09/05/14

Salva la Public Library di New York, una delle più belle biblioteche del mondo.



La Public Library di New York abbandona il suo piano di restyling: dopo anni di polemiche e' stato bocciato il progetto di rinnovamento dell'architetto Norman Foster, secondo il quale sarebbero stati abbattuti gli scaffali per i libri del 1911.

Il sindaco della Grande Mela, Bill De Blasio, aveva espresso scetticismo sul piano di ristrutturazione della biblioteca sulla 42esima Strada gia' durante la campagna elettorale, e recentemente si incontrato con il presidente della Public Library, Anthony Marx, per discutere il progetto.

Il piano doveva essere pagato con 150 milioni dollari stanziati dalla citta' di New York e proventi della vendita della Mid-Manhattan Library, sulla Quinta Strada e 40esima, e della Science, Industry and Business Library, su Madison Avenue e la 34esima Strada. 

La biblioteca e' ancora in attesa di ricevere i 150 milioni di dollari stanziati sotto l'amministrazione Bloomberg, ma ora spera di utilizzare il denaro per altri progetti. 

Tuttavia, per il piano erano già stati sborsati nove milioni di dollari a Foster. Sembra pero' che il costo dell'opera sarebbe stato piu' elevato dei 300 milioni di dollari inizialmente stimati.



08/05/14

Essere fratelli non si sceglie, lo si diventa (Joaquin e River Phoenix).


Joaquin (sotto) e River (sopra) Phoenix fotografati nel 1985. 


Essere fratelli non lo si sceglie. Lo si diventa. 

Quel che accomuna due esseri umani, l'essere venuti al mondo dalla stessa donna, dallo stesso codice genetico, non è scelto da nessuno, tanto meno da chi si ritrova nella condizione di essere fratello di qualcuno. 

Ma non esiste forse relazione che rende meglio il concetto di responsabilità umana di quello di fratello (non casualmente questo è il termine a cui si ricorre più spesso nei libri sapienziali e nelle parole pronunciate dal Messia nei Vangeli). 

Sono il fratello di qualcuno, non l'ho scelto.  

Ma il destino mi chiama, sotto questa forma, anche se io non so cosa sia il destino. 

Sono chiamato a farmi carico (o a scegliere di non farmi carico, che è la stessa cosa), sono chiamato direttamente in causa, sono interrogato nel profondo di me stesso. 

Un legame misterioso avvolge noi due e non so trovare altro termine più appropriato di relazione

Fratelli non abbiamo scelto di essere.  Ma possiamo diventarlo, e certe volte siamo chiamati drammaticamente ad esserlo, senza nemmeno poterlo sceglierlo. 

Emblematico, fortissimo di significati è il destino dei cinque fratelli Phoenix.  River è morto tragicamente. Joaquin, che ha assistito alla sua morte, che lo ha visto morire tra le sue braccia, è oggi uno dei migliori attori di Hollywood, in virtù, forse, anche di quel dolore che si legge ancora sulla sua faccia. 

Fabrizio Falconi

Joaquin Phoenix, noto per un periodo anche come "Leaf Phoenix" appartiene a una famiglia di artisti, di cui il più noto è il fratello maggiore River, morto tragicamente nel 1993 all'età di 23 anni.

Suo padre è John Lee Bottom, carpentiere, cattolico proveniente da Fontana in California, mentre la madre è Arlyn Dunetz, segretaria, nata nel Bronx da genitori ungherese e russo e di religione ebraica. 

I due s'incontrarono a Los Angeles: John diede un passaggio in auto a Arlyn che stava facendo l'autostop dopo aver abbandonato il primo marito. Vissero per qualche tempo nelle comuni hippie. Divennero quindi missionari della setta religiosa dei Bambini di Dio, in Sud America. 

Ebbero cinque figli: River (deceduto nel 1993), Rain, Joaquin, Liberty e Summer. Joaquin è l'unico che non porta un nome ispirato alla natura; sentendosi escluso, a quattro anni decise di farsi chiamare Leaf ("foglia"), nome che tenne anche come attore fino all'età di 15 anni. Delusi dalla setta dei Bambini di Dio, i genitori di Joaquin rientreranno negli Stati Uniti nel 1978 dove cambiarono il cognome in "Phoenix" (in onore alla Fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri). 

Rientrato negli Stati Uniti, Joaquin Phoenix sarà uno dei testimoni della morte del fratello River, avvenuta per overdose di droghe al Viper Room, un club alla moda in parte di proprietà di Johnny Depp, la notte di Halloween del 1993. 


Johnny Depp era presente quella sera nel locale, così come la fidanzata di River Samantha Mathis, il cantante degli Slipknot Corey Taylor, il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea, e il chitarrista John Frusciante, entrambi amici da tempo. Dopo essere stato visto a colloquio con alcuni spacciatori, River uscì dal locale in condizioni preoccupanti mentre Flea e Depp stavano suonando sul palco; i due si precipitarono fuori, mentre Joaquin chiamava il numero di soccorso pubblico 911. 

I soccorsi però non poterono arrivare in tempo, e quando un'ambulanza giunse sul luogo River era già morto sul marciapiede. La corsa al Cedars-Sinai Medical Center e i tentativi di rianimazione furono inutili e River fu dichiarato morto alle ore 1:51 L'autopsia rivelò in seguito un'overdose di eroina e cocaina, sotto forma di speedball, oltre a tracce di cannabis,Valium e un altro anti-influenzale per il quale non era necessaria la ricetta medica. Tuttavia sul suo corpo non furono ritrovati segni di aghi. 

La drammatica telefonata di Joaquin al 911 fu registrata e ritrasmessa da varie trasmissioni radio e tv. A seguito del decesso di River e dell'atteggiamento invasivo e irrispettoso dei media nella sua vita privata, Joaquin si allontanò da Hollywood per la seconda volta fino al 1995, quando parteciperà a Da morire (To Die For), prova d'autore diretta da Gus Van Sant.

tratto da Wikipedia.



Joaquin Phoenix

07/05/14

"Guarda che non sono io", un libro su Francesco De Gregori.



Si intitola 'Francesco De Gregori - Guarda che non sono io' il volume, a cura di S.Viglietti e A.Arianti, che racchiude il racconto fotografico della storia del popolare cantautore. 

Il libro, che anticipa la pubblicazione di un nuovo progetto musicale, racconta 40 anni di musica di De Gregori attraverso una selezione di immagini e parole: la vita, i viaggi, i live, i backstage, gli incontri.

'Guarda che non sono io' e' un affascinante ritratto dell'artista e del suo modo di fare musica. Dopo una galleria di foto inedite, un approfondimento sul personaggio e sulla sua discografia, più due interviste esclusive, a lui e al suo produttore Guido Guglielminetti (con Steve Della Casa e Gabriele Ferraris).

Completa il libro una raccolta di manoscritti di nuove e vecchie canzoni. 

Per lui e' una prima volta. 

"La maggior parte dei libri - spiega Francesco De Gregori - che sono stati scritti su di me, non molti per la verita', li ho visti solo quando erano gia' in libreria... In questo caso, invece, sono stato coinvolto fin dall'inizio e ho dato volentieri un mio contributo. Lasciandomi fotografare, tirando fuori molte vecchie foto e altri materiali d'epoca dal fondo dei cassetti, revisionando insieme ad Alessandro, mio pianista, e Silvia, editrice torinese, un'impressionante quantità di interviste rilasciate nel corso degli anni". 

Il volume, disponibile dal 10 maggio in pre-order sul sito www.francescodegregori.net e dal 3 settembre in libreria, sara' presentato sabato al Salone del Libro di Torino e il 20 luglio al Collisioni Festival di Barolo.




06/05/14

Disputa sul tradimento. Un bell'articolo di Federica Manzon su La Lettura del Corriere della Sera.



Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons) diretto da Stephen Frears nel 1988

Il tradimento è uno sfogo maschile opportuno, addirittura essenziale a preservare la famiglia. Così pensa Martin Hart, il protagonista di True Detective, l’ultima serie tv culto della Hbo. Martin tradisce la moglie con ammirevole costanza, con donne più giovani, donne che lo legano al divano con le manette, che gli fanno ogni genere di proposta al telefono: «Il lavoro ti assorbe tanto» dice, «bisogna decomprimere, prima di tornare a casa. Alla fine lo fai per il bene di tua moglie e dei tuoi figli». Il tradimento, dunque, è eminentemente prerogativa degli uomini? Certo, pensa il maschio eterosessuale della profonda Louisiana. Certo, dicono i critici di Dominique Strauss-Kahn, sulla cui condotta fedifraga l’ex moglie Anne Sinclair aveva solo qualche sospetto. Certo, dicono le femmine intervistate da Daniel Bergner nel suo ultimo libro Che cosa vogliono le donne (Einaudi Stile libero). 

Naturalmente, mentono. L’esperimento che le ha smentite è semplice: alle volontarie vengono fatte ascoltare delle audio-cassette pornografiche con protagonisti amanti di lunga data, sconosciuti, donne. Tutte dichiarano di preferire il rapporto tradizionale, peccato che gli impulsi nervosi inviati agli strumenti evidenzino il contrario. Le donne sono attratte dalla relazione traditrice, lo sono rapidamente e più liberamente di quanto osino dichiarare. Mettendo mano ai più seri studi scientifici, Bergner scardina ogni falso mito: dalle scimmie alle manager newyorkesi, le donne desiderano il tradimento, lo ricercano, lo praticano, senza che questo debba per forza minare le basi della vita di coppia, senza che questo le renda delle pessime madri. 

Ma se il tradimento, anche quello senza sospiri e senza romanticismi, è diventato unisex, identici sono rimasti i suoi riti. Ancora nel cuore della notte ci giriamo sul fianco per rispondere a un sms. Al mattino, ci precipitiamo a cancellare i messaggi di Facebook. Guardiamo l’iPhone vibrare nella tasca della giacca: scusa ero in una riunione importante. E sempre ci addormentiamo immaginando le sue gambe nude e i suoi occhi che sorridevano troppo, e daremmo qualsiasi cosa per un’ora di irragionevole spensieratezza: Elsa Morante che al telefono acconsente alle richieste di Luchino Visconti, mentre accanto a lei Moravia dorme. È questo il tradimento che rende così immorali? Oppure immorale è il desiderio segreto degli amanti che il marito o la moglie muoiano, perché abbandonarli significherebbe procurare loro un’infelicità e non vogliamo, neppure se la vita insieme ci tormenta e basterebbe appena un po’ di coraggio. O piuttosto immorale è la pretesa d’eternità che ogni promessa d’amore si porta dietro? Quel «per sempre» che giura su un futuro impossibile e suona sinistro tra le paure della nostra infanzia — le gemelle di Shining, il pagliaccio di IT.


05/05/14

C'è qualcosa di meglio di trovare: ritrovare.




C'è qualcosa di meglio di trovare:  ritrovare. 

Cammino da quando son nato e da quando cammino - forse ancora prima -  perdo qualcosa: un  oggetto, un paio di occhiali scivola dalla tasca senza che me ne accorga; il tempo lo perdo ad ogni inciampo e anche lui scivola da qualche parte dove io non posso vederlo. 

Ogni tanto trovo anche qualcosa: e mi riempie di stupore.  A volte sono cose piccole, altre immensamente sconosciute, ne trovo soltanto l'involucro; certe sono anche dentro di me e non sapevo di averle, altre le trovo camminando come dicevo, perché succede che anche un inciampo può servire a trovare qualcosa. Gli occhi non vanno di pari passo con le gambe. 
Gli occhi mirano in alto, le gambe hanno bisogno di camminare sulla strada. 

E però nessuna grazia è maggiore del ritrovare. 

Ho lasciato una cosa, sperando che nessuno la veda, che nessuno la riconosca.  Ho nascosto una cosa, ho seppellito, l'ho lasciata, l'ho abbandonata.  Ma lei sapeva che io sarei tornato. 

Così funziona: se ti fidi, troverai quel che hai lasciato, nel posto esatto dov'era. Nessuno lo avrà portato via, nessuno l'avrà distratto, nessuno l'avrà rubato, nessuno l'avrà fatto dimenticare di te. 

E' il patto segreto.  E' sapere che ritroverai, certamente, quel che vuole appartenerti e quello a cui tu vuoi appartenere.  Che non si sposta mai sull'asse del pianeta, o dell'universo. Che resta fisso, che non si muove mai. 


Fabrizio Falconi

04/05/14

La poesia della domenica - 'Dolore' di Jacqueline Risset.



Dove nasce il misterioso il folle
dolore d'amore ?
mi sveglio questa mattina
circondata dal dolore di te

- di te: come un'irritazione
nella pelle del mondo dove sei
e se chiedo:
come farla cessare

lo so:
occorre che sia spento quel punto
che smetta di battere come un dente
quando il resto tace

Tessuto del mondo in un punto trasparente
tutto soffre in questi paraggi
tutto guarda questo punto
che il dolore      rischiara

Sogno l'oblio completo
parete sorda muro bianco
ma tutto è scritto disegnato
coperto di segni

di te - da me -
fatti per vedere te ovunque
e ora soffoco
soffro vorrei
dormire

mi hai detto sulla piazza
brusio di bronzo fontane
"Quale fine ? l'oblio
non si immagina"

ma tu, amore,
non soffri - ed io
non capisco soffro
ancor di più

Così di seguito e senza alcun sapere
corro
fino alla prossima freccia
che uccidendomi mi risvegli


Jacqueline Risset, da Amor di lontano, Einaudi, 1993 (pag. 125)

03/05/14

"E' impossibile tacere su una morte" - Elias Canetti.


250.000 foto ed effetti personali allestiti nel centro della memoria di Fukushima (foto di Toru Hanai).


E' impossibile tacere su una morte.  Vorremmo una muta del lamento, e poiché non esiste cerchiamo di metterla insieme con le lettere che mandiamo in paesi lontani.

Ma il nostro dolore per il morto è così grande e violento che non scriviamo soltanto a quelli che l'hanno conosciuto: impegniamo ad onorarne la memoria anche tutti quelli che non conosciamo.  Ad essi presentiamo il morto a posteriori, ad essi comunichiamo il meglio che di lui si possa dire; diciamo esplicitamente cosa lui significhi per noi ed esercitiamo una sorta di pressione: guai se anche per loro non significa molto. 

In cuor nostro facciamo dipendere dalla loro reazione alla notizia di questa morte la possibilità che continui la nostra amicizia per loro. 

Li mettiamo alla prova, li osserviamo con diffidenza, misuriamo sulla bilancia ogni parola della loro reazione, e se il peso risulta troppo scarso li cacciamo senza pietà: non potranno più far parte della nostra cerchia. 


Elias Canetti, La rapidità dello spirito, appunti da Hampstead 1954-1971, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, 1994, pag.182.

02/05/14

I tiepidi vanno all'inferno.




I tiepidi vanno all'inferno, ammonisce il titolo di un libro scritto da un volenteroso prete di strada di Marsiglia, Michel-Marie Zanotti-Sorkine, il quale è riuscito - sembra - nell'impresa di tornare a far riempire la sua parrocchia, parlando di cose semplici e di un vangelo quasi pasoliniano. 

Zanotti-Sorkine è convinto che l'uomo serio, di fronte al destino, non può stare tranquillo.  E in effetti, come si sa, Gesù Cristo non amava affatto i rinunciatari, i passivi, gli ignavi, i farisei e tutti quelli che seppelliscono il loro talento, invece di farlo fruttare. 

Ma implicazioni religiose a parte, anche per chi non crede, questa faccenda della tiepidezza è diventata centrale nella nostra epoca. 

Tiepidi sono quelli - sempre più numerosi - che vivono vite anestetizzate, vagheggiano passioni - di qualunque natura - ma ne hanno paura.  Non riescono mai a mettersi in gioco veramente, né in discussione, ad abbandonarsi alle domande che il destino - o la vita - sottopone, non riescono né a piangere veramente né a godere di una vera gioia.
  
Preferiscono quella che Thoreau chiamava una mite disperazione.  Una disperazione soffusa, tiepida. Come il ronzio di un frigorifero in funzione. Non si vede esteriormente. La si vive come un rumore di fondo, di accompagnamento della propria vita.

Vivere così può apparire triste, ma è sicuramente più vantaggioso sotto molti aspetti: si rischia di meno, o non si rischia affatto.

I tiepidi, però, visto che abbiamo parlato di mite disperazione, non vanno confusi con i miti. Una tipologia che si va facendo molto rara.

Per capire qualcosa della vera mitezza di cuore, bisognerebbe leggere il celebre racconto di Dostoevskij.

Il mite di cuore non è affatto un tiepido. Vive le passioni intensamente, spesso anche più intensamente degli altri, ma rinuncia a - egoisticamente - affermarle. A farne vanto. Preferisce che sia la vita ad aprire le porte, spesso - come nel caso del racconto dostoevskiano - pagandone il più crudele dei prezzi.

Essere miti, dunque, non significa affatto rinunciare a vivere. Soltanto i tiepidi lo fanno. Preferendo una vita a scartamento ridotto, piuttosto che una ondata di pienezza che potrebbe sommergere.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

01/05/14

Hitler e il Nazionalsocialismo: una lettera di Thomas Mann a Albert Einstein.




Per diversi critici, l'atteggiamento del grande scrittore - a cui era stato attribuito il Premio Nobel nel 1929 - nei confronti di Hitler e soprattutto dell'antisemitismo furono tutt'altro che limpido. 

Thomas Mann, che non era ebreo, ma aveva sposato un'ebrea, ebbe però la coerenza di scegliere l'esilio quando i Nazisti presero il potere, nel 1933, dopo le contestazioni dei nazisti alla sua celebre conferenza su Wagner tenuta all'Università di Monaco.  Lo scrittore, che in quei giorni si trovava all'estero, decise di non fare più ritorno in Germania, fino alla fine dei suoi giorni. 

Stabilitosi dapprima in Svizzera, a Kusnacht e poi a Zurigo, andò a vivere negli Stati Uniti, a Pacific Palisades, nei pressi di Los Angeles. 

In America divenne intimo di grandi personalità, tra cui Albert Einstein, che aveva già conosciuto negli anni precedenti, e al quale scrisse questa lettera, datata 15 maggio 1933 poco dopo che (il 30 gennaio) Adolf Hitler era stato nominato Cancelliere del Reich. 

La lettera fu scritta nel Grand-Hotel di Bandol, nel dipartimento di Var, nella Francia del Sud. 

Ad Albert Einstein 
Bandol (Var), 15 maggio 1933, Grand Hotel

Stimatissimo professore, 
diversi cambiamenti di residenza hanno fatto sì che il mio grazie per la sua cara lettera si sia protratto fino ad oggi. 

E' stato il più onorevole messaggio che io abbia avuto non solo in questi tristi mesi, ma forse in tutta la mia vita: ma esso mi loda di una condotta che mi riuscì naturale e che pertanto non merita elogi.

Ben poco naturale, certo, è invece la situazione in cui, per quel mio contegno sono venuto a trovarmi; sono troppo un buon tedesco infatti, perché il pensiero di un esilio permanente non abbia per me un accento assai grave, e la rottura col mio paese, che è quasi inevitabile, mi opprime e mi angoscia parecchio:
segno appunto che non si adatta bene alla mia natura, più improntata ad una tradizione goethiana e rappresentativa che non fatta, di sua natura e vocazione, per il martirio.

Perché mi vedessi costretto a entrare in questa parte dovevano accadere, veramente, cose oltremodo false e cattive, e falsa e cattiva, infatti, secondo la mia più profonda convinzione è questa "Rivoluzione tedesca."  

Le mancano tutte quelle qualità che alle vere rivoluzioni, per cruente che fossero, hanno attirato la simpatia del mondo. Essa, per sua natura, non è una "sollevazione", checché vadano dicendo e strillando i suoi esponenti, ma odio e vendetta, gusto di uccidere e meschineria spirituale piccolo-borghese. 

Non ne può venire nulla di buono, non lo crederò mai e poi mai, né per la Germania né per il mondo, e l'aver messo in guardia, fino all'ultimo, contro le forze che hanno portato questo disastro morale e spirituale, costituirà certo un giorno un titolo d'onore, per noi, titolo d'onore che forse sarà la nostra rovina. 

Il suo devotissimo

Thomas Mann
   

30/04/14

L'amore è addomesticamento (De Rougemont e la nostra smania di avere tutto).




 Edward John Poynter: Orfeo e Euridice 

Come ci ha insegnato Denis De Rougemont,  per qualche migliaio d'anni  in Occidente e anche per i padri greci e romani, la questione era molto chiara: da una parte c'era la lussuria (il soddisfacimento degli istinti) dall'altra c'era il vincolo matrimoniale (dello hieros-gamos,  ιερογαμία) necessario per l'allevamento della prole.

Poi, a partire dal XII provvidero i menestrelli provenzali con le loro Chansons e la loro invenzione dell'amore romantico, assoluto, passionale, che vince perfino la morte, a rendere le cose molto più complicate. 

Oggi l'arcano della nostra incompletezza, della nostra perenne insoddisfazione, poggia sulla pretesa ideale e idealizzata (ormai assorbita dal nostro modello antropologico interiore, occidentale) di voler tenere e avere tutto insieme (e ci manca sempre un pezzo): lussuria, vincolo, passione, romanticismo, sicurezza, contratto, tutto nello stesso tempo, nella stessa persona. Qui e ora, e per sempre (come recitano le catenine d'oro o le incisioni sugli anelli che si scambiano gli innamorati, come simboleggiano i lucchetti che riempiono le ringhiere dei ponti sui fiumi occidentali).

Ma questo complesso di cose che chiamiamo amore e che naturalmente comporta anche cose non del tutto piacevoli come esclusione, esclusività, possessività, possesso, gelosia, fatica a concretizzarsi, nella vita concreta.

Perché l'amore in fondo è qualcosa di molto più delicato e impalpabile, e assomiglia molto all'addomesticamento.

Cresciamo talmente convinti che essere non amati sia la norma (i genitori sono sempre più distratti, gli altri hanno sempre meno tempo per occuparsi di noi), che sin dalla tenerissima età sviluppiamo, come i nostri simili selvatici, molte efficaci strategie di difesa: fuga, aggressione, lotta, graffi, morsi, veleno, mimetismo, girare alla larga, fingersi morti.

Poi quando arriva qualcuno che ci ama davvero - ci vuole accogliere gratuitamente, vuole farsi carico di noi, della nostra persona e della nostra estraneità al mondo, un vero miracolo che succede soltanto una volta nella vita, in genere  - la cosa più difficile (in tanti non ci riescono mai) è convincere noi stessi che nessuno ci farà più male, nessuno ci farà soffrire.

E che possiamo non mostrare più i denti, avvicinarci e lasciarsi avvicinare.

Questo siamo, e questo dovremmo ricordarci di essere. Un animale selvatico può essere addomesticato - se lo sceglie, se lo sente, se lo vuole - ma non accetterà mai di diventare una cosa nostra.  La sua essenza selvatica, in definitiva, resterà sempre soltanto sua, e diversa da noi.

Per fortuna.

Ma la gioia sarà quella di incontrarsi ogni volta nella libera fiducia riconfermata, vera, concreta, che non è la pretesa assoluta di un idea.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

28/04/14

Visita alle Cripte dei Cappuccini e alla Roma dei Barberini, il prossimo 11 maggio.




CRIPTE DEI CAPPUCCINI E LA ROMA DEI BARBERINI

VISITA GUIDATA alle cripte delle ossa dei Cappuccini nella Chiesa di Via Veneto, alla Fontana del Tritone di Piazza Barberini e ai giardini segreti di Palazzo Barberini.

Vi propongo un percorso guidato alla Roma dei Barberini, che prenderà il via dalla Chiesa dei Cappuccini (Santa Maria dell’Immacolata) in Via Veneto,  la cui attrattiva principale è sicuramente la cripta-ossario decorata con le ossa di circa 4000 frati cappuccini, raccolti tra il 1528 e il 1870, un luogo che ha ispirato molti scrittori del passato, tra cui Hawthorne,  Goethe e il Marchese De Sade. Alle Cripte si accede attualmente esclusivamente attraverso il Museo dei Cappuccini, adiacente alla Chiesa.  La visita proseguirà poi in Piazza Barberini, con la Fontana del Tritone opera di Gian Lorenzo Bernini e commissionata da Papa Urbano VIII (Barberini) e ai giardini segreti del Palazzo Barberini, nella via omonima, costruito da Carlo Maderno e da Francesco Borromini per conto della potente famiglia romana.

  
DOMENICA 11 MAGGIO ore 10.00
Appuntamento ai piedi della scalinata della Chiesa dei Cappuccini (Santa Maria dell’Immacolata), in Via Veneto, n.27.




27/04/14

La poesia della domenica - Due poesie d'amore .





§

Il più grande crimine per il quale
potrai essere "condannato"
è l'amore che avevi in casa e che non hai riconosciuto
scrisse Gabo un giorno; 
nessun tribunale allora 
muoverà mai sentenza su di me
come il ciliegio 
che ha riconosciuto il tepore
della primavera, sono fiorito di bianchi fiori 
per te, ho sparso il mio 
profumo come doveva essere 
per te e per la gioia delle api di aprile 
che hanno vinto il ghiaccio e la neve.


§

mi piacerebbe incontrarti,
nel fuoco delle dimenticanze
nel trapassato prossimo del tuo corpo assolato,
nel futuro anteriore del tuo sorriso disarmato,
mi piacerebbe incontrarti alla fine di ogni giorno,
come il vento della notte che soffia via il sole
e lo bacia per sempre
come dev'essere il fato.



Fabrizio Falconi © (inedito, senza data) 

26/04/14

Lessico dei poeti 7 - 'Stanchezza'.


Peter Handke

Sembra quasi un controsenso, che una parola come questa possa far parte del lessicodei poeti, anime per definizione inquiete, sempre tese verso l’indicibile. 

Eppure ci sono tanti modi di intendere la stanchezza, un sentimento con il quale si ha molto a che fare nella vita di tutti i giorni. Uno dei modi possibili è quello descritto da Peter Handke, nel bellissimo Saggio sulla stanchezza ( Garzanti, 1991 ). 

Qui lo scrittore austriaco racconta di cosa gli accadde dopo un interminabile e scomodo viaggio dall’Alaska a New York. 

Giunto in albergo, dopo una notte insonne, e pieno solo di stanchezza, rinunciò a coricarsi. Scese in strada,  soltanto per assistere alla solita confusione di passanti e traffico che si svolgeva di fronte ai suoi occhi di fronte ai cancelli del Central Park. 

E qui, ecco il miracolo, ecco la sorpresa: l’angoscia si trasforma in pura stanchezza, la stanchezza in bellezza. Fino a sera inoltrata – scrive Handke – non feci più altro se non stare seduto e guardare; era come se intanto non avessi neanche bisogno di respirare. Dalla stanchezza venne tolto come per miracolo l’Io solipsistico, eterna causa di irrequietezza: niente altro più che occhi liberati.

Una stanchezza come risanamento, dunque, come riconciliazione con se stessi. Come accettazione di un destino umano, in fondo. Contro la stanchezza, infatti, solitamente non facciamo altro che combattere, rifiutandola, cercando disperatamente qualcosa che ci occupi, che ci distragga. 

Questa stessa stanchezza, contemplativa e sublime, si ritrova spesso nei versi dei poeti. Luciano Erba, milanese, ha scritto nella raccolta L’ippopotamo (Einaudi, 1989 ) diverse poesie nelle quali riecheggia questo mood. Lo stesso animale, l’ippopotamo, è quanto di più perfettamente rispondente all’immagine della stanchezza, eternamente immerso nei suoi bagni di fango.

E’ un giorno di bianchi pennacchi
di fumo stampato sul cielo
da un vento che porta la neve
e arrossa le mani dei preti
è un prato un po’ fuori città
tra cose in uso e in disuso
tra case senza balconi
e un margine di ferrovia
vi asciugano molte lenzuola
con panni di vari colori 
dal viola a lievissimi rosa 
vi corre accanto il mio treno 
annoto: bucato sui fili
più altri segnali femminili.

E’ la poesia intitolata Viaggiatori, e tutto il dolce mistero è in quella parola al penultimo verso: annoto
La stanchezza del vivere non permette di fare altro: annotare. Ma è già molto. 
Significa sottrarre le cose, gli eventi, anche quelli apparentemente insignificanti, all’oblio. E questo rende consapevoli, rende felici.

Qui le altre voci del Lessico dei Poeti: 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

25/04/14

Ariete - dalla esposizione "Zodiac" di Justin Bradshaw e Fabrizio Falconi.





tratto dalla mostra Zodiac (Tuscania, ex Chiesa di Santa Croce, 2007), dipinti di Justin Bradshaw,testi di Fabrizio Falconi da Il canto dei segni.



Ariete


Voglio andare a Sud. In luoghi dove la luce è oro. Fantasmi, cercate la fine, il pertugio del buio, il Ritorno. Sono sveglia, oramai, e non vinta. Eccomi. Ho il nome del vento, e di una porta che si chiude, e si riapre. Mi guardo intorno, la notte è colma di pensieri scuri. Ma sorride il giorno che è già dentro di me. Devo, leggera, muovermi. Devo osare, spostare. Avanzando, essere testarda, e soprattutto non avere paura. Voglio andare lontano, voglio andare a Sud. Essere un'altra me stessa, quello che sono veramente. Sulla strada consolare del mare. Sull’arteria sinuosa del cielo. Questa sono io. Alla fine di tutto, io. Dello stesso colore, cielo e mare, ed un pensiero freddo che ancora mi attraversa. Sono pietra, e sono artefice. Mi risveglio. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 
in testa: Ariete, Justin Bradshaw da Zodiac.

24/04/14

"Ciò che mi preme è cercare di comprendere " - Hannah Arendt ( e Pat Metheny).



Nella celebre intervista televisiva rilasciata nel 1964 a Gunter Gaus, Hannah Arendt rispose così a una domanda del giornalista su come si sentisse, al termine di un lavoro, dopo aver finito di scrivere un libro.   

A quel punto ho finito anch'io, rispose ha Arendt. Ciò che mi preme è cercare di comprendere.  Per me scrivere è cercare di comprendere, fa parte di questo processo di comprensione (...)

Ma lei mi chiede dell'effetto che i miei lavori hanno sugli altri, dell'influenza che hanno sugli altri.  Se mi consente una chiosa ironica, questa è una domanda tipicamente maschile.  Gli uomini vogliono sempre esercitare una grande influenza, ma per me non è poi così essenziale. 

Se penso di esercitare dell'influenza ? No, io voglio comprendere, e se altri comprendono - nello stesso senso in cui io ho compreso - allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo. 



Dire agli altri quello che si sa - o quello che si è scoperto o si crede di aver scoperto. Cercare di comprendere e non di influenzare. 

Non sembra che la vita possa essere più piena di senso, oltre a questo. 

23/04/14

90 anni di Mastroianni - Una bellissima intervista alla figlia Barbara .



Quest'anno il manifesto ufficiale del Festival del Cinema di Cannes, celebra un volto italiano. Lo vedete qui sopra. Quello di Marcello Mastroianni in Otto e Mezzo di Federico Fellini.  
Un grande attore che ha segnato una buona parte del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Ma anche un uomo molto particolare, molto diverso dai divi del cinema molto meno fastoso (almeno quello italiano) di oggi.  Voglio dunque proporvi questa intervista bellissima realizzata da Andrea Purgatori per  Huffington Post a Barbara Mastroianni, una delle figlie di Marcello, che rievoca i ricordi sul padre. 


Che avrebbe detto papà del manifesto di Cannes 2014. Ah, si sono ricordati…”. Ride, Barbara Mastroianni, che di Marcello e Flora Carabella è la figlia. E di quel padre e di quella madre conserva i ricordi più belli e più segreti. “Scherzo. O forse, sì. La battuta l’avrebbe fatta. Mia sorella Chiara me l’aveva anticipato e io le ho detto: sono contenta del tuo entusiasmo e contenta lo sono anch’io. Però mica parliamo di un pivellino alle prime armi a cui hanno fatto il manifesto”.
Si fatica a immaginare che oggi Marcello Mastroianni avrebbe novant’anni. Ma la scelta di Cannes è perfetta. Marcello era proprio quello lì, un po’ nel ruolo e un po’ fuori, sempre disincantato, sempre ironico. E come se lo ricorda Barbara: “Leggero soprattutto, ma di quella leggerezza che non scivolava mai nella superficialità”.
D’altronde anche con l’Oscar non gli è andata bene. Lo sfiorò tre volte, senza mai prenderne uno. Nemmeno alla carriera. Forse è per quello che aveva appeso le nomination in bagno.
“Lo faceva per riderci sù. Gli piaceva avere dei riconoscimenti, ma se non arrivavano non ne faceva una malattia. Non era uno che esibiva i premi. Li teneva quasi tutti in bagno dentro un mobiletto, questo sì. E vicino alle nomination aveva appeso le foto con autografo di Barbara Streisand”.
Resta uno dei simboli del cinema italiano.
“Credo che con lui sia scomparso un gruppo di attori – Gassman, Sordi, Tognazzi, Volontè – che frequentavano generi diversi ma erano dei grandissimi. Io in giro non vedo calibri di quel genere”.
C’era anche una generazione straordinaria di registi.
“Certo, è tutto legato. Per carità, tanto di cappello ai professionisti di oggi. Ma se penso a papà, penso a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare subito dopo la guerra. Un momento irripetibile o che si ripeterà con altri presupposti. Mi spiace dirlo ma adesso non è facile trovare un film che ti faccia correre al cinema”.
L’Oscar a La grande Bellezza?
“Ho provato un grande piacere per il nostro cinema. Una fotografia strepitosa, ma la storia non mi ha appassionato. Non perché papà avesse interpretato La dolce vita, ma forse è il modo diverso di raccontare che non mi ha preso. Anche se devo riconoscere che la società romana è proprio quella che c’è nel film”.
Il manifesto di Cannes celebra soprattutto un divo.
“La foto ironica di un sornione che sembra stia dicendo: “Oh, ma che state a fa’?”.

Mentre Marcello tutto era meno che un divo.
“Per me figlia ma anche spettatrice, e faccio fatica a scindere le due cose, la sua grandezza era soprattutto questa. Non era vanitoso e non si piaceva”.

20/04/14

175.000 visitatori per "il Blog di Fabrizio Falconi". Grazie.






Vorrei ringraziarvi per aver tagliato, dopo così poco tempo, e proprio durante la pasqua 2013, il traguardo dei 175.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 
Grazie.

Fabrizio

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine)




Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine) 

   Nell’ultimo film di quella che è stata chiamata la trilogia teologica, Il silenzio, uscito nel 1962, Bergman sembrò sfidare il pubblico e la critica in maniera ancora più estrema con una storia – quella del viaggio allucinato di due sorelle, Anna e Ester che attraversano un paese ostile, pieno di strane figure, in cui tutti parlano una lingua incomprensibile – che incappò anche nelle ire della censura, per scene di trasgressione molto esplicite, per l’epoca. L’intento del regista era, stavolta, quello di mostrare – si potrebbe dire nietzschianamente – gli effetti della espulsione di Dio dalle vite degli uomini.  Entrambe le sorelle – che rappresentano l’una l’aspetto materialistico/edonistico dell’esistenza e l’altra quello puramente intellettuale/razionale – non raggiungono nessun barlume di senso, nelle loro vite disperate.  E la morte di una delle due Ester, la coglie con l’ultima parola scritta su una lettera per il nipote adolescente: ‘anima’.   Lo spirituale – rappresentato anche dalla musica di Bach che compare in diversi punti del film -  è l’unica possibilità di uscire dalla prigione che rinchiude l’uomo nella sua gabbia di disperazione.

   “L’uomo  mutilato dei suoi valori spirituali” scrisse un critico italiano subito dopo l’uscita del film nel nostro paese, “si abbrutisce in una solitudine che è il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità autentica… Il silenzio proclama la tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo.” (11)  Ovvero, “ quando Dio tace, il mondo diventa un inferno.” (12)
    
   E a Bach, alla impressione forte di quell’oltre rappresentato dal sublime della musica, che indica la possibilità di una via allo spirituale, Bergman torna più volte e nelle ultime pagine della sua autobiografia.  Lo fa, in questo caso, rievocando una scena della sua infanzia:  Una domenica di dicembre ascoltai l’Oratorio di Natale di Bach alla chiesa di Hedvig  Eleonora (dove il padre di Bergman teneva i suoi sermoni, NdA).  Era di pomeriggio, la neve era caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento. Ora apparve il sole.  Ero seduto nella cantoria di sinistra, proprio sotto la volta.  La mobile luce del sole, scintillante come oro, si rifletteva sulle finestre della Canonica di fronte alla chiesa e formava figure all’interno della volta.  Il corale si diffuse pieno di speranza nella chiesa che s’immergeva nell’oscurità: la devozione di Bach allevia il tormento della nostra incredulità.. Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re maggiore. Una dolce penombra grigioazzurra riempie la chiesa d’una calma improvvisa, d’una calma fuori dal tempo…
   I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia. (13)
    
  La musica era per Bergman, come il cinema, una specie di occhio su un altro mondo.  Il cinema, in più permetteva l’approfondimento dell’analisi. Nessun’altra arte come il cinema, diceva il regista (14) arriva a cogliere lo spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.
   
   Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi monacale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
    “Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni (15) il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
    Nel 1995 era morta la sua ultima amatissima moglie, Ingrid Von Rosen, di dodici anni più giovane di lui.  Bergman ne fu sconvolto.  Tornarono i fantasmi della depressione, di cui non si era mai del tutto liberato, e che vent’anni prima, nel 1977 – all’indomani di uno scandalo fiscale nel quale era stato coinvolto – lo avevano portato al ricovero per tre mesi in un istituto psichiatrico di Stoccolma.  Del resto, come ha scritto Goffredo Fofi, Bergman, epigono del cinema ‘religioso’, preoccupato di interrogarsi sulle inquietudini esistenziali dell’uomo e sul suo bisogno di trascendenza, pagò lo scotto dell’assiduità con queste inquietudini a un caro prezzo personale.  (16)
    
     Ma ancora una volta, il cinema – la sua arte – gli venne in soccorso. Tornò ancora una volta dietro la macchina da presa, e in Verità e affanni  ambientò la sua ultima storia per il cinema, proprio in un ospedale psichiatrico.
   L’arte come sublimazione di inquietudini e aspirazioni spirituali trovò dunque probabilmente in Ingmar Bergman - il suo migliore interprete.  

     Ed è probabile, che alla fine della sua vita, una serenità consapevole lo abbia accolto. 
    
    "La morte lo ha raggiunto serenamente” ha detto la figlia Eva, annunciando al mondo la scomparsa del padre. Il marito di Eva, lo scrittore Henning Mankell ha riferito in quella occasione le parole di Bergman nel suo ultimo colloquio con il suocero: “Ho 89 anni, e vorrei tanto festeggiare i 90 con la famiglia. Ma tutti i miei amici se ne sono già andati, e così sono pronto…” 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

11.  Luigi Bini, Ingmar Bergman, Op. cit. p.41
12. Giacinto Ciaccio, Il silenzio, Rivista del Cinematografo, n.5 1964, pag. 219 e ss.
13.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. pag. 252.
14.  La citazione è riportata da Lietta Tornabuoni, in La cinepresa nell’anima, La Stampa, 31 luglio 2007.
15. Lietta Tornabuoni, art. cit.
16. Goffredo Fofi nell’articolo in questione – La crisi della modernità riletta attraverso le pagine di Kierkagaard, Avvenire, 21 luglio 2007 -  aggiunge: “Ma anche se molti suoi film possono sembrarci meno riusciti di altri, quale coerenza e quale così evidente e così commovente sincerità in questa ricerca !”