17/01/21

La poesia della domenica: "Tutto si perde" di Angelo Maria Ripellino

 




Tutto si perde
  Tutto si perde in un vischioso, amorfo disperato brulichio di amebe, in un nauseante pantano di miele. Tutto s’ingolfa in un giallo, in un putrido magma di cisposa fanghiglia, naufraga nella morchia d’una gora, tra un funesto corale di gufi. Tutto il tuo fervore, la tua fretta d’incollare i frantumi della vita, tutto l’entusiasmo con cui edifichi in ore felici viadotti di immagini, teatrini di parole imbellettate, tutto è corroso dall’indifferenza, dalla pigrizia, dal cruccio di chi ti circonda. Tutto s’accartoccia e si deforma nello specchio ricurvo dell’accidia, tutto raggela in un abulico stupore, come una vecchia città spaventata. E intanto da ogni piega dello spazio ammicca, guercio e beffardo, il Burlesco, intanto squilla sempre più vicina la lunghissima tromba del Giudizio.


Angelo Maria Ripellino (Palermo, 4 dicembre 1923 – Roma, 21 aprile 1978)

15/01/21

Ma cos'era esattamente - e come era fatta - l'Arca dell'Alleanza?



Si continua a parlare, ovunque nei siti più o meno rigorosi sui temi di archeologia e misteri, della famosa Arca dell'Alleanza, sulla quale anche il cinema, dai tempi di Indiana Jones e anche prima, ha favoleggiato a lungo. 

Ma che cosa era esattamente l'Arca dell'Alleanza, in pochi veramente lo sanno. 

Sarà bene dunque ripassare: 

L'Arca dell'Alleanza (in ebraico ארון הברית, ʾĀrôn habbərît, pronuncia moderna /aˌʀon habˈʀit/), secondo la Bibbia, era una cassa di legno rivestita d'oro e riccamente decorata, la cui costruzione fu ordinata da Dio a Mosè, e che costituiva il segno visibile della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.

L'Arca è descritta dettagliatamente nel libro dell'Esodo (25, 10-21; 37, 1-9): era una cassa di legno di acacia rivestita d'oro all'interno e all'esterno, di forma parallelepipeda, con un coperchio (propiziatorio) d'oro puro sul quale erano collocate due statue di cherubini anch'esse d'oro, con le ali spiegate (cherubini di tradizione ebraica, diversi da quelli di tradizione cristiana). 

Le dimensioni erano di due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza e altezza, ovvero circa 110×66×66 cm

Ai lati erano fissate con quattro anelli d'oro due stanghe di legno dorato, per le quali l'arca veniva sollevata quando la si trasportava

All'interno della cassa erano conservati un vaso d'oro contenente la manna, la verga di Aronne che era fiorita e le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;). 

Tuttavia, al momento dell'inaugurazione del Tempio di Salomone non conteneva altro che le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2 Cronache 5, 2-10). 

Il compito di trasportare l'arca era riservato ai leviti: a chiunque altro era vietato toccarla

Quando Davide fece trasportare l'arca a Gerusalemme, durante il viaggio un uomo di nome Uzzà vi si appoggiò per sostenerla, ma cadde morto sul posto (2 Samuele 6, 1-8, 2 Cronache 13, 9-10). 

Secondo la tradizione l'arca veniva trasportata coperta da un telo di pelle di tasso coperto da un ulteriore telo di stoffa turchino (Num. 4:6) e, quando il popolo ebraico si fermava, veniva posta in una tenda specifica, definita "Tenda del Signore" o "Tenda del convegno" senza che venisse mai esposta al pubblico, se non in casi eccezionali. 

Inoltre la leggenda vuole che l'arca, in alcune situazioni, si adornasse di un alone di luce e che da essa scaturissero dei lampi di luce divini, delle folgori, capaci di incenerire chiunque ne fosse colpito e nel caso non avesse rispettato il divieto di avvicinarvisi; infine, tramite l'arca, Mosè era in grado addirittura di parlare con Dio che compariva seduto su un trono fra i due cherubini che ornavano il coperchio e che rappresentano l'angelo Metatron e l'angelo Sandalphon.

fonte: wikipedia

13/01/21

Recensione di "Nessun pensiero conosce l'amore" di Fabrizio Falconi (di Vernalda Di Tanna)




Nessun pensiero conosce lʼamore, Fabrizio Falconi (Interno Poesia, 2018)

Lʼultima raccolta poetica di Fabrizio Falconi, Nessun pensiero conosce lʼamore (Interno Poesia, 2018), si scinde in quattro sezioni (In rotta; I nomi, le cose; Profezia dal colle esoterico; Luce di passaggio). Questa raccolta è una ubbidiente cronaca della storia/ dellʼistante, storia in cui il tempo collassa perché si sono rotti i tre orologi/ si è fermato il tempo/ […] è finita lʼarte di attendere. Lʼattesa si dilata tra il pensiero e l’amore.
Ogni pagina di questo libro profuma di mistero, a cominciare dallʼuso dei latinismi. Lʼautore spinge il lettore a rimuginare su ogni singola parola attraverso versi sinestètici e simbolici (sole nero, pioggia azzurra, sorriso rosso), nei quali risplende una costellazione semantica di natura esoterica. Immagini ricorrenti e dense che riproducono unʼatmosfera incognita sono quelle relative alle salite e alle discese, alle foreste, allʼilluminazione e allʼoscurità, alla morte e ad una rinascita non solo in termini esoterici ma anche filosofici, nietzscheani (NellʼAde dovʼero stato tradotto/ nessuno parlava la mia lingua/ ero perduto nello stato libero incosciente/ mescolato al resto, indefinito e inesistente/ […] ero una scintilla senza attese// poi nacqui// e invano cercavo Proserpina/ in quest’altro Ade dovʼero adesso/ senza poter risalire; Pethos, la dea della persuasione/ mi venne incontro/ sotto l’aspetto irresistibile di una madre/ incoraggiandomi ad essere,/ nel suo abito mi accolse/ e in una forma nuova ero perduto/ di nuovo e per sempre/ imparando che quel dolore dal quale/ ero stato formato, creato/ un giorno sarebbe diventato un’altra nascita/ ancora/ nel ritorno eterno/ di ogni passaggio).
Il filo conduttore, almeno nella prima sezione (In rotta), probabile metafora di un viaggio interiore, iniziatico (la trappola muta della caduta/ verticale che lo aspettava), sotto la guida di Orione, sembra legarsi alla sfera marina (mare, vele, porto, ecc…). Salta allʼocchio il numero tre, in particolare, che ricorre anche ne i tre archi, una poesia che richiama alla memoria in qualche maniera lʼarco di Costantino. Nella sezione Profezia dal colle esoterico, preghiera poesia e profezia coincidono, anche quando il cervello e il cuore sembrano scollegati sia dal punto di vista sentimentale che da quello religioso e razionale.
Cʼè tutto un percorso tra la vita e la morte, nel quale sʼinserisce un ulteriore percorso, quello della rinascita. Ciò che conta di più è proprio la rinascita, non la morte (ma non mi interessa sapere/ quante volte sei morto. mi interessa/ sapere quante volte sei rinato). Il corpo morto è come una cosa che si rompe/ e succede, ma come direbbe Leonard Cohen: in ogni cosa c’è una crepa ed è da lì che entra la luce. Lʼio si dilata nelle cose, sembra disciogliersi tra gli elementi e poi ricomporsi in maniera sempre rinnovata, tende alla luce. In questa direzione, cioè verso la luce ed il biancore, si volge la poesia Nur. Un titolo – che è anche un nome – enigmatico: significa luce e racchiude in sé un concetto chiave del Sufismo; cioè, in termini spirituali, Nur è ciò che unisce lʼessenza alla conoscenza.
Se, però, lʼimmobilità conquista il pensiero, allora nessun pensiero comprende lʼamore/ […] lʼamore si sconta nelle ore insonni/ nel vento muto che agita il dolore/ nello spazio disciolto dove cerchiamo lʼuno e siamo/ molteplici. Il cuore è anarchico, in una sede vacante (un cuore, un cuore soltanto/ conosce tutto, e non c’è verso).
Infine, Fabrizio Falconi ci ricorda cosa sono la fragilità e la resistenza dellʼamore, nonché la loro importanza sia per il sé che per lʼaltro da séperdere se stessi/ è molto più facile/ che perdere chi si ama.
 

12/01/21

Libro del Giorno: "La società della stanchezza" di Byung-Chul Han

 


Uno dei saggi più conosciuti di Byung-Chul Han, nato a Seul, e considerato uno dei piú interessanti filosofi contemporanei, docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, che ha pubblicato con Nottetempo amche Eros in agonia (2013, 2019), La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015), Psicopolitica (2016), L’espulsione dell’Altro (2017), Filosofia del buddhismo zen (2018), La salvezza del bello (2019) e Che cos’è il potere? (2019).

In questo suo testo, di grande lucidità, Byung-Chul Han analizza il disagio dell’individuo tardo-moderno nelle odierne società della prestazione e della competizione. 

Rivisitando alcune categorie classiche del pensiero novecentesco, l’autore osserva come l’ossessione dell’iperattività e del multitasking produca disturbi di natura depressiva e nevrotica, e interpreta questo malessere come un’incapacità a gestire la negatività dell’esperienza, in un mondo caratterizzato dall’eccesso produttivo e dalla disponibilità universale di merci e persone. 

Una denuncia dell’odierna “società della stanchezza”, in cui ogni reazione al modello sociale dominante rischia di essere inibita da un senso d’impotenza.

Riporto qui di seguito, l'affascinante incipit del testo (che risulta anche quanto mai attuale. Han ha scritto nel 2013,    quando era ancora difficile immaginare lo sviluppo di una pandemia come quella attuale):

La violenza neuronale 

Ogni epoca ha le sue malattie. Cosí, c’è stata un’epoca batterica, finita poi con l’invenzione degli antibiotici. Nonostante l’immensa paura di una pandemia influenzale, oggi non viviamo in un’epoca virale. L’abbiamo superata grazie alla tecnica immunologica. Sul piano delle possibili patologie, il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)2, il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo.

Byung-Chul Han 

La società della stanchezza 

traduzione: Federica Buongiorno 

pagine: 130 Euro 14 

Data Pubblicazione: 01/02/2012 

11/01/21

Libro del Giorno: "Benedizione" di Kent Haruf

 


In fondo nella storia della letteratura moderna - quella che per intenderci parte dalla grande cesura tra fine Ottocento e primi del Novecento - è possibile distinguere due grandi filoni stilistici: il primo - che può farsi risalire a Proust e seguentemente a Joyce, Henry James, ecc.. -  nel quale è preponderante la descrizione e lo studio della psicologia umana, dei sentimenti umani, dei pensieri umani; il secondo - che può trovare la sua radice in Cechov e seguentemente in una parte rilevante della letteratura americana, da Hemingway a John Fante a Carver - nel quale invece è prevalente la descrizione dei caratteri e delle cose umane, di quello cioè che succede e che viene narrato.  Di questa seconda grande categoria sono eredi oggi scrittori dalla narrativa limpida ma estremamente distillata, che quasi mai si dilungano in descrizioni dei sentimenti o delle emozioni, ma che lasciano che questi emergano dal racconto più o meno particolareggiato, dalla osservazione nuda delle cose e di minimi effetti narrativi.  

Per far ciò, è chiaro, bisogna essere grandi narratori.  E' relativamente più facile dedicare venti o trenta pagine alla descrizione di un sentimento o di una serie di sentimenti dei protagonisti, che far emergere questi, cioè il mondo interiore dei personaggi dal semplice racconto, "nudo e crudo" di quel che succede loro. 

Nel caso di Haruf, come scrive bene l'ottimo traduttore Fabio Cremonesi, nella pagina della nota finale, tutto si gioca tra semplicità ed esattezza.

Normalmente si pensa che semplicità ed esattezza vadano difficilmente d'accordo, presumendo che per una descrizione accurata occorrano molte parole, molte frasi, molti pensieri. E che, di converso, una narrazione piana e scarna possa essere evocativa, ma non esatta. 

Ad Haruf riesce invece il miracolo di una narrazione scarnificata, ridotta all'essenziale, con parole centellinate e frasi di poche o pochissime parole e dialoghi perfino non virgolettati, e però estremamente esatta. 

Cosa che rende ancora più difficile la sfida del traduttore. 

Haruf, scomparso nel 2014, è diventato negli ultimi anni uno scrittore di culto, anche in Italia, specialmente con la cosiddetta Trilogia della Pianura, di cui Benedizione è il primo capitolo. 

Nella Trilogia, ma anche negli altri romanzi di Haruf, vengono raccontate storie relative a persone qualunque, ambientate in una immaginaria cittadina del Colorado, Holt, ritagliata sul modello della cittadina nella quale lo scrittore ha vissuto a lungo. 

In questa profonda provincia americana, tra il nulla e le montagne, accadono le vicende ordinarie di uomini e donne, vecchi e bambini, ordinari:  Dad, il vecchio gestore del ferramenta del paese sta morendo di cancro. Sua moglie, Mary, lo accudisce amorevolmente fino alla fine, senza staccarsi da lui.  Anche la figlia Lorraine accorre al capezzale e si rende utile. Il figlio Frank invece no: dopo aver scoperto la sua omosessualità si è allontanato dal padre dopo un duro conflitto e non ha mai fatto ritorno a casa.   Intorno a loro si muovono le esistenze di altri personaggi: l'anziana Willie con la figlia Aline, il pastore Lyle con la moglie e il figlio, che prende alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e manda su tutte le furie la comunità della cittadina, i vicini di casa, premurosi e dolenti come gli altri attori di questo racconto: ciascuno con la sua croce, con le sue speranze, con la sua voce umile ma viva. 

Ed è forse questo il più grande pregio dei libri di Haruf: la capacità di raccontare la vita vera. Senza orpelli, compiacimenti, giochi letterari, con un realismo minimo ma profondamente intenso perché vero. E soprattutto con un tono di speranza che si accende inaspettato dietro il grigiore che sembra pervadere tutto: la capacità di cercare la luce nella tenebra. Questo è quello che fanno gli indimenticabili personaggi di Haruf. Forse è proprio quello che succede anche nelle nostre vite.

Kent Haruf

Benedizione 

Traduzione di Fabio Cremonesi

NNE Edizioni

pp.275 Euro 17,00 

08/01/21

Il DNA degli antichi romani ricostruito: si è modificato nel tempo seguendo le fasi storiche di ROMA


Il DNA dei romani si è modificato nel tempo seguendo l’evoluzione delle fasi storiche che hanno segnato la vita e la crescita della città
che al suo culmine ha raggiunto per prima al mondo la popolazione di un milione di abitanti come capitale di un Impero che univa tra loro tre continenti

Lo rivela uno studio genetico, unico nel suo genere pubblicato sulla prestigiosa rivista Science.

Allo studio hanno partecipato un gruppo misto di ricercatori di diverse università tra le quali Harvard, La Sapienza e l’Università di Vienna. 

La ricerca ha analizzato campioni di DNA umano provenienti da 29 siti archeologici presenti nell’area intorno a Roma (Lazio e, in un caso anche Abruzzo) e che coprono un arco temporale che va dal Paleolitico all’Era Moderna (in tutto un arco temporale di circa 12 mila anni) appartenenti a 129 individui. 

“Si è trattato - ha detto all’agenzia Agi Alfredo Coppa, docente di Antropologia fisica alla Sapienza che ha partecipato allo studio - di un lavoro unico nel suo genere perché ha focalizzato l’evoluzione nel tempo del DNA di una città che ha avuto un ruolo molto importante nella storia globale”.

I risultati raccolti hanno così permesso di intrecciare il variare del mix genetico presente negli individui che hanno vissuto a Roma e nei suoi immediati dintorni con l’evoluzione dell’organizzazione urbana del territorio e, dopo la fondazione di Roma, anche con il variare della sua funzione, prima a carattere squisitamente regionale, poi italica, imperiale e globale e fino alla crisi dell’Impero e al successivo medioevo. 

 Ad ogni mutazione di questi assetti, corrispondono mutazioni nel mix di discendenti che caratterizzano il profilo genetico degli antichi romani. Così accade che il profilo genetico dei più antichi abitanti del territorio che diventerà poi Roma, intorno a 6 mila anni prima di Cristo, evidenzia la presenza di antenati di origine anatolica, e sorprendentemente anche iraniani

Successivamente, tra 5 mila e 3 mila anni fa, i DNA analizzati restituiscono l’arrivo di popolazioni dalla steppa ucraina. Con la nascita di Roma e il costituirsi dell’Impero Romano, la variabilità genetica cambia e incrementa ulteriormente. Per questo momento, il DNA “legge” arrivi dai diversi territori dell’impero, con una predominanza dalle aree mediterranee orientali e soprattutto dal Vicino Oriente. Gli eventi storici segnati dalla scissione dell’Impero prima e dalla nascita del Sacro Romano Impero comportano un afflusso di ascendenza dall'Europa centrale e settentrionale

“Non ci aspettavamo di trovare una così ampia diversità genetica già al tempo delle origini di Roma, con individui aventi antenati provenienti dal Nord Africa, dal Vicino Oriente e dalle regioni del Mediterraneo europeo", sottolinea Ron Pinhasi, che insegna Antropologia evolutiva all'Università di Vienna nonché uno dei senior authors dello studio, insieme a Jonathan Pritchard, docente di Genetica e Biologia all’Università di Stanford e ad Alfredo Coppa, docente di Antropologia fisica alla Sapienza. 

Per gli autori la parte più interessante doveva ancora venire. Sebbene Roma fosse iniziata come una semplice città-stato, in una manciata di secoli conquistò il controllo di un impero che si estendeva fino al nord con la Gran Bretagna, a sud nel Nord Africa e ad est in Siria, Giordania e Iraq. L'espansione dell'impero facilitò il movimento e l'interazione delle persone attraverso reti commerciali, nuove infrastrutture stradali, campagne militari e schiavitù. Le fonti e le testimonianze archeologiche indicano la presenza di stretti collegamenti tra Roma e tutte le altre parti dell'impero. Roma, infatti, basava la sua prosperità su beni commerciali provenienti da ogni angolo del mondo allora conosciuto. I ricercatori hanno scoperto che la genetica non solo conferma il quadro storico-archeologico, ma lo rende più complesso e articolato.

Nel periodo imperiale, si assiste ad un enorme cambiamento nell’ascendenza dei Romani: prevale l’incidenza di antenati che provenivano dal Vicino Oriente, probabilmente a causa della presenza in quei luoghi di popolazioni più numerose, rispetto a quelle dei confini occidentali dell'Impero romano. 

 "L'analisi del DNA ha rivelato che, mentre l'Impero Romano si espandeva nel Mar Mediterraneo, immigranti dal Vicino Oriente, Europa e Nord Africa si sono stabiliti a Roma, cambiando sensibilmente il volto di una delle prime grandi città del mondo antico”, riporta Pritchard, membro di Stanford Bio-X. I secoli successivi sono caratterizzati da eventi tumultuosi come il trasferimento della capitale a Costantinopoli, la scissione dell'Impero, le malattie che decimarono la popolazione di Roma e infine la serie di invasioni, tra cui il saccheggio di Roma da parte dei Visigoti nel 410 d.C. Tutti questi eventi hanno lasciato il segno sull’ascendenza della città, che si è spostata dal Mediterraneo orientale verso l'Europa occidentale. Allo stesso modo, l'ascesa del Sacro Romano Impero comporta un afflusso di ascendenza dall'Europa centrale e settentrionale

"Per la prima volta uno studio di così grande portata è applicato alla capitale di uno dei i più grandi imperi dell'antichità, Roma, svelando aspetti sconosciuti di una grande civiltà classica", dichiara Alfredo Coppa. "Assistiamo al coronamento di 30 anni di ricerche del Museo delle Civiltà sull'antropologia dei Romani e un nuovo tassello si è aggiunto alla comprensione di quella società così complessa ma per molti versi ancora così misteriosa" aggiungono Alessandra Sperduti e Luca Bondioli del Museo delle Civiltà di Roma. 

Lo studio su Roma è stato affrontato con le più moderne tecnologie per il DNA antico che questo gruppo di ricerca utilizza da oltre un decennio, allo scopo di chiarire dettagli non leggibili nel record storico, ha affermato Pritchard. "I documenti storici e archeologici ci raccontano molto sulla storia politica e sui contatti di vario genere con luoghi diversi – ad esempio commercio e schiavitù – ma quei documenti forniscono informazioni limitate sulla composizione genetica della popolazione". “I dati sul DNA antico costituiscono una nuova fonte di informazioni che rispecchia molto bene la storia sociale di individui di Roma nel tempo", afferma Ron Pinhasi. "Nel nostro studio ci siamo avvalsi della collaborazione e del supporto di un gran numero di archeologi e antropologi che, aprendo per noi i loro archivi, ci hanno permesso di inquadrare e interpretare meglio i risultati ", conclude Alfredo Coppa. 

07/01/21

L'incredibile assalto al Congresso Americano: la profezia di Gore Vidal




Lo sconcerto provocato dalle immagini televisive che ieri sera hanno raccontato l'inedita e scioccante scena dell'assalto violento al Congresso Americano da parte dei sostenitori di Donald Trump, fa tornare in mente le parole profetiche scritte da uno dei più feroci critici del sistema americano, Gore Vidal, il quale nel suo Il declino e la caduta dell'Impero americano, uscito nel 1992, scriveva: 

Ogni quattro anni la metà ingenua che vota è incoraggiata a credere che se possiamo eleggere un presidente o una donna veramente simpatici, tutto andrà bene. 

Ma non lo sarà. 

Qualsiasi individuo che sia in grado di raccogliere $ 25 milioni per essere considerato papabile alla presidenza non sarà molto utile per la gente in generale

Rappresenterà il petrolio, l'aerospaziale, le banche o qualsiasi altra entità finanziaria che stia pagando per lui.

Certamente non rappresenterà mai la gente del paese, e loro lo sanno

Quindi, il senso di disperazione in tutto il paese quando i redditi diminuiscono, le imprese falliscono e non ci sono rimedi

Man mano che le società diventano decadenti, anche la lingua diventa decadente.

Le parole sono usate per mascherare, non per illuminare, l'azione: si libera una città distruggendola. Le parole devono confondere, in modo che al momento delle elezioni le persone voteranno solennemente contro i propri interessi.



Gore Vidal (1925-2012)


06/01/21

La statua di Lord Byron a Villa Borghese e una decapitazione a Piazza del Popolo

 

La statua di Lord Byron a Villa Borghese

7. La statua di Lord Byron a Villa Borghese e i fantasmi

 

Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre che lo asfissiò, ossessionandolo sia fisicamente che psicologicamente, George Gordon Noel Byron, più conosciuto come Lord Byron, nato a Londra nel 1788, divenne come è noto il più celebre poeta dei suoi tempi. Non solo: la sua vita faticò molto a dividersi dalla sua arte: Byron anzi fu in un certo senso il vero, perfetto dandy.  Chiacchieratissimo da vivo per i suoi scandali e per le continue eccentricità (come quando si fece rinchiudere nella Cella del Tasso, a Ferrara o come quando attraversò a nuoto lo stretto dei Dardanelli), Byron morì nel 1825 in Grecia, a Missolungi, in seguito a una febbre reumatica contratta a Cefalonia, che degenerò in meningite delirante. E proprio come accade per le rockstars di oggi, la sua morte divenne un evento, lasciando inconsolabili fans a lamentarne la dipartita.

Poco tempo dopo la morte, alcuni amici si misero insieme raccogliendo la somma di mille sterline per commissionare una statua dello scrittore. Tra i vari scultori pretendenti fu scelto il danese Bertel Thorvaldsen, il quale si trovava in quel periodo in Italia.

La scelta non fu casuale: lo scultore aveva già ritratto Byron vivo nel brevissimo e intenso soggiorno romano del poeta a Roma, nel suo studio di piazza Barberini, per incarico di John Cam Hobhouse, che del poeta era compagno di viaggio e studio. Con tanto di lodi sull’artista da parte dello stesso Byron, il quale l’aveva definito nei suoi diari «Il migliore dopo Canova, al quale anzi alcuni lo preferiscono».

Il busto, dopo varie peregrinazioni, era finito a Londra nella sede della casa editrice di John Murray, e fu dunque utilizzato come modello per la nuova e più grande opera.

La statua fu iniziata dallo scultore nel 1829 ma Thorvaldsen impiegò molto tempo per completarla poiché, proprio a causa della fama scandalosa che avvolgeva ancora la figura di Byron, fu rifiutata da tutte le istituzioni che avrebbero dovuto ospitarla: il British Museum, la Cattedrale di Saint Paul, l’Abbazia di Westminster e la National Gallery, trovando finalmente la sua collocazione nel 1834 nella biblioteca del Trinity College di Cambridge. Thorvaldsen contraddisse, non si sa quanto consciamente, la volontà di Byron, che in vita, proprio avendo a cuore la promozione della sua immagine, aveva chiesto agli artisti che lo effigiavano (erano numerosissimi: il merchandising intorno a Byron aveva prodotto ritratti, bassorilievi su medaglioni di marmo e perfino anelli con la sua immagine) di ritrarlo non come un poeta, e cioè con il libro e la penna in mano, ma come un “uomo d’azione”. Thorvaldsen, invece, raffigurò Byron proprio nella posa classica dei poeti, seduto su di uno scranno di marmo, con un libro aperto nella mano sinistra, la penna nella destra, poggiata sul mento.

La statua comunque, dopo le difficoltà iniziali, ebbe grande successo e vi fu una produzione numerosa di copie, nel corso degli anni, una in ogni città dove Byron aveva soggiornato: una fu realizzata anche a Roma, inaugurata nel 1959, e si può ammirare nel cuore di Villa Borghese, in via della Pineta.

Sul piedistallo della copia romana, sono incisi brani tratti dal poema di Byron, Childe  Harold Pilgrimage, dedicati all’Italia:

 

 

of the world, the home

                       Of all Art yields, and Nature can decree,

         Even in thy Fair Italy!

                       Thou art the garden desert, what is like to thee?

                       Thy very weeds are beautiful, thy waste

                       More rich than other climes’ fertility;

                       Thy wreck a glory, and thy ruin graced

                       With an immaculate charm which cannot be defac’d

 

Sullo scranno di marmo poi, dalla parte sinistra sono raffigurati alcuni simboli esoterici: un teschio, un gufo e due lettere greche, l’alfa e l’omega.

Il perché di questa simbologia si spiega con l’enorme fascinazione di Byron per il mistero, che a Roma, in quei ventidue giorni trascorsi nella capitale, aveva trovato terreno assai fertile.

A Roma Byron arrivò nella primavera del 1817, interrompendo un gaio soggiorno veneziano, proprio per realizzare il sogno di vedere da vicino quella città che lo aveva sempre – da lontano – ammaliato. Un medico infatti prescrisse al poeta di allontanarsi dall’umidità veneziana, per guarire da un “mal di petto”. Byron  non se lo fece ripetere e colse l’occasione per realizzare il suo sogno, attraversando l’Italia con il suo corteo al seguito, una carrozza con i sedili reclinabili e una quantità enorme di bagagli.

Giunto nella capitale, andò abitare nella centralissima piazza di Spagna, al numero 66. E non aspettò nemmeno un minuto per cominciare a esplorare la città in sella al suo cavallo. L’impressione che ne ricavò fu immediata e stordente: «Sono incantato da Roma come lo sarei da una cappelliera di pizzi», scrisse al suo editore John Murray, «e di Roma non vi dirò nulla: è indescrivibile. La guida qui vale più di ogni altro libro. Ho passato tutta la giornata a cavallo» (3).

Le sue peregrinazioni lo portarono al Colosseo, al Pantheon, a San Pietro, sul Palatino e perfino fuori Roma, a Frascati, Albano e Ariccia.

Byron sentì le rovine e i monumenti come muti testimoni di una tragedia immane, popolati di presenze ancora vive. Nel Pellegrinaggio di Aroldo rievoca – come in una visione – l’episodio del gladiatore agonizzante nell’arena:

 

Stavo tra le mura del Colosseo,

In mezzo ai grandi resti della potente Roma.

Gli alberi che crescevano lungo gli archi spezzati

Oscillavano oscuramente nell’azzurro cupo della notte,

E le stelle splendevano tra gli squarci delle rovine;

Un cane da guardia latrava oltre il Tevere;

E più vicino, dal palazzo dei Cesari, veniva

Il lungo lamento del gufo e, a tratti,

Il canto inquieto di lontane sentinelle

Sorgeva e si smorzava sul vento leggero[U2] .

 

Un brano talmente straziante che Stendhal, anche lui in quei giorni di passaggio a Roma, riprende nelle sue Passeggiate Romane, animandolo in una notte di suggestiva luce lunare. (4)

E nell’arco di quei ventidue intensissimi giorni, il dandy pallido e fascinoso ebbe modo anche di scoprire il lato tragico contemporaneo di Roma. In un’altra lettera del 30 maggio di quell’anno, sempre indirizzata a Murray, Byron descrive minuziosamente l’esecuzione capitale cui gli accadde di assistere: riguardava tre ladri (erano, come risulta dal puntiglioso diario di Mastro Titta, il boia: Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni) decapitati nella piazza del Popolo con l’accusa di “omicidi e grassazioni”.  Byron racconta il macabro spettacolo: i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere della lama, lo schizzare del sangue e l’apparizione spettrale delle teste esposte. Tutto questo, scrive Byron, «è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cani inflitta alle vittime delle sentenze». (5)

Forse fu proprio l’aver assistito a questo spettacolo cruento uno dei motivi che spinsero Byron ad interrompere presto il suo soggiorno a Roma: dopo ventidue giorni e notti di ruderi e cavalcate, di frequentazioni dell’alta società romana e di soste al Caffè Greco, il poeta decise di far ritorno al Nord, portandosi dietro i fantasmi di Roma che ritornarono a farsi vivi nei suoi poemi.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015

1. Il primo a parlare di una corrispondenza tra il profilo della Villa Strohl Fern e l’Isola dei morti di Boecklin fu Gianni Rodari in Quel pasticciaccio di Villa Strohl-Fern. La bistrattata isola di verde sopra Piazzale Flaminio, «Paese Sera», 23 settembre 1975.

2. A. Trombadori, Villa Strohl Fern, «Strenna dei Romanisti», 21 aprile 1982.

3. Vedi  G. Scaraffia, Quella Roma di Lord Byron, «Il Messaggero», 27 luglio 2015.

4. Vedi  C. Rendina, Le notti di luna di Byron sospeso sui misteri di Roma, «la Repubblica», 24 luglio 2007.

5. Vedi  C. Rendina, ibidem.

 

 

03/01/21

Il misterioso segnale radio proveniente da Proxima Centauri. Potrebbero essere alieni? Il parere dell'astronomo


Ha fatto in poco tempo il giro del mondo, eccitando gli animi di scienziati e appassionati di astronomia, la notizia di un segnale radio di possibile origine artificiale proveniente da Proxima Centauri, la stella piu' vicina al Sole, distante "appena" 4,2 anni luce

La scoperta, anticipata dal britannico the Guardian, e' stata fatta con il radiotelescopio Parkes, in Australia, dai ricercatori del progetto Breakthrough Listen, attivo dal 2015, che, come i colleghi del Seti (Search for extraterrestrial intelligence), scandagliano il Cosmo in cerca di segnali di potenziali civilta' aliene

Ma di cosa si tratta esattamente? Per saperne di piu' askanews ha intervistato l'astrofisica dell'Inaf, Marta Burgay, ricercatrice presso l'osservatorio di Cagliari. 

"Al contrario dei segnali di origine naturale, provenienti dalle stelle, dalle galassie e dalle polveri interstellari che vengono emessi normalmente in un'ampia gamma di frequenze nelle onde radio - ha spiegato - questo segnale viene emesso a un'unica frequenza, nella fattispecie a 982 MHz. 

Questa caratteristica fa si' che lo si possa interpretare come un segnale di origine artificiale e non naturale"

Artificiale pero' non vuol dire necessariamente alieno. Potrebbe essere, per esempio, l'interferenza di una stazione radio o il segnale di un satellite. 

"A 982 MHz non conosciamo nessuna stazione radio terrestre - ha aggiunto la scienziata italiana - ma probabilmente ci potrebbero essere dei satelliti che potrebbero emettere a quelle frequenze. La ricerca e' ancora in corso; si sta cercando di comprendere quale apparecchiatura terrestre potrebbe aver emesso questo segnale, ma nel frattempo la ricerca prosegue anche nella direzione di Proxima centauri. Il radio telescopio di Parkes, un'antenna da 64 metri di diametro, sta continuando a osservare nella direzione di Proxima centauri per cercare di captare nuovamente questo segnale. Fino ad ora non c'e' stata nessuna ripetizione di questo segnale, il che rafforza l'ipotesi che si tratti di un segnale di origine terrestre". 

Insomma, piano con gli entusiasmi, potrebbe solo essere un nuovo "segnale wow" ma, in attesa di sviluppi, sognare resta lecito

"Segnali di questo genere vengono captati dai radiotelescopi utilizzati dal progetto Breakthrough Listen in continuazione - ha concluso Marta Burgay - la maggior parte vengono pero' scartati automaticamente o a una seconda revisione perche' viene individuata l'apparecchiatura terrestre che ha emesso quel segnale. In questo caso, questa individuazione non e' stata ancora fatta ma il lavoro prosegue in questa direzione. Un altro elemento che rende poco plausibile il fatto che si tratti di un segnale di origine aliena e' il fatto che proviene dalla stella piu' vicina a noi. Se esistesse, oltre a quella umana, un'altra civilta' aliena, le probabilita' che questa civilta' aliena fosse proprio dietro l'angolo sarebbero bassissime. Se in questo piccolo angolo d'universo esistono ben 2 civilta' intelligenti capaci di emettere onde radio, questo significherebbe che di civilta' intelligenti capaci di mettere onde radio potrebbero essercene nella nostra galassia fino a un miliardo e questo statisticamente e' abbastanza improbabile". 

29/12/20

E' morto il grande Pierre Cardin

 


Di Patrizia Vacalebri per ANSA

Addio a Pierre Cardin, lo stilista italiano nato a Sant'Andrea di Barbarana, frazione del comune di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, in Veneto, ma cresciuto in Francia, paese dove mosse i primi passi nella moda e crebbe, fino a diventare uno tra i piu' importanti couturier della seconda meta' del Novecento, un gigante della moda e del design e' morto oggi 29 dicembre. 

In realta' il cuore di Pietro Costante Cardin, nato il 2 luglio 1922, da una famiglia di facoltosi agricoltori, finiti in poverta' dopo la prima guerra mondiale, era rimasto sempre in Italia

Forse tra tutti i couturier del secolo scorso, nati in Italia e cresciuti in Francia, Cardin e' stato quello che ha rappresentato al meglio quel mix di stile tra Italia e Francia, motivo determinante del suo successo. 

La poverta' della sua famiglia diede al giovane Pietro una grande motivazione per la ricerca del riscatto. La miseria spinse infatti i suoi genitori a trasferirsi in Francia nel 1924 quando aveva solo due anni. E a soli 14 anni nel 1936, il giovane Pierre, il cui nome italiano, Pietro, era stato francesizzato, comincio' l'apprendistato da un sarto a Saint- Étienne

Dopo una breve esperienza da Manby, sarto a Vichy, nel 1945 giunse a Parigi lavorando prima da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparelli

Primo sarto della maison Christian Dior durante la sua apertura nel 1947 (dopo essere stato rifiutato da Cristobal Balenciaga) fu partecipe del successo del maestro che invento' il New Look

Nel 1950 fondo' la sua casa di moda, cimentandosi con l'alta moda nel '53

Cardin divenne celebre per il suo stile futurista, ispirato alle prime imprese dell'uomo nello spazio. 

Preferiva tagli geometrici spesso ignorando le forme femminili. 

Amava lo stile unisex e la sperimentazione di linee nuove. 

Nel 1954 introdusse il bubble dress, l'abito a bolle. 

Cardin e' stato un antesignano anche nella scelta di nuovi mercati e nel firmare nuove licenze. Nel '59 fu il primo stilista ad aprire in Giappone un negozio d'alta moda. Sempre in quell'anno fu espulso dalla Chambre Syndacale francese, per aver lanciato per primo a Parigi una collezione confezionata per i grandi magazzini Printemps. Ma fu presto reintegrato.

Tuttavia, Cardin e' stato membro della Chambre Syndicale de la Haute Couture et du Pret-a'-Porter e della Maison du Haute Couture dal 1953 e si dimise dalla Chambre Syndacale nel 1966. 

Le sue collezioni dal 1971 sono state mostrate nella sua sede, l'Espace Cardin, a Parigi, prima di allora nel Teatro degli Ambasciatori, vicino all'Ambasciata americana, uno spazio che il couturier ha utilizzato anche per promuovere nuovi talenti artistici, come teatranti o musicisti. 

Come molti altri stilisti Cardin decise nel 1994 di mostrare la sua collezione solo ad un ristretto gruppo di clienti selezionati e giornalisti. 

Nel 1971 Cardin venne affiancato nella creazione d'abiti dal collega Andre' Oliver, che nel 1987 si assunse la responsabilita' delel collezioni d'alta moda, fino alla sua morte nel 1993. 

Lo stilista amava la mondanita', il mondo del jet set, cosi' nel 1981 acquisto' i celebri ristoranti parigini Maxim's. 

In breve tempo apri' filiali a New York, Londra e a Pechino nel 1983 e vi affianco' una catena di hotel. 

Tra le licenze della linea Maxim's c'era anche un'acqua minerale che veniva prelevata ed imbottigliata a Graviserri nel comune di Pratovecchio Stia, provincia di Arezzo. 

La passione degli immobili. Cardin era entrato in possesso delle rovine di un castello a Lacoste abitato nel passato dal Marchese de Sade. Dopo aver ristrutturato il sito, lo stilista vi organizzava dei festival teatrali. 

Cardin aveva ritrovato le sue radici italiane anche con l'acquisto del palazzo Ca' Bragadin a Venezia dove risiedeva durante i suoi frequenti soggiorni nella citta' lagunare (nella calle attigua c'e' uno spazio espositivo)

Negli anni '80 aveva acquistato il Palais Bulles (Il palazzo delle bolle) progettato dall'eccentrico architetto Lovag Antti. Tutto, dal pavimento al soffitto, era riempito da forme sferiche. Con il suo teatro da 500 posti a sedere, le piscine con vista sul Mar Mediterraneo era spesso luogo di feste ed eventi. 

L'interno era arredato con pezzi di design, le Sculptures utilitaires disegnate dallo stesso Cardin, che dal 1977 ha dato vita ad una collezione di mobili eleganti dalle forme sinuose. Nel golfo di Cannes, a The'oule-sur-Mer, a sud della Francia, quest'opera architettonica nell' 88 e' stata designata dal Ministero della Cultura quale monumento storico. 

 Anche un docu-film sulla vita di Cardin presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2019: House of Cardin di P. David Ebersole, Todd Hughes. 

Un viaggio che esplora in ogni aspetto quello che molti definiscono l'Enigma Cardin, vista la riservatezza dell'uomo, e la capacita' dell'artista e uomo d'affari di creare un impero, dal valore che ha superato un miliardo di dollari, innovando nello stile, legando il suo nome a centinaia di prodotti e con una capacita' senza uguali di esportare haute couture all'estero.

"Tutto e' cominciato con 200mila cappotti rossi venduti negli Usa" rivelava nel biopic, mostrando i capi con cui era riuscito ad affermarsi sui mercati sovietico e cinese gia' dagli anni '70. 

Cardin "e' un imperatore totale" dice nel film Jean-Paul Gautier, intervistato fra gli altri, con Sharon Stone, Naomi Campbell, Philippe Starck. 

Sempre nel docufilm la moda e la vita privata, come i grandi amori con Andre' Oliver (morto nel 1993 di Aids) e Jeanne Moreau. 

Nel luglio 2019, anche una mostra monografica dedicata al "gigante della moda" negli Usa, nel Brooklyn Museum. 

Fonte Patrizia Vacalebri per ANSA 

28/12/20

Quando Orson Welles divenne Otello e scoprì il tradimento della sua "musa italiana"

 


Ci sono casi di film la cui lavorazione fu interrotta per motivi assai più contingenti di un conflitto mondiale. 

Il più pittoresco è quello dell'Otello di Orson Welles.

Nel dopoguerra impazzavano i film tratti da opere liriche, e il produttore Michele Scalera, vedendo Welles sul set romano di Cagliostro, lo immaginò nei panni del Moro musicato da Giuseppe Verdi. 

Orson invece pensava a Shakespeare, e nell'ottobre del 1948 iniziò le riprese a Venezia, in coproduzione con Scalera, con un cast misto: Jago era l'americano Everett Sloane, Emilia l'inglese Harriet White, Roderigo e Brabanzio i nostri Paolo Carlini e Giuseppe Varni; al fianco di Otello/Welles, nel ruolo di Desdemona, c'era Lea Padovani, che nei mesi precedenti s'era imbiondita e aveva studiato l'inglese.  

Si girò a piazza San Marco, a Palazzo Ducale, alla Ca' d'Oro. 

Welles, che aveva appena divorziato dalla Hayworth, aveva avuto amoretti e amorazzi con diverse fanciulle italiane e ora s'era preso una scuffia tremenda per la Padovani: la quale aveva accettato l'anello di fidanzamento ma lo teneva comunque sulla corda. 

Come ammise lei stessa più tardi, Orson non le piaceva granché; la lusingavano le sue attenzioni e l'ombra di Hollywood che intravedeva dietro la sua sagoma gigantesca. 

Aveva invece una relazione con Giorgio Papi, direttore di produzione di Otello, uomo già maritato e con prole. 

Sul set ne erano a conoscenza tutti tranne Welles, accecato dall'amore, che scoperse gli altarini nel peggiore dei modi: sorprendendo i due amanti in piena attività. 

"Io ho avuto le donne più belle del mondo, nessuna mi ha cornificato così!", si lamentava disperato davanti alla troupe, ferito al cuore e alla vanità. 

Il set venne smantellato e l'Otello venne concluso tre anni dopo, con un cast e una impostazione completamente diversi.   

Dei tremila metri di pellicola impressionata nell'autunno del 1948, sopravvivono nell'edizione finale pochissimi fotogrammi, dove la Padovani non è visibile o riconoscibile. 

Tratto da: Alberto Anile, Il romanzo dei film interrotti, Robinson, Repubblica, 24 dicembre 2020, pag. 30 



27/12/20

Un incredibile Termopolio - bottega di street food - riaffiora a Pompei



Due anatre appese per i piedi, un gallo, un cane al guinzaglio, che sembrano dipinti in 3d. Torna alla luce a Pompei l'ambiente quasi integro di un Thermopolium, bottega di street food, con piatti di ogni tipo, dalle lumache ad una sorta di "paella"

Una scoperta, anticipa all'ANSA il direttore Osanna, che "restituisce un'incredibile fotografia del giorno dell'eruzione", e apre a nuovi studi su vita, usi e alimentazione dei pompeiani, "Sara' un dono di Pasqua per i visitatori", annuncia.

Il ministro Franceschini applaude:"esempio virtuoso per la ripresa del Paese". Lo scavo, che non fa parte del Grande Progetto Pompei, si trova comunque nella zona della Regio V interessata negli ultimi anni dai lavori di consolidamento e scavi

La presenza del Thermopolium, ubicato proprio di fronte alla "locanda dei gladiatori", quasi all'angolo tra il vicolo dei Balconi e la via della Casa delle Nozze d'Argento, era stata notata gia' nel 2019, quando era stato fatto un primo saggio di scavo. 

All'epoca erano riemersi una prima parte del bancone con uno splendido dipinto a tema mitologico (Una nereide che cavalca un ippocampo e porta con se' una cetra) l'impronta lasciata nella cenere dal grande portone in legno e un balcone che ornava il piano superiore. 

I lavori delle ultime settimane hanno fatto riemergere l'intero ambiente della taverna, con il suo bancone ad elle raffinatamente e riccamente decorato e i vasi con i resti dei cibi e delle pietanze cucinate che i pompeiani usavano consumare per strada. 

In uno dei 'quadri' riemersi con tutti i suoi sfavillanti colori e' riprodotto l'ambiente della locanda cosi come doveva presentarsi agli avventori, con le sue anatre germane appese, il bancone, le pietanze. In un altro un cane al guinzaglio: sulla cornice qualche buontempone, forse un liberto, ha graffito un insulto omofobo diretto al padrone del locale: "Nicia cacatore invertito"

A Pompei,precisa Osanna,di locali come questi ce n'erano tanti, nell'area degli Scavi se ne contano circa 80, nessuno pero' cosi' integro, con decorazioni cosi' raffinate, i colori splendidi, i disegni intatti

E soprattutto, spiega, gli scavi del passato non sono riusciti a recuperare tutti gli elementi sul cibo emersi in questo progetto, al quale hanno lavorato in equipe esperti archeobotanica e archeozoologi, geologi, antropologi, vulcanologi

Non solo: altrettanto importante e' il ritrovamento dei resti di due uomini e dello scheletro di un cagnolino. 

Una delle vittime, un uomo intorno ai 50 anni, era disteso su una branda nel retro del locale e potrebbe essere morto schiacciato dal crollo del solaio. 

I resti dell'altro sono stati trovati invece in un grande vaso di terracotta, tranne un piede che era vicino al bancone. 

L'occultamento del secondo scheletro, secondo gli archeologi, potrebbe essere opera di scavatori "forse addirittura del XVII secolo" che avevano scavato un cunicolo proprio a ridosso di questo edificio. "Ma il particolare del piede, che si trova accanto al bancone, proprio vicino al coperchio posato in terra di una delle pentole in coccio- ragiona Osanna - potrebbe anche far pensare ad un fuggiasco entrato nella bottega alla ricerca di riparo e soprattutto di cibo, visto che ormai le piogge di cenere e lapilli in citta' si susseguivano da oltre 18 ore"

Il restauro e' comunque ancora in corso e il lavoro prosegue anche nei laboratori, dove alle analisi gia' fatte sul posto ne saranno affiancate altre per conoscere in maniera piu' precisa il contenuto dei grandi vasi in terracotta e avere maggiori informazioni sui resti delle vittime. Ma presto, anticipa Osanna, questa parte dei nuovi scavi sara' anche visitabile: "l'idea, pandemia permettendo - dice- e' quella di aprire l'accesso al Termopolio a Pasqua, facendo passare i visitatori dal cantiere di restauro della grande Casa delle Nozze d'argento, chiusa al pubblico ormai da decine di anni". 

26/12/20

Tre romanzi attesissimi per l'anno che arriva - Franzen, Toibin, Spufford




L'anno che arriva, il 2021, tra i molti titoli in arrivo, porterà anche tre romanzi molto molto attesi.

Il primo, è il nuovo di Jonathan Franzen, dal titolo chilometrico: Crossroads: A Novel: A Key to all Mythologies. 

"Per alcuni", scrive il critico Allan Massie, "Franzen è il più grande romanziere americano dell'epoca, ed è certamente uno che aspira a esserlo. Per altri, il suo lavoro è rovinato dall'autoindulgenza e dalla pretenziosità. Non sono mai giunto a un'opinione stabile su di lui. Forse questo nuovo libro mi aiuterà a prendere una decisione. Forse. È più probabile, temo, che troverò questo romanzo come i suoi predecessori: alcune parti eccellenti, altre tutt'altro. Tuttavia non può essere ignorato".

Il secondo, attesissimo romanzo porta la firma del grande Colm Toibin che ha già scritto un grande romanzo su Henry James (The Master) un romanziere la cui vita più intensa è stata vissuta nella sua immaginazione. Lo stesso si potrebbe dire di Thomas Mann, il soggetto del nuovo romanzo di Toibin intitolato The Magician, anche se l'emigrazione dalla Germania nazista significa che la sua vita esteriore forse fu più turbata di quella di Henry James. Mann è stato uno dei più grandi romanzieri europei del XX secolo e scrivere un romanzo su un grande romanziere è audace: l'autore  vincerà questa sfida? La sfida di "una vita vissuta molto nella sua testa, una vita convenzionalmente alta borghese, la sua superficie appena disturbata dalla sua omosessualità repressa."

Il terzo romanzo è dell'inglese Francis Spufford, fin qui autore di saggi, memoir e antologie e di un romanzo, intitolato On Golden Hill, ambientato principalmente nella New York coloniale, già  selezionato per il Walter Scott Historical Novel Prize ed elogiatissimo dalla critica.

Il nuovo romanzo di Spufford si intitola Light Perpetual è descritto come la storia delle "vite immaginate di cinque persone uccise nel London Blitz", ovvero dei bombardamenti dei nazisti a Londra avvenuti tra il 1940 e il 1941. Non è ancora chiaro se questo significhi che si tratta di una ricostruzione delle vite che avevano vissuto o di una proiezione delle vite che avrebbero potuto avere se fossero sopravvissuti ai bombardamenti. 

notizie tratte da The Scotsman

25/12/20

Una notte di Natale speciale a Roma, 1202 anni fa - Da "La storia di Roma in 501 domande e risposte" di Fabrizio Falconi



E' in tutte le librerie (e in quelle online) La Storia di Roma in 501 domande e risposte di Fabrizio Falconi. Pubblichiamo un breve estratto sulla notte di Natale dell'anno 800 a Roma


244. Perché Carlo Magno è importante nella storia di Roma? 

Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve e Bertrada di Laon, fu re dei franchi dal 768 e dei longobardi dal 774. Era diventato sovrano unico dal 771, dopo che il fratello, Carlomanno era morto in circostanze misteriose, e in breve aveva allargato i confini del regno dei franchi su gran parte dell’Europa occidentale. 

Carlo arrivò a Roma il sabato santo del 774 accolto dal papa Adriano i sul sagrato di San Pietro. Nacque proprio lì, sulla tomba dell’apostolo Pietro, una forte amicizia personale e politica, che cambiò le sorti della storia. 

Approfittando del fatto che il trono dell’Impero bizantino – legittimo discendente dell’Impero romano – fosse stato usurpato da una donna, Irene d’Atene, indusse il successore di Adriano, papa Leone III a considerare “vacante” il trono “romano”: così, la notte di Natale dell’anno 800, Carlo Magno fu solennemente incoronato dal papa, “imperatore”, termine mai più usato in Occidente dai tempi della morte di Romolo Augustolo, nel 476. In questo modo Leone III legò indissolubilmente i franchi a Roma, rivendicando da quel momento la supremazia del papa sui poteri temporali, terreni e rimettendo la città di Roma al centro della scena europea.





23/12/20

Libro del Giorno: "La commedia umana" di William Saroyan



Raramente capita di leggere un libro così colmo di grazia.

E' relativamente facile incontrare romanzi travolgenti o stravolgenti, pieni di avventure o disavventure o semplicemente alla ricerca di un tortuoso percorso interiore. 

Molto raramente invece si incontrano romanzi come questi, che sono una perfetta forma compiuta, la descrizione di un mondo piccolo e provinciale nel quale ogni essere umano si può ritrovare come se fosse il proprio, dove non c'è nemmeno una parola fuori posto, dove tutto si chiama come si deve chiamare, ogni sentimento umano, ogni cosa - accadimento, gioia e dolore - che cade sul capo di un essere umano, semplicemente perché egli è vivo e vive e fa parte di quella che nel titolo stesso è evocata - con un richiamo balzachiano - come La Commedia Umana, che fu scritto da William Saroyan in piena guerra, nel 1943, mentre Hollywood produceva il film con lo stesso titolo e la stessa storia, ma con il semplice fatto che la sceneggiatura originale di Saroyan - troppo letteraria - era stata rifiutata e affidata a un navigato sceneggiatore, Howard Estabrook. 

Seccato e colmo di disappunto per il rifiuto, Saroyan decise di trasformare la sceneggiatura in un romanzo, ricevendo comunque l'Oscar di quell'anno per il miglior soggetto originale del film diretto da Clarence Brown con Mickey Rooney protagonista. 

Tre anni prima, Saroyan aveva già vinto il premio Pulitzer. 

Era nato il 31 agosto 1908 a Fresno, in California , da Armenak e Takuhi Saroyan, immigrati armeni da Bitlis , nell'impero ottomano. 

Suo padre era arrivato a New York nel 1905, iniziando a predicare nelle chiese apostoliche armene.  All'età di tre anni, dopo la morte del padre, Saroyan, insieme a suo fratello e sua sorella, fu ricoverato in un orfanotrofio a Oakland, in California 

Di questa infanzia difficile e dolorosa, cominciò a scrivere dopo che la madre gli mostrò alcuni scritti del padre. La sua prima raccolta di racconti, My name is Aram, uscita nel 1940, divenne un best-seller internazionale e venne subito tradotto in molte lingue. 

La Commedia Umana fu il suo primo romanzo di grande successo seguito da molti altri, fino alla morte avvenuta nel 1981.  E mentre secondo la critica (Stephen Fry), quella di Saroyan è "una delle figure letterarie più importanti della metà del XX secolo", allo stesso tempo egli è  "uno degli scrittori più sottovalutati del secolo", nonostante lo stesso Fry suggerisca che Saroyan possa essere messo sullo stesso piano di "accanto a Hemingway , Steinbeck e Faulkner ". 

Anche in Italia Saroyan è attualmente poco conosciuto e poco letto.

Ed è un peccato. 

Chi vuole accostarsi alla sua limpida letteratura può cominciare da questo romanzo, che ha per protagonista Homer, un ragazzino di quattordici anni pieno di entusiasmo. 

La famiglia Macauley, da cui proviene, è modesta, le difficoltà non sono poche: il babbo è morto e il fratello maggiore è partito per la Seconda guerra mondiale; eppure tutti si dedicano con energia a quel che va fatto: la mamma alle galline come all’arpa, la sorella agli studi e al pianoforte, e Ulysses è il fratellino più curioso del mondo. 

Homer, che ha assunto il ruolo di capofamiglia, di giorno frequenta il liceo, la sera si tuffa in bicicletta alla volta dell’ufficio del telegrafo, dove lavora come portalettere. 

Pochi giorni, e già si rivela come messaggero più veloce della West Coast. Entra così – leggero e deciso, quasi volando – nel mondo degli adulti: il suo segreto è prendere sul serio le cose e i sogni per diventare qualcuno, anzi, capire di esserlo già. 

Sullo sfondo, la natura rigogliosa e i colori della California, una banda di ragazzini vispissimi, negozianti armeni, giganti buoni, primedonne giramondo… 

Delicato e ironico, questo libro è il ritratto formidabile di uno stile di vita scomparso, è una parabola sull’adolescenza e sul mondo degli immigrati d’America degli anni Quaranta, ma anche una declinazione dei sentimenti e dei destini umani.  Un piccolo classico in trentanove episodi. 

Come scrive Emanuele Trevi La commedia umana è un miracolo dell’equilibrio formale, nel quale l’innocenza è ancora un modo acuto e preciso di conoscere il mondo, una ricchezza dello sguardo”.