavoro.

Questo ci ha lasciato. Questo gli dobbiamo.

Fabrizio Falconi







15/08/18

Lina Wertmuller compie 90 anni. E' stata la prima donna candidata all'Oscar per la Regia.



Ieri, 14 agosto, Lina Wertmuller ha spento 90 candeline.

Nata a Roma il 14 agosto del 1928 e' stata la prima donna candidata all'Oscar per la regia di "Pasqualino settebellezze" del 1977, (saranno quattro le candidature in totale).

La "donna con gli occhiali bianchi", autrice di alcuni dei piu' grandi successi della televisione italiana come "Gian Burrasca",  fa il suo esordio al cinema nel 1963 con "I basilischi".

A 17 anni, dopo essersi iscritta ad una scuola di teatro e aver fatto la burattinaia, grazie all'influenza di Flora Carabella (con cui nasce un'amicizia durata una vita) conosce Federico Fellini, con cui lavora come aiuto regista ne "La dolce vita".

Nel 1956 e' tra gli autori di "Canzonissima" mentre nel 1963 quando le viene affidata la versione televisiva di "Gian Burrasca" ha l'intuizione di affidare il ruolo principale a Rita Pavone.

Nel 1972 dirige Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in "Mimi' metallurgico ferito nell'onore", successo ripetuto con la coppia di eccezionali attori in "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" fino al successo mondiale di "Pasqualino Settebellezze". 

 Nel 1992 e' campione d'incassi con "Io speriamo che me la cavo", film con Paolo Villaggio. Grazie a Sophia Loren, con cui ha collaborato in film come "Sabato domenica e lunedi'" (da De Filippo) nel 1990 a "Peperoni ripieni e pesci in faccia" (2004), ha scoperto una sensibilita' napoletana che l'ha portata a ricevere la cittadinanza onoraria nel 2015.

fonte askanews

18/06/18

Nanni Moretti ieri: "L'unico partito al quale mi sono mai iscritto è quello di Fellini."




CASTIGLIONCELLO — «Un film politico? No, il prossimo sarà — come La stanza del figlioHabemus papam e Mia madre che non avevano bisogno dell’attualità — un’opera dove la politica non avrà spazio». 

Di più, al momento, Nanni Moretti non dice: lo sta scrivendo, è la fase più delicata. 

Ma, ultimo ospite dopo Anna Foglietta e Luca Guadagnino di Paolo Mereghetti a «Parlare di cinema a Castiglioncello», il regista non si sottrae alla curiosità del pubblico. 

E dichiara apertamente la sua militanza a un partito: «Quello di Fellini. Ho iniziato tardi a andare al cinema, verso i 15 anni. Tra i miei amici c’erano due partiti, quello di Antonioni e quello di Fellini. Io mi iscrissi al secondo». 

La tessera, a distanza di 50 anni (compirà i 65 in agosto), non l’ha stracciata. E ieri sera come pellicola da presentare agli spettatori dell’arena in pineta ha scelto , anziché una delle sue. 

Ama quasi tutti i suoi film. «Quando uscì La città delle donne non mi convinse, mi sembrava troppo poco scritto, lui allora non vedeva l’ora di andare in teatro e girare. Ogni tanto ci incontravamo. Un giorno andammo a pranzo insieme. La sera prima avevano dato in tv Amarcord, gli dissi quanto l’avessi ritrovato bello, gli parlai dell’importanza di una sceneggiatura forte. Vero, mi disse lui, ma l’ho scritta dopo».

Come il maestro riminese, anche Moretti ha costruito con il suo cinema un’autobiografia in pubblico, tra Michele Apicella e se stesso. «Fin dall’inizio, 45 anni fa, mi sono venute naturali tre cose: stare dietro ma anche davanti alla cinepresa, raccontare il mio ambiente, politico e generazionale, e farlo con autoironia. Ci ho preso gusto e mi sono divertito a costruire un personaggio: la passione per i dolci, una certa rissosità, le inquadrature delle scarpe, lo sport più praticato che visto. A un certo punto sono precipitato nella prima persona, con Caro diario. Una delle tre parti racconta il tumore che ebbi, fu naturale interpretare me stesso».

13/04/18

Finalmente restaurato "Novecento", il capolavoro di Bernardo Bertolucci - In Anteprima stasera a Palermo.




Finalmente restaurato uno dei capolavori del cinema italiano, "Novecento", realizzato da Bernardo Bertolucci nel 1976, con uno straordinario cast di attori tra i quali Robert De Niro e Gerard Depardieu, come protagonisti.

"Novecento", di Bernardo Bertolucci, I e II atto, sara' proiettato a Palermo, in questa nuova versione restaurata, in anteprima nazionale, stasera 13  aprile alle ore 21 e il 20 aprile alla stessa ora al Cinema De Seta dei Cantieri alla Zisa, per iniziativa della dell'associazione Lumpen, con la direzione artistica di Franco Maresco. 

Il film sara' preceduto da un'intervista inedita a Bertolucci, realizzata dalla Cineteca di Bologna

Le pellicole si potranno vedere anche il 16 e il 23 aprile, alle 21 (precedute alle 20.30 dalla presentazione di Gianmauro Costa e Dario Oliveri), al cinema Rouge et Noir. 

 "Con Novecento - spiega la direzione artistica del Rouge et Noir - avviamo un discorso sul secolo delle rivoluzioni, nel cinquantenario del '68, ideato con Panormos International Weeks di Evelina Santangelo e Paola Caridi, in collaborazione con Marina di Libri e Institut Francais, dal titolo "Rivoluzioni a fondo perduto?" che prevede altri film, mostre, dibattiti. Ai maggiorenni sara' offerto, in omaggio al tema, un Cuba Libre. 

19/03/18

Ritrovata la Triumph di "Marcello" ne "La dolce vita": era a Rimini.


Chi non ricorda la meravigliosa Triumph nera guidata da Marcello, ne "La Dolce Vita", con la quale Mastroianni scarrozza di notte la meravigliosa Anita in giro per Roma ? 

Ebbene, è stata ritrovata da un appassionato di auto d'epoca, Filippo Berselli, avvocato ed ex parlamentare. 

L'auto - considerata al terzo posto in una classifica americana delle 10 più celebri della storia del cinema - è stata ritrovata per caso. Berselli era da tempo a caccia di una Triumph T3 - lo stesso modello di quella de La Dolce Vita e su internet si è imbattuto proprio nella vendita di un esemplare di questa auto, subito incuriosito dal fatto che fosse stata immatricolata sin dall'origine in Italia. 

Contattato il venditore e dopo una breve trattativa la acquista.  Salvo scoprire poco dopo, dall'esame cronologico del Pra che la targa di prima immatricolazione era stata Roma 324229 e risaliva al 15 luglio 1958.  

Da un esame più approfondito della carta di circolazione, Berselli scopriva poi che dopo un paio di passaggi proprietari, l'auto era stata rivenduta nel maggio 1959 alla società di produzione film Riama: proprio la società di Rizzoli e Amato che aveva prodotto La Dolce Vita. 

Ricostruendo la vicenda per intero, Berselli ha appurato che il primo proprietario fu Armando Berni, nipote del re delle fettuccine Alfredo dell'omonimo, celebre ristorante di Piazza Augusto Imperatore, che all'epoca era frequentato dal jet-set internazionale.  


Nei mesi successivi Berni  intestò poi l'automobile a Maurizio Conti che all'epoca era un attore alle prime armi, con qualche particina in pellicole del genere Peplum e anche nel Bell'Antonio a fianco di Mastroianni e anche ne La Dolce Vita.

Anche Conti frequentava il ristorante Alfredo ed era amico di Armando Berni. Rintracciato da Berselli, Maurizio Conti - ancora vivo e in forma, ha raccontato di non aver mai guidato la vettura, ma di aver fatto soltanto da prestanome al Berni, che forse aveva già troppe auto intestate. 

A un certo punto, Armando evidentemente decise di riappropriarsi della macchina: aveva avuto un'offerta da Fellini stesso, o dai produttori, che frequentavano il ristorante della Dolce Vita. E così la Triumph passò nelle mani della Riama cinematografica. 

Oggi l'auto, dopo essere stata esposta nel 2016 nella rassegna Effetto Notte - e dopo un accurato restauro in una carrozzeria di Rimini (per incredibile coincidenza era andata a finire proprio nella città del Regista....) - fa bella mostra di sé in importanti rassegne d'auto d'epoca internazionali.

Fabrizio Falconi

fonte: Emilia Costantini, Quella spider che segnò la Dolce Vita, il Corriere della Sera, 18 giugno 2016.



09/03/18

A Roma una bella mostra celebra il fascino e la bravura di Monica Vitti.


Otto grandi veli fotografici in bianco e nero da attraversare, con la Divina Monica in primissimo piano, tra scena e fuori scena, mentre la sua voce cosi' unica racconta perche' sia diventata attrice ("Adoro la sincerita', la realta', rappresentarmi mi dava la possibilita' di vivere piu' vite").

E' l'entrata immersiva de La dolce Vitti, la mostra multimediale dedicata a una delle interpreti simbolo del nostro cinema, a Roma dall'8 marzo al 10 giugno al Teatro dei Dioscuri al Quirinale.

La grande attrice, 86 anni, ammalata da tempo, si e' ritirata dalle scene dall'inizio degli anni '90 ed e' apparsa in pubblico per l'ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana di Notre-Dame de Paris a Roma.

Curata da Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa, ideata e organizzata da Istituto Luce Cinecitta', l'esposizione esplora la personalita' e l'universo artistico di Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, in diversi capitoli: dall'Accademia, dove un suo grande maestro, Sergio Tofano, scopre il suo talento comico, al teatro, insieme fra gli altri ad Albertazzi diretta da Zeffirelli e anni dopo con Rossella Falk; dal doppiaggio (con tanto di postazione di video-ascolto) anche per Fellini e Pasolini all'incontro fondamentale, sentimentale e artistico con Michelangelo Antonioni, che la dirige in capolavori come L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso e la ritrova nello sperimentale Il mistero di Oberwald.

"Per me e' stato un padre, un fratello, un amico. Era tutta la mia vita, perche' mi sentivo estremamente sicura vicino a lui, poi mi guardava con degli occhi che erano talmente pieni di attenzione.... - ha detto Monica Vitti -. Le storie sono nate dalla nostra vita, da lui e da me. Tutto comincio' insieme".

Si prosegue con la svolta della commedia che ha come simbolo La ragazza con la pistola di Mario Monicelli (uscito 50 anni fa) e viene portata avanti con registi come Scola, Risi, Steno, Salce, per 40 film tra anni '60 e '70. "Monica Vitti ha interpretato donne di tutte le estrazioni sociali, borghesi e popolari, spesso alla ricerca di autonomia e indipendenza" spiega Stefano Stefanutto Rosa.

Senza dimenticare le prove da autrice e regista con gli altri due grandi amori della sua vita, Carlo Di Palma, e il marito, sempre accanto a lei anche in questi ultimi anni segnati dalla malattia, Roberto Russo, da cui vengono anche alcune immagini della mostra (accompagnata anche dall'uscita di un omonimo volume) che ha visitato ieri nell'abituale riserbo.

Un ritratto della donna e dell'icona che prende forma grazie a oltre 70 foto (molte rare, provenienti oltre che dall'Archivio Luce, da quelli, fra gli altri, dell'Accademia Silvio D'Amico, del centro Sperimentale, di Elisabetta Catalano, Umberto Pizzi e Enrico Appetito); libri 'espansi' in digitale da sfoglia; documenti inediti, locandine, copioni, sue copertine famose in Italia e all'estero; interviste video e apparizioni televisive da Milleluci a Domenica in; interventi di amici e colleghi, di chi l'ha amata e conosciuta (fra gli altri, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Dacia Maraini).

Fino a tanti filmati d'archivio e alcuni dei film piu' importanti della sua carriera (L'avventura, La ragazza con la pistola, Dramma della gelosia, Teresa la ladra, Flirt) che e' possibile scoprire o rivedere nella sala cinema del Teatro. 

Fonte: Francesca Pierleoni per ANSA

Qui sotto il video di una delle ultime - e più toccanti - apparizioni in video di Monica Vitti.



09/01/18

Riapre il mitico Cinema di Fellini, il "Fulgor" di Rimini.



Il Cinema Fulgor, la sala di Federico Fellini, riaprira' a Rimini il 20 gennaio, giorno del compleanno del 'Maestro' romagnolo che la ricostrui' negli studios di Roma per girare 'Amarcord'

Saranno 36 ore di festa per una "riapertura non convenzionale", ha detto il sindaco, Andrea Gnassi. 

Si parte alle 22 del 19 gennaio nella piazzetta San Martino con una festa organizzata dai locali del posto e poi un appuntamento speciale, alla mezzanotte quando ci sara' un ingresso, con ospiti d'eccezione, negli spazi del Fulgor che vanta una sala cinematografica ideata dallo scenografo da Oscar, Dante Ferretti

Il 20, nella mattinata inaugurale a festeggiare ci sara' anche il ministro dei Beni e delle attivita' culturali e del turismo, Dario Franceschini, oltre a personaggi del cinema e dello spettacolo mentre la sede sara' aperta al pubblico fino a notte. "Il senso della riapertura del Fulgor nel giorno del compleanno di Federico Fellini - commenta Gnassi - sta appunto nel concetto di festa, di contentezza, di gioia per un ritorno che va a beneficio di tutti. L'apertura del Fulgor sara' popolare, non elitaria". 

Fellini sul set di Amarcord con il "Fulgor" ricostruito a Cinecittà

Il Fulgor nasce nel 1914, ma e' solo nel 1920 che trova sede nell'attuale palazzo Valloni dopo una prima ristrutturazione ad opera dell'architetto Addo Cupi. Poco piu' di 97 anni dopo, il cinema, ristrutturato dall'architetto Anni Maria Matteini, riapre e nell'inusuale allestimento di Ferretti che con Fellini ha lavorato a 6 film, si rivivra' una vera e propria messa in scena cinematografica che esalta la magia "dell'andare al cinema" oltre che del "fare cinema"

Il primo film che Fellini vide al Fulgor fu 'Maciste all'Inferno' e nell'allestimento vi e' proprio un omaggio al cinema americano degli anni '30 e '40. La programmazione della sala sara' curata dalla societa' Khairos e l'ossatura della programmazione sara' costituita da film di qualita' e nuove uscite, mentre una parte importata sara' dedicata a Fellini. Tra gli obiettivi rendere il cinema un luogo aperto per incontri con corsi e mostre, approfondimenti e studi, anche la mattina. 

08/12/17

"Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!" Donald Sutherland rivela i segreti del "Casanova" di Fellini.



In una bellissima intervista rilasciata a Paola Piacenza per Io Donna del Corriere della Sera del 2 Dicembre 2017, il grande Donald Sutherland svela alcuni retroscena molto interessanti del suo lavoro in Italia con due grandi registi come Bernardo Bertolucci e Federico Fellini.  Riporto qui a beneficio dei lettori del Blog la parte riguardante. 

Dice di aver detto no a film perché violenti, eppure non esiste personaggio più violento di quello che lei interpretò in Novecento. 

Aaaaaahhh !!! Sì sì, (in italiano). Allora, un giorno io vado da Bernardo e gli dico "Ho qui una pubblicazione underground che un amico che lavora in una casa editrice di San Francisco mi ha dato.  E' un articolo sulla psicologia di massa del fascismo. Questo voglio fare nel film: un fascista che sia un burocrate."    E Bertolucci: "No, no, deve essere un mostro".   Così per due settimane noi abbiamo girato due versioni di ogni scena, la sua e la mia. 

Mi lasci indovinare...
Bernardo ha tenuto la sua. Bernardo ha... (fa un gesto con le mani come di un uccello che si libra nell'aria, ndr). Quando poi mi ha invitato a vedere il film finito, gli ho detto: "Mi hai spezzato il cuore". 

Lei ha un corposo capitolo italiano nella sua carriera. Mi racconta come lavorò con Fellini in Casanova ?
Mi spiace, non posso. Non ne ho idea. Posso solo dirle che le prime 5 settimane sono state le peggiori della mia vita e che nei 12 mesi successivi mi sono posto tutte le domande che un attore e un uomo dovrebbe farsi. 
La mia relazione con Federico era molto problematica e lo è stata a lungo, poi improvvisamente intorno alla quinta settimana di riprese come per magia tutto ha cominciato a funzionare.  Lui sedeva sulle mie ginocchia, mi chiedeva cose impossibili e io le facevo, come stregato. 
Mia moglie mi odia quando lo dico, ma la nostra era quasi una relazione sessuale per il genere di intensità che sprigionava.
Ricordo che era venuto a trovarmi a Parma, sul set di Bernardo, ed eravamo andati via con la Mercedes che la produzione mi aveva dato. Sul sedile posteriore avevo accumulato libri su Casanova.  "Che cos'è questa roba ?" Apre il finestrino e li getta. "Che cosa fai, Federico ?" urlo io. E lui: "Questo non è un film su Casanova. E' un film su di me!"

tratto da: Sono morto tante di quelle volte... intervista di Paola Piacenza a Donald Sutherland, Io Donna, Corriere della Sera, 2 dicembre 2017, p.104. 


10/10/17

I Fratelli Taviani portano sullo schermo "Una questione privata" di Beppe Fenoglio alla Festa del Cinema di Roma.



Liberamente tratto dal capolavoro di Beppe Fenoglio - considerato da Calvino uno dei piu' bei romanzi italiani del Novecento - "Una questione privata" di Paolo e Vittorio Taviani sara' presentato alla Festa del Cinema di Roma venerdi' 27 ottobre e sara' poi in sala dal 1° novembre distribuito da 01 Distribution

«Oggi, nel nostro tempo ambiguo - dicono Paolo e Vittorio Taviani - tempo di guerra non guerreggiata, Fenoglio ci ha suggestionato con il suo "Una questione privata": l'impazzimento d'amore, e di gelosia, di Milton, il protagonista, che sa solo a meta' e vuole sapere tutto. Da qui siamo partiti per evocare, in una lunga corsa ossessiva, un dramma tutto personale, privato appunto: un dramma d'amore innocente e pur colpevole, perche' nei giorni atroci della guerra civile il destino di ciascuno deve confondersi con il destino di tutti». 

Luca Marinelli da' il volto a Milton, ragazzo introverso e riservato, mentre Lorenzo Richelmy e' Giorgio, allegro e solare: i due amici amano entrambi innamorati di Fulvia (Valentina Belle'). 

Lei si lascia corteggiare, giocando con i loro sentimenti. 

I tre ragazzi nell'estate del 43 si incontrano nella villa estiva di Fulvia per ascoltare e riascoltare il loro disco preferito: Over the Rainbow. E nonostante la guerra, sono felici. Un anno dopo tutto e' cambiato. Milton e Giorgio sono ora partigiani. È inverno e la nebbia e' calata su tutto. Milton si ritrova davanti alla villa dei tempi felici, ormai chiusa e si abbandona al ricordo di Fulvia. 

La custode lo riconosce e invitandolo ad entrare allude ad una relazione tra la ragazza e il suo migliore amico Giorgio. Per Milton, logorato dal dubbio, si ferma tutto: la lotta partigiana, gli ideali, le amicizie. Ossessionato dalla gelosia, vuole scoprire la verita'. E corre attraverso le nebbie delle Langhe per trovare Giorgio, ma Giorgio e' stato catturato dai fascisti. L'unica speranza e' trovare un prigioniero fascista da scambiare con l'amico, prima che questi venga fucilato. 

03/03/17

Federico Fellini, il Genio Nevrotico.




Ci manca. 

Manca il grande genio nevrotico di Federico Fellini.  Sentiamo la sua mancanza ogni giorno di più, perché solo attraverso quell'occhio forse avremmo potuto oggi decifrare, accendere una luce su giorni sempre più caotici, insensati, grotteschi. 

Ho il sospetto che in fondo Fellini si sia sentito sempre un alieno rispetto al tempo che viveva. Era come se provenisse da un altro mondo. La sua anima si elevava probabilmente su strati diversi, lontana dalle apparenze, anche se le apparenze degli altri, le manie, i tic, le deformazioni, le deformità, erano quelle che più affascinavano il suo cinema. 

Si sentiva un alieno perché - pur essendo pienamente epigono della italianità (un concetto ambiguo e temporalmente breve visto che l'Italia esiste solo da un secolo e mezzo) - era estraneo alle masse, come recitava uno slogan di qualche tempo fa. 

Anche se - ennesima contraddizione - delle masse egli seppe perfino diventare il cantore. 

Si sentiva un alieno perché era sostanzialmente un nevrotico, tendenzialmente depressivo. Gli giovò l'analisi (junghiana), gli giovarono le escursioni nel folle e nel magico (come le visite da Rol), gli giovò la contiguità con il senso cattolico dell'esistenza, di cui seppe essere - estrema contraddizione - il massimo dissacratore, come nella celebre scena della sfilata degli abiti talari. 

Fu tutto sommato sempre un sofferente (e massimo gaudente), fragile e potentissimo dal punto di vista psicologico.  Sofferente perché disadattato alla realtà che viveva e che non riusciva ad accettare per colmo di volgarità (il vero tarlo che lo uccideva e che riusciva ad esorcizzare pienamente solo traducendolo in paradigma). 

Sofferente perché estraneo in un mondo sbagliato che lo affascinava oltre ogni misura e che gli incuteva timore. 

Sofferente al punto che aveva bisogno di ricrearlo, il mondo, nel chiuso confortevole dello Studio 5 di Cinecittà. 

Soltanto tra quelle mura si sentiva padrone del gioco, si sentiva libero, in grado di trasformare e sublimare la sua nevrosi in arte creativa. 

Ricreato il mondo, lui era finalmente libero di rovesciarne i lati angosciosi in gioco, le ossessioni in girandole, la morale in sentimento nostalgico. 

Nostalgia di quello che non esiste e non può esistere, di ciò che è libero e non è prigioniero degli incardinati meccanismi della prosa. 

Nella vita si sentiva spesso vittima - di se stesso, degli eventi, della fortuna, delle relazioni - nell'arte era libero e vittorioso perché libero di poter fallire. 

Il Genio in fondo è questo. Libertà dall'essere e dal dover essere. Libertà di essere (tutto) per se stessi e quindi per il mondo e nel mondo. 

Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata). 

30/06/16

Ecco finalmente l'Archivio Vittorio De Sica.




L'archivio di uno dei piu' grandi maestri del cinema mondiale, Vittorio De Sica, arriva alla Cineteca di Bologna. A presentarlo sabato 2 luglio sara' la figlia del regista Emi De Sica, che con il marito Sergio Nicolai ha lavorato per decenni alla conservazione del fondo: documenti, lettere e fotografie raccolti dalla prima moglie di Vittorio De Sica, Giuditta Rissone

Emi De Sica sara' alla Cineteca in occasione del festival Il Cinema Ritrovato, appuntamento alle 14.30 in Sala Auditorium.

L'archivio contiene testimonianze rare e inediti di famiglia, dei suoi esordi teatrali e cinematografici, del suo successo come interprete di canzoni popolari napoletane o la corrispondenza con grandi personalita' del cinema e dell'arte come Roberto Rossellini, Ennio Flaiano, Billy Wilder, Jean Cocteau, Giorgio Morandi. 

Poi, rassegne stampa d'epoca, dischi e sceneggiature nate dal sodalizio con Cesare Zavattini, storie come I bambini ci guardano, Sciuscia', Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D

05/05/16

Il Lincoln Center di New York celebra Anna Magnani .



Istituto Luce-Cinecittà e The FilmSociety of Lincoln Center sono orgogliosi di presentare La Magnani, la retrospettiva che porterà in anteprima a New York, e poi in tutti gli Stati Uniti e Canada, un momento irripetibile della storia del cinema mondiale: l'apparizione davanti alla macchina da presa di un'attrice di nome Anna Magnani. La retrospettiva prevede 24 titoli, in gran parte provenienti dall'Archivio Internazionale di Luce Cinecittà, tutti proiettati in pellicola in formato 35 e 16 millimetri, dal 18 maggio al 1 giugno 2016 presso il Walter Reade Theater del Lincoln Center, coprendo quasi per intero l'arco cronologico della sua carriera cinematografica, dal suo terzo film Tempo massimo di Mattoli del '34, fino al simbolico addio in Roma di Fellini nel 1972.

Passando per il capolavoro di Rossellini che la proiettò nella memoria del mondo, Roma città aperta ("Ti ho sentito gridare Francesco dietro un camion e non ti ho più dimenticato", scrisse Giuseppe Ungaretti), La rosa tatuata di Daniel Mann che le valse l'Oscar® (di cui ricorre quest'anno il 60° anniversario) e Selvaggio è il vento di Cukor, con cui vinse il premio per la miglior interpretazione a Berlino, e la sua seconda nomination agli Oscar®. La retrospettiva intende riproporre negli Stati Uniti, che le hanno ufficialmente tributato i più alti onori - dall'Oscar® alla stella sulla Walk of Fame di Hollywood - l'orgogliosa passione, l'umorismo tagliente ed il naturalismo alieno dall'affettazione, che hanno reso Anna Magnani il simbolo, se non forse la più sintetica definizione dell'idea del cinema italiano.

Una forma d'arte, esplosa nell'apparizione di Roma città aperta, che mostrò al mondo qualcosa che prima le platee non avevano mai visto così apertamente: quel qualcosa che si divideva tra la nudità del realismo e la gloria, che era la vita portata sullo schermo. Parimenti portata per il dramma e la commedia, così come per il palcoscenico e lo schermo, la Magnani incarnava quella che sarebbe stata la qualità più precisa e insieme inafferrabile del nostro cinema migliore: muovere con lo stesso film il pubblico al riso e alla commozione.

Così, non per caso, la retrospettiva newyorchese dedicata ad Anna Magnani diventa anche l'occasione per riscoprire alcuni capolavori del cinema italiano: da Rossellini (oltre a Roma città aperta, L'amore), Visconti (Bellissima), Pier Paolo Pasolini (Mamma Roma), Federico Fellini (Roma), De Sica (Teresa Venerdì), Lattuada (Il bandito), Monicelli (Risate di gioia), Zampa (L'Onorevole Angelina). Consegnando la diversità di generi e umori che fanno del cinema italiano uno dei più eclettici, ancora oggi, al mondo. E non meno intensa è la visione di pellicole di maestri internazionali: da Cukor, a un film divenuto proverbiale come La carrozza d'oro di Jean Renoir, al Lumet di Pelle di serpente (accanto a un possibile analogo maschile della Magnani, per iconicità ed estensione dei limiti del vero: Marlon Brando), a un film intrecciato alla vicenda biografica con Rossellini come Vulcano di Dieterle, alla Rosa tatuata, scritto da Tennessee Williams appositamente per l'attrice.

E non mancherà per il pubblico del Lincoln Center la visione di pellicole raramente conosciute oltreoceano, come una delle sue prime prove per il cinema, il già citato Tempo Massimo di Mario Mattoli del 1934, o il suo distintivo stile vocale in La vita è bella di Carlo Lodovico Bragaglia, e una delle sue ultime interpretazioni sullo schermo: il dramma storico …Correva l'anno di grazia 1870, di Alfonso Giannetti, la sua unica pellicola a fianco di un altro grande interprete italiano: Marcello Mastroianni, nel 1971

A seguire, dal 2 fino all'8 giugno, Istituto Luce Cinecittà ed il Lincoln Center presenteranno insieme la rassegna di Cinema Contemporaneo OPEN ROADS, giunta alla sua 16a edizione

14/09/15

1998, Un anno d'oro per il cinema italiano: in due giorni si presentano a Cannes 'Aprile' e 'La vita è bella'.



Grande anno per l'Italia, il 1998. Sulla Croisette, a distanza in due giorni vengono presentati La vita è bella di Roberto Benigni (domenica 17 maggio) e Aprile di Nanni Moretti (lunedì 18 maggio), con esiti contrari:  applausi scrocianti e standing ovation per Benigni, risate, pochi applausi e anche qualche fischio per Nanni. 

Il film di Benigni conquista il secondo premio (il Gran Premio della Giuria) - vince L'eternità è un giorno di Theo Anghelopoulos, mentre qualche mese più tardi sbancherà Los Angeles, con tre premi Oscar (miglior film straniero, migliore interpretazione maschile, miglior colonna sonora); ignorato Moretti.

Non potrebbero essere due film più diversi.  La vita è bella è diventato un classico, quasi un miracolo di neo-neo realismo, che la coppia Cerami-Benigni seppe inventare calibrandolo sull'estro smisurato di Benigni e la sua affidabilità di immagine internazionale.  Oggi forse avverte di più il peso degli anni, e quello che nei cineclub degli anni Sessanta veniva definito il messaggio, ha finito per prevalere sui meriti del film, al punto che oggi viene proiettato (giustamente) nelle scuole, più nelle scuole, che nei canali tv. 

Aprile è un film considerato minore di Moretti, che io personalmente continuo ad apprezzare più degli ultimi suoi lavori.  Risente ancora della forma diaristica del film precedente (Caro Diario, 1996), frammentaria, e dappertutto riemerge il folletto irriverente e iconoclasta che aveva fatto irruzione alla fine degli anni '70 nel panorama un po' ingrigito del cinema italiano con Io sono un autarchico e Ecce Bombo.  

In una intervista alla Stampa, il 17 maggio, Fulvia Caprara non risparmia a Nanni una battuta riferita a Vittorio Gassman, il quale intervistato da Le film francais, dice che il film non gli è piaciuto e che il cinema italiano "resta ancora piccolo, provinciale".

L'osservazione di Gassman, in quegli anni giustamente inacidito dalla piega che aveva preso l'industria del cinema italiano, è smentibile proprio dal film di Benigni. E Moretti lo fa osservare:

"Non è vero che si raccontano solo storie piccole, quello di "la vita è bella", per esempio non è certo un tema piccolo. Il problema è che noi tutti abbiamo difficoltà nel raccontare il nostro Paese e le sue contraddizioni. Una cosa che, invece, è riuscita benissimo al cinema inglese."

Insomma, Nanni fece il modesto. 

Ma forse, questa è la mia opinione, hanno raccontato meglio il nostro Paese proprio film anarchici  e un po' folli come Caro Diario e Aprile, che i seriosi film che seguirono, ottimamente confezionati, ma forse privi di vera verve, privi in definitiva, di anima. 



23/04/14

90 anni di Mastroianni - Una bellissima intervista alla figlia Barbara .



Quest'anno il manifesto ufficiale del Festival del Cinema di Cannes, celebra un volto italiano. Lo vedete qui sopra. Quello di Marcello Mastroianni in Otto e Mezzo di Federico Fellini.  
Un grande attore che ha segnato una buona parte del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Ma anche un uomo molto particolare, molto diverso dai divi del cinema molto meno fastoso (almeno quello italiano) di oggi.  Voglio dunque proporvi questa intervista bellissima realizzata da Andrea Purgatori per  Huffington Post a Barbara Mastroianni, una delle figlie di Marcello, che rievoca i ricordi sul padre. 


Che avrebbe detto papà del manifesto di Cannes 2014. Ah, si sono ricordati…”. Ride, Barbara Mastroianni, che di Marcello e Flora Carabella è la figlia. E di quel padre e di quella madre conserva i ricordi più belli e più segreti. “Scherzo. O forse, sì. La battuta l’avrebbe fatta. Mia sorella Chiara me l’aveva anticipato e io le ho detto: sono contenta del tuo entusiasmo e contenta lo sono anch’io. Però mica parliamo di un pivellino alle prime armi a cui hanno fatto il manifesto”.
Si fatica a immaginare che oggi Marcello Mastroianni avrebbe novant’anni. Ma la scelta di Cannes è perfetta. Marcello era proprio quello lì, un po’ nel ruolo e un po’ fuori, sempre disincantato, sempre ironico. E come se lo ricorda Barbara: “Leggero soprattutto, ma di quella leggerezza che non scivolava mai nella superficialità”.
D’altronde anche con l’Oscar non gli è andata bene. Lo sfiorò tre volte, senza mai prenderne uno. Nemmeno alla carriera. Forse è per quello che aveva appeso le nomination in bagno.
“Lo faceva per riderci sù. Gli piaceva avere dei riconoscimenti, ma se non arrivavano non ne faceva una malattia. Non era uno che esibiva i premi. Li teneva quasi tutti in bagno dentro un mobiletto, questo sì. E vicino alle nomination aveva appeso le foto con autografo di Barbara Streisand”.
Resta uno dei simboli del cinema italiano.
“Credo che con lui sia scomparso un gruppo di attori – Gassman, Sordi, Tognazzi, Volontè – che frequentavano generi diversi ma erano dei grandissimi. Io in giro non vedo calibri di quel genere”.
C’era anche una generazione straordinaria di registi.
“Certo, è tutto legato. Per carità, tanto di cappello ai professionisti di oggi. Ma se penso a papà, penso a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare subito dopo la guerra. Un momento irripetibile o che si ripeterà con altri presupposti. Mi spiace dirlo ma adesso non è facile trovare un film che ti faccia correre al cinema”.
L’Oscar a La grande Bellezza?
“Ho provato un grande piacere per il nostro cinema. Una fotografia strepitosa, ma la storia non mi ha appassionato. Non perché papà avesse interpretato La dolce vita, ma forse è il modo diverso di raccontare che non mi ha preso. Anche se devo riconoscere che la società romana è proprio quella che c’è nel film”.
Il manifesto di Cannes celebra soprattutto un divo.
“La foto ironica di un sornione che sembra stia dicendo: “Oh, ma che state a fa’?”.

Mentre Marcello tutto era meno che un divo.
“Per me figlia ma anche spettatrice, e faccio fatica a scindere le due cose, la sua grandezza era soprattutto questa. Non era vanitoso e non si piaceva”.

03/03/14

L'inutile ondata di piena nazionalista per l'Oscar a "La Grande Bellezza."




Lo confesso, sono un antitaliano e un disfattista: non sono tra coloro che esultano per la vittoria dell'Oscar. 

La Grande Bellezza, ne ho scritto già altrove, è un film interessante, tecnicamente superbo (Sorrentino è uno dei migliori registi in circolazione oggi), ma del tutto irrisolto, cioè non riuscito. 

Non riuscito perché - a differenza del modello a cui largamente ed esplicitamente si ispira (il mondo creativo Felliniano) - non riesce mai a tramutare il grottesco, l'orrido o l'inutile in vita vera o in poesia.  Tutti i personaggi restano macchiette, tutto resta solo un arido esercizio di compiacimento estetico. 

L'ondata di entusiasmo nazionalistico a cui si assiste in queste ore poi, è piuttosto imbarazzante. 

L'Oscar al film era dato per scontato e i bookmakers l'avevano ampiamente previsto: La Grande Bellezza contiene infatti tutti gli ingredienti che notoriamente conquistano i cuori americani quando pensano all'Italia: grottesco unito alla bellezza delle antichità.. Roma insomma. E forse è stato concepito così anche per questo.  
L'impresa quindi ha funzionato

E va compresa anche questa ondata di piena, considerando il fatto che sono rimasti pochissimi - quasi inesistenti - i motivi per cui sentirsi orgogliosi di questo Paese.

Ma sentire in queste ore sciorinare attestati retorici sulla grande rinascita del Cinema italiano e della Cultura italiana (tutte e due con la C maiuscola), fa sorridere. 

Probabilmente è vero che il talento creativo italiano - per fortuna - non si è disperso del tutto, e sopravvive miracolosamente - più che altro in forme sommerse e misconosciute dal grande pubblico. 

Ma questo premio americano - generoso per i motivi suddetti - non ci dovrebbe far dimenticare il paragone con il passato (seppure in questo paese si sia persa la capacità di ricordare).
Questo, tanto per fare un esempio, è un elenco dei film che hanno vinto il David di Donatello in Italia nel decennio 1970-1979 (tanto per capire la situazione dell'oggi): 

1970: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri.
1971: Il conformista, regia di Bernardo Bertolucci ex aequo Il giardino dei Finzi-Contini, regia di Vittorio De Sica
1972: La classe operaia va in paradiso, regia di Elio Petri
1973: Alfredo Alfredo, regia di Pietro Germi ex aequo Ludwig, regia di Luchino Visconti
1974: Amarcord, regia di Federico Fellini ex aequo Pane e cioccolata, regia di Franco Brusati
1975: Fatti di gente perbene, regia di Mauro Bolognini ex aequo Gruppo di famiglia in un interno, regia di Luchino Visconti
1976: Cadaveri eccellenti, regia di Francesco Rosi
1977: Il deserto dei Tartari, regia di Valerio Zurlini
1978: In nome del Papa Re, regia di Luigi Magni
1979: Cristo si è fermato a Eboli, regia di Francesco Rosi ex aequo L'albero degli zoccoli, regia di Ermanno Olmi.

Fabrizio Falconi

09/09/13

E' morto Alberto Bevilacqua. Il torto di essere poliedrico.





La scomparsa di Alberto Bevilacqua rende un po' più povero il panorama - già di per sè non particolarmente esaltante - della produzione culturale italiana.  

Bevilacqua, che esordì giovanissimo, a soli 19 anni, con la raccolta di racconti La polvere sull'erba, ha scritto molto (secondo alcuni, troppo), ma soprattutto ha commesso un 'errore' che non gli è stato mai perdonato dalla critica militante italiana (quella che esisteva fino a qualche anno fa e che poi si è dissolta, insieme a quella che una volta veniva definita cultura alta, disciolta in mille congreghe perlopiù virtuali e perlopiù irrilevanti, come è quasi del tutto irrilevante, tranne poche eccezioni, almeno a livello internazionale, la cultura italiana): quello di assecondare il proprio talento poliedrico.  

Se infatti in Italia viene già perdonato a fatica il fatto di avere un talento, specie in campo culturale, viene invece ritenuto del tutto imperdonabile avere più talenti, un tipo di figura intellettuale che di contrario nel mondo anglosassone o in Francia, per esempio, viene ben considerata. 

Bevilacqua ha avuto la presunzione di scrivere molti romanzi, di scrivere racconti e piccoli e lunghi saggi, di scrivere poesia e addirittura di dedicarsi al cinema con la realizzazione di ben otto film, tra i quali i primi due, La Califfa (1970) e Questa specie d'amore (1972) che erano tratti da suoi romanzi e che ottennero premi e riconoscimenti importanti, fuori e dentro l'Italia. 

Ha poi avuto anche l'ulteriore torto,  probabilmente dovuto al narcisismo che accomuna molti intellettuali, e questo ancora più grave e imperdonabile di concedersi al trash di trasmissioni televisive (ah, la televisione!) in qualità di ospite e di opinionista.

Questo pesa e peserà non poco - in Italia funziona così - sulla valutazione del Bevilacqua scrittore. E di quello regista o di quello di intellettuale a tutto tondo.  

Bisognerà aspettare, come è successo molte volte in passato, il transito del tempo, il trascorrere magari di una generazione o due, e forse anche su Bevilacqua sarà possibile esprimere un parere più serio, più obiettivo.

E magari scoprire una dote piuttosto rara che ha permeato molte delle sue opere: la sincerità.

Fabrizio Falconi.

06/09/13

Una bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il "Gesù" di Pasolini - di Marco Cicala.





Sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica, Marco Cicala ha pubblicato questa bellissima intervista a Enrique Irazoqui, il Gesù di Pasolini (nel Vangelo Secondo Matteo).  La riporto qui integralmente perché oltre ad essere scritta benissimo è piena di aneddoti e di ricordi di un personaggio singolare, quale è appunto Irazoqui, praticamente scomparso dalle scene dopo quel clamoroso esordio.  La vicenda appare realmente una sorta di film nel film. Buona lettura. 

Cadaqués. 

Gesù non beve. Fu­mava, ma ha smesso. Era marxista. Ha smesso. Da giovane, l'ha stracciato a scacchi il princi­pe del dadaismo; ha rubato la scena al pa­dre della beat generation; ha mangiato i tortellini in trattoria con Elsa Morante. Eandava da Rosati assieme a quelli che an­davano da Rosati: Guttuso, Moravia, Maraini: «Ma se c'era Elsa, Dacia non veniva». 

Vabbè però adesso basta col giochetto: Gesù si chiama Enrique Irazoqui e nella sua vita avanti Cristo era uno studente di econo­mia all'università di Barcellona. Militava pure nel sindacato giovanile. Comunista. Clandestino. Perché al volante della Spagna c'era Francisco Franco. Per via della madre (nata, quasi un presagio, a Salò) Enrique sela sbrogliava bene con l'italiano, e così il Par­tito lo spedì a Firenze e Roma in missione speciale. Si trattava di cercare appoggi tra i big della politica e della cultura. Sostegno pecuniario, ma non solo: «Volevamo invitar­li in Spagna a tenere conferenze contro ladittatura. Se li lasciavano parlare, bene. Se li arrestavano, pure meglio. Lo scandalo ci avrebbe fatto ancora più gioco». 

Era il feb­braio 1964. Irazoqui aveva 19 anni e un bel volto angoloso da antico eresiarca. In Italia venne preso in consegna da un gentil accompagnateur del Pci. Gli fecero vedere La Pira, Pratolini, Nenni, Bassani... Per ultimo lo por­tarono all'Eur, da Pasolini. Avvertendolo: «Guarda che è poeta. E omosessuale». Enrique Irazoqui sedeva a casa di PPP e quello lo ascoltava in piedi, girandogli intor­no senza spiccicare parola. Alla fine disse: «D'accordo, verrò in Spagna. Ma prima tu devi farmi un favore». Quale? «Interpretare Gesù nel mio prossimo film». Pardon? «Sarà un racconto epico-lirico, in chiave nazional-popolare, sai Gramsci? Dobbiamo restituireCristo al popolo. Perché gli è stato rubato dalla classe dominante». Irazoqui era allibito. «Risposi di no. Per me la religione significava il cattofascismo franchista. Ero un ateo militante. Fedele al motto di Kropottón secondo cui L'unica chie­sa che illumina è quella che brucia». Parole sante, «ma non ti hanno mandato in Italia anche a raccogliere soldi?» gli bisbigliò, luciferino, l'emissario del Pci. «Guarda che se accetti sono m-i-l-i-o-n-i». Eh già. Allora affa­re fatto. Prodigi del materialismo dialettico. Tempo pochi giorni, Enrique, ancora mino­renne, ottiene il nihil obstat dei genitori. Sarà sua madre a negoziare il contratto col pro­duttore Alfredo Bini. 

Le riprese del Vangelo secondo Matteo lo porteranno a Barletta, Crotone, Matera... Un Meridione dove «i vol­ti degli uomini parevano scavati nel diaman­te e nel carbone». Un sud «molto, ma moolto più sud di quello spagnolo». Nelle pause di lavorazione, donne di nero vestite gli chie­devano miracoli. Così, a la carte. Ma poi sor­prendendolo con la cicca in bocca, si ritira­vano sdegnate. Perché Cristo non fuma. Temendo che a quasi mezzo secolo dal film non lo riconoscessi, Irazoqui mi è venuto incontro benedicendo. Porta un panama si­gnorile e scarpe minorchine. 

Da anni vive qui a Cadaqués, che fu la Saint-Tropez catalana e il Vittoriale mediterraneo, ora casa museo, di Salvador Dalí. «Quel fascistone» dice En­rique accenando alla (brutta) statua del Divi­no, che domina la baia e lo ritrae molto più ricciuto del vero: diresti Sor Pampurio. Sediamo nel bar accanto a quello dove Irazoqui, giocatore precocissimo e temibile, batteva a scacchi Duchamp: «Era stato un asso, ma ormai aveva i suoi anni. Alla fine, la moglie Teeny mi pregò: Evita le partite con Marcel, che poi la notte sta lì a rimuginare e non mi dorme». C'era anche John Cage: «Simpa­ticissimo. Mai visto scacchista peggiore» sogghigna Gesù. E punzecchia: «Vediamo se anche lei mi farà la domanda che tutti mi ri­volgono nelle interviste. Quale? Glielo dirò alla fine». 

intervista pubblicata dal Venerdì di Repubblica e ripresa da Pasolini.net

16/10/12

Fellini e il finale di Otto e mezzo - Un inedito.




Forse questa è solo la storia di un film che non ho fatto.  

Mi ricordo che all'inizio, parlo almeno di un anno e mezzo fa, volevo mettere insieme un ritratto a più dimensioni di un personaggio sui quarantacinque anni che, in un momento di sosta forzata (il fegato, una cura termale in un posto tipo Chianciano, la giornata scandita da orari nuovi e precisi, il riposo, il silenzio, e intorno una folla insolita e malata, sovrani nordici e contadine, vecchi cardinali e mantenute un po' acciaccate), sprofonda pigramente in una specie di verifica intima. 

Quasi inevitabilmente gli passano davanti fantasie e ricordi, sogni e presentimenti.  Non riuscivo, all'inizio, a dargli una carta d'identità, al protagonista.  Restava un personaggio generico, piombato in una certa situazione, e credevo che non fosse necessario definirlo meglio.  

Ma il film non riusciva a fare un passo avanti. Per quanto se ne discutesse con gli sceneggiatori, Flaiano, Pinelli e Rondi, non restava altro che l'idea del film.  Poi il personaggio è diventato finalmente un regista che tenta di riunire i brandelli della sua vita passata per ricavarne un senso e per tentare di capire. Anche lui ha un film da fare, che non riesce a fare.

A un certo punto lo troviamo perfino ai piedi di una gigantesca rampa per missili: da quella rampa, nel suo film, dovrebbe partire un'astronave, con il compito di portare in salvo, verso chissà quale altro pianeta, i resti dell'umanità distrutta dalla peste atomica.    Proprio lì, sotto il castello di tubi e di pedane, il mio protagonista dice a se stesso: 

"Mi sembrava di avere le idee chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi sembrava di avere qualcosa di molto semplice da dire: un film che servisse, un po' a tutti, a seppellire quello che di morto ci portiamo dentro. Invece sono io il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio un bel niente.  E adesso mi trovo qui con questa torre tra i piedi e una gran confusione nella testa. Chissà a che punto avrò sbagliato strada." 

Federico Fellini descrive così - su invito del settimanale - le immagini di Tazio Secchiaroli sul set di Otto e mezzo, pubblicate in anteprima assoluta da L'Europeo del 6 gennaio 1963, pag.38.


08/10/12

Fellini e la Saraghina - un inedito.





Questa è la Saraghina. L'ho conosciuta davvero: un donnone monumentale che abitava in una strana tana, un fortino semidistrutto che risaliva all'altra guerra, sulla costa adriatica.   

Dalle mie parti le "saraghine" sono i pesci che mangiano i poveri, quello che resta in fondo ai cesti delle paranze e che si dà via per niente. 

Quel donnone, i pescatori lo pagavano così.

Avrò avuto nove anni, un giorno rimediai qualche soldo e con degli altri ragazzotti andai a trovare la Saraghina. Mi ricordo che a un certo momento si mise a ballare muovendo il gran pancione con sussulti da terremoto che ci turbavano e ci spaventavano. 

Ora nell'harem ho messo anche lei.  E' difficile da credere, con quel trucco in faccia, ma l'interpreta una soave signora che nella vita fa la professoressa di tedesco, a Milano.  

Detto questo, però non vorrei far pensare che il film è la storia segreta di un erotomane. Assolutamente no. Ma allora, che cosa è, questo 8 e 1/2 ?


Federico Fellini descrive così - su invito del settimanale - le immagini di Tazio Secchiaroli sul set di Otto e mezzo, pubblicate in anteprima assoluta da L'Europeo del 6 gennaio 1963, pag.36.


 

16/09/11

Intervista a Suso Cecchi D'Amico - "Il perfetto incrocio tra letteratura e cinema" di F. Falconi





Suso Cecchi  D'amico, la sceneggiatrice che da "Senso" a "Oci Ciornie" ha scritto una porzione notevole del cinema italiano, compie 75 anni. E forse proprio in questa occasione e per rendere omaggio ad un'autrice che insieme a Visconti ha firmato pellicole memorabili, la Dedalo pubblica una biografia illustrata che ripercorre le tappe importanti della sua carriera di sceneggiatrice (Scrivere il cinema, a cura di Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, pagg.160, 80 ill.)

Abbiamo chiesto a Suso Cecchi D'Amico di spiegarci quale è stato in questi anni il suo rapporto con il cinema.

"E' stato soprattutto un rapporto di lavoro, di duro lavoro.  Io non considero il cinema, come fatto in sè, mezzo espressivo e sublime. Sotto questo punto di vista sono convinta che la letteratura abbia un valore assoluto superiore.  La letteratura può essere arte allo stato puro.  Nel cinema, invece, il raggiungimento della poesia dipende da troppi fattori di natura tecnica, il cinema è un lavoro di équipe."

Quindi anche la sceneggiatura non può essere considerata un'opera autonoma ?
"Beh credo che in tutti questi anni di storia del cinema la sceneggiatura abbia acquistato una sua dignità di opera d'arte autonoma. E' chiaro che si tratta di una forma ibrida, che non è letteratura e nemmeno film, fino a che un regista non decida di realizzarla, di tradurla in immagini."

Eppure in alcuni casi, come in certi film di Visconti a cui lei ha collaborato, il cinema è indubitabilmente un'opera d'arte.
"Nel caso di Visconti certamente sì. Ma Luchino aveva un retroterra culturale spaventosamente ampio. La sua famiglia fu la prima a poter leggere Proust in Italia. Luchino lo lesse da giovanissimo, ne fu completamente 'imbevuto'. Al punto tale che solo lui avrebbe potuto realizzare il famoso film tratto dalla Recherche. Purtroppo, quando eravamo pronti ad imbarcarci nell'impresa che ci appariva difficilissima - ma intanto la sceneggiatura era già scritta - sorsero dei problemi con la produzione. Luchino disse che avrebbe fatto un altro film e subito dopo avrebbe iniziato Proust.  Invece, dopo le riprese di Ludwig, sopraggiunse la malattia e fu impossibile realizzare la Recherche.  I due film seguenti furono girati in condizioni di immobilità. A pensarci bene non so neanche io come riuscì a fare Gruppo di famiglia in un interno e L'innocente."

A suo giudizio quale rimane il film più felice, frutto della sua collaborazione con Visconti ?
"Sono ancora del parere che sia Il Gattopardo il modello, per la sua riuscita e per la fedeltà all'opera letteraria. Io sono convinta che per essere molto fedeli al testo letterario, bisogna in qualche modo trasgredirlo.  Ne è una riprova il fatto che quando facemmo Lo straniero da Camus, fu un totale fallimento. Camus era morto da poco e i francesi non avrebbero tollerato nessun cambiamento, così cercammo di riprodurre fedelmente il libro e il risultato fu molto modesto, anche per l'inadeguatezza di Mastroianni che non era molto credibile nella parte.  Nel Gattopardo, invece, aver fatto a meno della seconda parte del libro, quella dei 'vent'anni dopo', ha fatto sì che il film assumesse il ritmo lento, giusto, quello del romanzo. "

Quindi cosa significa "interpretare" un testo ?
"Significa lavorare sui toni, provare e provare fino ad arrivare alla uniformità assoluta del colore.  Co sono esempi di interpretazione perfetta del testo letterario. Per esempio uno che ho sempre ammirato è Pinter, che ne La donna del tenente francese ha raggiunto ottimi risultati. Non così invece con Proust che Pinter sceneggiò per Schlondorff. Ne venne fuori davvero un brutto film: d'altronde Pinter stesso aveva confessato di non aver mai letto Proust."

E oggi invece come le sembra la situazione dei nuovi sceneggiatori, dei nuovi autori del cinema italiano ?
" Devo dire di trovarmi un po' disorientata di fronte a certe tendenze: quando, per il fatto di essere in giuria al Premio Solinas, mi metto a leggere le sceneggiature dei nuovi autori scopro che c'è un totale disinteresse per i dialoghi.  Mentre invece ci sono grosse indicazioni, dettagliatissime, per esempio sulla scelta delle musiche, dei singoli pezzi musicali.  Ecco, francamente credo che  i dialoghi non vadano trascurati, specialmente quando si tratta di un film in costume.  D'altronde però noto che non è scomparso ancora il piacere di raccontare.  E questo secondo me è un bene: possiamo discutere all'infinito se un film sia o no opera d'arte, ma credo che alla fine questo non conti niente.  Io continuo a vedere film e siccome mi piace vederli, continuo a preferire che mi raccontino storie, delle vere storie."

Fabrizio Falconi, Il perfetto incrocio tra letteratura e cinema, intervista a Suso Cecchi D'Amico, Paese Sera, 11 marzo 1989.