12/10/21

La violenza nelle strade, la tracotanza dei novax: Le parole profetiche di Dietrich Boenheffer su cosa è la stupidità e su come sia inutile combatterla

 


Il nemico del bene


Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere - in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico - e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.


Stupidità e potere

Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate situazioni gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia. Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. E’ una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni.

Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane - ad esempio quelle intellettuali - ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti, ecc. da cui egli è dominato. E’ ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.

Liberazione esteriore

Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore; fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido.

In questo stato di cose sta anche la ragione per cui in simili circostanze inutilmente ci sforziamo di capire che cosa effettivamente pensi il "popolo", e per cui questo interrogativo risulta contemporaneamente superfluo - sempre però solo in queste circostanze - per chi pensa e agisce in modo responsabile. La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Salmo 111, 10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità.

Del resto, siffatte riflessioni sulla stupidità comportano questo di consolante, che con esse viene assolutamente esclusa la possibilità di considerare la maggioranza degli uomini come stupida in ogni caso. Tutto dipenderà in realtà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere: se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nell’autonomia interiore e nella intelligenza degli uomini.

 Dietrich Bonhoeffer, carcere di Tegel - 1943 - Della stupidità

11/10/21

Quando Marlon Brando rifiutò l'Oscar per "Il padrino" e la giovane donna Apache salì sul palco a leggere il motivo del rifiuto

 


Come è noto, Marlon Brando nel 1973 vinse il suo secondo Oscar come miglior attore per la sua interpretazione ne Il Padrino di Francis Ford Coppola, ma lo rifiutò, diventando il secondo attore a rifiutare un premio come miglior attore (dopo George C. Scott per Patton). 

Boicottando la cerimonia, Brando inviò l'attivista per i diritti degli indigeni americani Sacheen Littlefeather , che è apparve in completo abbigliamento Apache, a dichiarare le ragioni di Brando, che si basavano sulla sua obiezione alla rappresentazione degli indigeni americani da parte di Hollywood e della televisione. A quei tempi, Marlon Brando era infatti un sostenitore dell'American Indian Movement . 

Bisogna ricordare che in quegli stessi mesi, era in corso il cosiddetto stallo a Wounded Knee, l'occupazione da parte di 200 nativi di una città americana teatro di uno dei più grandi massacri nella storia delle popolazioni indigene nordamericane. 

La Littlefeather era entrata in contatto con l'attore Marlon Brando attraverso il suo vicino, il regista Francis Ford Coppola . Scrisse a Brando una lettera, chiedendo il suo intervento a favore dei nativi americani, e l'attore chiamò la stazione radio dove lavorava un anno dopo. 

Brando aveva lavorato come attivista con l' American Indian Movement (AIM) dagli anni '60 e '70

A Washington, DC , dove Littlefeather stava presentando alla Federal Communications Commission le mozioni per le minoranze indigene, si incontrarono e trovarono in comune il loro coinvolgimento con l'AIM. 

Nel 1972, Brando interpretò Vito Corleone in Il Padrino , che molti critici considerano uno dei più grandi film di tutti i tempi. 

Per la performance, fu nominato come miglior attore per il ruolo ai 45esimi Academy Awards, la cui premiazion era in programma il ​​27 marzo 1973, al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles , California. 

Ma prima della cerimonia, Brando decise che, in quanto favorito per la vittoria, avrebbe boicottato come protesta guidata dall'AIM contro l'assedio in corso a Wounded Knee e le sue opinioni su come i nativi americani erano rappresentati nei film americani . 

L'attore chiamò la Littlefeather e le chiese di apparire a suo nome. "Ero un portavoce, per così dire, per lo stereotipo dei nativi americani nel cinema e in televisione", raccontò in seguito. 

Littlefeather si unì al pubblico pochi minuti prima che fosse annunciato il premio per il miglior attore. 

Era accompagnata dalla segretaria di Brando, Alice Marchak, e indossava un abito di pelle di daino Apache. 

Il produttore Howard W. Koch le disse che aveva 60 secondi per pronunciare il discorso, altrimenti sarebbe stata rimossa dal palco; anche se lei aveva programmato di leggere un discorso di 4 pagine scritto da Brando. 

Il premio come miglior attore fu consegnato dagli attori Liv Ullmann e Roger Moore . 

Dopo aver pronunciato brevi osservazioni e annunciato i cinque nominati, dichiararono Brando il vincitore. 

Littlefeather salì sul palco e alzò la mano per rifiutare il trofeo Oscar che Moore le stava offrendo. 

Deviando dal discorso preparato, disse quanto segue:  

Ciao. Il mio nome è Sacheen Littlefeather. Sono Apache e sono presidente del National Native American Affermative Image Committee. Questa sera rappresento Marlon Brando, e lui mi ha chiesto di raccontarvi in ​​un discorso molto lungo che non posso condividere con voi al momento, a causa del tempo, ma sarò lieto di condividere in seguito con la stampa, che con grande rammarico ha non posso accettare questo premio molto generoso. E le ragioni di ciò sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi da parte dell'industria cinematografica – scusatemi [ fischi e applausi] – e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee. Prego in questo momento di non essermi intromesso in questa serata e che lo faremo in futuro, i nostri cuori e le nostre comprensioni si incontreranno con amore e generosità. Grazie a nome di Marlon Brando. 

Moore accompagnò Littlefeather fuori dal palco, passando davanti a diverse persone che la criticavano e alla stampa. 

Alla conferenza stampa poi, la ragazza lesse ai giornalisti il ​​discorso integrale che Brando aveva preparato e il New York Times pubblicò il testo completo il giorno successivo. 

Il pubblico nel Padiglione Dorothy Chandler durante l'apparizione della ragazza apache, fu diviso tra applausi e fischi. E lo stesso Brando, più tardi, manifestò dispiacere per come era andata: "Ero angosciato dal fatto che le persone avrebbero dovuto fischiare, fischiare e calpestare, anche se forse era diretto a me stesso", ha detto Brando. "Avrebbero dovuto almeno avere la cortesia di ascoltarla." 

Brando, fu successivamente escluso a priori dal ricevere nuove nominations o premi dall'Academy. 

Littlefeather affermò invece di essere stata inserita nella lista nera dalla comunità di Hollywood e di aver ricevuto minacce. 

Al discorso comunque fu unanimemente riconosciuto, negli anni seguenti, il merito di aver riportato l'attenzione sullo stallo di Wounded Knee, su cui era stato imposto un blackout dei media .

Dopo aver tenuto il discorso, Littlefeather trascorse due giorni a Los Angeles prima di tornare a San Francisco. 

Quando visitò la casa di Marlon Brando dopo gli Academy Awards, mentre stavano parlando, alcuni proiettili furono sparati sulla porta d'ingresso. 

All'età di 29 anni i suoi polmoni collassarono e, dopo essersi ripresa, ricevette una laurea in salute e una minore in medicina dei nativi americani , una pratica che aveva usato per riprendersi. Studiando nutrizione, ha vissuto per qualche tempo a Stoccolma e poi ha viaggiato in giro per l'Europa, interessata al cibo di altre culture. 

Successivamente, ha insegnato al St. Mary's Hospital di Tucson, in Arizona , e ha lavorato con l' Institute of American Indian Arts di Santa Fe .

Nel 1979 ha co-fondato il National American Indian Performing Arts Registry continuando a fare attivismo e diventando un membro rispettato della comunità dei nativi americani della California. 

Cosa che fino a oggi, nonostante molti e gravi problemi di salute, ha continuato a fare. 


08/10/21

Sting compie 70 anni e pubblica: "The Bridge", un ponte metafisico pieno di speranza. "Amo sempre più l'Italia"

 


Intervistato da Luca Valtorta per Robinson di La Repubblica, Gordon Sumner, in arte Sting, leggendario front man del gruppo dei Police e autore contemporaneo tra i più noti, racconta della sua scelta di vita in Italia, dove risiede ormai da molti anni, nella Tenuta Il Palagio, a Figline Valdarno, e di quello che ha messo dentro il suo nuovo album, The Bridge, scritto e inciso durante il lockdown. 

Adesso sono quasi vent'anni che vive anche in Italia: che cosa ha imparato del nostro paese? 

"Amo l'Italia. Ma è perfetta? Ovviamente no (ride, ndr). Ci sono un sacco di cose sbagliate in ogni paese però amo la capacità di apprezzare le cose buone della vita, la capacità di sedersi attorno a una tavola con del buon cibo, il senso della famiglia, queste cose. E la gente ha un atteggiamento veramente gentile nei miei confronti. E poi mi interessa molto la storia: sono ossessionato dalla storia Romana e leggo tutto quello che trovo a riguardo: Cicerone, la transizione tra la repubblica e la dittatura con l'avvento di Giulio Cesare. Mi affascina per i parallelismi con quello che è successo nel Senato americano con la folla e i populisti: esattamente come 2000 anni fa. Il che è spaventoso ma anche molto coinvolgente. Ho sempre saputo dei romani perché la mia città nel nord dell'Inghilterra, Wallsend, era proprio ai margini dell'impero: da lì iniziava il Vallo di Adriano che segnava il confine tra la Britannia occupata e le tribù dei Pitti. E anche in questo caso: l'Impero Romano non era sicuramente un sistema perfetto ma comunque molto, molto interessante".

Dell'Inghilterra di oggi, con la Brexit in atto, cosa pensa? 

"Non mi faccia parlare. Vorrei trovare una sola persona capace di spiegarmi oggi perché la Brexit è una buona idea ma nessuno lo può fare perché è una cosa assolutamente stupida. Gli piaceva così tanto questa idea purista: 'Noi dobbiamo essere soli!'. Non sta andando bene. E questo non mi rende felice. Amo la mia nazione e sono triste nel vederla soffrire".

Come ha passato il periodo del lockdown? 

"Sono molto fortunato perché ho una grande casa, un grande giardino e uno studio dentro la casa, per cui anche se non ho potuto andare in tour ho comunque lavorato: per un anno intero entravo in studio alle dieci e ne uscivo solo per cena. Alcuni giorni non riuscivo a tirar fuori granché ma in altri mi veniva qualche buona idea e alla fine ne è uscito fuori un album di cui sono molto orgoglioso, l'ho chiamato The Bridge. Il titolo è una sorta di metafora per quello che io, ma credo un po' tutti noi, stiamo cercando in questo momento: un ponte verso qualcosa di più sicuro, di più felice, perché siamo in un momento di difficile transizione, pieno di incognite, dalla pandemia al cambiamento climatico, alla dura situazione sociale e politica. È un ponte metafisico in un disco pieno di speranza ma anche di realismo nel cercare di essere comunque ottimista".


Leggi qui l'intervista originale - fonte: Luca Valtorta - Robinson/La Repubblica

05/10/21

Matthew McConaughey, un attore strepitoso e il suo incredibile dimagrimento in Dallas Buyers Club

 


C'è un grande e doloroso film che non ci si stanca di rivedere: Dallas Buyers Club diretto da Jean-Marc Vallée  nel 2013, con protagonisti Matthew McConaughey e Jared Leto. La pellicola ricevette sei candidature ai premi Oscar 2014, vincendo in tre categorie, tra cui miglior attore protagonista e miglior attore non protagonista, assegnati rispettivamente a Matthew McConaughey e Jared Leto.

Come si ricorda, il film racconta la storia di Ron Woodroof, un malato di AIDS diagnosticato a metà degli anni '80 quando i trattamenti per l'HIV/AIDS erano poco studiati, mentre la malattia non era compresa e altamente stigmatizzata. In quel periodo, parte del movimento sperimentale per il trattamento dell'AIDS, contrabbandava farmaci farmaceutici non approvati in Texas per curare i suoi sintomi e li distribuiva a persone con AIDS istituendo il "Dallas Buyers Club" mentre affrontava l'opposizione della Food and Drug Administration (FDA).

E' stupefacente il cambiamento fisico che McConaughey affrontò per girare questo film, e che lui stesso ha raccontato in una intervista di quell'anno: 

McConaughey, non la spaventavano le possibile conseguenze di una dieta così drastica?
"No, dovevo farlo e basta. Ho visto un nutrizionista, mi sono dato 4 mesi, sapevo cosa sarebbe successo. Mi sono chiuso in casa, perdevo una media di 2 chili a settimana, poi abbiamo girato il film in 27 giorni e subito dopo ho ricominciato a mangiare. Ho perso così tanto peso dal collo in giù che in testa mi sentivo più sveglio e lucido, avevo un'energia incredibile, avevo bisogno di tre ore e mezzo di meno di sonno al giorno. Mangiavo pesce e verdure, ma in piccole dosi".
Perdere tanto peso l'ha aiutato nell'entrare nel personaggio?
"Molto, ha anche cambiato il mio stile di vita, stando sempre chiuso in casa mi sono dedicato di più alla ricerca e alla scrittura, che è quello che aveva fatto Ron, un uomo con solo sette anni di scuola alle spalle che è stato capace di diventare un esperto, sapeva tutto sul vrus dell'hiv, passava giornate in biblioteca. Quando ha scoperto la malattia si è isolato dal mondo ed è quello che ho fatto io. La sfida più grande è stata cercare di assorbire la sua rabbia: la paura, la disperazione, poi la rabbia che lo ha tenuto in vita per sette anni, per sopravviere. Ho incontrato i membri della sua famiglia e mi hanno dato tante foto e il suo diario, e quello mi ha aiutato a entrare nel suo mondo".
Come ha reagito la sua famiglia?
"Non è mai stato uno shock per loro, mi hanno visto perdere peso gradualmente. Anzi, si divertivano perché in quel periodo cucinavo tantissimo per loro, anche se non potevo mangiare niente. Ma chi non mi vedeva da mesi, tipo mia madre, si è spaventato a morte. Ero diventato un eremita, ma passare del tempo solo con te stesso può essere salutare, basta non continuare a farlo per sempre".
E lei com'è cambiato?
"Sono diventato un maniaco della pulizia in quel periodo, come Ron, che sapeva che ogni raffreddore sarebbe potuto diventare una polmonite e ucciderlo. Era terrorizzato dai germi, stava lontano dagli animali, puliva tutto".

Fonte Silvia Bizio, Matthew McConaughey, la trasformazione: "Questa volta ho messo in gioco il mio corpo", La Repubblica, 13 settembre 2013

04/10/21

Come faceva Chet Baker a suonare senza denti? Il mito di un grande musicista

 


Nel corso della sua lunga e travagliata carriera, nel 1966 Baker sparì dalla scena a causa di gravi problemi ai denti anteriori, che dovette farsi estrarre. 

La causa di questi problemi non è mai stata completamente chiarita.

Baker raccontò spesso di essere finito in una rissa dopo un concerto e di essere stato aggredito da alcuni uomini di colore che gli avevano spaccato una bottiglia in faccia, lacerandogli le labbra e danneggiandogli i denti anteriori

La veridicità di questo racconto è sempre stata dubbia: molti amici e conoscenti parlarono di un confronto con uno spacciatore dovuto a problemi di pagamento di una fornitura di droga, di cui Chet era completamente dipendente. 

Pare anche che l'uso dell'eroina avesse già lasciato il segno sulla sua dentatura. 

È comunque certo che dovette farsi estrarre i denti perché non riusciva più a suonare a causa del dolore che gli provocavano. 

Dopo qualche tempo, comunque, Dizzy Gillespie lo riconobbe nel commesso di una pompa di benzina e lo aiutò a rimettersi in sesto, facendogli anche trovare i soldi per sistemarsi la bocca. 

Baker dovette imparare a suonare la tromba con la dentiera, cosa considerata estremamente difficile, e il suo stile dovette adeguarsi.

03/10/21

Franzen sul nuovo romanzo Crossroads: "I Vangeli sono un documento politico radicale che la sinistra americana ha completamente dimenticato"


Ci sono dei passaggi nella bella intervista a Jonathan Franzen pubblicata sul Corriere della Sera il 25 settembre scorso e realizzata da Cristina Taglietti a proposito del suo nuovo romanzo Crossroads (Einaudi) tra poco disponibile anche in Italia, nei quali ho trovato, espresso con molta chiarezza, uno dei temi (o dei fenomeni) fondamentali della società contemporanea (o post-contemporanea), che molti intellettuali, anche italiani, hanno finora ignorato. 

Franzen spiega la genesi del suo lungo romanzo a partire dallo spunto iniziale: All’origine del romanzo - dice - c’è un gruppo giovanile cristiano, mondo che conoscevo bene. Io stesso ho frequentato la chiesa per 12 anni e come Perry, il figlio di mezzo degli Hildebrandt, conoscevo ogni angolo della chiesa, ogni porta segreta, ogni passaggio, tutti i ministri. Per me è importante partire da ciò che conosco bene, da un luogo in cui mi sento a casa.

Aggiunge poi Franzen: 

Può sembrare sciocco, ma per me essere un romanziere non significa scrivere ciò che voglio, ma ciò che so scrivere. Non uso mai il materiale che potrei usare, ma quello che possiedo. Sono un grande fan di Dostoevskij, di Flannery O’Connor, amo l’arte religiosa, la scultura gotica italiana, l’architettura delle chiese romaniche. Per me tutto ciò è commovente anche se non sono credente. Anche questo è un mondo in cui mi sento a casa, non mi interessa tanto mettere al centro le grandi domande dell’esistenza. Diciamo che mi sento come un falegname che costruisce mobili e tutto ciò che ha a disposizione sono i pezzi di legno avanzati dal progetto precedente.

A Cristina Taglietti, che lo intervista, Franzen conferma che Crossroads, il nome del gruppo giovanile che dà il titolo al romanzo, ricorda molto Comunità, il gruppo che lo scrittore ha frequentato da ragazzo e di cui parla in «Zona disagio». 

Sì, ne sono stato membro attivo per sei anni. A dire il vero ci andavo più per socializzare, come credo la maggior parte dei ragazzi, ma è stata un’esperienza intensa. Molti dei dettagli del romanzo vengono da lì.

Nel passaggio successivo, Franzen spiega cosa lo ha particolarmente interessato della questione, del fenomeno religioso, di come abbia influito assai diversamente, nel passato e nel presente, nella vita politica occidentale. Negli anni '70 infatti, all'epoca in cui Crossroads si riferisce, la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. 

In seguito le cose sono radicalmente cambiate.

Che cosa si è dimenticato nel tempo? chiede l'intervistatrice.

Che allora la religione e la politica progressista erano assolutamente compatibili. Uno dei piaceri di scrivere Crossroads è stato tornare alla Bibbia. Sono andato in chiesa per 12 anni, ho frequentato il catechismo, le funzioni religiose e, anche se non la rileggo da quarant’anni, mi sono reso conto di conoscerla bene. Io non credo ai miracoli, alla trascendenza, ma ci sono storie molto potenti dentro la Bibbia. L’intertestualità, per usare un parolone, mi interessa sempre e scrivere un libro nuovo in qualche modo legato a uno così antico mi piaceva. Negli anni Settanta, nella mia chiesa e soprattutto nei gruppi giovanili, c’era molta attenzione a ciò che Gesù aveva detto, ci si chiedeva che cosa avrebbe pensato della guerra in Vietnam, della segregazione razziale. I Vangeli sono un documento politico molto radicale che rivela il paradosso del cristianesimo: per tutta la storia umana si è creduto che bisogna cercare di essere ricchi e potenti, il Vangelo dice che essere poveri e deboli è il modo di trovare Dio. Oggi questa componente si è quasi completamente persa nella sinistra americana (anche in quella italiana o europea, nota mia). Il primo atto è stato la legalizzazione dell’aborto che ha attivato gli elementi religiosi più conservatori: i cristiani evangelici sono diventati una potente forza politica, hanno sostenuto Reagan e ogni presidente conservatore fin dalla metà degli anni Settanta. E oggi sono così aggressivi che la cristianità si identifica con le loro posizioni aberranti: l’omofobia, l’adorazione per la ricchezza, l’ingerenza in ogni decisione personale delle donne. A Santa Cruz, in California, dove vivo, se dici a un liberal che vai in chiesa si ritrae terrorizzato, meglio dire che adori Satana nel seminterrato.

Parole molto chiare e forti, che dovrebbero far molto riflettere, anche dalle nostre parti.

QUI l'intervista integrale a Jonathan Franzen del Corriere della Sera realizzata da Cristina Taglietti

02/10/21

Libro del Giorno: "Lezioni e conversazioni" di Ludwig Wittgenstein

 


Nei testi raccolti in questo volume, tutti appartenenti al periodo compreso fra la pubblicazione del Tractatus (1921) e la composizione delle Philosophische Untersuchungen (1941-1949), Wittgenstein tratta alcuni temi fondamentali della ricerca filosofica: la natura del «bello» e delle proposizioni di fede, l’interpretazione psicologica, soprattutto in riferimento a Freud, e i fondamenti dell’etica, temi cioè che, pur presenti nell’unica opera da lui pubblicata e negli scritti postumi finora editi, non vi hanno né rilievo né trattazione particolare. 

Questi scritti, quindi, sia nella forma definitiva data da Wittgenstein stesso, come nella Conferenza sull’etica, sia nella forma di appunti, presi da Friedrich Waismann durante e dopo conversazioni con Wittgenstein e Moritz Schlick, e da allievi durante lezioni tenute a Cambridge nel 1938, costituiscono un’aggiunta e un chiarimento indispensabili alla comprensione di una personalità filosofica così singolare e determinante per la nostra cultura.

In particolare gli appunti, proprio per la forma diretta della conversazione filosofica, conservata nella trascrizione non elaborata dagli allievi, suggeriscono il modo di procedere della sua intelligenza creativa e il rigore non soltanto intellettuale della ricerca, poiché, come dice Erich Heller: «Per Wittgenstein, la filosofia non era una professione; era una passione divorante; e non solamente una passione, ma la sola forma possibile della sua esistenza: pensare di poter perdere la propria capacità di filosofare era per lui esattamente come pensare al suicidio».


Ludwig Wittgenstein 




29/09/21

Mistero per gli scienziati : Nata senza bulbi olfattivi, eppure ora sente gli odori - "Il nostro cervello è qualcosa di miracoloso"

 


Vivere 24 anni senza poter sentire l'odore di un abete natalizio o il profumo di una rosa o l'aroma del pane appena sfornato e poi, d'improvviso, essere investita da alcuni di questi odori, con un impatto psicologico devastante che in alcuni casi ha portato a uno svenimento: e' il caso di una 24enne tedesca nata con anosmia per mancanza dei bulbi olfattivi, i tessuti che servono per inviare al cervello il messaggio nervoso prodotto dagli odori che arrivano nel nostro naso.

A descriverlo sulla rivista Neurocase sono stati esperti della Universita' di Dresden in Germania che hanno sottoposto la giovane a una batteria di test olfattivi e poi a elettroencefalogramma e risonanza magnetica, senza però venire a capo deli motivi del misterioso caso. 

La giovane, cui a 13 anni e' stata diagnosticata l'anosmia congenita per mancanza dei bulbi olfattivi, ha cominciato all'improvviso e senza un chiaro motivo a sentire alcuni odori

Per lei non e' stata una scoperta piacevole, gli odori che per la prima volta acquistavano un senso per il suo naso non le piacevano, anche se si trattava di profumi. 

Gli odori nuovi arrivavano a lei di settimana in settimana, in un caso la donna e' addirittura svenuta per il forte impatto emotivo di questa nuova e improvvisa percezione. 

Il team tedesco coordinato da Thomas Hummel ha sottoposto la giovane a una seri di test olfattivi: la ragazza e' riuscita a riconoscere circa meta' degli odori proposti, ad esempio quello di arancia, zenzero, fumo, menta. 

Ha continuato, invece, a non riconoscere odori come quello del pellame, la banana, il cocco, la liquirizia, il cacao.

La paziente e' stata sottoposta a un elettroencefalogramma durante i test olfattivi: dal tracciato si vede che quando la donna riconosce gli odori il suo cervello risponde normalmente ad essi. 

Ma alla risonanza risulta che la donna continua a non avere i bulbi olfattivi, cosa che ha lasciato spiazzati gli scienziati. 

Secondo gli esperti la donna per motivi sconosciuti ha acquisito la capacita' di percepire gli odori attivando aree cerebrali alternative e svincolate dalle normali vie neurali dell'olfatto. 

Il fatto che la donna sia disgustata dagli odori puo' dipendere invece dal non aver imparato sin da piccola ad associare certi odori a certi eventi o emozioni o situazioni.

La donna sta attualmente seguendo un training olfattivo che la aiuta ad abituarsi al suo nuovo mondo pieno di odori; ha gia' imparato ad apprezzare alcuni aromi associandoli ad esperienze piacevoli. 

Il suo caso suggerisce che la plasticita' del cervello e' tale che anche altri pazienti con anosmia congenita potrebbero scoprire gli odori con un training opportuno, spiega Hummel. "Il nostro cervello e' qualcosa di miracoloso - conclude - e' sempre pieno di sorprese". 

28/09/21

Libro del Giorno: "Ponte Milvio 312 d.C." di Ross Cowan

 


Edito in Italia dalla casa editrice LEG e recentemente ristampato dalle edizioni de Il Messaggero, arriva nel nostro paese questo libro scritto dal britannico Russ Cowan, che insegna all'Università di Glasgow ed è esperto di storia e archeologia romana. 

Il libro è particolarmente interessante perché racconta con grande completezza di informazioni e di illustrazioni ad hoc, uno degli eventi decisivi della storia romana antica e più in generale della storia dell'Occidente: la battaglia di Ponte Milvio del 28 ottobre 312 d.C. che segnò la vittoria di Costantino imperatore contro le truppe dell' "usurpatore" Massenzio, che occupava Roma da sei anni. 

Più in generale si ripercorrono le complesse vicende della cosiddetta Tetrarchia, il periodo nel quale, alla cessione del potere di Diocleziano, il potere (e l'Impero) si ritrovò frammentato in quattro parti. 

Tuttavia, il sistema della tetrarchia, ideato per rinnovare l'architettura istituzionale dell'Impero, si rivelò da subito fragile: ed è in questo contesto che si svolse l'ardua e irresistibile ascesa al potere di Costantino, figlio dell'augusto Costanzo Cloro. 

Costantino, nel corso degli anni successivi alla sua acclamazione al potere (che avvenne a Eburacum, l'odierna York, immediatamente dopo la morte del padre di Costantino, Costanzo, il 25 aprile del 306) affrontò uno ad uno i suoi avversari e pretendenti al trono di imperatore unico: Galerio, Massimino Daia, Licinio, Massimiano e Massenzio. 

Questo libro è incentrato proprio sul contrasto tra Costantino e Massenzio, il quale signoreggiava sull'Italia e l'Africa e aveva stabilito la sede del suo regno proprio a Roma, la vecchia capitale che seppure sospinta ai margini nella geografia del potere alla fine del IV secolo d.C., rappresentava pur sempre il simbolo eterno dell'Impero. 

La posta in gioco per i due rivali dunque era la più significativa per l'Occidente e per tutto l'Impero: Roma, l'antica capitale, dove Massenzio si era asserragliato dopo aver rinnovato e ampliato le fortificazioni cittadine. 

In una veloce e straordinaria campagna militare, Costantino passò dalla Gallia al Nord Italia: presi i maggiori centri urbani da Torino a Verona, ad Aquileia, discese verso l'Urbe; alle sue porte, presso il Ponte Milvio, si sarebbe svolta la battaglia determinante per le sorti imperiali. 

Non si trattava solo di politica: anche la religione giocò un ruolo determinante. Si trattasse di fede o di propaganda, Costantino si dichiarò destinatario di un messaggio di Cristo, che gli ordinò di adottare come vessillo il suo monogramma. 

Con la successiva vittoria, il suo percorso verso il trono era destinato a intrecciarsi sempre più con il cristianesimo, mentre allo sconfitto Massenzio sarebbe spettata la damnatio memoriae. 

Tutti questi aspetti sono trattati nelle pagine del libro, che rispetto ai molti altri scritti sull'argomento, affronta con specificità il tema bellico: le strategie, la composizione degli eserciti, le mansioni assegnate alle singole legioni, gli armamenti, la tempistica e i precedenti storici. 

Il tutto grazie a un ampio corredo illustrativo: immagini, ricostruzioni, mappe: la battaglia, seppur breve (sembra che si consumò nel giro di poche ore) ma imponente, è così restituita compiutamente all'attenzione dei lettori, che potranno conoscere nel dettaglio questo momento essenziale per la storia di Costantino e dell'Impero romano.

Fabrizio Falconi

27/09/21

L'incredibile, terribile, suicidio di Seneca


Il cosiddetto Pseudo Seneca, busto romano in bronzo risalente
al I sec. a.C. ritrovato a Ercolano nel Settecento e conservato al 
Museo Archeologico Nazionale di Napoli


L'occasione del fallimento della cosiddetta Congiura dei Pisoni, nell'aprile del 65 d.C. offrì a Nerone, ormai sempre più invasato e assetato di potere, di potersi liberare di Seneca, che era stato suo tutore e dal quale si era dopo cinque anni progressivamente e completamente emancipato, con gravi conseguenze per l'Impero. 

In realtà sembra che della famosa Congiura Seneca fosse solamente informato, e che non vi prese parte direttamente.

Nerone però fu inflessibile e il sessantunenne Seneca ricevette quindi l'ordine di togliersi la vita, o meglio gli venne fatto capire che se non lo avesse fatto, morendo "onorevolmente" secondo i principi del mos maiorum, cioè della tradizione romana, sarebbe stato giustiziato comunque

Non volendo sottrarsi, Seneca optò per il suicidio. 

I particolari di questa morte sono però particolarmente raccapriccianti. 

Seneca dapprima si rivolge agli allievi, poi alla moglie Pompea Paolina, che vorrebbe suicidarsi con lui: il filosofo la spinge a non farlo, ma lei insiste.

Per Seneca il suicidio era in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo, di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo Stato, res publica minor, ma, piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all'extrema ratio del suicidio. 

E' Tacito, qualche decennio dopo, a raccontarne i particolari, elogiandone la coerenza di vita:

«Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro le fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro.»

(Annales, XV, 62)

Seneca affrontò l'ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito, come ogni vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, ovvero l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte. 

Dopo il discorso ai discepoli, Seneca compie l'atto estremo:


«Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia.»

(Annales, XV, 63)

Con l'aiuto del suo medico e dei servi, si tagliò quindi le vene, prima dei polsi, poi - poiché il sangue, lento per la vecchiaia e lo scarso cibo che assumeva, non defluiva - per accelerare la morte si tagliò anche le vene delle gambe e delle ginocchia, fece trasferire la moglie in un'altra stanza facendo ricorso anche ad una bevanda a base di cicuta, il  veleno usato anche da Socrate. Tuttavia nemmeno quello ebbe effetto: la lenta emorragia non permise al veleno di entrare rapidamente in circolo. Così, memore del suicidio di un amico, Seneca si immerse in una vasca d'acqua bollente per favorire la perdita di sangue «spruzzandone i servi più vicini e dicendo di fare con quel liquido libazioni a Giove». 

Ma alla fine raggiunse una morte lenta e straziante, che arrivò, secondo lo storico, per soffocamento causato dai vapori caldi, dopo che Seneca fu portato, quando fu entrato nella tinozza, in una stanza adibita a bagno e quindi molto calda, dove non poteva respirare (ed essendo lui sofferente da sempre di problemi respiratori). I soldati e i domestici invece impedirono a Paolina, priva ormai di sensi, di suicidarsi, proprio mentre Seneca stava assumendo il veleno:

«Nerone però, non avendo motivi di odio personale contro Paolina, e per non rendere ancora più impopolare la propria crudeltà, ordina di impedirne la morte. Così, sollecitati dai soldati, schiavi e liberti le legano le braccia e le tamponano il sangue; e, se ne avesse coscienza, è incerto. Non mancarono, infatti, perché il volgo inclina sempre alle versioni deteriori, persone convinte che Paolina abbia ricercato la gloria di morire insieme al marito, finché ebbe a temere l'implacabilità di Nerone, ma che poi, al dischiudersi di una speranza migliore, sia stata vinta dalla lusinga della vita. Dopo il marito, visse ancora pochi anni, conservandone memoria degnissima e con impressi sul volto bianco e nelle membra i segni di un pallore attestante che molto del suo spirito vitale se n'era andato con lui. Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell'arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all'azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d'acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.»

(Annales, XV, 64)

Vista la lunga serie di metodi di suicidio messi in atto da Seneca (anziché un solo metodo diretto ed immediatamente efficace, come quelli scelti da Bruto o da Nerone stesso: ad esempio pugnalarsi alla gola o al cuore, dalla clavicola, mentre un servo o un amico reggeva la spada; questa era in effetti la consuetudine più diffusa tra i romani nobili e i militari) e la somiglianza evidente in certi particolari (il discorso, la cicuta, poi la libagione alla divinità) con la morte di Socrate, è stato anche ipotizzato che Tacito abbia costruito lui stesso il racconto ad imitazione del testo platonico della morte di Socrate, e che la morte del filosofo sia stata più rapida.


Fonte: Wikipedia 


24/09/21

C'è una fotografia sul suolo lunare. Chi l'ha lasciata?

 


E' veramente una storia bella e poco conosciuta.

Riguarda le missioni spaziali Apollo e in particolare quella che il 20 aprile 1972 portò l'astronauta dell'Apollo 16 Charles Duke a fare i suoi primi passi sulla luna. 

All'epoca Duke aveva 36 anni ed è l'essere umano tuttora più giovane nella storia ad aver mai camminato sulla superficie lunare. 

Ma questo non è l'unico risultato di Duke che sopravvive nella storia americana. 

Mentre era sulla luna, infatti, Duke scattò una foto di questo ritratto di famiglia di lui, dei suoi due figli e di sua moglie, che è rimasta sulla luna fino ad oggi. 



Sul retro della foto Duke aveva scritto: "Questa è la famiglia dell'astronauta Charlie Duke del pianeta Terra che è atterrato sulla luna il 20 aprile 1972." 

Nell'ingrandimento della foto qui sopra si individuano bene i componenti della famiglia: all'estrema sinistra c'è il suo figlio maggiore, Charles Duke III, che aveva appena compiuto sette anni. Davanti in rosso c'è il figlio più giovane, Thomas Duke, che aveva cinque anni. Duke e sua moglie, Dorothy Meade Claiborne, sono sullo sfondo. 

“Avevo sempre pianificato di lasciarla sulla luna”, ha detto Duke a Business Insider, "Quindi, quando l'ho lasciata cadere, era solo per mostrare ai bambini che l'avevo davvero lasciato sulla luna". 

Da allora la foto è stata inclusa in numerosi libri fotografici popolari ed è un ottimo esempio del "lato umano dell'esplorazione dello spazio", ha detto Duke. 

Quando Duke si stava allenando per diventare un astronauta dell'Apollo, trascorreva la maggior parte del suo tempo in Florida. Ma la sua famiglia era di stanza a Houston. 

Di conseguenza, i bambini non hanno potuto vedere molto il padre in quel periodo. 

"Quindi, solo per entusiasmare i bambini su cosa avrebbe fatto papà, ho detto 'Vorreste tutti venire sulla luna con me?'", ha detto Duke. "Possiamo scattare una foto della famiglia e così tutta la famiglia può andare sulla luna". 

Sono passati più di 43 anni da quando Duke ha camminato sulla luna. E mentre le impronte che ha lasciato sul suolo lunare sono relativamente invariate, Duke sospetta che la foto non sia in ottime condizioni a questo punto. 

"Dopo 43 anni, la temperatura della luna ogni mese sale fino a 400 gradi [Fahrenheit] nella nostra area di atterraggio e di notte scende quasi allo zero assoluto", ha detto Duke. "La pellicola termoretraibile non viene molto bene a quelle temperature. Sembrava a posto quando l'ho lasciata cadere, ma non l'ho mai più guardata e immagino che ormai sia tutta sbiadita". 

Sfortunatamente, non c'è modo di determinare quanto sia sbiadita la foto perché è troppo piccola per essere individuata dai satelliti lunari. Indipendentemente da ciò, la foto "è stata molto significativa per la famiglia", ha detto Duke. Alla fine, questo è tutto ciò che conta, giusto?

23/09/21

Quella volta che Pasolini perse le staffe e si scatenò la rissa

 


E' un episodio poco conosciuto della vita di Pier Paolo Pasolini, anche se è perfino documentato da questa rara foto che fu scattata da un reporter di quotidiani. 

Roma, 22 settembre 1962. In occasione della prima di "Mamma Roma" al cinema Quattro Fontane, alla fine della proiezione giornalisti e spettatori si avvicinano a Pasolini per fargli i complimenti, intervistarlo, stringergli la mano, chiedere un autografo

Dalla folla si stacca un giovane studente fascista che dopo averlo insultato prova a assestargli uno schiaffo. Pasolini reagisce furiosamente e mena il fascista. 

Dal Messaggero del 23 settembre 1962: «Pasolini ha avuto una reazione improvvisa, non si è lasciato intimorire dalla spavalderia del giovinastro e lo ha afferrato restituendogli, e con gli interessi, la razione di ceffoni. I due sono scivolati in terra ed hanno continuato a picchiarsi fin quando non sono intervenuti alcuni spettatori che hanno separato i contendenti. Pasolini, accompagnato da uno dei direttori del cinema — gremito ieri sera in ordine di posti — ha raggiunto uno dei camerini subito raggiunto dal giovane Ettore Garofolo e da altri attori. È qui che siamo riusciti a parlare con lo scrittore: "L'episodio — ha detto ancora stravolto in viso — mi addolora alquanto. La pellicola non era stata disturbata assolutamente ed il pubblico aveva gradito lo spettacolo. Quando il giovane si è avvicinato, ho creduto che anche lui, come molti altri, volesse stringermi la mano e congratularsi con me. Sono stato preso alla sprovvista ed ho reagito come ho potuto. Credetemi, non posso pensare che in Italia succedano ancora cose del genere. Durante la proiezione non vi era stato un solo fischio, perché i giovani neofascisti non avevano potuto appigliarsi ad un solo momento della pellicola che potesse far nascere il malcontento. Anche a Venezia avevano voluto provare a disturbare il film ma non c'erano riusciti. Non so proprio come spiegare quanto è avvenuto". Dopo l'inqualificabile gesto del teppista, gli agenti di polizia sono intervenuti ed hanno provveduto a far sgombrare al più presto la folla che ancora si attardava a commentare il fatto. Sono stati operati alcuni fermi, una decina tra i giovani estremisti e sono stati invitati negli uffici di polizia anche Sergio Citti, fratello di Franco e Paolo Morgia, uno dei protagonisti della pellicola. All'una e trenta Pier Paolo Pasolini, a bordo di un taxi, ha lasciato il Quattro Fontane applaudito dagli ultimi spettatori i quali gli hanno voluto ancora una volta confermare la loro solidarietà».

21/09/21

Un quadro fiammingo meraviglioso e misterioso da scoprire nei particolari


E' un quadro meraviglioso. 

Un ragazzo che porta il pane (c. 1663) è un olio su tela del pittore olandese Pieter de Hooch che rappresenta la cosiddetta "età dell'oro" della pittura fiamminga

Un ragazzo offre un cesto di pane a una signora in un interno; dietro di loro un cortile piastrellato conduce in un altro interno buio, oltre il quale si può vedere un canale con una seconda donna, forse la madre del ragazzo, che guarda la transazione da lontano

La porta si affaccia su un sentiero, pavimentato con piastrelle e delimitato da una recinzione, che conduce attraverso il cortile all'ingresso sotto una porta di pietra decorata con uno stemma. 

Al di là c'è un canale, dall'altro lato del quale una donna sta dietro la mezza porta di una casa. In primo piano a destra è una sedia con un cuscino

L'intera scena è dominata dal rosso e dal nero del costume della donna. Ci sono toni bluastri nell'ombra.

Lo stemma sopra la porta dice "o, un azzurro azzurro".

Le insegne sulla finestra recano l'iscrizione, a sinistra "Cornelis Jansz" o "Jac.", A destra "Marnie" o "Maerti". 

A sinistra è il monogramma della famiglia dell'uomo: una "M", in mezzo alla quale si alza un albero che porta una piccola "c" e termina con un "4." 

A destra è quella della famiglia della donna: in una losanga, un albero, con due tratti incrociati in alto e due tratti che si incontrano in un angolo inferiore, ha una "M" a sinistra e una "C" a destra. 

Con la sua magistrale illusione di una profondità sfuggente, l'immagine dimostra la sensibilità di De Hooch ai diversi effetti della luce del giorno negli spazi adiacenti, focalizzando l'attenzione dello spettatore e infonde alla scena una calma profonda. 

Il dipinto è attualmente conservato alla Wallace Collection in Manchester Square a Londra.

20/09/21

L'incredibile storia del chitarrista dei Nirvana e dei Soundgarden diventato soldato in Afghanistan e Iraq e ora barista

 

Everman ai tempi dei Nirvana e nell'esercito qualche anno dopo

E' davvero incredibile la storia di Jason Everman, che già nel suo cognome custodiva forse il destino di una vita dalle mille vite, molto diverse l'una dall'altra.  Sembrerebbe l'ottima sceneggiatura per un film o per una serie televisiva. 

Ripercorriamola insieme. 

Jason Mark Everman è nato il 16 ottobre 1967 e in una intervista del 2013 al New York Times Magazine, quando gli è stato chiesto della sua nascita ha detto: "Il mio certificato di nascita dice che sono nato a Kodiak, ma sono abbastanza sicuro che fosse Ouzinkie, dove i miei genitori vivevano in una capanna di due stanze con un gattopardo domestico, chiamato Kia." I

In effetti i suoi genitori si erano allora trasferiti nella remota Spruce Island per "tornare alla natura", ma il loro matrimonio non "ha funzionato"

Sua madre partì con Jason quando era un bambino, si trasferì a Washington, risposandosi con un ex militare della Marina; la famiglia alla fine si stabilì a Poulsbo, a un'ora da Seattle.

Secondo la sorellastra di Everman, con la quale è cresciuto, la madre di Jason "era estremamente depressa, un genio artistico che era anche un'alcolizzata ingoia-pillole. Jason e io abbiamo imparato a camminare sui gusci d'uovo e abbiamo davvero imparato a prenderci cura di noi stessi"


Dopo un incidente in cui lui e un amico hanno fatto esplodere una toilette con un petardo M-80, la nonna è intervenuta perché affrontasse sessioni di terapia per affrontare i suoi problemi emotivi. 

Everman iniziò così  suonare la chitarra durante le sessioni di terapia; inizialmente utilizzò una delle chitarre che il terapeuta teneva nel suo ufficio, e il terapeuta poi decise di suonare con lui, sperando che lo aiutasse ad aprirsi. 

Ha continuato a suonare in diverse band durante gli anni del liceo. 

Inoltre, ristabilì un contatto con il padre biologico, che a quel tempo possedeva una barca da pesca in Alaska, e lavorò diverse stagioni sulla barca. 

Prima di unirsi ai Nirvana , suonò la chitarra in una band locale chiamata Stonecrow con il futuro batterista dei Nirvana Chad Channing . 

Jason Everman oggi

Everman si unì poi ai Nirvana nel febbraio 1989 come secondo chitarrista. È elencato come secondo chitarrista in Bleach dei Nirvana e appare sulla copertina, ma in realtà sembra che non abbia suonato in nessuna delle tracce. Nell'edizione rimasterizzata del 2009 di Bleach , Everman non è più accreditato ma gli viene dato un ringraziamento speciale nel libretto. 

Everman comunque andò in tour con i Nirvana nell'estate del 1989 per il lancio di Bleach. Ma la collaborazione con i Nirvana - Everman sostituì dal vivo Cobain quando ruppe  la sua chitarra la notte precedente del concerto - durò poco: i Nirvana licenziarono Everman dopo la fine del tour a causa dei suoi scatti d'umore. 

Everman si unì allora ai Soundgarden nel 1990 come successore temporaneo di Hiro Yamamoto al basso.

Ma anche qui durò poco: se ne andò subito dopo che i Soundgarden completarono il loro tour promozionale per Louder Than Love a metà del 1990. 

Nel settembre 1994, la svolta improvvisa della sua vita: influenzato dall'icona del Rinascimento italiano Benvenuto Cellini (che Everman dichiarò essere un uomo a tutto tondo: artista, guerriero e filosofo), lasciò il rock, per arruolarsi nell'esercito degli Stati Uniti, con le Forze Speciali, effettuando campagne militari in prima linea in Afghanistan e Iraq. 

Dopo aver completato il servizio, si prese una pausa dall'esercito e visse a New York, dove lavorò brevemente come fattorino in bicicletta. 

Ha poi viaggiato in Tibet e ha lavorato e studiato in un monastero buddista prima di tornare negli Stati Uniti. 

Dopo aver ricevuto un congedo con onore nel 2006 dall'esercito, Everman ha conseguito un Bachelor of Arts in filosofia presso la Columbia University School of General Studies il 20 maggio 2013.

Nel luglio 2013, il New York Times ha pubblicato un ritratto su Everman, in cui si racconta come vada "ancora regolarmente all'estero, lavorando come consulente per l'esercito". 

Nel maggio 2017 Everman ha incontrato il collega veterano Brad Thomas a New York e i due hanno deciso di formare una band. A luglio la band, chiamata Silence & Light, aveva una formazione completa composta da veterani militari con Everman che suonava la chitarra. Hanno iniziato a registrare un album nel gennaio 2019 a Van Nuys in California. Una canzone è stata pubblicata nell'ottobre 2019 e l'album completo è stato pubblicato nel dicembre 2019. I profitti della band sono dedicati ad aiutare i membri della comunità delle operazioni speciali, i militari e i primi soccorritori. 

L'ultima attività riconosciuta di Everman è quella di barista in alcuni locali californiani. 


Fabrizio Falconi - 2021

19/09/21

Storia di una foto bellissima: Le Tre Ragazze a Campo dei Miracoli nel 1946

 


E' una foto meravigliosa quella che Federico Patellani, uno dei più grandi fotografi italiani, ha chiamato: Tre ragazze nel campo dei Miracoli a Pisa, nel 1946, il cui originale è conservato presso la Regione Lombardia al Museo di Fotografia Contemporanea).

C'è tutto in questa foto: la liberazione del popolo italiano dopo anni terribili, tragici. La nuova libertà conquistata, ma soprattutto la tenerezza, la dolcezza, la consapevolezza di poter tornare a meravigliarsi della bellezza del mondo.  E nessun luogo forse è più simbolico di quel Campo dei Miracoli di Pisa, dove davvero ogni miracolo appare possibile, e dove le tre ragazze hanno scelto di godere il sole sdraiate tra l'erba alta. 

E' il miracolo della tranquillità e del riconoscimento del mondo, ancora possibile, ancora intatto, ancora sorprendente e meraviglioso.

Federico Patellani, nato a Monza il 1º dicembre 1911 e morto a Milano nel 1977 è stato un fotografo e regista italiano, fotoreporter di guerra e vero caposcuola del fotogiornalismo in Italia, la cui notorietà si deve proprio ai suoi famosi reportages  sulla ripresa della società italiana nel dopoguerra. 

Ma già con lo pseudonimo Pat Monterosso era stato fotografo di guerra documentando la guerra in Russia nella seconda guerra mondiale. Il Fondo delle sue fotografie è immenso, consiste in più di 700.000 scatti, ed è conservato presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo. 

Figlio di Aldo, un avvocato di Monza, Federico comnciò a ad avvicinarsi alla fotografia da adolescente grazie proprio al padre, che oltre alla ripresa (gli regalò una macchina a tendina di piccolo formato), gli insegnò lo sviluppo e la stampa fotografica in camera oscura. 

Come ufficiale dell'esercito italiano nel 1935, fu incaricato di fotografare le operazioni del Genio in Africa orientale. Al suo ritorno in Italia scelse di lasciare la carriera di avvocato per dedicarsi completamente alla fotografia. La seconda guerra mondiale lo consacra fotografo di guerra: è infatti reporter sul Fronte orientale, poi in Italia dove nel 1943 fotografa gli effetti distruttivi dalla guerra a Milano e Valmontone, Cassino e Napoli. 

Nel dopoguerra è testimone della ripresa italiana per le maggiori riviste e giornali italiani. Negli anni '70 allarga le sue prospettive ad altre parti del mondo come il Kenya e diversi altri stati africani, Messico, Ecuador e nel 1976 in Ceylon. 

Muore a 65 anni, il 10 febbraio 1977, a Milano.

La professione di Federico Patellani era quella del fotoreporter di razza anche se aveva studiato legge e probabilmente avrebbe fatto l'avvocato se l'urgenza di testimoniare quello che vedeva non avesse preso il sopravvento. Il primo fotoreporter dell'Italia che usciva dal dopoguerra con le ossa rotte, le case sgarrupate, il lavoro da inventare, un po' come oggi, ma anche con una grande voglia di vivere. 

Rendiamo omaggio al grande fotografo e anche a queste tre sconosciute ragazze, i cui volti purissimi e i sorrisi resteranno sempre un simbolo di bellezza e di rinascita.

Fabrizio Falconi

18/09/21

Libro del Giorno: "Vite che non sono la mia" di Emmanuel Carrère

 


E' uno dei libri migliori che abbia letto negli ultimi anni. Un libro nel quale - come capita molto di rado - il forte impatto emotivo (che co-stringe il lettore a non rimanere impassibile, ma anzi ad essere profondamente turbato visto che in massima parte si tratta di fatti reali) si sposa alla maestria di uno stile letterario impeccabile, di livello molto alto. 

Vite che non sono mie è stato pubblicato da Emmanuel Carrère nel 2009 e subito tradotto in italiano da Einaudi, prima che l'editore Adelphi non acquisisse il catalogo completo delle opere di Carrère per il nostro paese. 

Scritto dopo La vita come un romanzo russo (scritto nel 2007), una storia sulla sua famiglia e quindi completamente autobiografica, Emmanuel Carrère decise di realizzare un libro in cui non fosse il primo protagonista, come già viene dichiarato dal titolo, ma dedicato invece alla vita delle persone che incontra, anche se lo scrittore resta fondamentalmente in scena per tutto il romanzo.

Che si tratti però della famiglia della bambina scomparsa durante il terrificante tsunami del 2004, di Patrice, Etienne e anche delle famiglie vittime del sovraindebitamento, Carrère concepisce la missione di descrivere ai lettori la loro sofferenza, la loro situazione, il loro carattere, in una parola il loro destino.

La storia inizia in Sri Lanka, dove Carrère trascorreva le vacanze con la sua compagna Hélène, suo figlio Jean-Baptiste e il figlio di Hélène, Rodrigue proprio all'epoca del grande tsunami che ha devastato lo Sri Lanka e l'indocina nel 2004. 

Carrère, scampato lui stesso insieme alla famiglia alla tragedia per mere circostanze fortuite, decide allora di raccontare la tragedia che ha subito una famiglia francese in vacanza: Juliette, la loro unica figlia morta durante lo tsunami, raccontando l'impatto devastante di questo lutto su di essa. Le due famiglie diventeranno presto amiche. 

Al suo ritorno a Parigi, l'autore deve poi affrontare un'altra tragedia: la morte della sorella di Hèléne,  Juliette, sposata e madre di tre giovani figlie. 

Racconterà la storia dell'agonia di questa donna per una malattia incurabile e il viaggio di accompagnamento di chi le sta intorno. 

Dopo la morte di Juliette, la famiglia è invitata a visitare un amico ed ex collega di Juliette, Étienne. 

Quest'ultimo spiega i legami che aveva con il defunto. Ed è proprio seguendo questa affascinante storia che Carrère avrà l'idea di realizzare questo libro. 

Incontrerà più volte quest'uomo che gli racconterà del suo lavoro come giudice, il suo cancro gli ha fatto perdere una gamba (come Juliette). Conosce Juliette perché insieme erano giudici del tribunale distrettuale di Vienne, dove si occupavano di colossali casi di sovraindebitamento che interessavano gente comune. 

Étienne racconta la loro lotta comune a favore delle famiglie povere e contro i grandi istituti di credito. 

Carrère conosce meglio  Patrice, il marito di Juliette. Quest'ultimo ripercorre la sua vita matrimoniale e gli ultimi giorni della moglie. 

Le vicende che interessano le due Juliette, dunque, la bambina morta per lo tsunami e la cognata giudice, apparentemente non collegate, finiscono invece per formare, nella narrazione di Carrère una unica, profonda, dolente, angosciosa, meditazione sulla sofferenza e sulla morte (il caso ha voluto infatti che Emmanuel Carrère fosse in vacanza nello Sri Lanka quando lo tsunami ha devastato le coste del Pacifico, e che si trovasse a sostenere una coppia di connazionali nelle strazianti incombenze burocratiche per rimpatriare il corpo della figlia di quattro anni; e che, solo pochi mesi dopo, gli accadesse di seguire un’altra vicenda dolorosa, quella che avrebbe portato alla morte per cancro la sorella della sua compagna, che era stata «un grande giudice», strenuamente impegnato al fianco delle vittime del sovraindebitamento). 

C’è un solo modo per ricevere il dolore degli altri, ci dice Carrère: dargli voce, farlo diventare il proprio dolore. Ed è questo il compito che si è assunto come romanziere, riuscendo a scrivere – senza mai cadere nell’enfasi, ma mettendo a fuoco con la precisione ossessiva di un reporter ogni minimo particolare – il suo libro più lacerante e temerario.

«Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due sciagure, l’una dopo l’altra, e mi ha assegnato il compito, o almeno io ho capito così, di raccontarle»


Emmanuel Carrère