10/04/19

Scattata la foto del secolo: Prova diretta dei buchi neri.


Per la prima volta e' stato fotografato un buco nero. Dopo che nel 2016 le onde gravitazionali hanno dimostrato l'esistenza di questi misteriosi oggetti cosmici, arriva la prima prova diretta e l'immagine che lo testimonia e' quella del buco nero Messier 87, al centro della galassia Virgo A (o M87), distante circa 55 milioni di anni luce. 

Al risultato, del progetto internazionale Event Horizon Telescope (Eht), l'Italia ha partecipato con Istituto Nazionale di Astrofisica(Inaf) e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

Come si vede nella foto che pubblichiamo, l'enorme Buco Nero è stato rivelato dalla sua ombra, che appare come una sorta di anello rossastro, il buco nero al centro della galassia M87 con la massa di sei miliardi e mezzo quella del nostro Sole. 

"Quella che abbiamo visto e' l'ombra di un buco nero", ha detto all'ANSA Luciano Rezzolla, direttore dell'Istituto di Fisica Teorica di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht (Event Horizon Telescope).

La grande novita' della prima fotografia di un buco nero è che oggetti cosmici invisibili per definizione per la prima volta possono essere visti e studiati direttamente. "Adesso possiamo finalmente osservarli", ha detto all'ANSA Luciano Rezzolla, direttore dell'INFN di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht. Oggi si apre la "prima pagina di un libro nel quale e' possibile fare osservazioni sempre piu' accurate di questi oggetti, previsti un secolo fa da Albert Einstein". 

08/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 10. "21 grammi" di Alejandro Iñárritu (2003)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 10. "21 grammi" di Alejandro Iñárritu (2003)

E' certamente uno dei migliori autori contemporanei, il messicano Alejandro González Iñárritu e questo è il secondo film della cosiddetta Trilogia sulla morte iniziata con Amores perros e conclusa con Babel

Tra queste tre notevoli pellicole (imprescindibili nel cinema degli anni 2000) ho scelto la seconda per  la genialità della esecuzione tecnica perfettamente funzionale alla necessità del racconto.  Un'opera di compattezza straordinaria, che si ammira come un'opera d'arte. 

Anche questo film come gli altri due, porta la firma dello sceneggiatore Guillermo Arriaga che qui indaga nel terreno filosofico-religioso in una storia di agonia e rinascita imperniata sui rapporti tra destino e libero arbitrio, provvidenza e caso, presenza e silenzio di Dio.

Il titolo della pellicola è notoriamente ispirato agli studi compiuti da uno scienziato, il dottor Duncan MacDougall, il quale nei suoi esperimenti avrebbe calcolato in 21 grammi il peso dell'anima: 21 grammi infatti è la quantità di peso specifico che qualunque corpo umano perderebbe esalando l'ultimo respiro.

La drammatica trama prende i passi dalla vita di Jack Jordan (Benicio del Toro), un ex detenuto divenuto credente integralista dopo il suo ultimo periodo di detenzione. La vita in famiglia gli è resa difficile proprio da questa sua insistenza sulla fede, che spesso sfocia nel fanatismo, mentre le sue possibilità di trovare lavoro sono compromesse dal suo passato di pregiudicato. 

Le vicende della sua vita si intrecciano - all'inizio senza apparenti legami - con quella di Cristina (Naomi Watts) ex cocainomane che conduce ora una tranquilla esistenza con il marito e le sue due figlie e con quella di Paul Rivers (Sean Penn), matematico con gravi problemi al cuore in attesa di un donatore, il quale a causa della sua infermità si ritrova a convivere nuovamente con la sua ex moglie Mary, la quale, pur avendo anteriormente abortito, ora vuole a tutti i costi, prima che Paul muoia, avere un figlio da lui ricorrendo all'inseminazione artificiale. 

Tutta la storia ruota intorno ad un unico evento-cardine: l'incidente d'auto in cui Jack Jordan investe il marito e le figlie di Cristina, che muoiono per omissione di soccorso. Il cuore di Michael, marito di Cristina, viene così impiantato a Paul Rivers, che può risanato finalmente tornare alla sua vita, ma è ossessionato dalla ricerca della persona a cui deve la vita. 

Arriverà così sulle tracce di Cristina, che per sfuggire al dolore per la perdita del marito e delle figlie, è tornata ad essere dipendente da varie sostanze e dall'alcol. Paul riesce a conoscerla e a instaurare con lei un rapporto che all'inizio sembrava compromesso dal triste legame che li univa. Nel frattempo Paul accusa i sintomi del rigetto del cuore trapiantato e non volendo subire una nuova operazione dall'esito incerto si procura una pistola per suicidarsi. Paul e Cristina per vendicare la morte dei familiari di Cristina, avvenuta per omissione di soccorso, decidono di uccidere Jack Jordan che si era costituito, aveva scontato già la sua pena e che aveva abbandonato la sua famiglia andando a vivere in uno squallido motel dove lo hanno seguito i due amanti. Paul cercherà di uccidere Jack ma alla fine lo lascerà proseguire una vita che Jack stesso, straziato dal senso di colpa, avrebbe voluto finire. Questo porterà all'incontro finale fra i tre personaggi e alla drammatica conclusione della vicenda.

La qualità assoluta del film è nella sua struttura narrativa (l'utilizzo di continui flash-forward e gangli concatenati) e nelle tecniche di ripresa film realizzate da Iñárritu con camera a spalla e un continuo movimento che cattura lo spettatore in una sempre più stringente ragnatela, mano a mano che si chiariscono i diversi punti di vista e di contatto della storia raccontata.

Un capolavoro di scrittura, di recitazione e di realizzazione che ha portato 21 Grammi a vincere una incredibile quantità di premi in tutto il mondo e a lanciare definitivamente il suo autore nella cerchia dei maestri contemporanei della Settima Arte.

Fabrizio Falconi

21 Grammi 
di Alejandro González Iñárritu
Usa, 2003
durata: 124 minuti
con Sean Penn, Naomi Watts, Benicio Del Toro. 





07/04/19

Martedì prossimo 9 aprile, alle 18 parte a Roma "Un fiume in Festival"




Parte Martedì prossimo, 9 aprile la crociera di "Un fiume in Festival" la prima rassegna di cultura e spettacolo organizzata dalle Edizioni Ponte Sisto, con il patrocinio del Primo Municipio.

Tutti gli eventi si svolgeranno a bordo della motonave “Cornelia” con cadenza quindicinale con presentazione di libri, spettacoli, musica dal vivo, concerti e mostre. 

Si navigherà ogni martedì dalle ore 18.00, con partenza prevista dalla banchina sotto Ponte Sisto, dal 15 aprile al 24 dicembre. 

La partecipazione alle presentazioni sarà completamente gratuita, mentre per gli spettacoli si pagherà un biglietto comprensivo della degustazione-aperitivo a bordo. 

L’inaugurazione, nel corso della quale verranno presentati l’iniziativa e il calendario degli eventi, si svolgerà martedì 9 aprile alle 18,30: navigheremo lungo il fiume, assieme ai nostri autori, direttori di collana, attori e musicisti, brindando con amici, giornalisti e partecipanti. 

Sarà anche una occasione per incontrarvi, io ci sarò e parlerò un po' del nuovo libro, in uscita il prossimo 21 giugno. 




05/04/19

La Scala Santa a Roma torna nello stato originario, visibile per due mesi.



La Scala Santa sara' visibile al pubblico, per un periodo nel suo stato originario. 

L'apertura straordinaria della Scala Santa, priva della protezione lignea voluta da Papa Innocenzo XIII nel 1723, avverra' giovedi' 11 aprile e sara' visibile per la durata di sessanta giorni fino a Pentecoste (9 giugno 2019).

Il restauro del complesso degli affreschi della Scala Santa e' eseguito dai Musei Vaticani con il sostegno dei Patrons of theArts in the Vatican Museums

La Scala Santa e' composta da 28 gradini di marmo portati a Roma, secondo una tradizione medievale, nel 326 da Sant'Elena, madre di Costantino, la quale l'avrebbe prelevata dal palazzo di Pilato, a Gerusalemme. La scala sarebbe stata discesa da Gesù nel giorno in cui fu condannato a morte.

Fonte ANSA

04/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 9. Il Monello (The Kid) di Charles Chaplin (1921)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 9. Il Monello (The Kid) di Charles Chaplin (1921)

Per i grandi geni, in ogni campo, l'ispirazione può nascere da tutto. Ma in primis, il loro spirito si muove intorno a quel che vivono nelle loro vite personali.  E' per questo forse che Il Monello (The Kid), film capolavoro di Chaplin, che si avvia a festeggiare tra due anni il secolo di vita, essendo stato presentato a New York nel gennaio del 1921, presenta quello straordinario connubio tra malinconia e vitalità, sullo sfondo delle vicende allegre e strazianti di un bambino. 

Chaplin, infatti, al momento dell'inizio delle riprese del film (luglio 1919) non si trovava in un periodo felice della sua vita privata: da poche settimane aveva perso il primo figlio, chiamato Norman Spencer, avuto dalla prima moglie (Mildred Harris), che era nato con gravi deformazioni e sopravvisse  solo per tre giorni. 

Nei mesi seguenti, anche in conseguenza di questo gravissimo lutto, il matrimonio fallì definitivamente e perfino il film rischiò di finire sotto sequestro unitamente ai beni di Charlie nella causa di divorzio intentatagli dalla moglie.

Per fortuna Chaplin prevedendo questa eventualità, aveva consegnato in custodia una copia dei negativi del film al fratello Sidney e non appena terminato il montaggio del film cominciò a spostarsi  in incognito (per quanto la sua popolarità lo consentisse) in luoghi diversi e città diverse.

L'ispirazione per quel film cui teneva moltissimo - era in assoluto il suo primo lungometraggio - era arrivata a Chaplin invece - come lui stesso raccontò nella sua autobiografia - dall'assistere ad uno spettacolo all'Orpheum Theatre di Los Angeles dove aveva visto esibirsi un bambino prodigio di soli cinque anni, Jackie Coogan, restando folgorato dalle sue capacità espressive. 

Il giorno dopo, parlando con i più stretti collaboratori, Chaplin disse di aver trovato un nuovo soggetto per un film che si sarebbe chiamato The Kid e che avrebbe visto proprio il piccolo Jackie come protagonista.

I primi giorni di riprese dimostrarono a Charlie che non si era sbagliato: il connubio tra lui e il bambino era perfetto.  Si erano trovati con complicità e naturalezza eccezionali.

Nacque dunque quel capolavoro che è Il Monello. Opera-mondo che ha eternizzato in un racconto di 68 minuti i temi dell'infanzia e della povertà, dell'ingiustizia e del potere, della sopraffazione e della ribellione, del pacifismo e della creazione artistica. 

La storia inizia con una donna sedotta e abbandonata che viene dimessa dall'istituto di carità in cui ha dato alla luce suo figlio. Non potendo mantenerlo, decide di abbandonare il piccino all'interno di una macchina di lusso con la speranza che sia la ricca famiglia proprietaria del mezzo a crescere il bambino.

Il pentimento l'assale di lì a poco, ma il destino ha fatto della macchina, con la disperazione della madre, l'obiettivo di due malviventi che, impossessatisi del mezzo, dopo la scoperta del fagotto col bimbo non si faranno scrupolo di gettarlo via tra le macerie di un quartiere degradato, dove casualmente è di passaggio il vagabondo Charlot.

Inizia di qui il cammino di redenzione dell'orfanello.  Anche Charlot non è affatto immune dalla viltà umana: anche lui infatti prova a sbarazzarsi del bimbo - ed è comprensibile, viste le sue condizioni.  Ma poi, rinvenuto tra le fasce che l'avvolgono un biglietto invocante perdono per il gesto di abbandono e implorante assistenza per il bimbo, si decide a trattenere con sé il neonato.

Iniziano dunque le picaresche avventure dei due, tra l'educazione famigliare nel fatiscente sottotetto dove il Vagabondo abita, l'iniziazione "lavorativa" del piccolo come complice del "padre" nell'attività di vetraio ambulante - con il bambino che tira sassate ai vetri per consentire al padre di trovare lavoro immediato; i duelli nelle strade con i poliziotti; il ritorno della madre che fa beneficenza nel quartiere dove vive il suo bambino e senza riconoscerlo, ovviamente, gli regala un peluche; le risse di strada; l'improvvisa malattia del bambino; il tentativo degli assistenti di sottrarre il bambino con la forza - e la conseguente drammaticissima scena del rapimento;  la fuga dei due in dormitorio pubblico.; il riconoscimento del piccolo da parte del guardiano che mentre Charlot dorme, lo riconsegna alla polizia e questi alla madre; Chaplin e Coogan in una scena L'incombere dell'oscurità porta i due al dormitorio pubblico; lo straziante ritorno a casa del Vagabondo, disperato per la mancanza del bambino, che finisce per addormentarsi sui gradini della casa.

E qui l'incredibile colpo di genio di Chaplin, con la straordinaria scena del sogno di Charlot. Nel quale egli intravede il suo quartiere diventato una sorta di paradiso nel quale si intrufola il diavolo, scatenando un putiferio.

Charlot infine viene svegliato dallo strattone del poliziotto che lo invita a seguirlo sulla macchina che lo trasporta davanti all'ingresso di una sontuosa abitazione, dalla cui porta d'ingresso si catapulterà fuori, saltandogli al collo, il suo monello e l'ex ragazza madre, ora ricongiunta al figlio, che invita Charlot ad entrare in casa.

Un meraviglioso lieto fine che nulla toglie al valore estetico e morale (cioè umano) di un film prodigiosamente muto, che parla ancora oggi e sempre allo spettatore di qualunque latitudine, di qualunque età, di qualunque censo, di qualunque tempra morale. 

Fabrizio Falconi


Il Monello

(The Kid)
USA, 1921
Durata 68 min
con Charlie Chaplin, Edna Purviance, Jackie Coogan, Henry Bergman, Tom Wilson





03/04/19

L'incredibile storia di Luigi e Mokryna.

Passeggiando tra i più bei parchi di Kyiv, capitale dell’Ucraina, si possono ammirare numerosi monumenti, tra questi una statua in particolare di due anziani che si abbracciano attira l’attenzione dei passanti. La scultura commemora la commovente storia di Luigi Pedutto e Mokryna Yurzuk e celebra una incredibile storia d'amore durata oltre settant’anni che ha affrontato una guerra, ha valicato i confini e ha superato le barriere linguistiche.
Chi sono questi due innamorati e perché la loro storia d’amore è così importante? Tutto ebbe inizio nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il cavaliere maresciallo Luigi Pedutto della Guardia di Finanza, originario di Castel San Lorenzo in provincia di Salerno, poco più che ventenne, viene deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Krems, nei pressi della città di Sankt Polten, in Austria. Fu lì che Luigi incontrò l’ucraina Mokryna Yurz, o meglio Maria come la chiamava lui, anche lei giovane ventenne deportata e condannata ai lavori forzati. Mokryna non parlava l’italiano e Luigi conosceva solo alcune frasi in ucraino ma nonostante ciò i due si innamorano perdutamente. In un luogo di tanto dolore e crudeltà la coppia riuscì a sopravvivere, grazie anche alla forza dell’amore, sostenendosi a vicenda: lui le portava da mangiare, lei in cambio gli cuciva gli abiti e insieme sognavano la libertà.
Quando il campo fu liberato nel 1945, la ragazza fu rimandata in Ucraina e a Luigi fu impedito dalle autorità sovietiche di unirsi alla sua innamorata. 

Tornati nel proprio paese d’origine, entrambi si sono sposati e hanno avuto figli ma non hanno mai dimenticato il loro vero e unico amore

Luigi non ha mai smesso di cercare la sua Maria e l’ha ritrovata solamente dopo sessant’anni grazie a un programma televisivo, nel 2004. In quel momento Luigi, il più emotivo dei due, ha potuto finalmente riabbracciare Mokryna, e da allora i due innamorati non si sono più separati.
Questa commovente riunione è stata immortalata e fusa in bronzo nel 2013, a oltre sessant’anni dal loro primo incontro, in un parco a Kyiv vicino al Ponte degli Innamorati, una destinazione popolare tra le giovani coppie che si promettono eterno amore

La scultura rappresenta l’amore tra Luigi e Mokryna, ormai anziani, stretti in un immortale abbraccio. 

Una copia esatta della scultura è stata inaugurata nella città natale di Pedutto, a Castel San Lorenzo, il 30 aprile 2017. L’opera è diventata simbolo di amore eterno tra due innamorati che la guerra ha riunito e poi separato. 

La versione italiana, chiamata la Fratellanza Universale, rappresenta metaforicamente un abbraccio tra due popoli, l’Italia e l’Ucraina, che hanno entrambi sofferto per i tragici eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale.
Luigi Pedutto è morto nel 2013 all’età di 91 anni e pochi anni dopo lo ha raggiunto Mokryna, ma il loro amore resterà scolpito in eterno.

02/04/19

Il grande Milan Kundera compie 90 anni. Celebrazioni in Francia e nella Repubblica Ceca.



Lo scrittore d'origine ceca Milan Kundera, autore fra l'altro de L'Insostenibile leggerezza dell'essere, ha compiuto 90 anni

Nonostante dagli anni Settanta viva in Francia, scriva in francese e rifiuti di essere tradotto nella sua lingua madre, i cechi non lo dimenticano, lo stimano e lo considerano sempre loro. 

 In occasione del suo compleanno la sua citta' natale Brno, in Moravia, ha organizzato mostre, letture pubbliche e rappresentazioni teatrali. 

Una mostra allestita nella biblioteca Moravska zemska knihovna presenta l'intera opera di Kundera pubblicata in ceco con le traduzioni in diverse lingue e la lettura dei brani dei suoi romanzi

Un'altra mostra nel Museo provinciale moravo presenta Kundera come artista figurativo e illustratore. 

L'archivio nazionale cinematografico presentera' inoltre, nei prossimi giorni, tre lungometraggi su alcuni dei romanzi e racconti di Kundera. 

Kundera vive a Parigi dal 1975 e agli editori cechi ha permesso di pubblicare solo i romanzi da lui scritti fino al 1990

Nel 2008 l'Istituto per lo studio dei regimi totalitari lo aveva accusato di aver collaborato negli anni Cinquanta con la polizia comunista Stb. Kundera ha negato e di nuovo ha preso le distanze dal suo Paese natio.

I suoi ultimi quattro romanzi non sono stati mai pubblicati in ceco. 


Qui sotto un bellissimo articolo nella occasione del novantesimo compleanno di Milan Kundera  firmato da Raoul Precht su Succede Oggi:




01/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)

Non ha avuto forse abbastanza considerazione il maestro ungherese Istvàn Szàbo, di origini ebraiche (classe 1938),  nonostante alcuni suoi film siano arrivati anche al grande pubblico internazionale.

Come è stato il caso di Mephisto, uscito nel 1981, che fu candidato alla Palma d'Oro al Festival di Cannes di quell'anno (vincendo il Premio per la migliore sceneggiatura) e vinse l'Oscar per il miglior film straniero l'anno seguente (1982). 

Il film è notoriamente ispirato all'omonimo romanzo di Klaus Mann (figlio del grande Thomas e morto suicida nel 1949), scritto fra il '35 e il '36 dopo che la sua famiglia aveva lasciato la Germania subito dopo l'avvento del nazismo. 

Il romanzo - e il film - raccontano l'irresistibile ascesa del protagonista, l'eclettico attore Henrik H - sotto i panni del quale Mann aveva celato quelli del celebre attore Gustav Gründgens (marito, fra l'altro, di sua sorella Erika), suo ex amico carissimo, talento straordinario ma anche straordinariamente ambizioso, o meglio arrivista: determinato cioè a qualunque compromesso pur di arrivare al successo.

Il film mostra con una impeccabile sceneggiatura - e la prova monumentale di un grandissimo attore austriaco, Klaus Maria Brandauer - i turbamenti personali di Höfgen dopo l'ascesa di Hitler al potere, nel 1933.

Höfgen, nel pieno della sua scalata al successo, teme che tutto svanisca.  Deve oltretutto nascondere la relazione con Juliette, una ragazza mulatta, che ama e con la quale si esercita nella danza. In breve però, si decide a lasciarsi ogni responsabilità alle spalle, e assetato di successo, scende a patti con i nazisti, diventando presto anzi un favorito di Göering e un esponente di primo piano del teatro di regime.

Il film non si dimentica per la carica trascinante di Brandauer (irresistibile) nel tracciare il suo percorso faustiano: quello che molti intellettuali tedeschi decisero di intraprendere vendendo l'anima, sfruttando i gangli e la macchina di propaganda del regime nazista.

Ma Mephisto è anche una potente meditazione sul ruolo tra creatività e potere.  Tra ambizione personale e arte.  Gusto estetico e responsabilità morale. 

Un dilemma morale che Klaus Mann visse in prima persona, assistendo alla mutazione genetica del cognato, convertitosi al nazismo, contro cui si vendicò scrivendo questo romanzo; e che Szàbo deve aver sentito molto attuale anche nei decenni di Cortina di Ferro, oltre la quale scrisse e diresse questo film, nella Ungheria dei primi anni '80.

Fabrizio Falconi

Mephisto
di István Szabó 
Ungheria, 1981
durata: 144 minuti









31/03/19

Poesia della Domenica - "Poesia d'amore" di Boris Pasternak



Poesia d'amore


Nessuno sarà a casa
solo la sera. Il solo
giorno invernale nel vano trasparente
delle tende scostate.

Di palle di neve solo, umide, bianche
la rapida sfavillante traccia.
Soltanto tetti e neve e tranne
i tetti e la neve, nessuno.

E di nuovo ricamerà la brina,
e di nuovo mi prenderanno
la tristezza di un anno trascorso
e gli affanni di un altro inverno,

e di nuovo mi tormenteranno
per una colpa non ancora pagata,
e la finestra lungo la crociera
una fame di legno serrerà.

Ma per la tenda d'un tratto
scorrerà il brivido di un'irruzione .
Il silenzio coi passi misurando
tu entrerai, come il futuro.

Apparirai presso la porta,
vestita senza fronzoli, di qualcosa di bianco,
di qualcosa proprio di quei tessuti
di cui ricamano i fiocchi.


Boris Pasternak (1890-1960)

30/03/19

Libro del Giorno: "Battisti-Panella, da Don Giovanni a Hegel" di Alexandre Ciarla.



Da tempo, personalmente, aspettavo un libro come questo. 

Faccio parte infatti di quella esigua minoranza di pazzi maniaco-ossessivi che dal primo CD - Lp, allora - pubblicato da Lucio Battisti con il nuovo paroliere, il poeta romano Pasquale Panella, Don Giovanni (1986), dopo la lunghissima era Mogol, e dopo il brutto inciampo dell'album E già (1982), realizzato con i testi scritti dalla moglie del cantautore che si firmò Velezia, si innamorò perdutamente di quelle sonorità e di questi testi completamente poetici ed ermetici, del tutto insurrezionali rispetto a quanto si era finora sentito nella musica leggera o d'autore italiana. 

Con gli album seguenti a quello, i cosiddetti bianchi (divenuti di culto per tutti i battistiani della seconda generazione),  L'apparenza (1988), La sposa occidentale (1990), Cosa succederà alla ragazza (1992), Hegel (1994), prima della precoce scomparsa del geniale musicista di Poggio Bustone morto nel 1998 a soli 53 anni, ho convissuto per molti anni, non stancandomi mai di riascoltarli (una delle caratteristiche di questi album infatti, come sottolinea l'autore di questo libro nelle ultime pagine è quella, misteriosa, di non invecchiare e di non "stancare" mai l'ascolto come avviene per quasi tutta la musica "leggera" dopo un certo numero di ascolti).

Con i 5 bianchi Battisti e Panella scioccarono il consolidato pubblico battistiano assuefatto - e per sempre orfano - delle romantiche rime mogoliane e al  contempo la schiera dei critici musicali italiani, proponendo una ardua, sempre più ardua fusione tra sperimentazioni elettroniche - sempre più estreme, giocate da Battisti negli eremitici e inaccessibili, asettici studi londinesi -  e testi apparentemente "astrusi", che invece si rivelavano, mano a mano, del tutto geniali e fecondi di sorprese e di vera sostanza poetica. 

Alexandre Ciarla in questo libro dimostra di far pienamente parte di questa schiera di maniaco-ossessivi che hanno ruminato questi cinque album ad libitum e ancora continuano a farlo. Ma fa di più: li scandaglia minuziosamente, con una pazienza e una precisione da entomologo, analizzando verso per verso non soltanto i testi delle canzoni di Panella - e confrontandolo con le rarissime ed enigmatiche interviste rilasciate dal poeta romano che oltretutto "per contratto" non ha mai potuto o voluto rivelare i particolari con quel cantautore che dell'ombra aveva fatto la sua casa, rifuggendo, più ancora di Mina, qualunque contatto con il pubblico e con la stampa, sparendo praticamente nel nulla -  ma anche le allusioni nascoste nelle enigmatiche copertine, i giochi di rimando da un album all'altro e con gli altri scritti da Panella per altri cantautori conteporanei, ma molto meno geniali di Battisti.

Ciò che emerge da questo studio così minuzioso e approfondito - e a tratti veramente geniale - è la conferma che Battisti e Panella, con questi cinque album misero veramente a soqquadro decenni di musica italiana, scardinandone il senso sentimentale - delle emozioni, del racconto d'amore - che facevano da fil rouge di quasi tutta la produzione musicale del nostro paese.  

Queste canzoni parlano d'altro - anche se di cosa esattamente è difficile dire: parlano di filosofia, di estetica, del corpo femminile, della illusione di ogni incontro, delle divagazioni e delle insincerità del "cantar leggero", del nascondersi e del rincorrersi, delle incertezze e dei dubbi: una materia dunque sfuggente e ambigua e lontanissima da qualsiasi altro "prodotto" della musica italiana degli ultimi decenni.

E' per questo che queste canzoni sembrano non invecchiare mai e anzi, ringiovanire ad ogni ascolto: è come se fossero state scritte fuori dal tempo, in un tempo oltre.  E, grazie a Battisti, che con il suo genio era in grado di "musicare anche l'elenco del telefono", con una veste formale-musicale assolutamente unica e anch'essa fuori dal tempo.

Lode dunque ad Alexandre Ciarla che dopo anni di minuziose ricerche e di cura di un fortunato blog personale al duo Battisti-Panella, si è autoprodotto e stampato questo forbito e documentatissimo libro fortemente raccomandato agli appassionati... ma non solo.

Fabrizio Falconi


Alexandre Ciarla
Battisti-Panella da Don Giovanni a Hegel
Analisi e spiegazione di tutte le canzoni 
prefazione di Renzo Stefanel
2015 - Amazon edizioni

29/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. "Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors)" di Woody Allen (1989)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors) di Woody Allen (1989)

Nella assai estesa filmografia Alleniana spuntano numerose perle, di differente sostanza e forma, la più perfetta è il dostoevskijano Crimini e Misfatti, girato dal talento newyorchese nel 1989. 

La trama è presto riassunta: l'oculista Judah Rosenthal (Martin Landau) tradisce la moglie Miriam (Claire Bloom) con la hostess Dolores (Anjelica Houston), ma quando questa mette in pericolo la sua tranquillità, la fa assassinare da un sicario e continua a condurre la sua vita senza neanche l'ombra di un rimorso.  Parallelamente a questa vicenda, si snoda quella dell'eterno perdente, il documentarista Cliff Stern (lo stesso Woody Allen) che, innamorato della bella Halley (Mia Farrow), la vede preferirgli l'arrogante Lester (Alan Alda), fratello di sua moglie Wendy (Joanna Gleason).

Girato in dieci settimane, nell'autunno del 1988, quasi interamente a New York (si riconoscono le sale del grande albergo Waldorf-Astoria al Tavern on the Green nel Central Park), Crimini e Misfatti è un brillante, amarissimo apologo sulla incapacità dell'uomo contemporaneo di orientarsi nelle questioni morali, quindi nelle relazioni, nei rapporti, e nel confronto con la propria coscienza.  E' - si potrebbe dire oggi - la preconizzazione, con quasi 30 anni di anticipo, delle teorie sulla società liquida e sull'amore liquido di cui ha teorizzato a lungo Zygmunt Bauman.

La grandezza estetica nel film è - oltre che nella perfetta sceneggiatura, un congegno mirabile, senza falle - nella magica fusione tra dramma e commedia.   Sotto la veste di una commedia apparentemente convenzionale, infatti, Allen dice cose serissime.   E, all'inverso, ogni considerazione che il film e i suoi controversi personaggi fruttano, è sottoposta alla lente dell'ironia e del tono della commedia.

Giunto al suo 19mo film e all'età di 55 anni, Allen regalò agli spettatori dunque il suo frutto più maturo, nel quale il riso si inasprisce (senza prendere i toni troppo bergmaniani di Interiors o di altri suoi film), e attraverso la metafora dell'oculista (di qualcuno cioè che di professione esamina gli occhi degli altri) illustra l'impossibilità di osservarsi veramente per ciò che si è e per ciò che si fa, in una sorta di moderno Delitto e Castigo, dove il senso di colpa è sostituito e completamente rimosso da un principio edonistico che domina la vita ordinaria borghese. 

Un criminale cioè senza rimorsi e un omicidio impunito fa da contraltare al fallimento nevrotico sentimentale di Cliff, mentre è alle prese con un documentario sulla figura di un eminente professore ebreo che incarna i valori veri o tradizionali, e che prima delle fine delle riprese si suicida.

Nel silenzio del senso (e di Dio), i due protagonisti, così differenti e così simili nel loro disorientamento, si incontrano in un'ultima lunga scena nella quale si confessano amaramente i propri sbagli e le proprie vite.

Insomma un grande film morale travestito da commedia, con attori in stato di grazia e una regia magnifica e impeccabile.

Candidato a 3 premi Oscar in quell'anno (miglior regia, migliore sceneggiatura, migliore attore non protagonista (Martin Landau)).

Fabrizio Falconi

Crimini e misfatti
(Crimes and Misdemeanors)
di Woody Allen
durata: 104 minuti
Usa, 1989





28/03/19

Torna a risplendere Santa Maria del Priorato, capolavoro e tomba del Piranesi sull'Aventino .

Il complesso della Villa del Priorato all'Aventino

Il bianco che si unisce all'ocra in una delicata e affascinante cromia. Il gioco delle ombre che restituisce la profondità e fa risaltare ogni figura sulle pareti, nelle nicchie e nella volta maestosa. E poi l'estrosa vivacità delle decorazioni, in cui tradizioni millenarie si rincorrono con i propri simboli. 

Colpisce per la sua straordinaria commistione tra simmetria e varietà la Chiesa di Santa Maria in Aventino a Roma, unica opera architettonica realizzata da Giovanni Battista Piranesi, che un accurato restauro conservativo voluto dall'Ordine di Malta ha riportato al suo splendore originale. 

La chiesa, realizzata tra il 1764 e il 1766, costituisce la rappresentazione tridimensionale del genio visionario di Piranesi, incisore e disegnatore ma anche pregevole architetto: ora, grazie al restauro, sara' fruibile anche dal pubblico, perche' l'Ordine ha deciso di aprirla ogni venerdì e almeno un sabato al mese rendendola disponibile per visite guidate.

In un trionfo di arte barocca e neoclassica, l'edificio sacro presenta decorazioni che riuniscono elementi dell'iconografia etrusca, romana e dell'antico Egitto, ponendoli in relazione con i simboli dei Cavalieri di Malta e della loro missione. 

Con l'altare dominato dalla figura di San Basilio in gloria, il patrono dell'Ordine di Malta, basta guardarsi intorno per scoprire un susseguirsi di simboli delle imprese militari e navali dell'ordine religioso accanto a ghirlande di alloro, serpenti, crani, torce a testa in giu', sarcofagi mortuari.
La facciata di Santa Maria del Priorato

Fu il cardinal Giovanni Battista Rezzonico, Gran Priore dell'Ordine e nipote di Papa Clemente XIII, a commissionarne a Piranesi il rinnovamento: in questo luogo di culto l'artista veneto si espresse con estro e magnificenza, disegnando e poi realizzando ogni minimo dettaglio, quasi a voler creare qui il suo testamento architettonico e spirituale

Situata accanto alla splendida Villa Magistrale (dove hanno sede il Gran Priorato di Roma e l'Ambasciata dell'Ordine presso la Repubblica italiana) in un complesso bellissimo con una vista mozzafiato su Roma (sono state 7000 mila le persone che lo hanno visitato nelle Giornate del Fai), ora con questo restauro - un lungo lavoro di pulitura, di consolidamento e ripristino iniziato nel 2017, con un ponteggio di oltre 900 mq - la Chiesa ritrova intatta la sua bellezza.

Il cenotafio di Giovan Battista Piranesi a Santa Maria del Priorato

Gli interventi (finanziati dalla Fondazione Roma e in parte anche dall'Ordine stesso) hanno riguardato sia gli ambienti interni che la facciata esterna. "Questo e' per il Sovrano Ordine di Malta un giorno di gioia, perche' possiamo rivedere nel suo originario splendore questo piccolo gioiello, frutto dell'unico incarico architettonico affidato a Piranesi", ha detto durante la cerimonia ufficiale il Gran Maestro Fra' Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, "da tutto il mondo ci scrivono per visitare questo luogo: il nostro sforzo e' di garantire la fruizione a scuole, accademie e istituzioni culturali". 

"Il restauro e' stato fatto centimetro per centimetro, come se fosse un quadro, anche con bisturi e spazzolino da denti. Solo arrivando al livello del soffitto e guardando con un occhio attento si possono riconoscere i nostri interventi", ha detto l'architetto Giorgio Ferreri, direttore del restauro, sottolineando che "sono stati usati solo materiali naturali e tecniche non invasive". 

Fonte: Marzia Apice per Ansa


27/03/19

Libro del Giorno: "Anime estreme" di Manuela Maddamma.



E' un libro da non perdere questo, scritto da Manuela Maddamma, esperta di storia delle dottrine esoteriche e mistiche nell'Europa moderna e contemporanea, nel 2009, raccolta di una serie di ponderosi e informatissimi mini saggi scritti per Il Foglio

Nonostante questo, il libro ha una unità stilistica e sostanziale altissima: il fil rouge strettissimo,  è quello delle grandi anime che hanno attraversato l'Ottocento e il Novecento con i loro tormenti, le loro estreme sperimentazioni, le piene e dissonanti contraddizioni, le spine caratteriali, i florilegi linguistici, i voli scriteriati oltre i limiti del buon senso e delle convenzioni, senza i quali non avrebbero concepito il lascito letterario lasciato ai posteri. 

Biografie quasi sempre segnate dall'isolamento, dalla sofferenza, dall'autolesionismo, dalla deriva alcolica, dagli abusi, dagli amori sanguinari e sbagliati o impossibili, dall'eresia praticata come stile di vita e incarnata dentro biografie complesse, che ancora oggi turbano e affascinano allo stesso tempo. 

Si alternano nei quadri disegnati da Maddamma con incredibile lucidità ed economia della materia letteraria - Cristina Campo con il suo senso profondamente religioso dello scrivere e dell'esistere, una religiosità, come scrive l'autrice, spiritualmente carnale, e il suo progressivo e radicale isolamento sollecitato anche dalle fragili condizioni della sua salute; August Strindberg, con la sua eterna inquietudine, gli interessi per l'alchimia e per le ricerche iperchimiche e per la realtà inconoscibile dei fantasmi; Charles Baudelaire, con il suo ingombrante demone, la follia incombente, il carcere dell'anima, l'attrazione verso l'abisso; Sibilla Aleramo, con il suo sfrenato narcisismo, i suoi mille uomini, la fuga da un figlio abbandonato; Vladimir Nabokov, con la sua esplorazione della sessualità proibita, in Lolita, che è anch'esso una storia di fantasmi, visto che questo è il protagonista Humbert Humbert per la ninfetta protagonista, con la sua pelle di pesca e i suoi riccioli castani; e poi anche  Virgina Woolf, Anne Sexton, Amelia Rosselli e Sarah Kane, quattro grandi poetesse accomunate da una irrequietezza simile, da una incapacità di venire a patti col mondo, e da un destino tragico; Elsa Morante e il suo ultimo meraviglioso e dolentissimo romanzo, Aracoeli, confessione viscerale di una mancanza bidirezionale, tra madre e figlio letterari e madre e figlio-non-nato della realtà (dell'autrice); PierPaolo Pasolini e il suo canto del cigno letterario, quel torbido prolisso Petrolio nel quale rifluì tutto il nero magma che animava lo spirito del poeta, la sua donchisciottesca battaglia contro il mondo; e altro ancora. 

La vicenda umana di questi fuori-posto è interessante perché è in parte anche nostra.  Ciascuno di noi, come indicò C. G. Jung, è chiamato, nella sua vita, ad attraversare il minaccioso territorio dell'Ombra, attento a non farsene risucchiare, scandagliandolo, cercando di illuminarlo e di farne emergere cospicue porzioni. 

Se è questo lo scopo per il quale si viene al mondo, come sosteneva il grande psicologo di Kesswil, bisogna essere riconoscenti a questi uomini e a queste donne, che hanno affrontato il viaggio estremo in questi territori, lasciando i loro segnavia, le loro fiaccole accese, i loro avamposti nel corso di quell'esaltante cammino dell'uomo verso la conoscenza, anche quella più oscura. 


Manuela Maddamma
Anime estreme 
Vallecchi Editore, 2009
p.144

26/03/19

Esce "Ci diciamo l'oscuro", la storia d'amore tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann .



L'ha scritto Helmut Bottiger il primo libro che racconta la tormentatissima storia d'amore tra due giganti della poesia del Novecento, Paul Celan e Ingeborg Bachmann ed ora esce in Italia per l'editore Neri Pozza. 

I due poeti, l'una austriaca, l'altro rumeno di nascita (il suo nome era un anagramma di quello vero: "Ancel"), si erano conosciuti a Vienna nel 1948.  La Bachmann aveva 22 anni e studiava filosofia (si laureò con una tesi su Heidegger), lui aveva una storia tragica già alle spalle: sfuggito per miracolo all'Olocausto, Celan, a 22 anni, nel 1942 non era stato presente quando i suoi genitori, ebrei, furono deportati e poi uccisi.  Anche Paul fu internato in un campo di lavoro nazista, ma - non si sa esattamente come - riuscì a fuggire e a raggiungere Bucarest da dove, nel '47 se ne andò per raggiungere a piedi Vienna, nauseato dall'antisemitismo che sentiva regnare nel suo paese tra i nuovi invasori bolscevichi. 

Anche la Bachmann, più giovane di 6 anni, aveva dovuto fare i conti con la tragedia: suo padre era stato membro del partito nazista, dopo che da ragazzina, nel '38, aveva visto Klagenfurt, la città dove era nata e cresciuta, invasa dalle truppe di Hitler. 

A Vienna, nel '48 era iniziata tra i due una storia d'amore: Celan, poverissimo, esule, aveva incantato la giovane viennese con i suoi versi, le aveva riempito la stanza di papaveri, insieme avevano trascorso sei settimane bellissime, poi lui era partito, senza un soldo, per Parigi, la città dalla quale lui, ormai apolide, si sentiva inesorabilmente attratto. 

Ingeborg lo raggiunse un paio d'anni più tardi, nel '50, e la loro storia proseguì, nella difficoltà un continuo lasciarsi, riprendersi, tentare di diventare amici. 

Per entrambi la scelta della poesia era radicale: una ragione di vita. E quando due anni più tardi, nel '52, Ingeborg presentò Celan alla riunione a Niendorf del prestigioso Gruppo '47 che aveva rivoluzionato la letteratura tedesca e lanciato i più grandi intellettuali e poeti dell'epoca, l'esibizione di Celan fu un fiasco: il carattere del poeta era pieno di contrasti, tetro e allegro, insofferente e conciliante, taciturno e a volte logorroico, in più il suo modo di leggere le poesie era quasi una meditazione, con pause lunghissime e un intenso pathos, che poco piaceva agli intellettuali tedeschi dell'epoca. 

Deluso, Celan, tornò a Parigi.  Anche se il rapporto con la Bachmann, fatto di anima e di versi, proseguì: lui le dedicò anche la raccolta "Papavero e memoria" in cui si rievocavano gli incanti dei giorni del '48.  

Anche a distanza i due non smisero di scriversi, di cercarsi, di interagire. 

E quando Celan, divorato dai suoi demoni, mise fine ai suoi attacchi di follia gettandosi nelle acque della Senna (1970), per la Bachmann il dolore fu insostenibile. Solo 3 anni più tardi anche Ingeborg morì tragicamente a Roma, nel suo letto, a causa di una sigaretta che aveva tra le dita e che incendiò il letto nel quale dormiva.   

Negli ultimi tempi fumava cento Gitane senza filtro al giorno e assumeva forti sonniferi da cui era diventata dipendente.

L'amore li aveva uniti forse troppo brevemente, e  non li aveva salvati.

Fabrizio Falconi


Helmut Bottiger
Ci diciamo l'oscuro 
traduz. Alessandra Luise 
Neri Pozza 2018 
pagine 273 


25/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. "Effetto Notte (La nuit américaine)" di Francois Truffaut (1973)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 6. Effetto Notte (La nuit américaine) di Francois Truffaut (1973).

La genialità e il sentimento sono le due coordinate su cui si muove Effetto Notte, il capolavoro firmato da Francois Truffaut nel 1973 (premio Oscar per il miglior film straniero quell'anno), che prende il titolo dal noto uso delle lenti artificiali per produrre l'effetto notturno in scene girate di giorno, che in francese si chiama appunto Nuit américaine.

Il film è anzitutto un prodigio tecnico, nel suo sperimentalismo: l'oggetto della storia è infatti proprio la realizzazione di un film, raccontato dal primo giorno di manovella fino all'ultimo giorno di riprese, con la separazione dell'intera équipe di attori e di tecnici.

Interamente girato negli studi della Victorine, a Nizza, dove è riprodotta una vera piazza di Parigi con all'interno i luoghi che servono alla realizzazione di un film:  il pullman dei camerini, quello delle sale di abbigliamento, di trucco, di proiezione di  montaggio, Effetto Notte racconta contemporaneamente 2 storie: quella del film che si sta girando (intitolato Je vous présente Pamela) e quella del backstage, del dietro le quinte, cioè quella che accade veramente tra i cinque attori protagonisti, il regista - Ferrand, interpretato dallo stesso Truffaut - il produttore e i tecnici).

Il film però non assomiglia per niente a 8 e 1/2 di Fellini così come ad altri film che hanno raccontato la lavorazione di una pellicola.

Ciò che interessa Truffaut infatti non è tanto il processo creativo del regista, che sta dietro alla nascita di un film, ma il mondo di aneddoti, di situazioni, di incidenti, piccoli e grandi che costituiscono le relazioni della gente che lavora a un film. 

E il prodigio in cui riesce Truffaut, veramente miracoloso, è proprio questo: che nessuna delle scene che avvengono tra gli attori, nessuno degli incerti, nessuna delle situazioni sembra di per sé particolarmente rilevante, né tutte insieme esse compongono una vera e propria trama; ma è proprio questa dimensione corale a coinvolgere a tal punto lo spettatore che ben presto egli si sente uno dei personaggi dietro le quinte, uno dei personaggi chiamati a dare il suo contributo a questa storia che sta per nascere, che deve nascere.

Si attua così un vero e proprio gioco di specchi in cui si confonde ciò che è vero con ciò che è raccontato, l'osservatore con l'osservato, il falso e il reale, l'essenziale e la maschera. 

Il cinema, ci dice Truffaut come sosteneva Bergman in Fanny e Alexander, è un mondo in movimento che si nutre e vive e rappresenta quello reale e influenza quel mondo a sua volta. 

Un film meraviglioso e poetico che non ci si stanca mai di rivedere.

Effetto Notte
(La Nuit Américaine)
di Francois Truffaut
Francia, Italia, 1973
con Jacqueline Bisset, François Truffaut, Valentina Cortese, Jean-Pierre Aumont.



24/03/19

Poesia della Domenica: "Camminando tranquillamente in questo giorno di Aprile" di Delmore Schwartz.



Camminando tranquillamente in questo giorno di Aprile
Cosa rimarrà di me e te
A parte le foto e i ricordi?
Questa è la scuola in cui impariamo,
quel tempo è il fuoco in cui bruciamo
Qual è il sé in mezzo a questo incendio?
Cosa sono ora che ero anche allora?
Per cosa dovrei soffrire e agire ancora?
[…]
Le urla dei bambini sono gioiose mentre corrono
Questa è la scuola in cui imparano
Cosa sono ora che ero anche allora?
I ricordi si rinnovano ancora e ancora.
Il colore più leggero del giorno più breve:
Il tempo è la scuola in cui impariamo,
Il tempo è il fuoco in cui bruciamo.
What will become of you and me
(This is the school in which we learn …)
Besides the photo and the memory?

(… that time is the fire in which we burn.)
 is the self amid this blaze?
What am I now that I was then
Which I shall suffer and act again,
[…]
The children shouting are bright as they run
(This is the school in which they learn …)What am I now that I was then?
May memory restore again and again
The smallest color of the smallest day:
Time is the school in which we learn,

22/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 5. "La Fiamma del Peccato (Double Indemnity) (1944).


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 5. "La Fiamma del Peccato (Double Indemnity) (1944)


Era soltanto al suo terzo film, il grande Billy Wilder, sbarcato nel 1933 a 27 anni a cercar fortuna in America, proveniente dalla lontana Polonia, dove gli ebrei come lui rischiavano ormai la pelle (la madre, il patrigno e la nonna morirono nel campo di sterminio di Auschwitz).  

Affermatosi in breve tempo come scrittore a Hollywood, Wilder finì ben presto dietro la macchina da presa, diventando nei decenni successivi uno dei registi più importanti della storia del cinema, ispirazione e modello per tanti altri. 

La fiamma del peccato è forse il suo più grande capolavoro in mezzo a tanti altri capolavori.  Tratto dal romanzo omonimo di James C. Cain e sceneggiato dallo stesso regista insieme al grande Raymond Chandler (i rapporti tra i due furono ben complicati, come succede spesso tra personalità forti), racconta la vicenda dell'assicuratore Walter Neff (Fred Mc Murray) che travolto dalla passione per una sua cliente, Phillys Dietrichson (Barbara Stanwick) diventa suo complice nell'assassinio del marito, allo scopo di far riscuotere alla neo vedova la doppia indennità (da cui il titolo originale inglese) prevista dall'assicurazione. 


A smascherare i due sarà il terzo elemento di questo triangolo nero, Barton Keyes (Edward G. Robinson) meticoloso e pedante responsabile dell'ufficio contenziosi e collega di Walter. 

Prototipo di ogni noir successivo (non si tratta di un giallo vero e proprio perché il film comincia già con la confessione di Walter e poi srotola la vicenda all'indietro), La fiamma del peccato per perfezione di scrittura, analisi dei temi morali, allusioni e tensione erotica e scontro tra due intelligenze che si affrontano sul filo del Male e del Bene, è degno dei grandi film di Kubrick. 

Se, come abbiamo detto, il film è il prototipo del noir, Barbara Stanwick è in questo film il modello del villain cinematografico,  in questo caso precursore di ogni più classica dark lady, un raffinato e sofisticato mix di malvagità e perversione, di erotismo e freddo cinismo, indifferenza a qualsiasi tipo di amore. 

Ogni sequenza di questo film che dura poco meno di due ore, è da antologia, compresi ovviamente i primi piani sulla catenina al collo del piede nudo che Barbara/Phillys sventola sotto il naso del complice, e che suona come una sorta di macabro richiamo amoroso/criminale. 

Il film fu candidato a 7 premi Oscar ma non ne vinse nemmeno uno a dimostrazione che Wilder volava già all'epoca troppo in alto rispetto al gusto conformista dell'Academy.

Questo film però si è abbondantemente preso la rivincita nelle scuole e nelle università di cinema e nella memoria collettiva, visto che ancora oggi si riguarda e si apprezza come un grande classico, la cui modernità misteriosamente, non si scalfisce.

Fabrizio Falconi


21/03/19

Quando Leonardo da Vinci soggiornò in Vaticano. Tutti in coda per ammirare il San Girolamo nel Deserto.


Leonardo da Vinci soggiornò in Vaticano. La notizia e' confermata da un documento di archivio che, scrive l'Osservatore Romano, torna alla luce in occasione dell'esposizione gratuita di un opera davinciana dei Musei vaticani, il San Girolamo nel deserto. 

Per tre mesi, dal 22 marzo al 22 giugno prossimi, scrive sul giornale vaticano la direttrice dei Musei, Barbara Jatta, "l'opera verrà trasferita nella sede del Braccio di Carlo Magno in Piazza San Pietro, in una piccola ma significativa esposizione, dove verrà mostrato da solo, gratuitamente, a tutti i pellegrini, visitatori e cultori dell'arte come omaggio del Vaticano per le celebrazioni dei cinquecento anni dalla morte del grande artista rinascimentale. Il San Girolamo nel deserto dei Musei Vaticani è un capolavoro indiscusso del genio leonardesco. Proprio per la sua caratteristica di 'non finito' è ritenuto fra le sue opere più interessanti ed è annoverato fra i pochissimi dipinti la cui autografia non è stata mai messa in discussione". 

La mostra viene inaugurata oggi, il 21 marzo nel Braccio di Carlo Magno; tra le testimonianze più preziose, sottolinea l'Osservatore Romano, ci sarà anche un documento dell'Archivio storico della Fabbrica di San Pietro del 1513, prestato per questa occasione, che conferma il soggiorno di Leonardo in un appartamento per lui allestito nel Belvedere Vaticano. 

Sono gli stessi anni in cui è certa la presenza contemporanea a Roma anche di Michelangelo, Raffaello, Bramante.