15/09/21

Due fratelli geni: Heinrich e Thomas Mann, la storia del loro lungo soggiorno a Palestrina, dove è ambientato il patto col diavolo del "Doktor Faustus"




Molto si è scritto sul genio, l'affetto e la rivalità tra i due fratelli Mann, nati e cresciuti nel pieno tormento che tra fine Ottocento e inizio Novecento, mandò in fiamme e in rovina l'intera Europa. Heinrich, il fratello maggiore, primo di cinque figli, nacque proprio nell'anno in cui  - 1871 - la Germania viene unificata a seguito della guerra franco-prussiana. E' l'inizio di una serie di accadimenti tragici e devastanti per le popolazioni europee.

Suo padre è un commerciante all'ingrosso a Lubecca. Heinrich capisce ben presto che la sua vocazione non è quella di proseguire l'attività di famiglia, ma di dedicarsi all'arte, frequentando il Katharineum, il liceo più prestigioso della città, dove dimostra la sua irrequietudine, interrompendo prematuramente gli studi. 

Inizia un apprendistato presso una libreria a Dresda, ma presto finisce per stancarsi anche di questo. 

Finalmente trasferitosi a Berlino, Heinrich assapora il mondo artistico della capitale, dedicandosi ad una assidua e dissoluta bohème, spendendo tutti i soldi del padre nei bordelli della città. 

La morte del padre lo richiama a casa, il testamento del padre prevede la vendita dell'attività commerciale e tutta la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera e a Heinrich viene garantita una piccola rendita mensile. 

Inizia così per Heinrich, nell'ultimo decennio del XIX secolo, una nuova vita con molti viaggi: Parigi, l'Austria, l'Alto Adige e il Trentino (dove tornerà spesso, soprattutto per curarsi nel sanatorio di Riva del Garda), Milano, Firenze, Roma, Venezia, Monaco, Berlino e le Alpi bavaresi. 

Questo suo peregrinare senza meta e senza pace avrà fine nel 1895, quando si ferma a Roma per circa due anni, dove assume la direzione di una rivista, Das Zwanzigste Jahrhundert ("Il XX secolo"), un periodo molto controverso della sua vita in cui Heinrich si cimenta anche in invettive di carattere antisemite, misogine e monarchiche. 

Un periodo che metterà in imbarazzo più avanti Heinrich, profondamente cambiato dalle scelte politiche ed esistenziali della sua vita futura (divenne ferocemente antinazista e fu il primo fra i due fratelli a trasferirsi negli Stati Uniti). 

Nel frattempo, nel 1894 pubblica il suo primo romanzo: In einer Familie.

Negli anni successivi, Heinrich stringe ancora di più i rapporti col fratello Thomas, il secondogenito della famiglia e dal 1895 al 1898, durante i mesi estivi, soggiornano a Palestrina presso la “Pensione per stranieri” di Anna Bernardini, nel Palazzo omonimo al Borgo. 

La scelta di questa cittadina, che sorge su una delle sommità dei monti Prenestini, fu probabilmente dettata dalla notorietà raggiunta negli ultimi decenni dell’Ottocento, a seguito degli importanti rinvenimenti archeologici e delle campagne di scavo che lì si effettuarono; non si esclude, tuttavia, che abbia influito sulla scelta anche la passione che Thomas Mann nutriva nei confronti di Pierluigi da Palestrina, il grande compositore rinascimentale che in questo luogo ebbe i natali

Le estati trascorse nella cittadina furono per i due scrittori molto proficue. Heinrich Mann si ispirò a Palestrina per il romanzo “La piccola città” (1909) e vi ambientò la novella “Storie di rocca dei fichi”, inserita nel volume “Il meraviglioso" (1897); Thomas Mann, non solo la evocò ne “La montagna incantata”, ma vi ambientò una parte del Doktor Faustus (1947)

La scena centrale di questo romanzo, ossia il patto tra il diavolo e Adrian, il protagonista, si svolge nel salotto della pensione in cui i fratelli Mann avevano alloggiato

Ecco due brani da quel grande romanzo: l’arrivo a Palestrina di Serenus e l’apparizione di Mefistofele a Adrian, (nella traduzione di Luca Crescenzi): 

“Quando durante le ferie del 1912, partendo ancora da Kaisersaschern, feci visita in compagnia della mia giovane moglie a Adrian e a Schildknapp nel nido fra i monti sabini che avevano scelto come luogo di residenza, i miei amici vi stavano già trascorrendo la seconda estate: avevano passato l’inverno a Roma e a maggio, con l’aumentare del caldo, si erano recati nuovamente in montagna, nella stessa dimora ospitale in cui l’anno precedente, nel corso di un soggiorno durato tre mesi, avevavo imparato a sentirsi di casa. 

Il posto era Palestrina, paese natale del compositore, chiamata anticamente Praeneste, fortezza dei principi Colonna menzionata da Dante nel ventisettesimo canto dell’Inferno col nome di Penestrino, un paesino pittoristicamente adagiato lungo la montagna al quale conduceva, dal piazzale della chiesa sottostante, un vicolo a gradini non proprio pulito e protetto dall’ombra delle case. 

Vi si aggiravano dei maiali di una razza piccola e nera, e al passante disattento poteva capitare facilmente di essere schiacciato contro i muri delle case dal carico sporgente di uno degli asini dal largo basto che, pure, andavano e venivano. 

Superato il paese, la strada diventava un sentiero di montagna, passava oltre un convento di cappuccini e conduceva fino alla cima dell’altura e all’acropoli di cui restavano pochi ruderi accanto alle rovine di un teatro antico. Helene e io salimmo spesso, durante il nostro soggiorno, a quelle nobili vestigia, mentre Adrian che “non voleva veder nulla”, non oltrepassò, in tanti mesi, l’ombroso giardino dei cappuccini che era il suo rifugio preferito”. […] 

“Sedevo qui nella sala, lunga dinanzi a me, presso le finestre dalle imposte serrate e accosto al mio lume, leggendo le parole di Kierkegaard sul Don Juan di Mozart. Subito mi sentii pungere da un freddo tagliente, come quando d'inverno uno siede in una stanza calida e d'un tratto una finestra si spalanca al gelo. Il freddo, però, non mi veniva dalle spalle, ove son le finestre, bensì di fronte. Levo gli occhi dal libro e guardo nella sala, vedo che forse Schildknapp è già tornato perché non sono più solo: qualcuno siede nel buio sopra il divano di crine, con le gambe accavallate. È un uomo piuttosto allampanato, più piccolo di me, i capelli rossigni; ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.”

Qui sotto la targa che ricorda i soggiorni dei fratelli Mann a Palestrina:





14/09/21

Quando Marta Argerich vide il paradiso: Il celebre video nel commento di Emmanuel Carrère, da "Yoga"


Ci sono prodigi che soltanto la musica riesce a compiere. Avviene per esempio con questo vecchio leggendario video - risale al 1965 - nel quale una giovanissima Marta Argerich, oggi monumento vivente dell'arte pianistica, esegue la Polonaise Eroica Op. n.53 di Fryderyk Chopin. Un video ipnotico che emana un fascino meraviglioso e sensuale.

Questo video ha ispirato anche Emmanuèl Carrère  che nel suo ultimo libro, Yoga, gli dedica pagine bellissime.  Ne riportiamo un brano (p.336), divenuto già un piccolo classico:


Quando Marta Argerich arriva a quel punto, trattieni il fiato. La pianista è in una specie di trance languida, sospesa.  

L'indicazione di Chopin per questo passaggio è smorzando, una indicazione rarissima che significa: spegnendo. Marta Argerich si spegne in diretta, snocciolando una serie di note incantate ma sa, e lo sappiamo anche noi, che tra un istante tornerà il tema principale della polacca e che questo eclatante ritorno sarà il culmine dell'opera.

Siamo a 5.15, quindici secondi prima dei 5.30 indicati da Erica, mi chiedo cosa succederà ed ecco che cosa succede: sono le ultime note della ghirlanda prima che il tema principale ritorni, grandioso e appagante, a partire dal lato destro della tastiera, dal lato sinistro dello schermo.

Martha Argerich si lascia trasportare dal tema, lo prende come un surfista prende l'onda. Ci si abbandona totalmente, l'inquadratura non la contiene più, dà un colpetto con la testa verso destra, con la sua massa di capelli neri, per un istante quasi scompare a sinistra dello schermo e quando torna nell'inquadratura, dopo il colpetto con la destra, sorride. 

Ed è allora che... Dura pochissimo, quel sorriso da ragazzina, un sorriso che viene al tempo stesso dall'infanzia e dalla musica, un sorriso di pura gioia. Dura esattamente cinque secondi, dal minuto 5.30 al minuto 5.35, ma in quei cinque secondi hai intravisto il paradiso. Lei c'è stata per cinque secondi, certo, ma cinque secondi bastano, e guardandola ci andiamo anche noi. Per procura, ma ci andiamo. Sappiamo che esiste.

Ecco il video:



Fabrizio Falconi - 2021



13/09/21

L'incredibile storia di Antonio Pigafetta, uno dei 19 superstiti (tra 256) del primo viaggio intorno al mondo - tornano i diari



E' una delle vicende storiche umane più incredibili e ha per protagonista un italiano diventato celebre non tanto e non solo per essere uno dei 19 sopravvissuti su 256 uomini partiti, quanto per aver tenuto il diario di bordo continuo - giorno per giorno - della straordinaria impresa del primo viaggio attorno al mondo.

A far tornare d'attualità il vicentino Antonio Pigafetta, nel quinto centenario della circumnavigazione del globo tentata da Fernando Magellano, l'uscita di una nuova edizione del resoconto del navigatore, che scrisse giorno dopo giorno, tutti i giorni e che andò perduto e fu poi miracolosamente ritrovato (il manoscritto originale fu smarrito e soltanto all'inizio del 1800 uno studioso, Carlo Amoretti – prima agostiniano e poi prete secolare, poligrafo e accademico di formazione enciclopedista – scovò in un andito della Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scartafaccio che diede alle stampe).

Il resoconto, editato con il titolo “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” ebbe diverse versioni e riporta, nei  particolari, «le grandi e stupende cose del mare Oceàno» di quella che definita da Stefan Zweig, la «più superba odissea della storia dell’umanità», grazie al quale furono definiti una volta per tutti i reali confini e le reali dimensioni del mondo. 

Pigafetta si imbarcò da Siviglia il 20 settembre 1519 su una delle cinque caracche che avrebbero tentato l'impresa navigando verso Occidente, con il nome di Antonio Lombardo (pseudonimo derivante dai suoi natali geografici). 

Il resoconto è scritto in lingua italiana, con divertenti (per noi) forme dialettali tipiche degli scrittori veneti non molto colti della prima metà del secolo XVI. Ed ebbe un enorme successo dalla sua prima stampa in francese e poi nelle sue innumerevoli traduzioni. 

Della vita di questo incredibile personaggio, Pigafetta, si sa molto poco. Nel suo resoconto  raccoglie informazioni sui costumi delle popolazioni che incontra, – dal Brasile alla Terra del Fuoco e dalle Filippine alle Molucche -, e quando riferisce, per esempio, delle fanciulle che ingravidano per effetto del vento, o degli uccelli di Giava che trasportano bufali ed elefanti sulla cima degli alberi; o, ancora, delle donne della Malesia che hanno orecchie tanto grandi da coprire l’intero corpo, cita sempre la fonte – l’interprete, il pilota o i nativi del luogo – e si avvale di formule generiche come: «ci dissero, mi raccontarono» e simili

Dopo tre anni di avventurosa e terribile navigazione, solo una delle cinque caracche, seppur malconcia e rappezzata, fece ritorno a Siviglia

Aveva un carico di 26 tonnellate di spezie. Una fortuna, se è vero – come si legge – che il pepe valeva all’epoca più dell’argento e che con un sacchetto di nemmeno una libbra ci si comprava una casa

Della variopinta ciurma di 256 uomini partiti dalla Spagna solo 19 sopravvissero.

 E tra questi, per nostra fortuna, Antonio Pigafetta, che pure, mesi addietro, aveva rischiato di morire  tra i flutti come racconta lui stesso in una colorita descrizione: «Andai a bordo della nave per pescare, ma me slizegarono [scivolarono] li piedi sopra una antenna, perché era piovesto [piovuto], e così cascai nel mare che niuno me vide». 

Riuscì comunque a mettersi in salvo, il nostro autore, e nel rendere omaggio al suo resoconto, secoli dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez gli ha addirittura attribuito la patente di padre de «lo real maravilloso de Hispanoamérica».

Quando arrivò al Porto di Siviglia da dove era partita, la Victoria (unica nave sopravvissuta, anche se in realtà anche una seconda riuscì ad arrivare molto tempo dopo, in seguito alla decisione di invertire la rotta e rifare il viaggio a ritroso, per tornare, ormai stremati dalla ricerca del ritorno passando da Occidente) era il 6 settembre 1522 ed erano passati, dalla partenza 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. 

A bordo della piccola nave comandata Juan Sebastián Elcano (Magellano era stato ucciso durante una battaglia svoltasi nelle Filippine), che stazzava solo 85 tonnellate, che imbarcava acqua e aveva una velatura di fortuna,  vi erano soltanto 19 uomini malmessi, ammalati e denutriti, tra marinai e soldati. Tra essi due italiani, Antonio Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.

Pigafetta, tornato a casa, si stupì che il giorno non corrispondesse a quello che avrebbe dovuto essere, secondo il suo diario di viaggio.  Ricontrollò scrupolosamente il diario e si accorse di non aver sbagliato nulla, di non aver saltato alcun giorno. Quello che ancora non poteva sapere era che avendo navigato da oriente a occidente e avendo circumnavigato il globo, una giornata era andata persa per puri motivi astronomici dovuti alla rotazione terrestre.

Fabrizio Falconi - settembre 2021 

10/09/21

Carrère, l'autofiction, le accuse della moglie e i confini dei racconti coniugali privati

Emmanuel Carrère con la moglie Hélène Devynck ai tempi della loro relazione 

Leggendo in questi giorni Vite che non sono la mia, pubblicato in Italia nel 2009 (da Einaudi e poi ristampato da Adelphi), non si può non ammirare, ancora una volta, la capacità di scrittura e di racconto di Emmanuel Carrère, anche se, tra una pagina e l'altra, affiora costante per tutto il volume il fantasma, in realtà piuttosto concreto di Hélène Devynck, l'ex moglie dello scrittore, a sua volta giornalista anchor-woman e produttrice televisiva. 

Come nello stile che lo ha reso famoso, Carrère raccontando le vite di altri che non sono lui - in questo caso persone incontrate casualmente durante e dopo lo tsunami dell'Oceano Indiano del 2004, dal quale Carrère e la moglie si salvarono per circostanze fortuite, la sorella morta precocemente di tumore della moglie, a Parigi, e il collega giudice di questa - racconta anche molto, anzi moltissimo di se stesso e delle persone che gli sono vicine, in primis, la moglie Hélène. 

Ma quel che racconta Carrère di se stesso e di ciò che accade nella sua vita è tutto vero? 

La domanda sarebbe peregrina - visto che ogni autore, anche nella pratica ormai molto diffusa della cosiddetta autofiction, inventa, se non fosse che Carrère ha più volte spiegato di pretendere da se stesso una fedeltà assoluta a quanto racconta, anche a costo di mettersi più a nudo di quanto vorrebbe (o che vorrebbe comunque visto che piovono da anni su di lui accuse di megalomania e narcisismo).   

Questo va bene per sé, ma per gli altri? 

Le note vicende seguite all'uscita dell'ultimo libro, Yoga (sempre pubblicato da Adelphi) -  nel quale lo scrittore racconta duramente la sua depressione profondissima seguita al fallimento del suo matrimonio, le cure a base di elettroshock, il ricovero in una clinica di rehab, ecc.. -  hanno riaperto la questione, visto che nuove accuse sono arrivate, roventi, proprio dalla ex seconda moglie Hélène. 

Hélène Devynck, subito dopo la pubblicazione del libro è andata giù assai pesante con un lungo intervento pubblicato sul Vanity Fair francese, nel quale accusa palesemente, in primis, l'ex marito di aver violato l’accordo tra loro due stipulato dopo il divorzio e presenta “Yoga” come una “storia falsa”.

Ricordiamo qualche passo di quell'intervento:

Emmanuel ed io siamo vincolati da un accordo che lo obbliga ad ottenere il mio consenso per utilizzarmi nel suo lavoro. Non ho acconsentito al testo così com’è apparso, nonostante l’autore e il suo editore siano ben consapevoli della mia determinazione a far rispettare questo contratto. Negli anni in cui abbiamo vissuto insieme, Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, persino la mia sessualità: era innamorato e la mia persona era rappresentata in un modo che si addiceva ad entrambi. 

Ma dopo il divorzio, dice Hélene, le cose sono cambiate e Emmanuel aveva acconsentito ad assumere un impegno a lungo termine: da quel momento in poi avrebbe dovuto chiedere sempre il consenso di lei per poterla rappresentare e non avrebbe dovuto mai inserirla contro la sua volontà. Per sempre, per tutta la durata della sua vita letteraria e artistica. Impegno che ricade anche sulla rappresentazione della figlia. 

Ma proprio mentre Emmauel accettava il patto, mentiva, nascondeva che stava disegnando il mio ritratto. L’ho capito solo pochi giorni dopo la firma di questo accordo, quando ho ricevuto il manoscritto di Yoga con questa nota: “Che io scriva libri autobiografici non deve essere una sorpresa per voi. (...) Questa storia sarebbe incomprensibile se non dicessi nulla sul contesto”. Il contesto, in questo caso, ero io”. 


Hélène accusa esplicitamente Carrère di aver mescolato deliberatamente realtà e finzione. Questa storia, presentata cioè  come autobiografica, è falsa, dice Hélène, organizzata per servire l’immagine dell’autore e totalmente estranea a ciò che la mia famiglia ed io abbiamo passato al suo fianco con omissioni in cui l’autore dice di “essere scivolato, deliberatamete”. 


Il lettore può credere che dopo Saint-Anne (l’ospedale psichiatrico in cui Carrère è stato ricoverato per quattro mesi ndr), Emmanuel se la cavi con due mesi di viaggio per incontrare le disgrazie del mondo, quelle dei giovani rifugiati sull’isola greca di Leros. I due mesi sono durati solo pochi giorni, in parte in mia compagnia. Ma soprattutto, è stato prima dell’ospedale, ancor prima che si facesse la diagnosi del suo comportamento folle e aggressivo, che io cercavo, con i mezzi a disposizione, di contenere. L’episodio dilatato si presenta come una via d’uscita dalla depressione, un ritorno alla vita. L’opposto della realtà. E potrei moltiplicare gli esempi.

Yoga è una favola, l’uomo nudo, onesto, sofferente, che è tornato dall’orlo del baratro. I lettori sono liberi di credere o di dubitare. L’autore è libero di raccontare la sua vita come vuole, come può. Volevo avere la libertà di non farne parte, di non essere associata a uno spettacolo presentato come autentico ma nel quale non mi riconosco perché non l’ho vissuto

E' difficile, leggendo queste parole, non riconoscere la ragione in quello che afferma Hélène. 

Fino a che punto arriva il diritto di raccontare "le vite degli altri"?  Se si professa fedeltà ai fatti, come si possono mescolare ad essi invenzioni arbitrarie?  Se si verifica che diverse cose raccontate nel libro non sono vere, ma frutto di invenzione, come si può credere alla fedeltà degli altri fatti?  Se invece, tutto è scrittura e tutto è letteratura, non si dovrebbe rispettare la scelta di chi  non vuol far parte del "contesto"?  

Domande che ronzano nella testa durante la lettura e che rovinano abbastanza il grande piacere di leggere un gran bel libro come questo. 

Fabrizio Falconi 

09/09/21

Le geniali opere di Simon Stålenhag che hanno ispirato la bellissima serie "Tales From The Loop"

 


Chi l'ha vista - in Italia su Amazon video/prime - sa che si tratta di uno dei prodotti migliori degli ultimi anni, in assoluto: si tratta di Loop (Tales from the Loop), la serie televisiva statunitense del 2020 creata da Nathaniel Halpern e basata sulle opere illustrate dell'artista svedese Simon Stålenhag. 

Per chi non l'avesse ancora vista diremo, per non rovinare nulla, che la serie è ambientata negli anni ottanta in una zona rurale dell'Ohio, in cui gli abitanti vivono e lavorano in un misterioso luogo chiamato il "Loop".

Si scopre che in effetti venti anni prima, negli anni sessanta, in quella regione è stato costruito un grande acceleratore di particelle nelle profondità della campagna circostante. 

Ogni puntata della serie - valorizzata dalle bellissime musiche di Philip Glass e da una meravigliosa fotografia - racconta in modo straordinario le vicende quotidiane e personali degli abitanti di quel luogo, stravolte da eventi e paradossi legati al Loop.

Ma chi é Stålenhag?

Cresciuto in un ambiente rurale vicino a Stoccolma, l'artista svedese ha cominciato a realizzare opere grafiche di fantascienza solo dopo aver scoperto concept artist come Ralph McQuarrie e Syd Mead; la genialità del suo lavoro è quella di combinare la sua infanzia con temi tratti da film di fantascienza, dando vita a un paesaggio svedese stereotipato con una tendenza neofuturistica

Secondo Stålenhag, questo focus nasce dalla sua percepita mancanza di connessione con l'età adulta, con gli elementi di fantascienza aggiunti in parte per attirare l'attenzione del pubblico e in parte per influenzare l'umore del lavoro. Queste idee si traducono in un corpus di lavori che possono presentare robot giganti e megastrutture accanto a normali articoli svedesi come le automobili Volvo e Saab. 

Man mano che il suo lavoro si è evoluto, Stålenhag ha creato un retroscena per esso, incentrato su una struttura sotterranea governativa.

Stålenhag solitamente per i suoi lavori utilizza un tablet e un computer Wacom, progettato per assomigliare alla pittura ad olio.

La maggior parte del suo lavoro si basa su fotografie preesistenti che scatta; queste vengono quindi utilizzate come punto di partenza per una serie di schizzi prima che il lavoro finale sia completato.

La maggior parte delle opere d'arte di Stålenhag era inizialmente disponibile online, prima di essere successivamente venduta come stampe. 

I risultati sono veramente stupefacenti. 
Qui qualcuna delle sue opere:

Labyrinth 

Vimpelturbiner

Collater.al





07/09/21

I Quattro Libri che Cesare Pavese regalò a Fernanda Pivano da studentessa e che le cambiarono la vita


Fernanda Pivano a vent'anni

Sono reduce dalla lettura di Olivia, l'unico romanzo scritto da Dorothy Strachey (1865-1960) completamente focalizzato sulla importanza deflagrante dell'imprinting educativo che scaturisce dalla lettura della grande poesia e della grande letteratura, in ambito scolastico-adolescenziale. 

Un esempio di questa folgorazione, destinata molto spesso a determinare le scelte e la vita successiva di un giovane che si affaccia alla vita è sicuramente data dalla vicenda di Fernanda Pivano, che nacque a Genova il 18 luglio 1917 da una famiglia alto borghese che lei stessa soleva definire vittoriana (come quella di Dorothy Strachey) secondogenita di Riccardo Newton Pivano (1881-1963), direttore dell'Istituto di Credito Marittimo, d'origini in parte scozzesi, e di Mary Smallwood (1891-1978) nata dal matrimonio tra Elisa Boggia e Francis Smallwood uno dei fondatori della Berlitz School italiana. 

Anche se genovese di nascita, la formazione della Pivano avvenne a Torino, dove si trasferì dodicenne  al seguito della famiglia, nel 1929. 

A Torino la Pivano fu iscritta al liceo classico Massimo d'Azeglio dove ebbe la fortuna di avere come compagno di classe in quarta e quinta ginnasio Primo Levi e come supplente di italiano Cesare Pavese, allora ventinovenne. 

La Pivano e Levi, dimostrandosi già mentalmente avanti, non vennero ammessi agli orali dell'esame di maturità nella scuola superiore già completamente fascistizzata, perché i loro temi per lo scritto furono  giudicati "non idonei".

Ma nel 1938 Pavese regalò alla giovane allieva quattro libri in inglese che segnarono il suo destino di scrittrice e traduttrice, facendo esplodere in  lei la passione per la Letteratura american: 

I quattro libri erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway – che la giovane Fernanda tradusse clandestinamente in lingua italiana –, Foglie d'erba di Walt Whitman, Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e l'autobiografia di Sherwood Anderson.

Sono in effetti quattro libri - soprattutto i primi tre - fondamentali per la Letteratura Americana del Novecento: libri sui quali si formarono le generazione future, anche nel dopoguerra, grazie anche all'opera di divulgazione e di traduzione di Fernanda Pivano.

Pavese avrebbe potuto sceglierne anche altri ovviamente.

Ma quelli li scopri da soli, Fernanda, se si pensa che qualche anno più tardi, il 17 giugno 1941, si laureò in Lettere, proprio con una tesi su Moby Dick di Herman Melville.

06/09/21

Libro del Giorno: "Olivia" di Dorothy Strachey


E' un piccolo grande caso letterario, che bisognerebbe recuperare. Un breve romanzo di cento pagine, che in Italia è attualmente possibile trovare solo in una scarna edizione di Baldini Dalai. 

Eppure Olivia è un piccolo gioiello che non sfigura accanto a classici come La Principessa di Clèves di Madame de La Fayette e Morte a Venezia di Thomas Mann. 

Racconta della educazione sentimentale - e del conseguente amore proibito - che lega la giovane inglese Olivia, iscritta ad una prestigiosa scuola francese a una delle sue insegnanti e direttrice della scuola, Mademoiselle Julie.

Raramente in un romanzo accade di trovare così ben descritti le ingenue tempeste, i momenti di inaudita felicità e tetra disperazione, l'estasi e il tormento, tipici di ogni passione amorosa, che si scatenano nel cuore di una giovane, suo malgrado, mischiandosi alla scoperta della conoscenza della poesia e della letteratura, incarnandosi nella figura di una insegnante affascinante e per alcuni versi misteriosa. 

Nel 1949 all'epoca della sua pubblicazione - senza rivelare il nome dell'autrice -  grazie anche alla straordinaria nitidezza della prosa e delle sfumature che lasciano aperto per il lettore il gioco enigmatico del non detto e non risolto, questo breve racconto, diventò immediatamente un caso letterario.

In Inghilterra fu pubblicato col titolo misterioso di "Olivia by Olivia" e soltanto negli anni Ottanta fu restituito, grazie a una nuova edizione, alla sua autrice Dorothy Strachey. 

Apparve allora chiara la sua appartenenza alla cerchia di intellettuali noti sotto il nome di Circolo di Bloomsbury, di cui facevano parte Virginia Woolf, cui il libro è dedicato, e lo storico Lytton Strachey, fratello di Dorothy.

"Olivia" restò l'unico libro scritto da Dorothy Strachey e, come raramente accade nel caso di un'opera prima, si rivelò senza ombra di dubbio un capolavoro sui generis.

Dorothy Bussy era nata Strachey da una famiglia aristocratica, nel  1865 e a riprova che il suo primo e unico romanzo ha precisi riferimenti autobiografici, studiò alla scuola femminile Marie Souvestre a Les Ruches, Fontainebleau , in Francia e successivamente in Inghilterra quando Souvestre trasferì la scuola ad Allenswood. 

Successivamente Dorothy divenne insegnante e tra le sue allieve vi fu perfino Eleanor Roosevelt . V

Nel 1903 Dorothy sposò il pittore francese Simon Bussy (1870-1954), che conosceva Matisse , ed era ai margini del circolo di Bloomsbury . Aveva cinque anni in meno ed era figlio di un calzolaio della città giurassiana di Dole . Il liberalismo di Lady Strachey vacillò alla vista di lui che puliva il suo piatto con pezzi di pane. Il dramma familiare "scosse alle fondamenta il regime di Lancaster Gate" (Holroyd) e, nonostante la silenziosa disapprovazione degli Strachey più anziani, Dorothy rimase determinata a sposarlo con quello che suo fratello Lytton in seguito chiamò "straordinario coraggio". 

Dorothy era bisessuale ed era coinvolta in una relazione con Lady Ottoline Morrell . Divenne amica di Charles Mauron , l'amante di EM Forster . 

Nella seconda parte della sua vita la Strachey divenne amica di André Gide , che incontrò per caso durante l'estate del 1918 quando aveva cinquantadue, e con il quale intraprese una fitta corrispondenza. 

La loro amicizia a distanza è durata oltre trent'anni. Le loro lettere sono pubblicate in Selected Letters of Andre Gide and Dorothy Bussy di Richard Tedeschi , e c'è anche un'edizione francese in tre volumi. Gli originali sono conservati nella British Library

Fabrizio Falconi



Dorothy Strachey


Olivia

05/09/21

Poesia della Domenica - "E' l'amore (o Il Minacciato)" di Jorge Luis Borges



 È l’amore (o Il minacciato)

Dovrò nascondermi o fuggire.
Crescono le mura del suo carcere, come in un sogno atroce.
La bella maschera è ormai cambiata,
ma come sempre è l’unica.
A che mi serviranno i miei talismani:
l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione,
l’apprendimento delle parole che utilizzò l’aspro Nord
per cantare i suoi mari e le sue spade,
la serena amicizia,
le gallerie della Biblioteca,
le cose comuni,
le consuetudini,
l’amore giovane di mia madre,
l’ombra militare dei miei morti,
la notte intemporale,
il sapore del sogno?
Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
Già la brocca si rompe sulla fonte,
già l’uomo s’alza al canto dell’uccello,
già si sono scuriti quelli che guardano dalla finestra,
ma l’ombra non ha portato la pace.

È, lo so, l’amore:
l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce,
l’attesa e il ricordo,
l’orrore di vivere successivamente.
È l’amore con tutte le sue mitologie,
con tutte le sue piccole magie inutili.
C’è un angolo dove non oso passare.
Già mi accerchiano gli eserciti, le orde.
(Questa stanza è irreale, lei non l’ha vista).
Il nome di una donna mi denunzia.
Mi fa male una donna in tutto il corpo.


Jorge Luis Borges 

03/09/21

Un Luogo Magico: La Cava Abbandonata "Le Tagliate" o "Henraux" in Toscana - LE FOTO

 


C'è un luogo veramente incredibile nel cuore della Garfagnana, nei pressi del Passo del Vestito (1151 metri sul livello del mare), nella zona delle meravigliose Alpi Apuane, nella valle dei Tre Fiumi ai piedi del piccolo paese di Arni nel comune di Stazzema, centro dolorosamente conosciuto per la tragedia che qui ebbe luogo durante l'occupazione nazista. 

Tra i diversi agri marmiferi, si scopre, seminascosta lungo la strada provinciale di Arni, e senza nessuna indicazione che ne dia segnale, la cava abbandonata delle “Tagliate”

Questo giacimento divenne proprietà di Marco Borrini di Seravezza, assieme al francese Jean Baptiste Alexandre Henraux nel 1821. 

I due diedero vita ad una società, con lo scopo di riaprire tutti gli insediamenti marmiferi, che erano stati abbandonati da molto tempo.

Le istituzioni dell'epoca diedero l'accordo e il progetto venne realizzato e con ulteriori lavori vennero riaperte ben 132 cave. 

Merito del pregio del famoso Marmo di Carrara, ricercato in tutto il mondo, da occidente a oriente, fino all'impero russo, visto che lo zar Nicola I ordinò una enorme quantità di marmo per i palazzi e le chiese di San Pietroburgo. 

La grande espansione del mercato del marmo ebbe una improvvisa e drammatica contrazione quando  durante il Secondo conflitto Mondiale l’esercito tedesco delle SS Waffen-Grenadier, occupò la zona, sterminando gran parte della popolazione locale e deturpando in maniera brutale gli stessi siti marmiferi

Da quel momento, sebbene la cosiddetta cava "Le Tagliate" sia tutt’ora di proprietà della società Henraux le attività di estrazione non sono state più riprese, anche se il nome campeggia su una grande scritta arrugginita sulla sommità della roccia:



Per accedere al luogo abbandonato bisogna percorrere una enorme e strettissima feritoia scavata nel marmo. 




Oltrepassata la quale si apre uno spettacolo imponente e straniante: alte pareti verticali di marmo bianco, precipizi e piccoli laghetti creati dall’acqua piovana. 



Ma tutta l'area oggi abbandonata è stata colonizzata da writers decisamente spericolati con i loro graffiti e murale bellissimi realizzati nel tempo sul marmo scavato. 




Pubblico una serie di foto scattate in questo luogo recentemente (agosto 2021). 

Fabrizio Falconi 










01/09/21

Le Meraviglie della Toscana e "Good Morning Babilonia" dei Taviani. Essere "i figli dei figli dei figli" di Leonardo e Michelangelo

 


Vagando a lungo per la Toscana in giorni recenti, e tornando ad ammirare la magnificenza della creatività espressa dagli avi di questo paese in ogni campo, mi è tornato spesso alla mente Good Morning Babilonia, dei Fratelli Taviani, presentato a Cannes nel 1987.

In quell'anno, 40mo anniversario del Festival, ero tra i giornalisti accreditati durante la proiezione ufficiale (la Palma d'Oro, in ossequio al solito sciovinismo francese andò a un brutto e dimenticato film, "Sous le soleil de Satan", di Maurice Pialat, a fronte di una rappresentanza italiana sontuosa - a parte i Taviani, Fellini con "Intervista", "Cronaca di una morte annunciata" di Francesco Rosi e "La Famiglia" di Ettore Scola).

Il film dei Taviani raccontava la storia (vera ma romanzata) di una famiglia di scalpellini restauratori toscani (il padre Omero Antonutti, i figli Vincent Spano e Joaquim de Almeida) emigrati in America negli anni '10 in cerca di fortuna e finiti a lavorare nel cinema addirittura per il grande David W. Griffith.

Il film comincia con il padre e i figli al lavoro sulla facciata di uno dei sublimi duomi toscani - che io ricordavo fosse Lucca e come si può controllare dalla foto sopra, era invece il Duomo di Piazza dei Miracoli a Pisa. Scena bellissima.

Ma il clou di quel film - solo in parte riuscito - fu per noi che assistevamo alla proiezione, la memorabile scena in cui, durante la lavorazione del film di Griffith, i due italiani vengono maltrattati insieme ai loro connazionali, dal direttore di produzione, con una sequela di insulti razziali e luoghi comuni sull'italianità più becera.

Punti sull'orgoglio, i due umili scalpellini trovano il coraggio di reagire, all'arrogante direttore:

"Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze. Chi siamo noi?  Noi, noi siamo i figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo ! Di chi sei figlio, tu?" - (QUI SOTTO TROVATE LA SCENA ORIGINALE)

In quella sala buia, a Cannes, scoppiò uno spontaneo piccolo ma entusiasta applauso della delegazione di giornalisti italiani. Me compreso.

Me ne ricordo spesso, e me ne ricordo soprattutto adesso, perché tornare ad ammirare ancora una volta, ciò di cui è stato capace l'ingegno italiano nei secoli rende orgogliosi di essere nati qui, in questo luogo e da questa progenie così ricca, e allo stesso tempo rende del tutto sconsolati nel constatare la sparizione pressoché totale di quella grandezza, disciolta in una contemporaneità di così grande ed estesa volgarità.


Fabrizio Falconi - 2021  

31/08/21

Le teorie negazioniste e cospirazioniste sul Covid? Arrivano da molto lontano, dall'11 settembre

 


Dalle elezioni al COVID, le cospirazioni dell'11 settembre gettano una lunga ombra 

di DAVID KLEPPER 

Mentre gli attacchi dell'11 settembre hanno unito gran parte dell'America nel dolore e nella rabbia, le teorie della cospirazione su ciò che è accaduto quel giorno hanno scoperto un pozzo di sfiducia. 

Vent'anni dopo, lo scetticismo e il sospetto rivelati per la prima volta dalle affermazioni secondo cui l'11 settembre era un affare interno si sono metastatizzati. Sono stati diffusi da Internet e nutriti da esperti e politici come Donald Trump. È emersa una bufala dopo l'altra, una più bizzarra dell'altra. C'è il birtherismo, il pizzagate e il QAnon. 

Gli esperti affermano che mentre le teorie del complotto non sono una novità in America, Internet ha permesso loro di diffondersi più lontano e più velocemente che mai. 

Korey Rowe ha compiuto viaggi in Iraq e Afghanistan ed è tornato a casa negli Stati Uniti nel 2004 traumatizzato e disilluso. 

Le sue esperienze all'estero e le fastidiose domande sull'11 settembre 2001 lo convinsero che i leader americani stavano mentendo su ciò che accadde quel giorno e sulle guerre che seguirono. 

Il risultato è stato "Loose Change", un documentario del 2005 prodotto da Rowe e dal suo amico d'infanzia, Dylan Avery, che ha reso popolare la teoria secondo cui il governo degli Stati Uniti era dietro l'11 settembre

Uno dei primi successi virali di Internet ancora giovane, ha incoraggiato milioni di persone a mettere in discussione ciò che è stato detto loro. 

Mentre gli attacchi hanno unito molti americani nel dolore e nella rabbia, "Loose Change" ha parlato ai disamorati. "È stato il parafulmine a catturare il fulmine", ricorda la Rowe. 

Aveva sperato che il film portasse a una sobria rivalutazione degli attacchi. Rowe non si pente del film e continua a mettere in dubbio gli eventi dell'11 settembre, ma afferma di essere profondamente turbato da ciò che le teorie del complotto sull'11 settembre hanno rivelato sulla natura corrosiva della disinformazione su Internet.

"Guarda dov'è finito: ci sono persone che hanno preso d'assalto il Campidoglio perché credono che le elezioni siano state una frode. Ci sono persone che non verranno vaccinate e muoiono negli ospedali", dice Rowe. "Siamo arrivati ​​al punto in cui le informazioni stanno effettivamente uccidendo le persone".

C'erano, ovviamente, teorie del complotto prima che avvenisse l'11 settembre: l'assassinio di John F. Kennedy, lo sbarco sulla luna, un presunto incidente UFO del 1947 a Roswell, nel New Mexico. 

E l'interesse del paese per le teorie marginali era in aumento prima dell'11 settembre, esemplificato dallo spettacolo degli anni '90 "The X-Files", con i suoi slogan "La verità è là fuori" e "non fidarsi di nessuno". 

Ma è stato l'11 settembre che ha annunciato la nostra attuale era di sospetto e incredulità e ha rivelato la capacità di Internet di catalizzare le teorie del complotto. 

"Le teorie della cospirazione sono sempre state con noi, ed è solo il modo di condividerle che è cambiato", afferma Karen Douglas, professoressa di psicologia all'Università del Kent in Inghilterra che studia perché le persone credono a queste storie. 

"Internet ha reso le teorie del complotto più visibili e facili da condividere che mai. Le persone possono anche trovare molto rapidamente altri che la pensano allo stesso modo, unirsi a gruppi e condividere le proprie opinioni". 

Le teorie della cospirazione sull'attacco e le sue conseguenze hanno anche dato una prima esposizione ad alcune delle stesse persone che spingono bufale e affermazioni infondate su COVID-19, vaccini e le elezioni del 2020, tra cui Alex Jones, l'editore di InfoWars che sostiene Trump, che ha accusato il Stati Uniti di aver pianificato gli attacchi e affermano che la sparatoria di Sandy Hook nel 2012 è stata una bufala. 

Jones è stato un coproduttore della terza edizione di "Loose Change". 

I sondaggi mostrano che la credenza nelle teorie del complotto dell'11 settembre ha raggiunto il picco subito dopo l'attacco, poi si è attenuata. 

Non è sorprendente, secondo Mark Fenster, un professore di giurisprudenza dell'Università della Florida che studia la storia delle teorie del complotto.

Dice che eventi scioccanti e improvvisi spesso generano teorie della cospirazione mentre le persone sono alle prese collettivamente con la loro comprensione. "Un aereo che va a sbattere contro il World Trade Center? Che va a sbattere contro il Pentagono? Sembra roba da film", dice Fenster. "Semplicemente non sembrava un evento reale, ed è quando si verifica un grande evento anomalo come questo che a volte si verificano teorie del complotto". I teorici della cospirazione una volta si affidavano a libri, opuscoli e programmi televisivi a tarda notte per sposare le loro convinzioni. 

Ora usano bacheche come Reddit, pubblicano video su YouTube e conquistano conversioni su Facebook, Twitter o Instagram. 

La prima teoria della cospirazione dell'11 settembre è nata solo poche ore dopo l'attacco, quando un ingegnere informatico americano ha inviato un messaggio via e-mail a un forum su Internet chiedendosi se la distruzione delle torri sembrava una demolizione controllata. 

Vent'anni dopo, una ricerca su YouTube di contenuti relativi all'11 settembre produce milioni di risultati.

Migliaia di video si concentrano su teorie del complotto.

È molto, ma il nonno delle moderne teorie della cospirazione è stato superato dai nuovi arrivati: una ricerca su Google di "teoria della cospirazione dell'11 settembre" trova più di 4 milioni di risultati, mentre una ricerca di "teoria della cospirazione COVID" ne mostra quasi 10 volte tanto. 

Le aziende tecnologiche affermano di fare il possibile per limitare la diffusione di informazioni false sull'11 settembre. YouTube ha aggiunto collegamenti a fonti autorevoli ad alcuni video relativi all'11 settembre. Facebook afferma di aver aggiunto fact check alle bufale virali sull'11 settembre, inclusa quella secondo cui il Pentagono è stato colpito da un missile e non da un aereo.

Le affermazioni fasulle sugli attacchi dell'11 settembre non hanno mai rappresentato la minaccia attribuita alla disinformazione su COVID-19 o alle elezioni statunitensi del 2020. Ma anche i sostenitori delle teorie del complotto sull'11 settembre affermano che le domande su ciò che è accaduto hanno contribuito a creare l'ambiente odierno di sfiducia e ansia

"Il pericolo è che, una volta che hai quella sfiducia nell'autorità e nel governo, la terra è un posto pericoloso in cui stare", dice Matt Campbell, un cittadino britannico il cui fratello è morto nel World Trade Center l'11 settembre. 

Campbell crede che le torri siano crollate dopo una demolizione controllata e sta cercando una nuova inchiesta sulla morte dei suoi fratelli nel Regno Unito

Su larga scala, tale sfiducia alla base di tali convinzioni può diventare pericolosa quando iniziano a dividere una società o quando vengono sfruttate da un leader politico come Donald Trump, afferma Fenster. 

"Di solito succede che le persone che si sentono escluse dal potere sono impegnate in teorie del complotto", dice Fenster. "Quello che è diverso questa volta è che era il partito che era al potere - il partito che aveva la Casa Bianca - che era il principale trasmettitore di teorie cospirative". 

30/08/21

Il Libro del Giorno: "Grande Sertao" di Joao Guimaraes Rosa

 


Da tempo giravo intorno a quello che viene unanimemente considerato il capolavoro probabilmente massimo della letteratura sudamericana, un po' intimorito. 

Il paragone con l'Ulisse di Joyce - di cui Grande Sertao  viene considerato a maglie larghe l'equivalente latino - comportava il misurarsi con una lettura impegnativa. 

Lo è stato. 

Grande Sertao è un libro mirabile ma difficile, nel quale bisogna entrare gradatamente, lasciandosi coinvolgere dal suo flusso narrativo ininterrotto, che si sviluppa nel corso di 500 densissime pagine, nelle quali manca del tutto un qualsiasi riferimento a paragrafi, capitoli o parti.  In cui perfino i capoversi sono assai rari. In cui anche i dialoghi sono quasi sempre inseriti direttamente dentro il  magma del racconto, il quale ha una unica voce recitante in un tempo sospeso e non definito storicamente: quella dell'avventuriero Riobaldo, conosciuto anche come Tataranà nella prima parte del libro e come Urutù Bianco nella seconda parte, il quale si rivolge ad una non definita 'vossignoria', la cui identità fino all'ultima pagina, non verrà mai svelata. 

João Guimarães Rosa, nato nello stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1908 e morto a  Rio de Janeiro, nel 1967, lavorò incessantemente a Grande Sertao per un decennio, che costituisce una opera-mondo:  narra la storia di due personaggi Riobaldo, appunto, il narratore, e Reinaldo detto Diadorim.

Diadorim amico d'infanzia di Riobaldo è il figlio di Joca Ramiro, un capobanda di jagunços, avventurieri che si spostano continuamente lungo le immensità del territorio brasiliano, guerreggiando contro bande nemiche, innamorandosi, tra continue avventure e sparatorie. 

Riobaldo tesse la storia della sua vita in un discorso di scoperta e autoconoscenza, scoprendo il mondo del sertão; si rivela come se dicesse il sertão sono io per identificarsi. In queste pericolose traversie, Riobaldo confronta le forze del bene e del male, incorporando nel flusso della memoria il filo della sua vita che non segue un racconto lineare. 

Il rapporto con Diadorim, alter-ego conturbante del protagonista, con i capi sotto i quali gli tocca combattere, quello con Otacilia, una lontana innamorata, con i fazenderos, esasperati dalle tirannie dei capibanda locali, ma soprattutto con il Sertao, vera anima vivente del racconto. Il Sertao, con la sua natura selvaggia e senza freni, con i suoi animali, i silenzi, le imboscate, le piogge torrenziali, il sole che spacca le pietre, è il grande teatro sul quale si agita la vita convulsa e scellerata di Riobaldo, all'insegna della ricerca della propria vera identità.

Un'opera magna e stupefacente che stordisce e lega il lettore pagina dopo pagina, trasportandolo in un mondo surreale e lontano, senza tempo.

Più che a Joyce, in realtà, si pensa spesso a Cervantes. 

Un grande libro, che resta. 

Fabrizio Falconi 


João Guimarães Rosa 

Grande Sertao

Traduttore: Edoardo Bizzarri 

Feltrinelli Universale economica Edizione: 14 Anno edizione: 2017 

Pagine: 499 p., Euro 2017 


18/08/21

Quando Bruce Chatwin viaggiò in Afghanistan e la sua profezia oggi

 


Come tutti sanno, Bruce Chatwin amò soprattutto tre cose nella vita: viaggiare, scrivere, stupire.

I suoi libri, punti di riferimento il cui valore di testimonianza e di scrittura aumenta con il passare degli anni, dalla morte avvenuta troppo precocemente.

Bruce Chatwin, che era un fiero coltivatore dell'arte degli opposti, e che non amava nessun tipo di etichetta, una cosa fu di sicuro e certamente: un grande viaggiatore, intendendo con questo, qualcuno capace di percepire lo spirito dei luoghi e delle persone incontrate che diventano protagonisti dei suoi libri. 

Un titolo meno conosciuto della bibliografia che lo riguarda, è Bruce Chatwin: Viaggio in Afghanistan, volume nato in occasione di una mostra svolta a Bologna nell'autunno del 2000: Bruce Chatwin e il tesoro perduto di Fullol. A Palazzo Poggi furono esposti i disegni, le fotografie, gli appunti dello scrittore raccolti in un viaggio fatto nel 1969 in Afghanistan, in compagnia del gesuita Peter Levi, alla ricerca di resti archeologici che documentassero la presenza greca in questa regione. 




Chatwin, raggiunto poi dalla moglie Elizabeth, attraversò parte del paese, affascinato dagli usi e costumi locali e particolarmente colpito dal tesoro di Fullol, conservato al museo di Kabul e sconosciuto all'Occidente. 

Ma il viaggio rappresentò soprattutto la "scoperta" di una nuova visione dell'esistenza che lo portò a decidere di intraprendere seriamente la professione di scrittore, mantenendo viva e forte la voglia di percorrere le strade del mondo

Stephen Spender lo ricollegò a Lawrence. "Due secoli fa Bruce avrebbe potuto conquistare una vasta porzione di impero e probabilmente sarebbe morto giovane per essere sepolto in Afghanistan. L'Inghilterra non gli piaceva, ma anche questo è molto inglese. Dopotutto l'impero britannico si è fondato su persone che cercavano di allontanarsi dalla Gran Bretagna."

Come scrive oggi L'intellettuale dissidente Chatwin tornò a scrivere dell'Afghanistan, una sorta anzi di Lamento per l’Afghanistan scritto nel 1980, quando l’Armata Rossa era appena entrata a Kabul, dopo aver invaso il paese da lui amato. 

Chatwin in Afghanistan nel 1969


In questo saggio, Chatwin scrive:

“Nel 1962 – sei anni prima che gli hippies lo rovinassero (spingendo gli afghani istruiti tra le braccia dei marxisti)si poteva partire per l’Afghanistan con le stesse aspettative, diciamo, di un Delacroix diretto ad Algeri. Per le strade di Herat si vedevano uomini con vertiginosi turbanti passeggiare mano nella mano, una rosa in bocca e i fucili avvolti in chintz a fiori. 
Nel Badakhshan si poteva fare un pic-nic su tappeti cinesi e ascoltare il canto del bulbul. A Balkh, la Madre delle Città, chiesi a un fachiro la strada per il santuario di Haji Piardeh. ‘Non lo conosco’, mi rispose. ‘Dev’essere stato distrutto da Genghiz’… Non leggeremo più le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra cespugli di rose facendosi guidare dall’olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell’Islam con i mendicanti di Gazor Gah. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamomo; l’uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l’aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l’afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri. Mai più. Mai più. Mai più”

E' davvero un lamento che oggi, dopo la nuova tragedia afghana, suona ancora più vibrante, e commovente.

Fabrizio Falconi



17/08/21

A Pompei la scoperta di una tomba mummificata è un vero giallo !

 


Una tomba particolarissima, a recinto, con una facciata decorata da piante verdi su fondo blu e una camera per l'inumazione in un periodo in cui nella citta' i corpi degli adulti venivano sempre incenerati. 

Ma anche un'iscrizione marmorea dalla quale arriva la prima conferma che nei teatri della colonia romana, almeno negli ultimi decenni prima dell'eruzione del 79 d.C, si recitava pure in lingua greca.

E' ancora una volta una storia affascinante e piena di mistero quella che arriva dall'ultima straordinaria scoperta del Parco Archeologico di Pompei, riportata alla luce grazie ad una campagna di scavi condotta insieme con l'Universita' Europea di Valencia.

Un ritrovamento sul quale e' al lavoro un team interdisciplinare di esperti e da cui ci si aspetta tantissimo - sottolineano unanimi il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel e Llorenç Alapont dell'Universita' di Valencia - anche per le condizioni di conservazione del defunto, che appare in parte mummificato, la testa ricoperta di capelli bianchi, un orecchio parzialmente conservato, cosi' come piccole porzioni del tessuto che lo avvolgeva

"Uno degli scheletri meglio conservati della citta' antica", anticipa all'ANSA Zuchtriegel. Di fatto, insomma, una miniera d'oro di dati scientifici. 

"Pompei non smette di stupire, si conferma una storia di riscatto e un modello internazionale", applaude il ministro della cultura Franceschini ringraziando "le tante professionalita' dei beni culturali che con il loro lavoro non smettono di regalare al mondo risultati straordinari che sono motivo di orgoglio per l'Italia".

Costruita subito all'esterno di Porta Sarno, uno degli importanti varchi di accesso alla citta', la tomba, che risale agli ultimi decenni di vita di Pompei appartiene a Marcus Venerius Secundio, un liberto che nella vita era stato prima il custode del Tempio di Venere, un tempio molto importante perche' proprio a Venere i romani avevano intitolato la citta', nonche' minister degli augustali e infine, sicuramente solo dopo la liberazione, anche Augustale, ovvero membro di un collegio di sacerdoti del culto imperiale. 

Un ex schiavo, quindi, che dopo il riscatto aveva raggiunto un certo agio economico, abbastanza da potersi permettere una tomba di livello in un luogo assolutamente di prestigio. 

E tanto da potersi vantare , proprio nell'iscrizione del suo sepolcro, di aver dato "ludi greci e latini per la durata di quattro giorni", cosa che poteva assimilarlo alla classe sociale piu' elevata e piu' colta della cittadina, perche' in quel periodo, spiega Zuchtriegel, nell'area del Mediterraneo "la lingua greca era un po' come oggi per noi l'inglese" , molto diffusa, quindi, ma non alla portata di tutti a Pompei dove comunque le famiglie piu' agiate impazzivano per Omero, Eschilo, Euripide.

Tant'e', i primi esami sul corpo ci dicono che la morte ha colto il nostro uomo gia' anziano, " Doveva avere piu' di 60 anni e non aveva mai svolto lavori particolarmente pesanti", anticipa il direttore. Dati compatibili con le caratteristiche del suo nome, che lo indica come un ex schiavo 'pubblico', uno dei tanti che a Roma o nelle citta' di provincia svolgevano lavori di custodia o amministrativi. 

Ma perche' farsi inumare, scegliendo per se' un rito che veniva usato in epoca molto piu' antica piuttosto che nel mondo greco ma non a Pompei dove, con la sola eccezione dei bambini, i cadaveri venivano cremati? 

Tra le ipotesi possibili, ragiona il direttore generale dei musei statali Massimo Osanna, quella che Marcus Venerius Secundio si sentisse o fosse estraneo al corpo sociale della citta', uno straniero insomma, forse arrivato proprio da qualche altro luogo dell'impero romano o da Roma "dove in quel periodo alcune famiglie continuavano a praticare l'inumazione, cosa che diventera' poi usuale dal secolo successivo"

I misteri non si esauriscono qui: nel recinto della tomba, alle spalle della cella sigillata nella quale era adagiato il corpo di Secundio, sono state trovate due urne, una delle quali in vetro appartiene ad una donna chiamata Novia Amabilis, forse la moglie del defunto, ipotizzano gli archeologi, per la quale si sarebbe usato un rito piu' propriamente pompeiano.

Ma perche' alla signora sarebbe stato riservato un trattamento diverso? Senza contare il giallo della parziale mummificazione del cadavere di Secundio che potrebbe essere dovuta alla perfetta chiusura della camera sepolcrale, certo, ma anche ad una pratica di imbalsamazione: "Potremo capirne di piu' dall'analisi dei tessuti - ci dice Alapont - dalle fonti sappiamo che determinate stoffe come l'asbesto venivano usate per l'imbalsamazione"

Il professore allarga le braccia: "Anche per chi come me si occupa di archeologia funeraria da tempo, la straordinaria ricchezza di dati offerta da questa tomba, dall'iscrizione alle sepolture , ai resti osteologici e alla facciata dipinta, e' un fatto eccezionale, che conferma l'importanza di adottare un approccio interdisciplinare, come l'Universita' di Valencia e il Parco archeologico di Pompei hanno fatto in questo progetto". 

Studi, analisi e nuove ricerche potranno insomma far luce su questo mistero e nello stesso tempo aggiungere tanti altri preziosi tasselli alla storia della citta'. Intanto si studia come includere anche la necropoli di Porta Sarno e la tomba di Secundio nell'itinerario delle visite. "Al momento purtroppo non e' possibile perche' il terreno su cui si trova e' al di la' della ferrovia Circumvesuviana, ma e' solo una questione di tempo - assicura Zuchtriegel- siamo al lavoro su uno studio di fattibilita'"

16/08/21

Uno dei caffè più famosi di Roma, "Il Cigno" di Viale Parioli, in una memorabile scena de "I Mostri" di Dino Risi



Come si sa Roma è sempre stata un set ideale per i film italiani - e non solo - in ogni suo angolo storico o non.

A Roma Nord è celebre il caffè Il Cigno, che sorge su Viale Parioli, poco prima di arrivare a Piazza Ungheria (sul marciapiede di sinistra, salendo). 

Questo caffè ospita una scena di uno dei film più celebri e importanti del cinema italiano degli anni '60, I Mostri, il film che Dino Risi realizzò nel 1963 e che raccontava  "L’Italia bella, quella del boom, l’Italia divertente che non c’è più,"  ma anche l'Italia inguaribile dei suoi vizi atavici,  dei suoi comportamenti anarchici, cinici, spietati.

Un mix insomma di commedia e di amaro: si potrebbe riassumere così il meraviglioso lavoro di Dino Risi, conglomerato di ventidue episodi uno più divertente dell’altro che raccontano i vizi del Bel Paese del Dopoguerra. 

Nell’episodio “L’Educazione Sentimentale”, il protagonista è il mitico Ugo Tognazzi, che vediamo  entrare con suo figlio nel bar Il Cigno di viale Parioli e impartire al povero ragazzino una "lezione di vita" sulla furbizia. 

“Due cappuccini e due paste” – esclama alla cassiere del bar. Subito dopo aver pagato il conto, il figlio piccolo però gli sussurra a bassa voce: “Ma papà ne abbiamo mangiati sei…”.

La scena ambientata nel bellissimo caffè Il Cigno - rimasto praticamente come allora - inizia al minuto 1.02 fino al minuto 1.45 

Fabrizio Falconi