24/10/18

Svelato il mistero ? La mummia egizia con tatuaggi di 3.000 anni fa era una strega.



A due anni dall'annuncio della sua scoperta, fatta a Luxor, e' stata confermata l'identita' della mummia egizia coperta di tatuaggi singolari: era una maga vissuta fra il 1300 e il 1070 avanti Cristo e morta quando aveva fra 25 e 34 anni. 

Lo ha annunciato il segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichita' Egiziane, Mustafa el Waziri

Secondo gli esperti i resti rappresentano il primo esempio di complessi tatuaggi a scopi religiosi nell'antico Egitto

L'ipotesi dell'identita' della mummia era stata avanzata nel 2016 dai ricercatori che l'avevano studiata, sotto la guida di Anne Austin dell'universita' americana di Stanford

Decorata con circa 30 tatuaggi, la mummia, scoperta nel sito di Deir El-Madina, aveva subito destato grande curiosita', ma senza mani, gambe, testa e bacino, non era stato facile ricostruire eta' e identita' del corpo. 

I disegni su spalle, collo, schiena e braccia che raffigurano fiori di loto e babbuini seduti, simboli magici di guarigione e protezione contro le malattia, e la moltitudine di occhi di Horus, simboli di protezione contro il male, avevano fatto ipotizzare ai ricercatori che fosse il corpo di una sacerdotessa o una sorta di maga. 


Gli stessi ricercatori avevano calcolato anche l'eta' della donna al momento della morte, in base alla crescita e alla densita' ossea. 

"Da qualsiasi angolazione guardi questa donna, vedi un paio di occhi divini che ti guardano", aveva rilevato Austin. 

Tuttavia c'era un problema con l'ipotesi degli studiosi: finora si pensava che nell'Antico Egitto alle donne non fosse permesso di agire come figure religiose e lo studio aveva acceso un grande dibattito fra gli esperti. Il Supremo Consiglio delle Antichita' vi ha quindi messo fine riconoscendo ufficialmente che i resti della mummia scoperta a Luxor appartengono davvero a una figura che ha avuto un ruolo di significato religioso nella storia dell'antico Egitto.

23/10/18

Trovato nel Mar Nero a 2 km di profondità il relitto navale più antico del mondo!



Il piu' vecchio relitto "intatto" del mondo, una nave greca risalente al 400 a.C., e' stato scoperto sui fondali mar Nero. 

Lo ha annunciato una spedizione scientifica anglo-bulgara

"Non avrei mai pensato che sarebbe stato possibile ritrovate intatta e a due chilometri di profondita', una nave risalente a quell'epoca", ha dichiarato il professor Jon Adams, direttore del Centro di archeologia marittima dell'universita' di Southampton (sud dell'Inghilterra), uno dei leader della spedizione. 

"Con questa scoperta potremo approfondire la nostra conoscenza delle costruzioni navali e della navigazione nei tempi antichi", ha aggiunto in un comunicato. 

La spedizione Black Sea MAP ha scandagliato per tre anni i fondali del mar Nero coprendo un'area di piu' di 2.000 km² al largo della Bulgaria con un sonar e un veicolo telecomandato munito di telecamere per l'esplorazione in acque profonde. 

La squadra ha scoperto piu' di 60 relitti risalenti all'epoca, all'epoca romana e fino al XVIIesimo secolo

La piu' antica e' stata ritrovata ad una profondita' in cui l'acqua e' sprovvista di ossigeno e puo' "conservare le materie organiche per migliaia di anni", ha precisato la squadra del Black Sea Map. "Noi abbiamo pezzi di relitti che risalgono ad un'epoca piu' antica ma questa sembra veramente intatta", ha sottolineato sulla Bbc l'archeologa Helen Farr. "E' adagiato su un fianco, ci sono ancora l'albero e il timone, non si vedono queste cose tutti i giorni", ha aggiunto. 

Questo "tipo di imbarcazione greca era stata finora osservata solamente sulle decorazioni delle porcellane greche", hanno sottolineato gli scienziati

La spedizione e' stata realizzata congiuntamente dall'Universita' di Southampton, dal Museo archeologico nazionale, dall'Accademia delle scienze e dal Centro di archeologia sottomarina di Bulgaria. 


22/10/18

Libro del Giorno: "Jackson Pollock - Lettere, Riflessioni, Testimonianze".




La mostra attualmente in corso a Roma, al Vittoriano, dedicata a Jackson Pollock e alla "Scuola di New York" è l'occasione per tornare alla figura di questo gigante dell'arte del XXmo secolo, attraverso un prezioso libro, edito da Ascondita e curato da Elena Pontiggia, che ripercorre sua la vicenda umana e artistica attraverso le rare lettere e scritti dello stesso Pollock, e alle testimonianze e riflessioni di coloro che lo hanno conosciuto, che ne hanno condiviso il percorso artistico o che ne sono stati attratti e colpiti per sempre. 

Si ripercorre così la storia di questo ragazzo, nato in provincia, a Cody, nel Wyoming, nel 1912, ultimo di cinque fratelli, da un padre contadino (poi agrimensore) e da una madre di origini irlandesi. L'infanzia e la giovinezza irrequieti, in un'America poverissima, gli studi alla Art Students League di New York, l'attraversamento del Paese da Ovest a Est in autostop e su mezzi di fortuna, la dipendenza dall'alcool, il carattere introverso e irascibile, la leggenda che ne è scaturita, l'incontro con Benton (di cui frequentò i corsi a New York), e con il muralismo messicano di Orozco e Siqueiros, la scoperta delle arti manuali e visive dei nativi americani, l'incontro con Lee Krasner che diventa sua moglie e la sua sodale artistica, l'incontro ancora più decisivo con Peggy Guggenheim, che lo lancia definitivamente sul mercato dell'arte, specialmente quello europeo, gli anni del ritiro nella casa di Springs, nel Long Island, gli esperimenti sempre più arditi con il dripping, la partecipazione al gruppo degli Irascibili, la frattura alla caviglia che gli rende difficile il lavoro, la separazione con Lee e alla fine il terribile incidente stradale che a soli 44 anni mette fine alla sua vita e a quella di un'altra donna (la sua compagna dell'epoca, Ruth Klingman, sopravvive). 

Ne emerge il ritratto di un uomo-artista-assoluto, assolutamente non incline ai compromessi,  quasi del tutto incompreso eppure desideroso soltanto di esprimere se stesso, il groviglio che abita la sua anima e di cui è perfettamente consapevole - quasi fosse uno stato di trance - solo quando dipinge, nella sua tecnica particolare, con la grande tela disposta ai suoi piedi e lui che letteralmente gli danza intorno disponendo il colore a schizzi. 

Il rifiuto del caso: "Non utilizzo il caso. Solo quando perdo il contatto con il quadro il risultato è caotico. Altrimenti c'è armonia totale;"  la fede nell'arte: "L'arte moderna lavora per esprimere un mondo interiore... esprime l'energia, il movimento e altre forze interiori"; la consapevolezza di una sfida vinta: "Ho fatto uscire la pittura dallo spazio angusto dell'atelier per portarla nel mondo e nella vita"; l'importanza del rapporto con l'inconscio: "L'inconscio è un elemento importante dell'arte moderna e penso che le pulsioni dell'inconscio abbiano grande significato per chi guarda un quadro." 

Qualcuno ha detto che l'arte di Pollock è cosmogonica. Ricercatori hanno anche azzardato una stretta correlazione - di cui Pollock ovviamente non poteva essere consapevole - tra le sue tele e i frattali, le strutture di cui è composto l'universo. 

Il mistero della grande arte di Pollock è in questa forza incredibile. La forza interiore di un cuore che contiene in sé il segreto dell'universo intero. 






19/10/18

Incredibile ! Riappare dopo 100 anni a Roma il "Bal Tic Tac", il locale affrescato da Giacomo Balla di cui si era persa ogni traccia.



Frutto di un fortuito quanto eccezionale ritrovamento, riappare dopo un secolo a Roma, al piano terra di un edificio di proprieta' della Banca d'Italia: l'ingresso interamente dipinto a tempera da Giacomo Balla per il Bal Tic Tac, un locale dove negli anni Venti si suonava il jazz. 

Si tratta della Villa Huffer, che sorge nei pressi del Quirinale.


"Una scoperta sensazionale" sottolinea il soprintendente alle Belle Arti e all'Archeologia di Roma, Francesco Prosperetti.

L'ambiente verra' studiato da una commissione di esperti, restaurato e alla fine aperto al pubblico.

Fonte Ansa



17/10/18

A Parigi nel nuovo meraviglioso spazio della Fondation Vuitton una grande mostra dedicata a due geni irregolari: Schiele e Basquiat.


Due artisti «maledetti». Due enfant prodige, intensi, dal talento esplosivo e dalla creatività, per citare Suzanne Pagès, direttore artistico della Fondation Louis Vuitton, «prolifica e folgorante».  
Morti giovanissimi, entrambi all’età di 28 anni ma a 70 anni di distanza, l’austriaco Egon Schiele e l’americano di origine portoricana Jean-Michel Basquiat, sono i protagonisti della grande mostra che si tiene in quest’istituzione dal 3 ottobre al 14 gennaio. 

Il curatore invitato Didier Buchhart ricorda che questo confronto tra i due artisti ha un senso: la loro opera li ha resi delle «icone» per le generazioni successive. Ha rivelato, nel posizionamento borderline, una capacità di rompere gli schemi, di interrogarsi sulla vita. 

Con Schiele, è la prima volta che questo spazio espositivo dedica una monografia ad un artista storico e con Basquiat è la prima volta che un artista riceve dalla Fondation (che possiede d’altronde diverse sue opere nella collezione permanente) un omaggio di tale portata.
La Fondazione Louis Vuitton a Parigi

In entrambi i casi, saranno esposte opere finora mai presentate. 

Nel caso di Basquiat, grazie anche a una collaborazione con la Brant foundation di New York. La sezione consacrata al pittore austriaco (120 opere) si divide in quattro parti che illustrano il suo passaggio da un’arte influenzata dallo jugendstil e dal maestro Klimt a disegni e rappresentazioni dai tracciati nervosi e dalle linee torturate in uno stile subito identificabile. Numerosi saranno gli autoritratti e i nudi e si terminerà con l’incompiuto Des amoureux, dipinto poco prima della morte. 

Organizzato cronologicamente su 2.500 mq, l’itinerario su Basquiat (135 opere) mostrerà a qual punto egli interpelli le coscienze su temi come l’esclusione, il razzismo, l’oppressione, che confermano la sua affermazione: «L’80% del mio lavoro è rabbia».

TUTTE LE INFO SULLA MOSTRA QUI

16/10/18

Vicino Terni affiora lo scheletro di una bambina con un sasso nella bocca: è la prova che fu la malaria a fermare Attila ?



Nuove conferme alla tesi degli archeologi della presenza della malaria che, nella meta' del V secolo d.C., infesto' l'area dove oggi sorge Lugnano in Teverina, fermando l'avanzata di Attila: dal sito archeologico di Poggio Gramignano e' emersa infatti una tomba con i resti di una bambina di dieci anni, con la bocca aperta e una pietra collocata all'interno della cavita' orale, pietra che ricondurrebbe ad un rito legato presumibilmente all'epidemia della malattia. 

Il rinvenimento e' avvenuto durante la campagna di scavi nello scorso luglio ad opera di un'equipe di archeologi statunitensi guidata da David Soren, dell'universita' dell'Arizona, che per primo scopri' la necropoli dei bambini. 

Le operazioni sono state condotte da ricercatori della Yale e della Stanford University, in collaborazione con la Soprintendenza archeologica, Belle Arti e Paesaggio dell'Umbria e il Comune di Lugnano in Teverina. 

La scoperta si riallaccia alla tesi secondo la quale Attila, durante la sua campagna di conquista verso Roma, desistette nell'avanzare dopo essersi imbattuto proprio nella presenza della malaria. 

"Questa scoperta - afferma una nota del Comune - sta suscitando molto interesse a livello internazionale sia dal punto di vista scientifico che da quello mediatico. Non possiamo quindi che ritenerci soddisfatti per i risultati ottenuti e che daranno sicuramente piu' visibilita' al nostro sito archeologico proprio mentre ci apprestiamo a portare a termine il progetto di copertura dell'area di Poggio Gramignano che, grazie ai finanziamenti delle Aree Interne, verra' reso fruibile ai turisti". 

A Poggio Gramignano gli archeologi scavano da tre anni sui resti di un'antica villa di epoca romana, riportata alla luce proprio dall'universita' dell'Arizona dal 1988 al 1993. 

Alcuni ambienti furono riutilizzati alla meta' del V secolo d.C. come cimitero di bambini

15/10/18

Bergman, Le Rovine e l'Ombra, Cercare Dio: Un articolo di Raoul Precht per "Succede oggi".


A cent'anni dalla nascita, è tempo di tornare alla lezione di Ingmar Bergman: un invito costante alla curiosità, al porsi anche quesiti profondi e assillanti. 

È tutto questo ciò che evita alla vita di non essere altro che un vuoto senza fine. 

Durante un’intervista, quando gli domandarono quali fossero le qualità di un buon disegnatore di fumetti, Charles M. Schulz rispose che bisognava essere bravi a scrivere ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati degli scrittori; bravi a disegnare ma non troppo, altrimenti si sarebbe stati dei pittori, e che insomma la prima virtù era una specie di aurea mediocrità in tutte le discipline contigue. 

Mi è tornata in mente, questa definizione, leggendo quello che scriveva da parte sua Ingmar Bergman in un discorso destinato alla cerimonia dell’Erasmus Award nella primavera del 1965, cerimonia cui poi non poté partecipare perché malato. 

In questo testo autobiografico, Bergman sosteneva che per lui la scelta di fare cinema era stata quasi obbligata, poiché era taciturno e non aveva mai avuto troppe parole a disposizione, era incapace di fare musica e insensibile all’arte

Il cinema, che queste abilità non richiedeva, o almeno non in misura eccessiva, lo aveva salvato: gli aveva permesso di esprimersi anche in loro assenza e di comunicare con l’universo che lo circondava

Nello stesso discorso, Bergman sottolineava però anche di essersi ormai reso conto, man mano che gli anni avanzavano, di quanto l’arte in genere, e non solo il cinema, stesse perdendo sempre più d’importanza, importanza inversamente proporzionale all’investimento emotivo e pratico che gli artisti e chi li circonda continuano a farvi confluire, e di come alla fin fine la sola giustificazione della sua continua sperimentazione si riducesse a un’inesauribile e salvifica curiosità.

Di Bergman ho voluto rivedere di recente alcuni film considerati unanimemente dei capolavori, e la prima reazione è stata di stupore per la loro tenuta nel tempo. 

Certo, dagli anni Cinquanta e Sessanta a oggi le tecniche cinematografiche si sono completamente trasformate, e quelli che a quei tempi erano colpi di genio oggi potrebbero sembrarci delle ingenuità, ma questo in fondo è un dettaglio.

La verità è un’altra, e molto più sorprendente: anche se questi film non venissero visionati, per ipotesi, col senno del poi, inquadrandoli cioè nel loro contesto storico e temporale, ma come se fossero stati invece girati ieri, ebbene, ci apparirebbero comunque di una freschezza e di un’attualità che hanno del miracoloso

Lo stesso vale, e anche questo ha del portentoso, per le tematiche che Bergman affronta e che sembrano davvero universali. 

Prendiamo un tema per tutti: quello della fede e dei suoi limiti

Nei suoi due ultimi libri, Le rovine e l’ombra e Cercare Dio, entrambi editi da Castelvecchi, Fabrizio Falconi dedica numerose pagine alla figura di Bergman, rimarcando fra le altre cose come fosse stato definito con un ossimoro un «ateo cristiano»: di sicuro, la sua vicenda biografica comincia con una contrapposizione radicale al padre, un rigido predicatore luterano che infliggeva punizioni a tutta la famiglia; era coadiuvato in questo dalla cuoca, leggo, che soleva rinchiuderne i figli in un ripostiglio dove a suo dire un mostriciattolo si nutriva delle dita dei bambini cattivi.



                     

Non stupisce che uno dei principali messaggi dell’opera di Bergman sia il disprezzo per una religione ridotta a pura apparenza, al cui riparo si possono compiere azioni vergognose. 

Al di là di quest’aspetto, che stigmatizza più le istituzioni religiose – il padre diventerà cappellano alla Corte reale di Svezia – che la fede in quanto tale, le difficoltà insite nella ricerca religiosa, nella ricerca di Dio, compaiono in quasi tutti i film, e in molti sono in primo piano: si pensi solo a Luci d’inverno, secondo film della trilogia dedicata appunto ai dilemmi religiosi, che mostra i dubbi e le perplessità in cui si dibatte un pastore protestante cui Dio sembra sempre più lontano

Ma prima ancora, ci si ricordi del cavaliere del Settimo sigillo e della sua accorata invocazione: «Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, e preghiere sussurrate, e incomprensibili miracoli?». E soprattutto dell’emblematica conclusione: «Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri?»

Se è vero che dell’opera di Bergman sono state avallate le interpretazioni ideologicamente più diverse, e che quindi bisogna procedere sempre con i piedi di piombo, trattandosi oltretutto di una traiettoria lunghissima, è anche assodato che la ricerca di una via verso la spiritualità, che consenta di trascendere e superare l’immedicabile tristezza della vita, è e resta uno dei temi dominanti della sua poetica. 

Quando, sempre nel Settimo sigillo, ha luogo la famosa conversazione fra il protagonista e la morte, e questa allude alla possibilità che Dio non esista – perché anche il silenzio che Dio oppone agli uomini può essere eloquente –, il cavaliere sbotta: «Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine: nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel Nulla, senza speranza». (Eppure, chiosa la morte, «molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose»). 

Molti film successivi, dal Posto delle fragole a Sussurri e grida, inducono a pensare che per Bergman quest’aporia non sia risolvibile, ma che al massimo il dolore del vivere possa essere lenito dalla vicinanza di altri esseri, dalla loro intima solidarietà

Se Dio tace o non c’è, solo l’uomo è in grado di aiutare i propri simili a sopportare la vita. In questo senso può essere letto anche un altro momento cruciale, uno dei mirabolanti sogni (o meglio incubi) del Posto delle fragole: quando l’anziano professor Borg, un illustre medico, sogna di dover superare un esame, il quesito cui non sa rispondere viene risolto in modo inaspettato. Per lunghi anni Borg ha infatti esercitato la professione senza apparentemente sapere quale sia, del medico, il primo dovere; e questo dovere, scopriamo, è di chiedere scusa. 

Nel contesto del film, e poi di tutta l’opera bergmanniana, la frase deve essere interpretata come una messa in discussione del ruolo dell’intellettuale, che allontanandosi dalla gente semplice mostra superbia e arroganza; mentre l’unico farmaco vero che il medico può dispensare non è un composto chimico, ma umano, e ha una duplice valenza, essendo costituito da un lato dalla consapevolezza dei propri limiti e dall’altro dalla vicinanza al malato, e dunque, ancora una volta, dalla solidarietà umana

Neanche la morte, cui il medico è chiamato più di altri ad assistere, corrisponde mai a una soluzione, o permette un chiarimento; né per l’essere che se ne va (ma dove?), né per coloro che restano e devono fare i conti con l’assenza. 

Semmai, essa aumenta il peso specifico dell’Unheimlich che ci circonda e di cui non sappiamo liberarci

Non a caso, alla fine del film e del suo viaggio o percorso iniziatico la sola cosa che il protagonista potrà fare, dopo una vita sprecata perché immolata sull’altare dell’egoismo, sarà convincere il figlio (anche lui medico) a non ripercorrerne i passi. 

All’approfondimento dei grandi temi esistenziali corrisponde in Bergman – di cui ricorrono oggi i cent’anni dalla nascita – una semplificazione sempre più evidente degli elementi che giungono a creare la composizione filmica. 

Il commento musicale è ridotto al minimo e si ispira spesso al modello d’austerità di Bach, le scenografie diventano – si pensi a Sussurri e grida o ancora di più a Persona – quasi solo macchie di colore. 

Acquistano sempre più visibilità e spessore i volti, soprattutto quelli femminili, percorsi da Bergman con un’insistenza quasi feticistica, con una dolorosa passione. 

Volti di donne (da Ingrid Thulin a Bibi Andersson, da Liv Ullmann all’ultima moglie, Ingrid von Rosen) che sovente sono state sue compagne, con alterne vicende, anche nella vita. 

Questa semplificazione progressiva, di un rigore luterano, la si ritrova – volendo tentare una definizione lapidaria – anche nella trattazione dei soggetti: parallelamente, si passa infatti dalla ricerca di risposte alle proprie angosce e al senso d’inutilità dell’artista (anni ’50) alla disperazione e allo sconforto metafisico (primi anni ’60), all’isolamento anche fisico dell’artista (seconda metà degli anni ’60) che corrisponde al volontario ritiro di Bergman, fin dal 1966, sull’isola di Fårö, fino alla sofferta partecipazione alla solitudine e al dolore di ciascun individuo (anni ’70). 

Alla berlina vengono messi costantemente l’apparente benessere e l’illusione della felicità personale, egoistica appunto, che la società dei consumi avrebbe offerto all’individuo, ma le cui facili lusinghe sono invece regolarmente smentite dalla profonda incomunicabilità fra gli esseri umani

Bergman ci ha lasciato un autentico patrimonio d’immagini, storie e momenti indimenticabili, un distillato delle grandi e irrisolte questioni che continuano ad agitarci. Il tentativo di una risposta, ispirata, come lui stesso suggeriva, alla curiosità, è forse ancora oggi l’unica giustificazione possibile del fare arte, in un mondo che a parere del regista la considera marginale e crede di potervi rinunciare. A suo parere? Ma rispetto a cinquant’anni fa gli spazi della creatività non si sono forse ridotti, se possibile, ancora di più?

14/10/18

Terminata la Prevendita - Dove è possibile acquistare ora il nuovo libro: "Nessun pensiero conosce l'amore" ?



E' uscito il nuovo libro di Fabrizio Falconi, "Nessun pensiero conosce l'amore", 53 composizioni, 100 pagine.  

Il periodo di prevendita a 10 euro è terminato.

Dove è possibile acquistare da oggi il libro (al prezzo di 11.50 euro)?

Il libro si può acquistare direttamente dall'editore INTERNOPOESIA, cliccando QUI. 

Oppure si può acquistare sulle librerie online: 

IBS - cliccando QUI

FELTRINELLI - cliccando QUI



Poesia della Domenica - "Passi" di Silvia Bre.




Quali ripari vado immaginando…
È dove non s’avverte che universo
remoto al mio dolere e le sere
farsi previsione sterminata, case
libere al vento. Sono le illuse strade
dove la fortuna d’un momento
sparendo mi ritrova e io m’accendo
alla più magra luna senza cielo:
con tanti minuscoli bagliori
si fa il sereno d’una notte.
Così il tempo mi svola, le ali accosta
nella fine di una lucciola stanca
a cercar sosta – ma pure i fili d’erba tra le rovine
sono contenti della primavera
e per la quercia grande che m’invento
s’allunga in belvedere una finestra
via dal deserto, e l’ombra piove,
come se fossi già quel che divento.

Silvia Bre, da Passi, Le barricate misteriose (Einaudi, 2001)
euro : 9,30 

13/10/18

Una bellissima mostra dedicata a Jackson Pollock e alla Scuola di New York fino al 24 febbraio al Vittoriano.


Jackson Pollock Number 27, 1950 Olio, smalto e pittura di alluminio su tela, dal Withney Museum di NY esaposto per la prima volta in Italia


La grandezza di Jackson Pollock come cerniera tra il prima e il dopo e la vivacita' di New York che negli anni Cinquanta del secolo scorso divento' la capitale del contemporaneo.

Sono i due filoni che si intrecciano nella mostra "Pollock e la scuola di New York", fino al 24 febbraio al Complesso del Vittoriano, a Roma.

Un appuntamento di grande appeal in particolare per il capolavoro del grande artista, l' opera Number 27 prestata dal Whitney Museum ed esposta per la prima volta nella Capitale.

La grande tela - olio, smalto e vernice in alluminio - lunga oltre tre metri, occupa uno spazio privilegiato accanto agli altri big della pittura di quegli anni, Mark Rothko, Willem de Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell.

Una cinquantina di tele preziose, una carrellata di colori, forme e linee per raccontare gli anni dell' espressionismo astratto. 

"Dopo Pollock probabilmente la pittura non sara' piu' la stessa cosa - spiega Luca Beatrice, che con David Breslin e Carrie Springer, del Whitney Museum, ha curato la rassegna italiana -. Sara' spazio, tempo, energia, movimento, quasi ad anticipare la body art. Pollock fu il primo artista americano a conquistare la celebrita' non soltanto tra gli addetti ai lavori".

La scuola di New York, che intese la pittura come "palestra di sperimentazione", ebbe il suo punto di svolta dopo l' esclusione degli esponenti dell' action painting, nel maggio 1950, dalla mostra di arte contemporanea del Metropolitan Museum.

Gli "irascibili", cosi' li defini' lo Herald Tribune, reagirono segnando quel periodo con le loro produzioni anticonformiste e rivoluzionarie.

Beatrice, anche nel suo testo in catalogo, offre lo spunto a considerare proprio il 1956 l' anno di inizio dell' arte contemporanea: l' 11 agosto Pollock, "gran bevitore che viveva di eccessi", mori' a 44 in un incidente stradale schiantandosi con la sua auto, come era avvenuto pochi mesi prima per James Dean.

La Oldsmobile Coupé verde del 1950 con cui si schiantò Jackson Pollock, a 44 anni, l'11 agosto del 1956 alle 22.15, a 300 metri da casa sua, insieme a Edith Metzger (una parrucchiera del Bronx morta per frattura al collo e ferite al torace) e alla fidanzata Ruth Kligman, sopravvissuta.


In quello stesso anno a Londra, e non in America, il critico d' arte Lawrence Alloway conio' il termine "Pop".

Erano anni di grande fermento culturale dove New York era diventata quello che Parigi era stata per il mondo dell' arte all' inizio del '900. Nel 1951 fu pubblicato Il Giovane Holden di Salinger, del 1956 e' Howl di Allen Ginsberg, l' anno dopo usci' Sulla strada di Keruac, mentre nella musica a dare la linea e' Miles David con Kind of Blue, del 1959.

Con la tecnica del dripping, far colare il colore sulla tela, e soprattutto lavorando sul quadro steso sul pavimento, Pollock apri' una pagina nuova. L'artista gira accanto al quadro, danza, dipinge senza usare il pennello, riversa cosi' la sua energia creativa. Number 27, del 1950, e' uno dei quadri piu' significativi per modalita' esecutiva.

Jackson Pollock e Lee Krasner nello studio di Pollock a East Hampton, 1950.


"Posso camminarci intorno lavorare sui quattro lati, essere letteralmente nel quadro. Preferisco la stecca, la spatola il coltello", disse Pollock, di cui e' riportata una frase illuminante: "Quando sono dentro il mio quadro non so cosa sto facendo".

Nel 1950 Pollock e' la superstar della pittura americana ma non e' solo - fa notare Luca Beatrice -. Da quasi dieci anni si parla di scuola di New York "per definire non un movimento coeso ma una sensibilita' di natura astratto informale, progressivamente scevro dal realismo". "Pollock ha toccato il livello piu' alto nell' informale - ha detto Vittorio Sgarbi che ha accompagnato il ministro dell' Istruzione Marco Bussetti in una breve visita della mostra - Questo tipo di pittura non si puo' datare agli anni Cinquanta, potrebbe essere di oggi. Gli informali attuali, quindi, che cosa possono fare di piu'? Bene o male lo citano o lo scimmiottano senza avere la sua energia e la sua tensione potentissima".

Alla potenza nervosa del maestro dell' action painting fa da contraltare Mark Rothko con i suoi grandi rettangoli di colore, utilizzato secondo "un approccio lirico e mistico". "Se Pollock rappresenta la forza - osserva Beatrice - in Rothko si evince il pensiero, la lentezza, la meditazione, termini ancora pregni di debordante modernita'". L' artista di origini lettoni, solitario e afflitto dalla depressione, il 25 febbraio 1970, convinto di avere una malattia incurabile, si uccise nel suo studio di New York.

Fonte Luciano Fioramonti per ANSA

12/10/18

Parla la figlia di Ezra Pound, mentre esce un nuovo libro: "Ho cercato di scrivere Paradiso".



In un castelletto sulla vallata di Merano in Alto Adige c'e' un pezzo dell'eredita' di un grande poeta americano, Ezra Pound

E' qui a Brunnenberg che vive la figlia Mary de Rachewiltz, e il castello e' anche museo, pieno di cimeli dei decenni che Pound passo' in Italia. Poetessa, saggista, traduttrice in italiano di Pound e altri poeti, Mary e' figlia della violinista Olga Rudge. 

Figlia illegittima, perche' Pound era sposato a un'altra donna. 

La sua e' una storia affascinante fra misteri e memorie. 

"Mia madre - spiega - voleva un figlio da mio padre; lui non ne voleva. Lei c`e' riuscita, solo che e' nata una figlia, e per lei e' stato un tale shock che non mi ha voluta". 

La bambina viene affidata a una balia tirolese, con cui vivra' fino ai dieci anni. Fino allora stato e' proprio Pound a occuparsene di piu', scrivendole, tenendo i contatti con la balia

"Lui veniva a Gais a trovarmi, ci sono tante foto" spiega Mary. "Io con mio padre mi divertivo, con mia madre no. Mio padre era divertente". 

Ora, sull'autore dei celebri Cantos e' uscito per Mondadori unlibro di Alessandro Rivali, "Ho cercato di scrivere Paradiso". Spiega l'autore: "Il libro penso possa essere una sorta di biografia intima di Pound; tutto merito di Mary che mi ha regalato tante confidenze, che credo per la prima volta vengano portate in Italia al grande pubblico"
https://www.librimondadori.it/libri/ho-cercato-di-scrivere-paradiso-alessandro-rivali/

In Italia il ricordo di Ezra Pound e' legato al fascismo; Pound apprezzava Mussolini, tenne discorsi dall'Eiar fascista, dopo la guerra fu incarcerato e passo' tredici anni in manicomio in America come traditore della patria. Ma Pound era un poeta, e di politica, dice la figlia, si interessava quasi per paradosso. Aveva altro da fare: leggere, scrivere, studiare. 

Se il grosso del suo archivio e' alla Yale University, qui in Alto Adige ci sono ancora tutti i suoi libri fittamente annotati. Mary de Rachewiltz ha anche portato in tribunale Casa Pound, per chiedere che non potessero usare il nome del padre. Ma ha perso. Oggi, dice, le dispiace solo "per i ragazzi in buona fede che credono di capire Pound attraverso la nostalgia del fascismo italiano. E questo e' completamente errato." 

E se Mary de Rachewiltz ha dedicato molti anni al padre e alle sue opere, non ha dubbi sulla propria competenza, ne' sente di aver vissuto all'ombra. "Almeno in casa mia ha sempre comandato la donna - dice. - A cominciare dalla mia balia, e da mia madre, e mia nonna... e qui credo che anche io ho avuto abbastanza da dire". 

10/10/18

L'amore calpestato.





Lo invochiamo sempre, ma quando l'amore arriva, non si è quasi mai all'altezza. 

Regna nell'animo umano una spinta cieca, distruttrice, che quasi mai riesce a resistere alla tentazione di arginare, profanare, umiliare, dissipare quel che è puro e che non si sa gestire, vivere naturalmente, felicemente. 

Si allontana da sé l'amore, come fosse un reietto, e ci si dilegua in mare aperto come un naufrago, sentendosi inutili protagonisti. 

Lo si allontana in spregio a quanto dice Pound: "Quel che ami veramente, rimane" e a quanto aggiunge Simone Weil: "I beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi come dono".

L'uomo è fondamentalmente stupido.

Preferisce comunque, con ebbrezza, la rovina di una cosa, alla cosa.

Dimenticando la lezione della vita breve, della vita che è importante. Perdiamo l'amore di chi ci ama, perdiamo le cose che non sappiamo coltivare e non sappiamo nemmeno apprezzare, come dono immeritato.




Spunta una Colonna dei tempi di Erode con la scritta: "Gerusalemme" !




Una rara scritta in caratteri ebraici del nome esteso di Gerusalemme (Yerushalaim) incisa su una pietra cilindrica e' stata scoperta l'anno scorso da archeologi israeliani all'ingresso occidentale della citta' e presentata oggi alla stampa.

"E' estremamente raro trovare in reperti di quell'epoca la scrittura completa del nome di Gerusalemme" ha osservato l'archeologo Ilan Baruch. "Inoltre e' molto emozionante imbattersi in caratteri chiaramente decifrabili oggi da qualsiasi bambino israeliano", ha aggiunto il direttore del Museo Israele, prof Ido Bruno. 

Alta quasi un metro e lavorata in apparenza all'epoca del re Erode, la pietra era stata asportata dall'edificio originale e riutilizzata poi per la costruzione di un edificio romano

Il testo e' in aramaico e contiene la dicitura: "Hanania figlio di Dodlos di Gerusalemme"

Secondo gli archeologi e' presumibile che Hanania fosse un artigiano del posto e che 'Dodlos' fosse un riferimento di ossequio alla figura di Dedalo. 

09/10/18

Libro del Giorno: "Bartleby lo scrivano e altri racconti" di Herman Melville.



Tornano, in nuova e bellissima edizione, nella traduzione di Alessandro Roffeni, 5 racconti di Herman Melville, tra cui il famosissimo Bartleby, pubblicato per la prima volta nel 1853 sul "Putnam's Monthly Magazine", due anni dopo il clamoroso insuccesso si Moby Dick che, uscito nel 1851, non portò al suo autore né vendite né riconoscimenti. 

Prossimo alla rovina finanziaria e dopo che un incendio aveva distrutto molte copie dei suoi libri nella sede della casa editrice di New York, Melville a 33 anni avvertiva la propria carriera di scrittore già volta al termine.

Eppure, non interruppe del tutto la sua produzione, tornando a lavorare in solitudine ai racconti e a L'uomo di fiducia, l'ultimo romanzo (pubblicato nel 1857) che avrebbe visto le stampe mentre l'autore era in vita, cioè fino al 1911, anno della morte di Melville. 

Lo scrittore dunque decise, pochi anni dopo averlo creato, di imitare il suo Bartleby, il protagonista del suo celebre racconto: come lo scrivano "preferisce" non scrivere più scegliendo in pratica il suicidio, così lo scrittore deluso - come scrive Alessandro Roffeni  nella nota alla traduzione - "preferisce anch'egli sottrarsi allo sguardo dei lettori, scegliendo di suicidarsi come figura pubblica".

Anche Melville terminerà i suoi anni da vecchio brontolone: come uno dei personaggi di questi racconti. 

Rileggere oggi Bartleby ci fa apprezzare ancora di più il manifesto esistenziale di Melville, quello di un rifiuto sostanziale e radicale dei meccanismi di complicità e di sottomissione su cui si basa la società civile.  Ma una lettura ancora più attenta, oggi, ci aiuta a sfrondare questo gigantesco racconto dalla prosopopea "politica" che gli è stata attribuita nel corso dei decenni: quella cioè di un semplice proclama a favore della disubbidienza (politica).  In realtà il finale patetico del racconto, con la "voce" raccolta dal narratore, a proposito del misterioso Bartleby prima del suo apparire sulla scena, prima perciò di essere assunto a servizio come scrivano dall'avvocato-narratore, ci illumina sul fatto che Bartelby è sostanzialmente un tragico deluso dalle cose del mondo: la sua occupazione (precedente) all'ufficio postale delle "lettere smarrite" (vero colpo di genio di Melville), ci fa intuire che Bartleby  ha sperimentato grazie a quel surreale impiego, l'inutilità di ogni cosa - passioni, interessi, faccende, litigi, ecc.. - umana.  Tutte quelle cose incompiute e perse, mai consegnate, mai recapitate, mai portate a termine, suggellano il fallimento di ogni aspettativa umana.  

La sua protesta dunque - "preferisco di no" - è dunque una ribellione nei confronti della condizione umana tout-court piuttosto che una ribellione/rivendicazione sociale. 

Meno fulminanti, ma ugualmente magistrali sono gli altri quattro racconti presenti nel volume: Il tavolo di melo, dove il narratore è un uomo sconvolto dall'apparizione di un elemento misterioso e inesplicabile:  il rumore di un ticchettio proveniente da un vecchio tavolo in legno di noce trovato in una soffitta, dal quale scaturirà un insetto meraviglioso; anche in Io e il mio camino si parla di mistero, perché c'è chi vuole sondarlo, violarlo e metterlo a nudo: cioè un presunto scomparto segreto nel vecchio camino della casa, che invece l'anziano proprietario vuole difendere a ogni costo; infine ne Il violinista e in Jimmy Rose Melville torna sui temi del successo e del fallimento e della decadenza, di cui i due rispettivi protagonisti sono in diversi modi l'incarnazione.

Si tratta comunque di cinque perle di grande valore, che meritano di essere riscoperte e ammirate nuovamente. 

08/10/18

Quanto amore c'è in una passione ? Umberto Galimberti.




Il matrimonio è l'impresa più difficile che si possa intraprendere, perché in ciascuno di noi c'è un conflitto tra il nostro bisognodi "individuazione" e il nostro bisogno di "coesione", che sono tra loro in un rapporto inversamente proporzionale, perché a un aumento di individuazione corrisponde una diminuzione di coesione e viceversa. 

Se il bisogno di individuazione raggiunge una sua maturità e si emancipa dal tratto infantile di chi vuol essere semplicemente diverso dagli altri fino al punto di assumere un atteggiamento reattivo nei confronti degli altri, e se il bisogno di coesione compie lo stesso processo di maturazione, emancipandosi dal bisogno simbiotico con l'altro che ricalca il rapporto infantile che ciascuno di noi ha avuto con la madre, allora ci sono le condizioni per un felice matrimonio e una sua lunga durata, garantita dal fatto che ciascuno dei due ha bisogno dell'altro per lo sviluppo delle rispettive potenzialità. 

Tutti capiscono che una condizione del genere è un'opera d'arte.

E non tutti siamo artisti, anche se non sarebbe male che ciascuno, prima di unirsi in matrimonio, esaminasse con cura di che natura è il suo bisogno di individuazione e il suo bisogno di coesione. 

A differenza che in passato quando la famiglia, le condizioni di ceto o di classe, le condizioni economiche, le leggi dello Stato, le norme del diritto, i precetti della Chiesa avevano una notevole influenza sulla scelta matrimoniale, oggi questa scelta è del tutto individuale, come se l'amore, rispetto a tutte le leggi che governano la nostra quotidianità, reclamasse una sua assoluta autonomia e non riconoscesse altra autorità che non sia la propria decisione soggettiva. 

Ma se le cose stanno così, allora quell'esaminare se stessi prima di inaugurare una vita in comune con un'altra persona assume una rilevanza ancora maggiore. Soprattutto se questo essere padroni assoluti della propria scelta si vincola all'essere padroni assoluti della propria felicità. 

In questo caso se la felicità è misurata esclusivamente sull'intensità della passione (e questo non è difficile da riconoscere), allora è ovvio che il matrimonio, oltre a non prevederlo come una scelta irrevocabile, diventa come scriveva Tolstoj "un inferno". 

Ma la passione è l'unico modo in cui si può declinare l'amore?

La passione come diceva Stendhal "non è cieca, è visionaria". E di visione in visione si può arrivare anche all'allucinazione. E' vero che senza idealizzazione non nasce nessun amore, ma non dobbiamo dimenticare che la passione ci rende passivi, perché è lei a condurci in quella condizione caratterizzata dal "patire l'altro", mentre l'amore non si accontenta di "patire" perché vuole agire, e perciò col tempo rifiuta di declinarsi sul solo versante della passione, trascinato dalla discontinuità delle sue oscillazioni. 

E rifiutandosi di subire, l'amore crea, come un artista, la sua opera d'arte. 

Se poi l'opera d'arte non riesce e la relazione si chiude, ascoltiamo i consigli di James Hillman che ci invita ad evitare la vendetta che è una risposta emotiva che non emancipa la coscienza, a non cadere nel cinismo che nega il valore dell'altro che un tempo avevamo sopravvalutato, e ci induce a concludere che i grandi amori sono per gli ingenui.  Non ridicolizziamo i sentimenti più profondi per evitare di vergognarci di averli un giorno provati.  Ed evitiamo infine di diventare paranoici pretendendo da un nuovo amore che dovesse sorgere, prove di devozione, giuramenti di mantenere la promessa, dichiarazioni di fedeltà eterna. 

La fedeltà in sé non è un valore.

Un valore è l'amore, perché quando si è innamorati non c'è bisogno di imporsi alcuna forma di fedeltà.

Umberto Galimberti, da Lettere a Galimberti, D di La Repubblica 29 settembre 2018, p. 126

Il nuovo libro, "Nessun pensiero conosce l'amore", è pronto. Già in spedizione per chi lo ha ordinato.


I libri sono arrivati in Casa Editrice  e sono bellissimi !

Sono in partenza e tra qualche giorno arriveranno alle destinazioni. Grazie mille a chi li ha acquistati in prevendita ! Mancano ancora 2 giorni per i ritardatari. Il link per ordinare  è sempre lo stesso: 

https://internopoesialibri.com/libro/nessun-pensiero-conosce-lamore/

07/10/18

Poesia della Domenica - "Distacco" di Evgenij Evtusenko.


Distacco

Chissà da dove
approdava un soffio
di fresca estate
tra il lungo gemito dei respingenti
e i secchi contraccolpi delle ruote,
e a un tratto - un dialogo:
"Indovina, amico mio, indovina
che ragazza ho incontrato!
Se solo potessi fare amicizia,
conoscerla meglio,
rivederla almeno una volta..."
"Ma piantala con queste assurdità!
Ma dove credi che la rivedrai?"
"La rivedrò"
"Ma davvero pensi che la ritroverai?"
"La ritroverò"
Ascoltavo, come una corda vibra al suono;
come un'eco, ascoltavo
le confidenze di sconosciuti.

Scusate.
Anch'io lasciavo qualcuno,
anch'io mi separavo
dalla mia ragazza.
Sì, mia brava ragazza,
che senso
ha lamentarsi perché ci attende
un nuovo disagio,
una nuova inquietudine?
Non te ne vai forse anche tu?
Ma tu, soltanto,
da una stazione diversa per diversa strada...
Non m'importa che la gente
di casa
dica di me:
"Quando si stancherà,
alla fine,
di ripartire, di andar lontano, sempre ?..."
Si, andarmene lontano, questo per me ci vuole,
correre col treno,
rotolare con la neve,
incontrarti di nuovo
e poi di nuovo -
via! partire.
A ogni nuova separazione,
sempre più ti avvicini.
A te
io vengo
per sentieri di cerca.
"Ma dove credi che la rivedrai?"
"La rivedrò!"
"Ma davvero pensi che la ritroverai?"
"La ritroverò!"


Evgenij Evtusenko
tratta da: Poesie, Traduzione di Alfeo Berdin, Garzanti 1970, p. 10.


05/10/18

Pompei non finisce mai di stupire: Spunta "La casa del Giardino Incantato"!



Un grande larario vegliato da beneauguranti serpenti, un pavone che fa capolino nel verde, fiere dorate che si battono contro un cinghiale nero come i mali del mondo. E poi ancora cieli baluginanti di cinguettanti uccellini, un pozzo, una vasca colorata, il ritratto di un uomo-cane


Visitato in esclusiva dall'ANSA, eccolo l'ultimo tesoro di Pompei: un giardino incantato, "una stanza meravigliosa ed enigmatica da studiare a fondo", spiega il direttore del Parco Archeologico, Massimo Osanna.